Devoto e la stilistica

Enrico Falqui

Capisco come un autore italiano contemporaneo possa ripagarsi e insieme consolarsi dello squallido abbandono in cui viene lasciato dalla critica militante, scoprendo il proprio stile saggiato dalla critica universitaria alla stregua d’un Benvenuto Cellini o d’una santa Caterina da Siena. Gli sembrerà, e non a torto, di usufruire da vivo di un poco della considerazione cui si stima (terque quaterque…) destinato da morto. Trattamenti di simile riguardo sono appannaggio di autori, se non fuori discussione, certo fuori pericolo nella loro qualità di defunti. E giustamente il contemporaneo chiamato a goderne se ne compiace e rallegra come di un primo e sicuro e vantaggioso riconoscimento. Il quale vuol sembrargli tanto più storico provenendogli da uno studioso universitario, poco incline, per tradizione, a lasciarsi, nonché conquistare, nemmeno incuriosire, ai fini d’un’applicazione al proprio scientismo linguistico, da un autore che abbia il torto (… testiculis tactis…) d’essere ancora vivente.

Non diversamente dev’essere andata tra Giacomo Devoto e Carlo Emilio Gadda, quando questi s’è accorto che, nel fascicolo terzo del volume quinto della serie seconda degli Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa, l’illustre titolare di una delle due cattedre di linguistica della Università di Firenze ha dedicato a lui il primo di una inaspettata serie di studi linguistici sopra taluni nostri scrittori d’oggi.

Gli studi del Devoto sono predisposti, «con animo non soltanto storico ma costruttivo», a mettere ordine nel concetto di stilistica qual’è intesa al presente dalla scuola linguistica ginevrina del Bally, come un insieme cioè di ricerche «intorno alle risonanze affettive degli elementi linguistici», differentemente da ieri, quando «si chiamava stilistica, quell’insieme di norme di bello scrivere insegnate nei ginnasi superiori d’anteguerra».

E Gadda avrà naturalmente gioito ritrovandosi primo nella serie di codesti studi. Ma che faccia avrà fatto, lui sempre così soldatescamente e lombardescamente riguardoso, mano mano che, procedendo nella lettura, scopriva le pagine quarantanove-sessantuno del proprio Castello di Udine trattate come cosa perfettamente morta, secondo uno schema di minuziosissima analisi stilistica, per cui dall’esame del contenuto stilistico si passa ai fatti stilistici che interessano il periodo e la frase, quindi ai fatti stilistici relativi al rapporto fra parola e cosa, infine ai fatti stilistici relativi ai rapporti fra le parole?

Non ad altra, più clemente, fruttuosa condizione può un autore, vivo o morto, trovar posto in un’analisi del genere? Grazie alle «alternative» della stilistica rimarrà invariabilmente dissanguato tutte le volte che, a suo carico, si voglia «dare un giudizio sulla maggiore o minore aderenza del rivestimento linguistico al fatto d’espressione»? Analisi sintattica, analisi linguistica e analisi estetica vanno tenute distinte. Al centro dell’analisi estetica v’è «un fatto di espressione individuale, del quale la lingua è soltanto specchio». L’analisi stilistica, invece, «parte dai valori acquisiti (al di fuori e anteriormente all’attività dell’individuo) dagli elementi linguistici, cioè dai valori collettivi». Ma «criticare le forme stilistiche impiegate da un autore, mettendosi dal punto di vista della collettività del valore delle parole e delle risonanze che esse hanno presso la collettività di noi Italiani d’oggi», non presuppone e non implica, come risultato, la collettivizzazione (ovvero l’annientamento) degli autori a beneficio della collettività? Eccoti, infatti, Carlo Emilio Gadda (e come lui chiunque cui tocchi in sorte l’analisi stilistica?) vivisezionato in rapporto ai «criteri fondamentali dell’estensione (formule vaghe o precise), della forza (formule forti o deboli), della classe sociale (formule espressive, letterarie, tecniche o usuali)».

Figurarsi la sorpresa e la delusione del buon lettore. Le pagine quarantanove-sessantuno del Castello di Udine stilistichizzate dal Devoto sono quelle stesse che già gli erano piaciute? Perché, quando dalle attrattive individuali inerenti alla loro sintassi ci si riduce nelle strettoie collettivistiche della stilistica, succede di non riconoscerle più: e di Carlo Emilio Gadda, de’ suoi trentanove capoversi (la cui struttura «non è lineare ma procede per colonne parallele») non sopravanzano che barricate di deviazioni e grovigli d’incisi (di certe ore di guerra non dirò lo ringrazio, è bestemmia, dirò solo che le ho vissute con orgoglio), inciampi di elementi extragrammaticali, strappi sintattici, scoppi d’irrazionalismi linguistici (dopo tre minuti zazazazazà lo sgabuzzino imbottito di riccioli), orrende onomatopee, invadenti grossolanità, subdole associazioni e antitesi minori, ammicchìi di preziosità e di arcaismi, abissi di genericità e di astrazioni, filastrocche di attributi, sequenze di formule espressive, innesti di tecnicismi, sovrabbondanza di associazioni grammaticali, errori errori errori, vuoi tipici vuoi materiali.

Resta da precisare a che porterebbe un esame consimile se condotto sopra un autore piano, semplice, ordinato. Sostituiscasi Silvio Pellico a Carlo Emilio Gadda e tutto diventerà d’una monotonia, d’uno squallore, d’una inutilità da non si credere. Mentre che scialo a rimpiazzare lo stesso Gadda con un Carlo Dossi. Specie quando dal reperimento e isolamento dei fatti stilistici si trasmigra ai consigli e ai rimbrotti.

Gadda scrive: «Ricordo un altro, quasi un fanciullo, che sedette sul sedile scheggiato della roccia. Nella destra aveva la pistola pronta… aveva una bella cintura di cuoio. Sedutosi, appoggiò il capo sul palmo sinistro, la mano armata la lasciò sul ginocchio, pareva un poeta tra le rovine, in una calcografia wertheriana» e Devoto, fra l’altro, postilla: «Una frase pareva un poeta fra le rovine in una stampa dell’ottocento avrebbe salvato con la sua genericità il passo da una caduta». Mentre le due parole «calcografia wertheriana» non provocano alcuna caduta, bensì raggiungono il voluto e non impersonale effetto tra di grottesco e d’ironia.

Gadda scrive: «gli autocarri colmi delle loro bombarde come di scrofe gravide» e Devoto propone di correggere quello che a lui sembra un errore materiale in «come scrofe gravide», senza badare che così andrebbe all’aria l’immagine espressa dall’autore nel rassomigliare le «bombarde», non «gli autocarri colmi», alle «scrofe gravide».

Ma dall’errore materiale, quasi nemmeno da comprendere, si passerebbe al riprovevole errore-tipo, giusta l’esempio di come sono usate le parole «indecifrabile» e «immortale» nelle frasi:

«la mia testa dissimetrizzata da indecifrabili anomalie», dove Devoto suggerisce di sostituire «indecifrabili» con «misteriose», trascurando che lo scrittore ha messo il preciso «indecifrabili» in luogo del vago misteriose per indicare che a decifrar quelle dissimetrizzanti anomalie è stato impiegato inutilmente, e non senza disappunto, tempo e impegno;

«dopo una indecifrabile pausa, fading d’arrivo, si fasciava», dove Devoto, a parte il tecnicismo d’immagine di quel «fading», biasima l’uso di «indecifrabile» («cioè cosa che richiede lungo studio») in rapporto alla fulmineità della pausa, ai «millesimi di secondo che passano fra la cessazione del fischio della granata e lo scoppio», come se addirittura di certi attimi non si dicesse comunemente che «durano un secolo, sono lunghi un’eternità»;

«i gargarismi lontani e immortali delle autocolonne», dove Devoto dichiara intrasferibile «il tono usuale dell’incessante, insistente, continuo (che non è tono di lode), nel tono elevato di immortale di cui la continuità senza fine è attributo di lode somma», invece di notare l’effetto di grottesco ottenuto grazie appunto alla contrastante giustapposizione di «immortali» e «gargarismi», dopo che in «gargarismi» suona già così ironicamente umanizzato il rumore lontano e continuo delle autocolonne.

E possono perdere d’efficacia le due associazioni: «I telefoni parevano i nervi paralizzati di una baldracca fradicia», «nella pozza fradicia dell’Altipiano s’era sdraiata la notte, bagascia disfatta», se la prima sta al principio del paragrafo quindicesimo e l’altra nel mezzo del trentaduesimo? Né a tutti quelle parole suoneranno «apparentemente forti (e intrinsecamente vuote)». Così l’effetto particolare di «alonare» nel senso di «circondare» si sciupa perché ricorre alle pagine novantacinque e centoquarantotto? E siamo certi che la relazione di suoni contenuta in «furono celeri vampe, come sussulti repressi: vampate di sangue al cervello» provoca effetti sfavorevoli «non potendo essere una stessa cosa nello stesso momento vampa (momentanea) e vampata (che dura qualche momento)»? In realtà tra «vampa» e «vampata» corre il rapporto inverso e si dice: «la vampa del fornello», «una vampata d’odio» ecc., poiché «vampa » denota una certa continuità al contrario di «vampata».

Ancora, una domanda e sarà l’ultima: sempre «i due punti rappresentano successione su un piano diverso, opposizione»? Si provi ad analizzarne l’uso, per esempio, in Cecchi; come in Tozzi quello del punto e virgola. Esiste un’interpunzione affettiva anche all’infuori del punto esclamativo e dei puntolini di sospensione. E compatiscasi al nostro povero empirismo per l’impossibilità che ce ne deriva ad ammettere che l’impiego dei segni d’interpunzione possa mai risultar classico, cioè logico al punto da diventare normativo. Per noi le sue leggi sono piuttosto da ricercare in una misura fisiologica, variante, come tale, da individuo a individuo, da autore ad autore.

Purtroppo lo studioso di stilistica deve smettere e abbandonare ogni indagine non appena un’espressione da formale diventa essenziale. Così non si preoccupa se molte «novità» di C.E. Gadda non sono che bene applicate «innovazioni», cioè precedenti novità altrui sfuggite al rischio di rimanere o cadere nell’«errore» appunto perché diffusesi e imitate. Certo umorismo, certo grottesco, certo maccaronismo e certo pastiche non nascono con Gadda per la prima volta. Eppure, arrivato che un autore sia allo stile (anche se contaminato), raggiunto che abbia una propria sintassi (anche se pittoresca), avrà insieme legittimato, in quella contaminatio e in quel pittoresco, qualsivoglia infrazione stilistica.

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371- 18-3

© 2007-2025 by Riccardo Stracuzzi & EJGS. Previously published: E. Falqui, Devoto e la stilistica, in Ricerche di stile (Florence: Vallecchi, 1939), 13-20. First published as part of EJGS Supplement no. 7, EJGS 6/2007.
The archival research carried out on behalf of EJGS was part of a project funded by the Edinburgh Development Trust, University of Edinburgh. The digitisation and editing of EJGS Supplement no. 7 were made possible thanks to the generous financial support of the School of Languages, Literatures and Cultures, University of Edinburgh.

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