Rimasi al buio.
Non vidi più Giuseppina, né i Biassonni, né i Pizzigoni, né il grand’ufficiale Pesciatelli.
In preda a un leggero batticuore, mi chiedevo che stesse accadendo, allorché apparvero delle rocce, percorse da un fremito: si gonfiavano come la vela toccata dal marezzo: come per bonaccia poi si abbiosciavano. Qualche metro più in là, il cielo dell’alba, con lo zaffìro richiesto dal caso: da un lato aveva assunto un aspetto lievemente verdastro in seguito a una riparazione.
Da dietro le rocce sbucarono, suscitando la curiosità generale, un uomo corpulento e una donna assai pingue, stretta per altro nella ritenutezza d’un robusto fasciame cosparso di vetruzzi.
C’era per aria un vecchio dispiacere.
Presero infatti a rinfacciarsi l’un l’altra i loro diportamenti: ella con lodoleschi trilli e occhi di ex-vipera. Egli bofonchiò truce le più spropositate assurdità. Parevano dapprima un po’ timidi, oh! ma si rinfrancarono tosto.
Inorgogliti dalle luci color indaco, violetto e giallo canarino che gli aiuti-elettricisti proiettavano sopra di loro, eccitati dall’invidia e dall’ammirazione che venivan suscitando in tutti gli altri, rimasti così miseramente al buio, essi tranghiottivano a tratti, nelle pause, la tenue saliva del loro magnifico «io».
Egli, poi, andava giustamente superbo d’un elmo dorato e d’una scimitarra argentata dal tintinnìo metallico come di posateria presso l’acquaio.
Vestiva lo smagliante costume dell’ammiraglio persiano, con calzari di cuoio al cromo riccamente adorni di gemme di vetro; aveva vinto Sardanapalo e i suoi temibili congiunti Agamennone e Pigmalione: si esprimeva concitamente, mediante settenari sdruccioli e tronchi.
I più significativi provocavano dei violenti starnuti in ottanta uomini ordegni che un signore in frack teneva a disposizione dell’ammiraglio.
La donna, una faraònide, vestiva a sua volta in modo superiore ad ogni previsione.
Dodici lunghi pennacchi, rigidi ed aperti a ventaglio, corroboravano di un’aureola tacchinesca, il santuario della pettinatura.
Per diademi e collane fascinanti barbagli, come ai bastioni di Genova, con altri timpani, quella che il serpente carezza.
Diademi, collane; occhiaie bleu. L’abito rosa trapunto di stupende pagliuzze metalliche; lo strascico una scopatrice stradale.
Raccontò del suo crin e ci fornì elementi circostanziati sulle principali peripezie del suo sen; non trascurò l’alma; illustrò le forme più tipiche del verbo gire, coniugandolo al participio, all’imperfetto, al passato remoto e al trapassato imperfetto; propose alcuni esempi di quella parte del discorso detta dai grammatici interiezione, scegliendoli con gusto e opportunità fra i più rari della nostra letteratura, quali «orsù» e «ahi! lassa».
Tutto questo con gutturazioni impeccabili; le ultime, le più acute erano addirittura l’ì, ì, ì d’una porta malvagiamente irrugginita, che si chiuda a scatti, nella beffa d’un ragazzo malvagio.
Quando l’ultima vibrazione dell’ultimo ghirigoro si spense nel sepolcro notturno, un raggio di speranza arrideva ai nostri cuori fascinati: ma l’ammiraglio, che non aspettava altro (avendo nel frattempo ripreso fiato) scoppiò nelle più truculente vociferazioni.
Rimasi esterrefatto. Mi spiegai per altro la gravità del caso, di fronte al quale le mie modeste preoccupazioni di ingegnere elettrotecnico dovevano necessariamente passare in seconda linea: la pericolante successione al trono d’Egitto, cui portavano inciampo gli amorazzzi della ben nota regina Semiramide, veniva a complicarsi ulteriormente per effetto delle mire ambiziose di Giocasta e di Maria Teresa.
Esse andavano sobillando (l’una però all’insaputa dell’altra) la celebre etàira Anassàgora, affinché, attratto l’ammiraglio in una notte di piaceri durante il plenilunio imminente, volesse condividere secolui il pomo di Cafìr, per buona parte avvelenato, lasciando quel grande nelle maggiori difficoltà.
Uomo e donna finirono per litigare: usarono, è vero, modi assai sconvenienti, ma nessuna maiolica fu portata in scena, come nel dozzinale cinematografo. Accorsero diverse persone.
[…]
[…]
Si udirono tuoni lontani: Sardanapalo era diretto verso le porte del Tartaro.
L’impiantito fu zoccolato da un nùgolo di diavoli, con code di cartone e tridenti di legno rinvolto nella stagnola; le anche, come quelle degli antichi fauni, erano avvolte di pelli caprine, le gambe protette da calze rosse. Erano le tempie provvedute di cornetti di panno rosso imbottiti, a raffigurare le emergenze cornee proprie di questi temibilissimi spiriti.
Mentre li ritenevo assai vivaci e sprizzanti dagli occhi una perversa malizia, con la quale e con cenni della coda inducono le ragazze alle più rischiose disubbidienze, furono quella sera oltremodo melensi e sbugiardarono altresì quel turista fiorentino, che li fotografò in attitudini poco contegnose e li dice facili alle peggiori scurrilità.
«Fatti più in là, lasciami un po’ di posto», pareva dire ciascuno al suo simile, quando apparvero alquanto rattrappiti attardandosi e urtandosi, come dei collegiali dal fotografo.
Un’aria fredda doveva tirare da qualche porticina di servizio del Tartaro con disagio dell’ambiente plutonico: perché con la coda dell’occhio, guardavan tutti da una parte quasi per dire: «Chiudila!».
C’era poi, bisogna riconoscerlo, quel sordo mormoramento, come di grattugia, che l’uomo in frack andava ora suadendo ai suoi complici; l’ex-frenetico sembrava istupidito dalla valeriana. Con le brache lente, con un sorriso imbelle, con la mimica del lestofante che avverta sopra di sé i due occhi implacabili del sospetto, andava implorando da tutti il più prudente contegno. Abbadava ora agli ottoni e ai contrabbassi: e con un rattrappire la spalla sinistra e con un richiamar la mano a casa e un distenderla, pareva dire: «Andiamo, via!»; poi con la destra infrenava i temuti scarti dei fagotti e le impennate de’ violini, de’ clarinetti e dell’oboe. Con le ginocchia faceva della ginnastica da camera.
Seppi poi che tutto quel lavorìo era inteso a procurarci la sensazione della corrente acherontea.
Le lampade ad arco aiutarono la bisogna, poiché, sottoposte all’accurato controllo degli elettrici, presero a fare dei friggimenti e dei gargarismi carbureggianti: volevano sputare una resca, ma non gli veniva. La grattugia fece su tutti la più favorevole impressione: «Meraviglioso, meraviglioso…» andavano dicendo i Biassonni.
è il connubio delle arti. Nove muse intrecciate tra di loro.
Perché un piacere alla volta?
Qui l’occhio vede, l’orecchio sente, il muscolo freme, preso nell’émpito della mimesi terpsicorea.
[…]
[…]
Mi destai allucinato. L’ammiraglio agonizzava, disteso sur un tappeto, nel folto della selva paradisiaca: era quello di quel primo battibecco con la donna obesa. Si abbandonò per l’ennesima volta a delle gravissime affermazioni sul conto di costei, nel mentre una costernazione profonda si dipingeva nel volto di tutti gli astanti.
La sua agonia si protrasse quarantaquattro minuti, ricordo come fosse stamane, durante i quali gli venne fatto di declamare altri centodòdici endecasillabi e trentatre quinarî, di cui altri ripetuti due volte, altri fugati, altri sillabati in ripresa, altri mormorati a recitativo. L’indigesto pomo di Cafìr aveva sortito evidentemente l’effetto previsto e consegnava il tragico spirito dell’ammiraglio a quella baritonale agonìa.
La sua fibra eccezionalmente robusta ci consentì tuttavia di venire a integrale conoscenza delle di lui disposizioni testamentarie avanti che il sudario della notte avesse a distendersi sulla pupille ancor fervide del lampo di tante battaglie, e avesse a privarci di un solo emistichio.
Nessuno era preparato a una simile sciagura. La morte di tanto Uomo è una perdita irreparabile per l’umanità tutta. Un’angoscia ci prende al pensiero che domattina il commercio dei pneumatici, dei medicinali, dei latticini, dei tessuti, dei materiali da costruzione riprenderà puntualmente alle otto e mezza: alle dieci nuovamente avran quotazione i saccariferi, i minerarî, i meccanici, i metallurgici, gli immobiliari, gli elettrici, i tessili: ed Egli ora si spegne fra inenarrabili difficoltà! Dissapori coniugali, imbarazzi finziari, complicazioni dinastiche, infedeltà di luogotenenti, trono vacillante, Giocasta e Maria Teresa alle soglie del trionfo; tormentosi dubbî della grande anima, cambiali false, ingratitudine del capo contabile!
O virtù! non sei che un vano nome!
C’è poi da aggiungere, cosa non improbabile, che l’astio di Sardanapalo gli avrà recato sciagura, perché corre voce che costui, specie da defunto, induca gramo.
Con la dipartita dell’anima eletta ebbero fine tutti i suoni e le luci ed i suffumigi di quella notte memoranda.
I signori e gli psicopompi, un cartoncino alla mano, si accalcarono e gomitarono come plebei per riavere la pelliccia al più presto.
[…]
from Teatro, RR I 11-19
![]() |
Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
Artwork © 2002-2025 by G. & F. Pedriali.
All EJGS hyperlinks are the responsibility of the Chair of the Board of Editors.
EJGS is a member of CELJ, The Council of Editors of Learned Journals. EJGS may not be printed, forwarded, or otherwise distributed for any reasons other than personal use.
Dynamically-generated word count for this file is 1494 words, the equivalent of 5 pages in print.