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Il bacio di Giove
Gadda, Raffaello e gli affreschi della Farnesina
Giorgio Pinotti
«Sur le monde je porterai le regard clair prêté par l’aigle à Ganymède»
Jean Genet, Le Journal du voleur
«Il pourrait peut-être essayer de dormir avec quelqu’un, quand-même. Le sommeil est plus facile quand on est moins seul dans un lit. Il pourrait toujours tenter le coup. Mais non, rien à faire. On ne sache pas qu’il ait amoureusement aimé, homme ou femme, quiconque»
Jean Echenoz, Ravel
Nell’VIII capitolo del Pasticciaccio il brigadiere Pestalozzi si dirige in motocicletta col Fara filiorum Petri verso la bettola-harem della Zamira: la narrazione si sfrangia, abbandona Ingravallo e Roma – «distesa come in una mappa o in un plastico» (RR II 191) –, e prende ufficialmente avvio il Pasticciaccio albano. Ai Due Santi, l’attenzione del cortovestito milite è attirata da un tabernacolo alto: (1) un «bell’affrescone», frutto delle inesauste energie del Manieroni, raffigura Pietro e Paolo, entrambi forniti di enormi e priapanti alluci e investiti da una luce che sembra «vaporare di sotterra» (RR II 196). Luce e alluci, del resto, sono elementi essenziali della nostra pittura e la luce, anzi, è madre agli alluci: «Il metatarso di San Giuseppe s’è peduncolato di inimitabile alluce nel tondo michelangioliano della Palatina (Sacra Famiglia) […] Il metatarso medesimo protubera pollice pedagno rivale del michelangioliano e palatino (a signiferare il miracolo, o meglio l’audicolo, della castità virile) nei Sacri Sponsali dell’Urbinate, oggi a Brera […] E [il dito mastro] risponde, fatto augusto dalla divaricazione, risponde all’estasi alta ed eretta del sottile stelo o bàculo che nottetempo ebbe fioritura bianca di tre gigli, anziché del consueto garofano». (2) San Paolo, «un racchietto coi capelli neri a le tempie», sembra cedere il passo al duro e ossuto socio, cui «una specie di diritto di primogenitura» titola «d’un principato da parer di pietra il capillizio grigio e tuttavia lanoso, la fronte minimizzata» (RR II 199). Se si rammenta che nella Cognizione del dolore Gonzalo è per la madre «il primo suo figlio […] Il suo figlio primo», «questo suo primo figlio» (RR I 678 e 683) dapprima «unicamente caro», (3) la «vecchia pittura, alquanto sbiadita e calcinosa nel colore» (RR II 196) non può che raffigurare, come ha notato Federica Pedriali, le tensioni di un conflitto fraterno che trae origine dal narcisismo materno: (4) lo attesta d’altro canto, ecfrasi nell’ecfrasi, il corrosivo attacco alla «insopportabile santità della famiglia» (I viaggi, la morte, SGF I 573).
Già nella Meccanica, del resto, Gadda aveva trasformato la pala giorgionesca di Castelfranco in dolente ritratto di famiglia – tanto che si potrebbe parlare in questo caso di dipinto di copertura (5) –, visualizzando così la preferenza accordata dalla madre al figlio minore, il «suo sangue più bello»: (6) a Zoraide, infatti, san Francesco «andava pochissimo a genio», mentre «le piaceva immensamente» san Giorgio, «un giovanetto biondo chiuso tutta la persona nell’arme» (e Gemma Nuttis, «demonio subsannante», insinua «un pensiero diabolico»: che il volto della Purissima effigi l’amante carnale di Giorgione). (7) Affiora qui, in altre parole, la delusione narcisistica «al riscontrare la qualità impropria o la forma difettiva della prole», cui corrisponde, come un disperato grido che echeggia «lungo tutta la fuga degli anni nella vuota angoscia di una vita», la delusione edipica suscitata dal gelo materno. (8)
«Non pago di occupare, direttamente o per interposta persona, il centro della scena negli spettacoli da lui allestiti,» ha osservato Roscioni «Gadda proietta istintivamente la propria ombra sulle ribalte dove altri drammi sono stati rappresentati in passato» (Roscioni 1997: 50). In effetti, rispecchiamento e proiezione sono precisamente i meccanismi che regolano la lettura che Gadda conduce delle opere dei pittori prediletti (una sorta di galleria interiore), quasi che il suo sguardo, procedendo oltre la complicità totale, l’empatia o – per usare le parole di Starobinski – l’«intuizione identificante», (9) incorporasse il soggetto rappresentato, lo deformasse, ne riorganizzasse visivamente i dettagli, (10) inscrivendovi oscure nevrosi. La descrizione iconografica, non importa se di dipinti reali o immaginari, può dunque rivelarsi, se attentamente indagata, autorappresentazione, trascrittura proiettiva o, verrebbe da dire, ecfrasi narcissica. Se è vero che lo sguardo – e sono ancora parole di Starobinski – è un eccesso che assicura la relazione fra l’io e il mondo, (11) si dovrà ammettere che nel caso di Gadda ciò che lo sguardo cerca, ciò che lo sguardo, nel suo slancio desiderante, vuole fissare non è altro se non il riflesso di sé: l’oggetto della fascinazione si sottrae allora all’infinito e diventa specchio che rinvia lo sguardo.
A cominciare (siamo fra il 1924 e il 1925) dalla Vocazione di San Matteo dell’amato Caravaggio, «fuggitivo, blasfemo e violento» (I grandi uomini, SGF I 979): nel Racconto italiano di ignoto del novecento, infatti, Grifonetto «riandava la gustosa scenetta e gli pareva d’essere quello, quello che guarda stupido, con tumide labbra, il Nazareno troppo buono (di troppo amore e senz’odio), e che tiene, ma pronta sempre, la sua lama al suo fianco». (12) Non stupisce allora che nel «ritratto spaventoso» di papa Alessandro VI, (13) Gadda abbia inizialmente cercato il riflesso della fisionomia di Gonzalo, suo doppio immaginario: «Una calma un po’ rubiconda, molle, come d’attesa […] L’occhio, un po’ velato, e gonfio come per fatica di lettura o tedio di libidini, pareva risentire d’una libagione e ignominia del giorno avanti, fattasi oggi torpore, e blandamente porcino e un po’ sinistro […] egli guardava allora, calmo, gonfio, impercettibilmente crudele nella bonarietà sorridente, con tre pieghe di pappagorgia sotto il mento sfuggente, all’Interlocutore o alla Causa, come Rodrigo Borgia nel ritratto spaventoso di Raphael Sanzio guarda: meditando un suo dubbio efferato, cioè se il cappio, al ciuco che gli sta innanzi, o l’invito a cenare […] / Un certo prognatismo della parte media della faccia, e quella quasi sonnolenza, o gravità ottusa e papaveracea dell’espressione, stabilivano una reale somiglianza, a certi momenti, e i due labbri che avrebbero potuto esser gonfi e scarlatti se non fossero stati esangui e crudeli, con il segreto insondabile di papa Lissandro». (14) Né stupisce che il passo sia rimasto relegato fra gli abbozzi inutilizzati: còlto il riflesso di sé («Fare che egli, in istato d’ossessione, veda sé nello specchio secondo questa (delirante) interpretazione» annota Gadda), lo sguardo non può che subire la violenza del divieto e dunque indietreggiare, atterrito dal fantasma che ha evocato. L’unica altra soluzione, lo vedremo fra poco, è rimuovere l’oggetto per rimuovere lo specchio – negare cioè l’identificazione dissimulando la natura ecfrastica del testo e ricorrendo a una scrittura cifrata.
Anche Raffaello sembra, non meno di Caravaggio, oggetto di una intensa predilezione da parte di Gadda: «Io credo di credere» si legge fra l’altro in una inedita sezione di Eros e Priapo «che Dio sia più lieto dell’offerta d’un quadro di Raffaello o anche d’una tarsia negli stalli del coro che d’una pigrizia espressa in ristagnanti meditazioni». (15) L’Urbinate, in particolare, è protagonista di tre favole (75, 76, 106) percorse, come ha notato Claudio Vela, «da criptiche allusioni all’omosessualità» (Gadda 1990: 151):
Quando l’aquila ebbe rapito Ganimede, si disse: «che bel pollo!».
Raphael Sanzio soffuse di un dolce rossore le guance di Ganimede.
Raphael Sanzio era dignissimo giovine.
Ma va senz’altro tenuta presente, per ragioni che saranno fra breve chiare, anche la 109:
Ille Raphael, qui: paventò vivendo il quale esserne superata la madre alma de le cose: e si morire morendo. / Questa favoletta ne adduce: che ’l pitafio di Pietro Bembo è buon dimetro da elegia: ed è travaglio grande a voltarlo. Adde: che la critica d’arte sostava, come per secoli dimolti, al cànone naturalistico. (16)
Le prime due, osserva ancora Vela (Gadda 1990: 151-52), vanno lette sulla scorta del frammento Cui non risere parentes, e in particolare di una redazione anteriore, dove Gadda, rispondendo all’attacco sferrato contro le «aberrazioni della psicologia post bellica» da un «accademico» che si era fatto scudo di Virgilio e Raffaello, ricorda che quest’ultimo «ha pur dipinto ai Chigi la lunetta della futura Farnesina nonché Accademia», e che al primo si debbono pur sempre i versi «incipe, parve puer: cui non risere parentes | nec deus hunc mensa dea nec dignata cubili est». E conclude, delineando così due contrapposte vie dell’amore (entrambe falciate dalla crudeltà degli educatori): «per arrivare ad essere Ganimede od Anchise, un biondo e ben retribuito efebo dell’Ellade o rustico e villoso un padre della Licia e poi del Lazio, bisogna che i genitori umani o divini abbiano sorriso al tuo vagito infantile e non ti abbiano recato a colpa d’aver fatto pipì e pupù nella culla». (17) Nel suo commento, Manzotti (ripreso da Vela) identifica la «lunetta» con «un esagono della Sala di Galatea, affrescato dal senese Baldassarre Peruzzi […] con una figura di Ganimede ghermito dall’aquila di Giove» (Gadda 1987a: 534).
Le cose, in realtà, non stanno esattamente così. A metterci in guardia è anzitutto Psicanalisi e letteratura, dove, nello sviluppare la polemica contro l’«illustre filologo e professore» che con la potenza di un «incrociatore latino, anzi neolatino» si era scagliato contro la psicoanalisi, Gadda torna a menzionare la «lunetta» raffaellesca: «(Vorremmo trascurare la lunetta della Farnesina, di piccole dimensioni, invero, e situata in alto, molto in alto, in Olimpo, dove nessuno può percepirne le sfumature psicologiche e sofisticare al riguardo)» (SGF I 457-59). Se infatti si trattasse unicamente del Ratto di Ganimede della Loggia di Galatea, non si giustificherebbero – oltre che il termine stesso di «lunetta» – né la collocazione «in Olimpo» né, tantomeno, le «sfumature psicologiche». (18) Credo invece che Gadda faccia a ragion veduta il nome di Raffaello: a lui e alla sua scuola si devono infatti gli affreschi (sempre alla Farnesina) della Loggia di Amore e Psiche – destinati a celebrare il matrimonio di Agostino Chigi con Francesca Ordeaschi –, dove uno dei dieci pennacchi incorniciati dagli splendidi festoni di Giovanni da Udine (lato nord, terzo pennacchio da ovest) raffigura un soggetto agli occhi di Gadda non meno perturbante dell’aquila librata in volo insieme a Ganimede: Giove bacia Cupido su una guancia prima di esaudirne la supplica, e lo contempla intensamente. (19) Solo che ha scambiato Cupido per Ganimede.
Tutto torna: dopo il ratto raffigurato dal Peruzzi, Ganimede/Cupido è ora al cospetto di Giove («Quando l’aquila ebbe rapito Ganimede»), è alato (donde l’esclamazione «“che bel pollo!”»), e le sue guance si colorano di «un dolce rossore» allorché, nelle parole di Boiardo, «Iove stringendolo, la sua faccia strettamente baciò». (20) E a ritrarre con scintillante sensualità una scena di amore paidico è proprio colui al quale «la favella della sua gente carezzò l’infanzia», colui che non subì l’atroce negazione riservata a «Carlo Emiliuccio» (Gadda 2001a: 31): Raphael Sanzio, «dignissimo giovine» nell’accezione che il Vasari ci addita: «Di costui fece dono la natura a noi, essendosi di già contentata d’essere vinta per mano di Michele Agnolo Buonarroti, e volse ancora per Rafaello esser vinta dall’arte e da i costumi. Con ciò sia che quasi la maggior parte de gli artefici passati avevano sempre da la natività loro arrecato seco un certo che di pazzia e di salvatichezza, la quale oltra il fargli astratti e fantastichi fu cagione, il più delle volte, che assai più apparisse e si dimostrasse l’ombra e l’oscuro de’ vizii loro, che la chiarezza e splendore di quelle virtù, che giustamente fanno immortali i seguaci suoi». (21) Illustre per virtù, dunque, ma ben più temerario di coloro che, per secoli, sono rimasti ancorati – nella lettura gaddiana del celebre distico bembesco (22) – al «cànone naturalistico», vale a dire alla rappresentazione secondo natura. Lo scambio Amore/Ganimede, infine, ha un autorevole mallevadore sempre nel Vasari, il quale osserva che il pittore affidò ai «peducci» della volta della Farnesina «molte storie, fra le quali in una è Mercurio col flauto, che volando par che scenda da ’l cielo, et in un’altra è Giove con gravità celeste che bacia Ganimede». (23)
«“Quello a cui i genitori non hanno saputo sorridere, né un dio vorrà degnarlo della sua mensa, né una dea lo degnerà del suo letto”»: (24) non meraviglia che di fronte agli abbaglianti affreschi della Loggia di Amore e Psiche lo sguardo di Gadda sia stato attratto dall’episodio che più esplosivamente visualizzava l’adempiersi del destino di Ganimede, oltretutto ad opera di chi «udì la bella fornarina parlare e la vide spogliarsi» (mentre, non a caso, è Virgilio, che condivise la «bruciante passione» di Genet, (25) a illustrare il tragitto di Anchise). Non sprigionano infatti lo stesso senso di vitale pienezza né Ganimede inginocchiato che porge a Giove la coppa, né Giove che ascolta Amore con un benevolo sorriso sulle labbra (nei due affreschi della volta, rispettivamente Le nozze di Amore e Psiche e Il Concilio degli Dei). Proprio per questo le favole 75 e 76 occultano la loro natura ecfrastica – e dissimulano con un velo lo specchio. Se lette alla luce della compagine del Primo libro, fra l’altro, tali favole si arricchiscono di più lepidi e licenziosi significati: si rammenti infatti che nella 71 l’aquila è detta sulla scorta di Dante «“l’uccel di Dio”» (SGF II 28), che nella successiva, dopo aver a lungo volato, va ad appollaiarsi sull’elmo di un assai eufemistico Kaiser, e soprattutto che nella 18 Aristippo cinico, diffidando della «virtù sublimativa del digiuno», (26) si sgranocchia «un pollo ai ferri, presolo dall’ala» (SGF II 16). Esse oscillano dunque fra lirismo manierista («soffuse di un dolce rossore le guance» rinvia a Adone, 3, 10, vv. 5-6, dove un «Purpureo foco gli [a Adone] colora e stampa | di più dolce rossor le belle gote») (27) e irrisione satirica («“che bel pollo!”»), tra abbandono e controllo, implicazione e aggressione, fascinazione e negazione, alto e basso, (28) in un movimento fluttuante, profondamente ambivalente, cui impone un drastico sigillo la 77 («La capra non disdegna il sale, anzi lo brama», SGF II 29), che, come ha ben visto Vela, pare alludere alla incontenibile violenza della pulsione sessuale (Gadda 1990: 152). Non a caso subito si manifesta a darle corpo, nella forma più cieca e crudele, Alessandro VI, il «sodomita avvelenatore di cardinali e protettore di Raffaello», (29) che «se vuol piangere, deve piangere l’uno dei figli ammazzato dall’altro» (favola 78, SGF II 29): riaffiora così, filtrato dal richiamo a Gonzalo, il fantasma del fratricidio, consumato con voluttà nella Cognizione attraverso l’ingestione di una loricata (e quasi ferale) aragosta, e fonte di un immedicabile senso di colpa. (30)
Una vita senza stagione e senza gioia, un’anima-bestia «dove le strade del dolore e della conoscenza si [intersecano] senza tensione vitale» (Gadda 1987a: 528, 532) – il «diniego oltraggioso», dunque: (31) non v’è altro per chi ha sperimentato «la ferula della miseria e del sadismo materno» (Gadda 1987a: 527). Una non-vita che rifugge dal placido scorrere del fiume «tra due rive sagge» così come dalla «disordinata libertà oceanica» (I viaggi, la morte, SGF I 574), dalla «colendissima famiglia» (32) così come dalla «inclinazione un tantino quattrocentesca del Bazzi» (33) (o di Genet, «incaparbito Narcisso»). (34) Ogni vizio, del resto, ci singolarizza, «perché ogni vizio ci “separa”, ci “astrae” dal nostro destino più vero: e deturpa il volto a una smorfia, se pure involontaria». (35) Come per Amleto, è il caso di dirlo, «il fine strazia la materia» (SGF I 584).
Note
1. Ma, come ha notato Federico Bertoni, la prospettiva si sposterà dal personaggio al narratore e di nuovo dal narratore al personaggio; a questa «duplice transizione percettiva» si accompagna inoltre «un movimento parallelo, con cui il raggio della rappresentazione viene prima ristretto, poi ampliato, quindi nuovamente ristretto» – Bertoni 2001: 171-77 (173).
2. RR II 197; e cfr. la ben più esplicita favola inedita pubblicata da Vela (SGF II 955): «La verga di Giuseppe ebbe fioritura liliale. Altre d’un garofolone che non ti dico».
3. Psicanalisi e letteratura, SGF I 470 (a proposito di Baudelaire).
4. Pedriali 2001c: 351-67 (355-59). Nel suo saggio dedicato all’Officina ferrarese, Corrado Bologna ipotizza che la descrizione della cappelletta incroci la memoria manzoniana con un preciso luogo longhiano («magari in qualche saggio sul Caravaggio o sui caravaggeschi») e celi soprattutto la presenza di Longhi, «un po’ sarcasticamente profilantesi, se vedo bene, dietro il modello del Conoscitore, con le sue polemiche intorno alla tecnica attribuzionistica del Morelli, basata sull’identificazione di microdettagli, come il lobo di un orecchio, quale tratto caratterizzante di un artista» (Bologna 1996: in part. 47-48). Ipotesi implicitamente confermata dallo stesso Gadda, che in una lettera a Garzanti dichiara: «Tutto l’episodio della cappelletta con i due santi Pietro e Paolo è imaginato (ma su dati reali): e vuol essere pittura di costume sia etico-religioso, sia estetico e pittorico. Non credo che Contini, e forse nemmeno Longhi, spregerebbero del tutto» (Gadda 2006c: 97; mio il corsivo). A Morelli aveva peraltro già pensato Nigro 1991: 20-40 (22): «Il criterio anatomico del “substrato osseo”, teorizzato da Morelli come metodo di lettura scientifica dell’opera d’arte, aveva fatto del Manierismo un problema di “attaccatura delle dita al metacarpo”. Ismodando in parodia, Gadda ne fa invece una questione di metatarso e di “pollici pedagni”».
5. Nel suo bel libro Comment parler des livres que l’on n’a pas lus (Parigi: éditions de Minuit, 2007, p. 52), Pierre Bayard applica ai libri di cui parliamo (e che spesso nulla hanno a che vedere con i libri reali) la nozione freudiana di «ricordo di copertura» elaborata nel saggio del 1899 Ricordi di copertura (nel vol. II delle Opere, Progetto di una psicologia e altri scritti, Torino, Boringhieri, 1968, pp. 431-53).
6. Cognizione, RR I 680; e cfr. Giornale, SGF II 857: «ecco la guerra le ha strappato atrocemente il più caro, il più bello».
7. Meccanica, RR II 491-92; e si rammenti che san Giorgio/san Liberale «era un ragazzo de’ tempi di allora, morto in una guerra di allora» («uno giovane bellissimo non più rivenuto da le guerre» nella conclusiva favola 186, SGF II 60, per cui si veda il commento di Claudio Vela in Gadda 1990a: 194-95). Una analoga «lotta simbolica» innerva il San Giorgio in casa Brocchi, dove alla serena e loricata avvenenza di San Giorgio – veicolo di pulsione di conquista e potenza sessuale – si contrappone la tensione ascetica e rinunciataria del liliale san Luigi Gonzaga (si veda la mia voce San Giorgio in casa Brocchi in A Pocket Gadda Encyclopedia, a cura di Federica G. Pedriali, EJGS 4/2004). Su La meccanica e San Giorgio in casa Brocchi come «Stories of Preference» si veda Pedriali 1997: 132-58 (143-47).
8. Psicanalisi e letteratura, SGF I 469, dove Gadda discorre dell’«insofferenza fisiologica» di Adelaide Antici nei confronti del figlio Giacomo (nonché del complesso edipico di Baudelaire). E Adelaide è «“madre sbagliata” […] “madre a-genetica” […] “madre castrante”» per eccellenza anche nel saggio Anime e schemi, SGF I 605. Analogamente, nell’alloro con il ramo tagliato del «cosiddetto ritratto del Pontormo» – evocato nel X cap. del Pasticciaccio per ritrarre la Migliarini Veronica che «teneva una mano in una mano, da parer Còsimo pater patriae» (RR II 274) –, Gadda «araldizza la trama romanzesca dei “pescecani” […] con Liliana, predestinata all’infecondità e al taglio dello sgozzamento; e con il cugino Giuliano che porta intera su di sé la responsabilità di una continuità genealogica, seppure per sghembo ramo» (Nigro 1991: 22).
9. L’espressione è impiegata da Jean Starobinski (a proposito dello sguardo critico) in L’occhio vivente. Studi su Corneille, Racine, Rousseau, Stendhal, Freud, trad. di Giuseppe Guglielmi (Torino: Einaudi, 1975), 19.
10. Vela ha notato come nella menzionata favola 186 l’«interpretazione della pala prevalga sulla rappresentazione reale del dipinto, forzandola», giacché, per limitarci a un solo esempio, san Liberale non tiene nella destra «la celata […] quale dal biondo capo s’è distolta, e dal sereno suo viso» bensì il guanto – libertà interpretativa del resto perentoriamente rivendicata: «“l’elmo li distolgo, e ’l capo e ’l volto gli faccio ne la luce”» (Gadda 1990: 194-95).
11. «Lo sguardo, che assicura alla nostra coscienza un’uscita fuori dal luogo che occupa il nostro corpo, costituisce, nel senso più rigoroso del termine, un eccesso» (Starobinski 1975: 9).
12. SVP 555 (mio il corsivo); e cfr. la più ampia trascrittura della stessa tela nell’Apologia manzoniana (SGF I 681-82, e SVP 595-96). Pittore maccheronico e dunque fratello (SGF I 498-99), dalla «carnale disperazione» (Immagine di Lombardia, SGF I 859), Caravaggio è oggetto di una costante venerazione: «La contemplazione delle tele dei miei autori preferiti (p.e. Caravaggio) desta in me una vera ebbrezza mista a gratitudine» si legge in una nota di Meditazione, SVP 805 (e cfr. anche Eros, SGF II 335: «“In genere subisco il fascino della signorilità, della vecchia macerazione culturale della Spagna, della pittura del Caravaggio”»). Si rammenti inoltre che in Dejanira Classis il tenente Dalti, dopo l’aggressione da parte dei socialisti, rifulge agli occhi di Denira come quando, a San Luigi de’ Francesi, «il melenso scaccino, per lire una, apre la chiavetta della luce e fasci di verità e di bellezza [...] pervadono le tele del Caravaggio» (RR II 1049); che nel Club delle ombre la malinconica «signorina di storia dell’arte» che ha perduto il fratello mostra ai giovani allievi, quasi porgesse loro uno specchio, «i piumati bravi la cui adolescenza risfolgora e le sottili spade posano, alla tavola del giuoco, nella secreta tela del Caravaggio» (RR II 843); che, infine, la cappella Contarelli di San Luigi de’ Francesi – dove «le tre tele del Caravaggio sembrano vivere in un tempo sospeso, in un attimo eterno» (Il pasticciaccio, SGF I 507) – è meta abituale, nel Pasticciaccio, delle passeggiate solitarie e malinconiche del commendator Angeloni (in Palazzo degli ori, SVP 954, Angeloni «sosta estasiato davanti ai due stupendi e celeberrimi dipinti del Caravaggio, specie davanti alla Vocazione»). Sulla presenza di Caravaggio nell’opera gaddiana si veda Lipparini 1994: 95-96.
13. Rodrigo Borgia e il figlio Cesare sono in Gadda emblemi di cieca crudeltà e abiezione – cfr. Pasticciaccio (edizione Letteratura), RR II 309-10; Primo libro delle favole, SGF II 29; Il faut d’abord être coupable, SGF I 616, dove sono annoverati nell’elenco di coloro che condivisero le inclinazioni omoaffettive di Jean Genet.
14. Gadda 1987a: 568-69. Secondo Roscioni, Gadda «probabilmente confonde le stanze di Raffaello in Vaticano con quelle, ad esse vicine, dell’appartamento Borgia, ove Pinturicchio ha ripetutamente ritratto Alessandro VI» (Roscioni 1975: 164, nota 1). Credo invece che Gadda avesse in mente non già l’Alessandro VI emergente da un sontuoso piviale incrostato di gemme nella Resurrezione dell’Appartamento Borgia (sala dei Misteri) – tanto più che il Pinturicchio lo raffigura di profilo, inginocchiato al cospetto del sepolcro appena scoperchiato –, bensì un dipinto a tutti gli effetti raffaellesco: il Ritratto di Leone X tra i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi della Galleria degli Uffizi, straordinariamente rispondente all’ecfrasi gaddiana, anche se restano misteriose le ragioni della sovrapposizione Alessandro VI/Leone X. È del resto significativo il fatto che nel racconto La casa (del 1935-1936; RR II 1129) Gadda faccia senza alcun dubbio riferimento allo stesso (auto)ritratto, identificandone questa volta il soggetto in Giulio II (che tuttavia nel raffaellesco Ritratto di Giulio II ha, a tacer d’altro, una folta barba): «Il viso grave e serio, sdegnosissimo e un poco cascante nella grascia e pappagorge come appo Raphael Sanzio, nella sua gran pittura, Papa Julio, mi insediai in una mia grandissima càthedra o seggiolone appezzato di damasco purpureo con li cuori».
15. SGF II 1039; e si vedano anche Pasticciaccio, RR II 271, dove Assunta ha i capelli «avviluppati neri su la fronte quasi ad opera del Sanzio» e Palazzo degli ori, SVP 969, dove l’«atteggiamento dei due volti chini e concordi» del Retalli e della bella Lavinia, «un po’ simile a quello di Maria e di Giuseppe nel dipinto di Raffaello a Brera», rinvia nuovamente allo Sposalizio della Vergine.
16. SGF II 28, 29, 34, 35. Le prime due favole apparvero nel 1939 sull’almanacco milanese Il Tesoretto (la terza, tràdita dal quaderno siglato Q1, e la quarta, inattestata nei testimoni noti, direttamente nell’edizione Neri Pozza del 1952; ricavo queste informazioni dalla Nota al testo di Claudio Vela, sempre in SGF II 903-49), gli anni cioè della Cognizione, uscita su Letteratura fra il 1938 e il 1941, ma avviata già nei mesi iniziali del 1937 (si veda la Nota al testo di Emilio Manzotti, RR I 862-65).
17. Gadda 1987a: 534-35. L’argomento, capitale, è ripreso in Psicanalisi e letteratura (che, datato 1946, riproduce il testo di una conferenza tenuta a Firenze nel 1948 ed esce su La Rassegna d’Italia l’anno successivo): «Neanisco, e biondo, riceve il noto incarico d’attorno la mensa presieduta da Giove; Anchise ed efebo accede ai penetrali di Venere, e al talamo che ne costituisce il principale “ornamento”» (SGF I 460); il passo, assente nella redazione apparsa in rivista, è fra l’altro sfregiato da una vistosa corruttela, giacché «efebo» si riferisce palesemente non già ad Anchise ma a Ganimede.
18. Sulla fortuna del mito di Ganimede nell’arte del Rinascimento si veda Il mito di Ganimede prima e dopo Michelangelo, a cura di Marcella Marongiu (Firenze: Mandragora, 2002), in part. pp. 20-33.
19. Com’è noto gli affreschi, dipinti intorno al 1517, riprendono il motivo della favola apuleiana di Amore e Psiche (Metamorfosi, IV, 28-V, 24): Cupido, bruciato dall’amore per Psiche invisa a Venere, si rivolge a Giove per impetrarne il soccorso. Si vedano in particolare i rilievi di Christoph Luitpold Frommel nel II volume di La Villa Farnesina a Roma (Modena: Panini, 2003), 109 e 111-12: Frommel osserva che la scena del bacio prosegue poi nella volta, e precisamente nel Concilio degli Dei, dove Giove ascolta Amore, raffigurato di spalle, guardandolo benignamente. Sulla Loggia di Amore e Psiche si vedano anche i recenti Raffaello. La loggia di Amore e Psiche alla Farnesina, a cura di Rosalia Varoli-Piazza (Roma-Cinisello Balsamo: Istituto Centrale per il Restauro-Silvana Editoriale, 2002), e Sonia Cavicchioli, Le metamorfosi di Psiche. L’iconografia della favola di Apuleio (Venezia: Marsilio, 2002), in part. pp. 68-83.
20. Cito dal testo critico della Favola di Amore e Psiche – premessa all’edizione dell’intero volgarizzamento – stabilito da Edoardo Fumagalli nel suo Matteo Maria Boiardo volgarizzatore dell’«Asino d’oro» (Padova: Antenore, 1988), 341 (e si confronti il testo latino delle Metamorfosi: «prehensa Cupidinis buccula manuque ad os suum relata consaviat»). Sulla fortuna iconografica della favola – legata soprattutto alla Fabula Psiches et Cupidinis di Niccolò da Correggio (Venezia, 1507) e al volgarizzamento boiardesco (la princeps veneziana risale al 1518, ma il perduto codice di dedica per Ercole I d’Este è del 1479 e quello copiato per Federico Gonzaga del 1481) – si veda Sonia Cavicchioli, Il ciclo di Psiche alla Farnesina e le prime traduzioni italiane di Apuleio. Considerazioni e proposte di lettura degli affreschi, in Fontes, 2, n. 3-4 (1999): 79-95 (a questo contributo rinvio anche per la bibliografia pregressa).
21. Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, a cura di Luciano Bellosi e Aldo Rossi, presentazione di Giovanni Previtali (Torino: Einaudi, 1991), II, 610.
22. «Hic ille est Raphael, metuit quo sospite vinci | Rerum magna parens, et moriendo mori».
23. Vasari 1991: II, 636 (mio il corsivo).
24. Dalle specchiere dei laghi, SGF I 229 (cfr. anche Meditazione, SVP 885, e Psicanalisi e letteratura, SGF I 460).
25. Il faut d’abord être coupable, SGF I 616. E sopra, Gadda 2001a : 31.
26. Cito, sulla scorta del commento di Vela (Gadda 1990: 133), dalla redazione apparsa in rivista.
27. Giovan Battista Marino, L’Adone, a cura di Giovanni Pozzi, con dieci disegni di Nicolas Poussin, nuova edizione ampliata (Milano: Adelphi, 1988), 2 voll.
28. Le osservazioni che precedono sviluppano alcuni spunti del discorso di Robert S. Dombroski sulla satira gaddiana in Gadda e il barocco (Dombroski 2002a: in part. 50-80). E si veda anche l’acuto intervento di Raffaele Donnarumma (Donnarumma 2006: 81-96, in particolare laddove nota che in Gadda la satira «è il luogo del profondo: il suo sadismo nasconde un masochismo latente, giacché l’aggressione alla vittima è l’uccisione di quella parte di sé che ne è stata complice; il riso del giudizio è regressione pulsionale; la morale, furia risentita», 94).
29. Gadda 2003b: 29-54 (41) (mio il corsivo).
30. Si veda Pedriali 1997: 147-52; e cfr. Zublena 2002b.
31. Dalle specchiere dei laghi, SGF I 228-29; e cfr. il «lento pallore della negazione» in Cognizione, RR I 703.
32. Eros, SGF II 238 (e si veda anche Primo libro, SGF II 53-54).
33. Il faut d’abord être coupable, SGF I 612. Protagonista di una ammiccante favola inedita (SGF II 953), il Sodoma, «pittor grandissimo» (si vedano anche Eros, SGF II 1039, e Palazzo degli ori, SVP 973), è rammentato, sempre nella recensione al Journal du voleur (SGF I 616, nota 1), per le Nozze di Alessandro Magno e Rossane, affresco che occupa la parete nord della camera da letto di Agostino Chigi alla Farnesina.
34. Il faut d’abord être coupable, SGF I 614; la definizione è motivata da precise, mortifere rievocazioni del mito nel Journal du voleur (Paris: Gallimard, 1949): «L’horreur de ce visage [quello di Lucien], car il me fait horreur, c’est une plongée dans mon amour pour ce gosse. Je m’y noie comme dans l’eau. Je me vois m’y noyer. La mort m’y enfonce» (256). E su egotismo/narcisismo si vedano il coevo (1950) Emilio e Narcisso, SGF I in part. 642-53, e L’egoista (1954), SGF I 654-67.
35. Una mostra di Ensor, SGF I 593. Una singolare affinità, pur nell’eterogeneità delle conclusioni, lega qui Gadda a Genet: «La culpabilité suscite la singularité (détruit la confusion) [...] Le mot voleur détermine celui dont l’activité principale est le vol. Le précise en éliminant [...] tout ce qu’il est autre que voleur. Le simplifie [...] Pourtant il est bien que la conscience de ma singularité soit nommée par une activité asociale: le vol» (Genet 1949: 258-59).
Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-15-9
© 2007-2023 Giorgio Pinotti & EJGS. Previously published I quaderni dell’ingegnere, 5 (2007): 185-195.
Artwork © 2007-2023 G. & F. Pedriali. Framed image: after a detail from Raphael and his school, Giove bacia Amore, c.1518, Loggia di Amore e Psiche, Villa Farnesina, Rome.
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