Su Elsa, Liliana,
e la confraternita dei melanconici

Giorgio Pinotti

«Je suis le ténébreux, – le veuf, – l’inconsolé» – G. de Nerval, El Desdichado

«Tutte le cose piene di grazia e bellezza che ci portiamo nel cuore hanno un’origine comune nel dolore. Nascono dal cordoglio e dalle ceneri» – C. McCarthy, La strada

«or I could make a career of being blue» – S. Merritt, I dont’ want to get over you

Invitato a pranzo dai Balducci, don Ciccio è colpito, oltre che dalla bellezza e dalla cordialità di Liliana, dalla sua nobile malinconia, così intensa da «licenziare misteriosamente ogni fantasma improprio». E delinea una diagnosi: i Balducci non hanno figli, quasi per una «incompatibilità gamica dei due spiriti». Il che giustifica «qualche esorbitazione venatoria» da parte di lui, e la teoria di serve che lei adotta per compensare la mancata maternità. Diagnosi che verrà ripresa e perfezionata dopo la lettura del testamento di Liliana: il suo folle donare, il dissipare ciò che ogni giorno la riconduce «verso gli obblighi e verso le ragioni inani del vivere» è il sintomo di una psicosi, «una dissociazione di natura panica, una tendenza al caos». Plàstile cera, la donna chiede al sigillo un’impronta: ma se i figli non vengono ecco che il marito decade «a mera immagine ovvero cioè manichino di marito: e l’uomo in genere […] è degradato a pupazzo», donde la disperata gelosia e la sforzata empatia con le altre donne – una omosessualità sublimata (RR II 20, 21, 22, 105, 106 – mio corsivo).

Ma al di là di ciò che don Ciccio, detective sagace quanto incline ai «fumi» e alle «filosoficherie», ha colto e intuito della sua follia malinconica, che cosa sappiamo di Liliana, larva, sospesa tra la vita e la morte, che attraversa l’intero romanzo e la quête del colpevole? L’essenziale. Che è rimasta orfana di madre quand’era bambina e che l’ha allevata zia Marietta. Che a vent’anni ha sposato Remo Balducci, rappresentante di stoffe e cacciatore fortunato – «Cacciatore in utroque» a dirla tutta –, conosciuto tramite il padre e più anziano di lei: un matrimonio, lo ammette senza volerlo lo stesso Remo, che non contempla la passione: «Se voleveno bene, se faceveno compagnia tra de loro». Che è «splendida» ed elegante, solitaria e devota, e ricchissima: «“Chillu era nu pescecane sul serio”» osserva Fumi parlando del padre, Felice Valdarena: «“Chillu aveva a esse no futtut’in gulo”». Che sacrifica al culto della virilità e della δ?ναμις riproduttiva dei maschi della famiglia: «“Tieni, Giuliano, bada, è l’anello del nonno! […] che era bello, buono, forte! Un uomo era, come te! come te!”» dice al cugino nel regalargli l’anello con brillante appartenuto a nonno Rutilio, archetipo dei Valdarena – «métonymie dévorante» la definirebbe Barthes: «Par cet objet, je te donne mon Tout, je te touche avec mon phallus». (1)

Alla casata bellissima dei Valdarena, «“na famija che in tutto er generone nun ce n’è un’antra”», Liliana ormai non appartiene più, e non esita a disperdere, come in uno straziante potlach, il gruzzolo «legatole da una ruminazione pervicace del tempo». Lo confessa lei stessa, con accenti mélo, a Giuliano che sta per lasciare Roma: «“dovremo annà chi de qua chi de là, come delle foje quanno ch’er vento le strappa”». Immagine di «separazione violenta dal tessuto della gente», (2) di dolorosa inappartenenza, che subito fa riaffiorare davanti ai nostri occhi un’altra donna, e un’altra tribù: «Lei, lei sola, era stata strappata via dalla comune speranza, divelta dal credere: come stanca foglia il vento dalla chioma tempestosa del faggio». (3)

La vediamo per la prima volta, Elsa, anch’essa «splendida», nel secondo disegno dell’Adalgisa (Quando il Gerolamo ha smesso….), congedarsi dal Girolamo mescendogli un ultimo bicchiere di vino-cavenago e affrontare «con la consueta bontà» la misteriosa maternità della Maria, preludio a quella crisi dei servizi domestici che indurrà i Cavenaghi a ingaggiare il disoccupato Bruno. E la ritroviamo nella suite formata dagli ultimi tre, Un «concerto» di centoventi professori, Al Parco, in una sera di maggio e L’Adalgisa:  afflitto dalla solita sciatica cui per l’occasione si sono aggiunti fastidiosi crampi allo stomaco, il cagionevole Gian Maria ha convenuto col fratello – non senza vivo sollievo – che sarà Valerio ad accompagnare la zia al concerto: il serissimo Valerio, dal paltò rigorosamente abbottonato, «gli occhi e il pensiero intenti, e direi polarizzati, ad un fine». Scrutata, soppesata, valutata, assediata dalla tribù al completo – che «una comune entelechìa, un’anima» sospinge «agli atti necessarî e probandi» –, Elsa coglie nei frantumi di musica «le dissociate, stridule forze della sua vita» e il senso della sua immedicabile ed esclusiva («Lei, lei sola») alterità: del suo appartenere, ha notato Manzotti, alla schiera degli ex lege. (4) Come non pensare alla radicale contrapposizione «Tutti, tutti entravano nella luce […] Tutti, tutti! […] Tutti, tutti. Tutti avevano la loro vita, la loro donna» (Navi approdano al Parapagàl) / «Nessuno conobbe il lento pallore della negazione» (Cognizione del dolore)?

Talché, al parco, Elsa ci appare forse consapevole del brivido euripideo che lei e Valerio hanno suscitato nel corpo uno e unanime della tribù, ma soprattutto in preda a uno scoramento che la avvolge come un manto: «Sopra la stanchezza calda e un po’ inquieta di sua persona recava, andando lenta, la stola invisibile di malinconia» – e non scordiamo che la dissonanza e il passo lento sono caratteristici dell’habitus malinconico. (5) Anche noi, pur senza essere don Ciccio, possiamo a questo punto delineare una diagnosi: l’«indigenza d’ogni lubido» dei Caviggioni, la loro «fede ai programmi», l’inadempiuta maternità («“hai almeno i tuoi figli…”: e un pianto le velò improvvisamente gli occhi»; «“Tu hai i figlioli… i tuoi figlioli…”: […] e chinò il capo nell’ombra») – incompatibilità gamica, è chiaro. Una nobile malinconia, insomma, e il senso vivo dell’esclusione: che può trasformare il povero Bruno in un «pensiero inesorabile e fulgido scaturito dalla folla tediosa dei viventi» e indurre Elsa, violando le inibizioni meneghine, a passeggiare con lui nel parco. Dove i due evocano «l’idea crudele della felicità e della perfezione» negli artiglieri di ronda, ma anche «strane angosce e vicende» (Ronda al Castello). (6)

Creatura doppiamente difettiva, Elsa: «divelta dal credere» e ben più sfuggente di Liliana: sempre sullo sfondo, o happée par le hors-champ, (7) o schiacciata dalla meravigliosamente prepotente Adalgisa. Scalzata dal ruolo di protagonista, insomma: tanto che se vogliamo vederla, «dolce e inconcepibile», ricongiungersi a Bruno dobbiamo addirittura abbandonare L’Adalgisa per le Meraviglie d’Italia (SGF I 100). Non resta allora che retrocedere al relitto del suo romanzo, Un fulmine sul 220, avantesto dei disegni sin qui menzionati, e interrogarne i segmenti abbandonati. (8)

Anzitutto il cap. II, Pane al disoccupato, che nel Fulmine si interpone tra la decisione di ricorrere a Bruno per risolvere la grana dei parquets (Quando il Gerolamo ha smesso…) e l’epopea dei Ritagli di tempo: in un pomeriggio di febbraio, Elsa è a casa, l’anima «come attediata», lo sguardo «ardente e un po’ malinconico» di chi, vittima dell’educazione e dell’ambiente, soffoca ogni slancio vitale. Giunta in visita, l’Adalgisa porta notizie inquietanti: in un ‘terreno da vendere’ i suoi figli hanno visto Bruno uscire da un capannotto con una ragazza e poi avventarsi furiosamente contro il «rochetée» – l’enigmatico poco di buono che incontreremo poi nel parco. (9) Sopraggiunge Bruno, «alto e robusto, con una vampa di capelli scuri che irrompeva dalla fronte»: mentre trangugia il bicchiere di vino che gli è stato offerto, la sua gola potente suscita in Elsa per contrasto l’immagine del pomo d’Adamo del marito, coperto «d’un garbato velo di magnesia».

Ekfrasis dell’amato Caravaggio, «fuggitivo blasfemo e violento», (10) come conferma, più oltre, un passo non accolto nell’Adalgisa: «A Bruno chi gli aveva disegnato la faccia? Quale sangue, nuovo o remoto, gli aveva messo il ciuffo? […] In seguito, ricordò Elsa, i governatori spagnuoli vietarono severamente a tutti garzonacci l’uso del Ciuffo. Ma Michelangiolo Amerighi se ne infischiò, e pettinò ciuffi su ciuffi» (in corsivo il segmento cassato). (11) Ultima visita della giornata, la signora Vigoni completerà il fosco quadro: il giorno delle nozze di Elsa con il nobile Gian Maria, ha sentito Bruno sibilare: «”Vuoei la mia fiamma l’ha sposaa el Cavigioeu… ma l’era mei per lee se la sposava on cavicc…”». (12)

Non ha, del pari, trovato impiego nell’Adalgisa il brano che nel Fulmine (115-127) precede l’improvviso materializzarsi della carrozza della signora Vigoni, trainata da un araldico cavallo. Elsa è al parco, in attesa della cognata, e il piròpo che le lanciano i più audaci le appare d’improvviso come il risorgere di quell’«impeto primo della vita» che i Caviggioni, nella loro apathie sensuelle, sono maestri nell’ignorare: «eretti nella serietà e nella globale virtù della gente», distratti, aggrappati agli affari, disdegnano «gli sbilanci inutili dei passionali».

È il suo corpo, di nuovo, a visualizzare il dissidio: «Tutta arditezze recondite il corpo, e il viso tutto delicata ragione, meravigliosamente finta: non da lei finta, povera signora, inconscia nella sua solitudine, ma dalla conscia e protettiva socialità». Scatta il ricordo della morte della madre, del conforto che solo don Celeste – sorprendente prefigurazione di don Corpi – ha saputo darle, (13) e dei brevi incontri con Bruno all’epoca gloriosa del Fumagalli: quando saliva di corsa le scale e i «potenti muscoli mangiavano quattro a quattro i gradini»; quando, in bicicletta, rivelava «un’anatomia di Leonardo»; quando ha difeso la Marianna da una torma di «guignazzanti» e poi lei, Elsa, dalla «bava» della Marianna; quando giocava a calcio «con certi fasci di muscoli su tutte le cosce, i quali, per contrasto, le facevano venire in mente le cosce alabastrine di suo marito». (14)

Nel Fulmine, infine, la passeggiata di Ronda al Castello è incorniciata da due brani che varrà la pena indagare rapidamente. Allontanatasi l’Adalgisa con i figli verso via Mario Pagano, Elsa scopre con un brivido che Bruno è lì ad attenderla, sorridente. Sopraggiunge, triviale e barcollante, lo Zavattari, mentre, ombra silente, si profila un convoglio funebre. Elsa, è chiaro, ha ormai compiuto un passage de la ligne che non prevede ritorno, e il coleottero elettrificato, il Necrophorus ad accumulatori che li ha sfiorati, eco di una delle più felici scoperte entomologiche del povero Carlo, è anche il presagio di una sorte che solo il primo getto custodisce: nella tempesta dove i sogni volano via «con le divelte foglie», Noemi e Carletto, raggiunto il casotto, si abbandonano alla passione ma finiscono combusti e avvinti nella turpitudine della morte. Dopo l’incontro con la ronda, Elsa realizza che sono ormai le nove e congeda il suo pericoloso ciclista; nel folto degli alberi, figure attorte, animate dal mantice di un Cupido ormai simile allo «strafottente quattordicenne del Caravaggio»: è l’orchestra, ora al completo, dei 120 professori in amore. (15)

È, credo, evidente: i primi piani che il Fulmine ci offre non varcano i limiti di una convenzionale collisione tra desiderio e inibitive dell’educazione e dell’ambiente, tra pienezza vitale e contrizione borghese. Smarriti gli effimeri connotati di Madonna del primo getto, (16) nella seconda e più ampia forma (1933-1935) Elsa si annoia, compulsa torbidi romanzi, scruta ossessivamente, fruga – feticizza, verrebbe da dire – il corpo di Bruno, (17) contrappone la sua insolente prestanza alla  complessione gracile e valetudinaria del marito, l’eros da lingéra del primo al decoro asessuato del secondo. (18) In altri termini: se come comparsa – in quell’«album di straordinari disegni sciolti» (Isella 2000a: 278). che è L’Adalgisa – Elsa può assurgere a figura dell’esclusione, da eroina – nel suo romanzo, rovescio della Meccanica (19) retrocede a Moglie Male Impiegata (Pedriali 2002d) e insoddisfatta: e la sua nobile malinconia a bovarismo. Analogamente il ruolo di deuteragonista offusca in Bruno la funzione, centrale nell’Adalgisa, di emblema dell’euresi, di trionfante contraltare di Gian Maria, che è «godimento, ripetizione e profitto» (L’A 358): allorché torniamo al Fulmine egli ci appare infatti, più che ditischio/siluretto felice che ha raggiunto l’ottimo «nella pertinace evoluzione della discendenza» (L’A 357), indescrivibile e seriale maschio-corpo (Stracuzzi 2002): come Emilio nella Madonna dei Filosofi o il tenente Dalti in Dejanira Classis o Franco Velaschi nella Meccanica. (20)

Con in più le marche di ambiguità e di violenza, di «volizione proterva» (Pasticciaccio, RR II 179), che renderanno Diomede Lanciani un irresistibile «fringuello de chiama» (RR II 177): quasi sopravvivesse in lui l’oscillante e irrisolta identità delineata nel primo getto, dove a un Bruno Locati che suscita un senso di paura nella signora Margherita («Aveva nel viso quel pallore che si riscontra a volte ne’ sordi o negli eredo-sifilitici […] gli zigomi forti convalidavano quell’impressione d’ottusità morale»; Fu 33) (21) subentra inaspettatamente un Carletto tenero e spavaldo («era un bel ragazzo, sano, pieno di sangue… le avevan detto che fosse collerico…»; Fu 40). E infatti nell’episodio del terreno da vendere lo vediamo afferrare il rochetée brütt e martellarlo «di tali pugni furibondi, da lasciar pensare che quello sarebbe rimasto senza denti e col naso pastoso» (Fu 84). (22) Ha insomma ragione Cristina Savettieri allorché osserva che nel Fulmine l’adesione di Gadda a una vicenda che rappresenta l’irrompere dell’abnorme e della devianza nel tessuto dell’odiosa norma risulta spesso «incrinata, eccessivamente patetica o grottesca o declinata secondo una tonalità sublime di marca letteraria esibita» (Savettieri 2008a: 111). Al polo della satira non corrisponde insomma univocamente, come ci si potrebbe attendere, quello della disperata elegia.

A dinamitare il romanzo – riprendo qui una notazione di Isella – è certo stato il repentino imporsi dell’Adalgisa e del suo punto di vista, «quello da cui poter finalmente mettere a fuoco […] la rappresentazione satirico grottesca dell’odiosa-amata società lombarda» (Isella 2000a: 296). Ma il naufragio del Fulmine, è altrettanto certo, ci ha regalato due comparse d’eccezione: in particolare Elsa, membro non indegno della confraternita dei malinconici e delle «anime sbagliate» (ossia divelte dal credere) – macrotema, questo, che Notte di luna anticipa sottilmente: «Nell’olezzo e nel carneo pallore di talune corolle era un desiderio un po’ malinconico e strano, un turbamento, inavvertito dapprima, che si faceva poi ansia, brama cupa» (L’A 4). (23) Alla confraternita appartengono di diritto anche Gonzalo (24) e il prosciuttòfilo Angeloni, (25) senza dimenticare Gadda stesso (26) e Jean Genet: «’a passione sua: nata, forse, dalla “modalità” stessa della vita collettiva tra maschi (orfanotrofio), dalla mancanza di “affetti domestici”, da predisposizione malinconica, da scompensi endocrini, che so» si legge nella non certo limpida recensione al Journal du voleur (SGF I 615). E senza dimenticare il più compiuto «personaggio relativo» – per usare la terminologia del recente libro di Enrico Testa – da cui eravamo partiti, Liliana. (27)

A Liliana – in cui Elsa si risolve pienamente – e al Pasticciaccio, che verrà di lì a poco steso sull’onda di una incontenibile urgenza espressiva, rinviano gli indizi sin qui emersi, ed altri ancora, celati nelle note costruttive del Fulmine: nel ripensare il primo getto, affidato nel 1932 al «quaderno bleu», Gadda si ripromette inizialmente di «Dare la sensazione del pasticcio» (Fu 310) e delinea un tentativo di furto in casa Cavigioli perpetrato – possiamo desumere – dall’amante della domestica, un bel giovane, e accompagnato da «maltrattamenti al nob. Gian Maria»: il che fa nascere nella tribù il sospetto che «il nob. Gian Maria fosse stato picchiato dall’amante di una che lo sfruttava» (Fu 310).

Sviluppo inequivocabilmente torbido e giallo, con tanto di  «Scena alla polizia» e di delegato napoletano (peraltro non ignoti al primo getto), che subito proietta davanti ai nostri occhi l’immagine di un palazzo grigio e intignazzato ma capace di accendere la cupidigia di una «giovane bellezza [...] assetata di vita e di… gioielli, detenuti dai ricchi» (Il palazzo degli ori, SVP 952), della rapina in casa Menegazzi, dei ricatti inflitti dalla Virginia al Balducci («“… Eppoi, la Virginia,… perché ce so’ annato a letto… Embè, che c’entra?… E pperché m’ha voluto ricattà,… quella stregaccia!…”»; Pasticciaccio [redazione di Letteratura], RR II 427). (28) Senza contare che i consigli della malavita a Bruno nella stessa nota costruttiva («e poeu dopo, quan che te l’é scaldada on po’ minga mal, digh inscì: vuèi cara la mia f…, el càmola l’è chi, ma se te le voeret de bon, foeura un bigliett de cent»; Fu 310) e, in un’altra, l’allusione a un’avventura di Bruno «con una ricca francesa in un albergo. Aveva lei tutte le carte.–» (Fu 323) rinviano al doppio laziale di Bruno, Diomede, elettricista disoccupato e biondo arcangelo dispensatore di irruenti conforti alla ricca inglese della pensione Bergèss: «un volto maschio, un ciuffo! […] du occhi fermi, strafottenti […] Un tipo spavaldo, fatto per essere accerchiato e conteso, inseguito e raggiunto, e poi rigalato un po’ da tutte, secondo le disponibilità di ciascuna» (Pasticciaccio, RR II 167). Nonché al Retalli («Un bel giovane, sì, un toso franco…»; RR II 296), anche lui provvisto di occhi fermi (RR II 32) e «ciuffo di capelli chiari nel vento, come una manata di stoppa che non patisce pettine» (RR II 243). (29) Ma c’è dell’altro: nel quaderno bleu e poi in A1 Gadda focalizza a più riprese uno dei nuclei della «psicologia di “mancanza”» di Elsa: dapprima segnalando la sua gelosia nei confronti della Maria, che ha un’amante e, gravida, pare «un frùtice settembrino» (Fu 310), e poi, con cruda precisione, la sua «allucinazione (Figli altrui)» (Fu 312).

Tra la savia e rasciutta tribù dei Caviggioli e l’avido, torbidamente passionale clan dei pescicani, non c’è, ahimè, grande differenza: ovunque si debba credere per forza, nella città egèmone come nella Roma del Merda, è «proibito essere malinconici» (SGF I 507).
Adelphi Edizioni, Milano

Note

1. Fragments d’un discours amoureux (Paris: Seuil, 1977), 89.

2. Manzotti 1987a: 373; ai rimandi ivi addotti a commento di un passo della Cognizione del dolore («e le chiome degli antichi alberi, pensose consolatrici, davanti ai cancelli delle ville disabitate dimettono la loro stanca foglia») se ne dovrà aggiungere un altro davvero illuminante per il nostro discorso: nell’Introduzione a «I Markurell» di H. Bergman, del 1945, Gadda osserva che la sosta sulla terrazza di zia Rüttenschöld «raduna per il commiato i sentimenti e i pensieri che legano un’anima alla pluralità degli oggetti e dei simboli topici e, per il loro tramite, alla collettività dei cittadini: e quest’anima è già sul punto di spiccarsi, come stanca foglia ad autunno, dall’albero delle generazioni verso la solitudine del nulla» (SGF II 927-928; mio il corsivo).

3. In questo paragrafo le citazioni dal Pasticciaccio provengono da RR II 17, 21, 96, 62, 75, 76, 114, 89, 91, 119, il passo dell’Adalgisa dalla princeps (Firenze: Le Monnier, 1944; d’ora innanzi L’A), 265; per «divelta dal credere» cfr. Eros e Priapo, SGF II 296: «o fatti brani e dirò tocchi di carbone nero dalla memoria divelti dopo aver paventato un lungo lasso la santabarbara a fiamme», immagine che si riferisce, non a caso, ai giovani più valorosi, agli «ottimi», annientati dalla guerra (miei i corsivi).

4. Si contrappongono così «il tema della “unanimità, della concordanza di pensiero e di volere tra gli individui di una collettività, i quali assieme, inconsciamente, tendono, col proprio lavoro, col proprio sacrificio, verso uno stesso unico fine» e «l’emergere di certi “punti singolari”, di individui ex lege: di esseri, cioè, il cui destino è di rompere la “meravigliosa consonanza” e di perdersi» (Manzotti 2004b: 198-199).

5. Si veda Jean Starobinski, La mélancolie au miroir. Trois lectures de Baudelaire (Paris: Julliard, 1997), 19 e 33; a proposito del motivo della dissonanza, in particolare, muovendo dai vv. 13-14 dell’Héautontimorouménos di Baudelaire («Ne suis-je pas un faux accord | Dans la divine symphonie»), Starobinski risale all’atto II, vii dell’As you like it di Shakespeare dove il malinconico Jaques è definito «compact of jars» («If he, compact of jars, grow musical | We shall have shortly discord in the spheres»).

6. Le citazioni di questo paragrafo provengono da L’A 44, 53, 196, 265, 264, 218-219, RR I 703 (Cognizione del dolore), L’A 324, 327, 344, 372, 347, SGF I 99-100 (Le meraviglie d’Italia); miei i corsivi.

7. Prendo in prestito l’immagine da Lac di Jean Echenoz (Paris: Éditions de Minuit, 1989).

8. Gadda 2000b (ma per rendere più trasparenti i rimandi si adotterà da qui innanzi la sigla Fu). Sui rapporti tra il Fulmine e L’Adalgisa è utile la ricognizione di Martignoni 2007.

9. Come ha notato Isella, Adalgisa subisce una radicale metamorfosi: il suo punto di vista, che qui rispecchia ancora la tribù benpensante, diventerà quello «dissacrante, violento, animato da spirito di rivalsa, dello stesso Gadda» (Isella 2000a: 294).

10. SGF I 979. Pittore maccheronico e dunque fratello (SGF I 498-499), dalla «carnale disperazione» (SGF I 859), Caravaggio è oggetto di una costante venerazione: «La contemplazione delle tele dei miei autori preferiti (p.e. Caravaggio) desta in me una vera ebbrezza mista di gratitudine» si legge in una nota della Meditazione milanese, SVP 805 (e cfr. anche Eros e Priapo, SGF II 335: «“In genere subisco il fascino della signorilità, della vecchia macerazione culturale della Spagna, della pittura del Caravaggio”»). Sulla presenza di Caravaggio nell’opera gaddiana si vedano Lipparini 1994: 95-96 e Pinotti 2007a: 187-189.

11. Sorprendente è la conoscenza che Gadda mostra del champ amoureux: «l’autre est impénétrable, introuvable, intraitable; je ne puis l’ouvrir, remonter à son origine, défaire l’énigme. D’où vient-il? Qui est-il? Je m’épuise, je ne le saurai jamais» (Barthes 1977: 161).

12. Le citazioni di questo paragrafo provengono da Fu 77, 80, 84, 85, 88, 150-151, 91; mio il corsivo.

13. Don Celeste è «alto, fortissimo», maschio e cacciatore di pettirossi e fringuelli (Fu 120-21): esattamente come don Corpi (Pasticciaccio, RR II 98-99).

14. Le citazioni di questo paragrafo provengono da Fu 116, 117, 118, 122, 123, 124, 126.

15. Si vedano Fu 180-187, 52-54 (primo getto), 193-196 (195 cit.). Che le «divelte foglie» di Fu 52 siano un’immagine di morte atroce e prematura è, di nuovo, confermato da Eros e Priapo, SGF II 304 (mio il corsivo): «Ch’io l’ho udite stridere di mia orecchî le rabide Sofonisbe e vedute de’ mia occhî corporei fatte ismorte di bile […] dare a smanie nel salotto loro che il Kuce che il Kuce che il Maldito che il Maldito… E voler che vadano tutti i giovani a la terra, come divelte foglie dal turbine quando ancora primavera le sta buttando».

16. «e vedeva quelle labbra così dolcemente e sicuramente contratte, come a baciare il fazzolettino, quegli occhi, così neri e limpidi, levarsi sui suoi, e allora quei cigli immobili nel pallido viso, come una Madonna, come una Madonna!» (Fu 28); «“La bella Madonna!”, dicevano a lei, in un eccesso di galanteria, le donne» (Fu 30); «il suo viso era paragonato spesso a quello delle Madonne, come si è veduto, e non solo dai Cavigioli» (Fu 35).

17. Colgo una suggestione di Barthes 1977: 85-86: «Scruter veut dire fouiller: je fouille le corps de l’autre, comme si je voulais voir ce qu’il y a dedans, comme si la cause mécanique de mon désir était dans le corps adverse […] Cette opération se conduit d’une façon froide, étonnée […] Certaines parties du corps sont particulièrement propres à cette observation  […] Il est évident que je suis alors en train de fétichiser un mort».

18. Non a caso i tentativi di Adalgisa e della signora Vigoni di mettere in guardia Elsa saranno vani: come ha notato Raffaele Donnarumma, la sua attrazione per Bruno «procede nonostante e a causa di queste notizie: cioè contro il suo giudizio morale, ma a vantaggio delle sue pulsioni inconsce, che trovano nella ribalderia del ragazzo un antidoto all’ottusità borghese da cui è soffocata. Siamo già in un’ottica psicoanalitica, che ritrova un nesso causale occulto dove la ragione diurna lo ignora» (Donnarumma 2006: 58).

19. Isella 2000a: 296; e si veda anche la fondamentale lettura della Meccanica contenuta in Isella 1994c.

20. Cfr. ad es. La meccanica, RR II 533-534: «E adesso era alto, magro, fortissimo: con caviglie di tendini soli, con gambe dove si disegnavano i fasci del cestatore o del discobolo, con un torace ampio e lineato quasi nell’anelito dell’Adamo, risorgente dall’ombra e dai misteri cupi della Sistina; dove, a ogni volgersi, a ogni distendersi, mordeva sopra le costole dilatate il polipo sagace d’una musculatura implacabile».

21. Nel primo getto Bruno Locati è il candidato alla lucidatura dei parquets che Margherita incontra nella fabbrica del marito: e taluni dei suoi caratteri passeranno al Bruno della più ampia stesura: «Un giovane alto, dal viso pallidissimo, con una fiammata di capelli biondastri sopra la fronte, con il naso camuso, come d’un pugilatore, e gli zigomi forti, entrò con una rapidissima occhiata alle tre signorine» (Fu 31) → «Il giovane, alto e robusto, con una vampa di capelli scuri che irrompeva dalla fronte, guardò lei un attimo […] Il naso un po’ camuso faceva pensare a quello d’un pugile» (Fu 85).

22. Ben diversa l’attitudine di Bruno nell’Adalgisa: al parco, sotto gli occhi di Elsa, egli fronteggia il rivale con la più serena allegrezza: «Bruno allora lo guardò un attimo, come si guarda una porcheria: e partì a capo alto, con gli occhî al di là d’ogni fronda come cercasse la prima stella nel cielo: la sigaretta accesa tra i labbri, una sola mano al manubrio» (L’A 320-321).

23. Si veda Manzotti 2004b: 198-199 (e da L’A 175 proviene il sintagma «anime sbagliate»); il tema, a riprova della sua rilevanza, è persino sottoposto a rovesciamento parodico: «“La malinconia, ghe par? la sarà semper püsée poetica d’on capp stazion…”» (L’A 383-384).

24. «Un lieve prognatismo facciale, quasi un desiderio di bimbo che si fosse poi tramutato nel muso d’una malinconica bestia, veniva conferendo al suo dire, ma non sempre, quel tono di sgradevole di perplessità e d’incertezza» (La cognizione del dolore, RR I 618; mio il corsivo).

25. «Er sor Filippo […] di viso tra impaurito e malinconico» (Pasticciaccio, RR II 40); «Tutto il contegno dell’Angeloni, la sua reticenza di testardo malinconico» (RR II 49); «lo integerrimo se pure un tantino malinconico funzionario statale […] un ghiottone solitario, celibe e malinconico» (Il pasticciaccio, SGF I 507); miei i corsivi.

26. Come rileva Ceserani 2002, luogo privilegiato per l’analisi della malinconia è il Giornale di guerra e di prigionia; ma si veda anche Il castello di Udine, RR I 159: «Insaponato una terza volta, grugnivo, animale selvatico e malinconico», 165: «Perché al solito la mia irrefrenabile necessità deambulatoria, decine di chilometri su e giù per il campo, come il puma in gabbia, malinconica belva» (miei i corsivi).

27. Mi riferisco a Eroi e figuranti. Il personaggio nel romanzo (Torino: Einaudi, 2009); ha letto il personaggio di Liliana come prodotto di tre tasselli freudiani – invidia del pene, narcisismo, malinconia – Amigoni 1995a: 67-98.

28. Un cenno alle tangenze fra questo piano di lavoro e il futuro Pasticciaccio è già in Martignoni 2007: 168.

29. Ha sottolineato la stringente somiglianza dei due (ma nell’ambito di un discorso tutto sommato generico) Bertoni 2001: 223-225; e si veda anche Pinotti 2003b: 351.

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-21-3

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