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Gadda e il Rinascimento
Francesco Paolo Botti
1. Gadda e il Rinascimento; o piuttosto, e innanzitutto, Gadda e il Controrinascimento, a norma della preliminare formula critica che ascrive l’autore al filone della letteratura maccheronica. Gianfranco Contini, come si sa, riconduceva autorevolmente zone significative della scrittura gaddiana al «calamo antico e pacificante dei Folengo e dei Rabelais», segnalando dunque «il paradosso […] e dell’arte macaronica esercitata su una materia, sia detto per più rapida intelligenza, freudiana; e della sindrome dolorosa che si cura in ricette classiche di comicità erudito-plebea». (1) Insomma, la fisionomia stilistica di uno scrittore appartenente alla costellazione della più inquieta modernità, pienamente coinvolto nell’apocalisse novecentesca delle forme, dei linguaggi, delle misure epistemologiche, non manca tuttavia di accusare ascendenze remote, e la necessità tutta contemporanea del pastiche non arriva a occultare le filigrane della sua genealogia, l’orbita lunga di una tradizione.
Lo stesso Gadda, d’altra parte, pur lamentando, in Fatto personale… o quasi (testo del 1947 compreso in quella raccolta di capitale importanza per la comprensione della sua idea di letteratura, nonché splendida testimonianza di un saggismo genialmente eterodosso, che è I viaggi la morte), la rigidità dell’etichetta in cui si è condensata la diagnosi continiana, (2) si impegna in un’appassionata perorazione a favore del gioco maccheronico e della sua «funzione etica e gnoseologica», giacché «la maccheronea polverizza e dissolve nel nulla ogni abuso che d’ogni modo e forma e del ragionare e del dire venga fatto, per entro le parole della frode» (SGF I 496). Con i suoi irriverenti arabeschi, con l’impurità oltraggiosa dei suoi impasti essa smaschera il vuoto delle convenzioni comunicative («costituisce limite, e siepe, e rete, che ricinge e assiepa e delimita l’imbecillità del concetto, e con lei quella di chi ridice, nell’ecolalia d’un ebefrenico, vane glomerazioni di parole») e la retorica altisonante dei valori; «tanto dunque, l’aborrono, i gran lucumoni del nulla: i zelatori d’ogni simulato entusiasmo». Nel divertimento letterario dei maccheronici si annida, in realtà, un principio di antagonismo conoscitivo o, almeno, un’istanza di controllo critico, di demistificazione delle sovrastrutture falsificanti che ordinano la visione corrente del mondo. Fecondato da una materia vitale di impulsi e tensioni collettive, il loro linguaggio può acuminarsi in un’intensità estrema di segni e di colori da cui appare ristabilita la verità originaria e magmatica del vivere:
Dire per maccheronea è più tosto un deferire che un reluttare, al sentimento dei molti: è interpretare e vivere anzi che rompere anziché dimenticare il meccanismo della fluente conoscenza, della descrizione e catalogazione dell’evento. Maccheronea non è, in quel punto, un esercizio barocco d’una prezioseggiante stramberia, ma desiderio e gioia del dipingere al di là della forma accettata e canonizzata dai bovi: è gioia dell’attingere agli strati autonomi della rappresentazione, all’umore freatico delle genti, atellane o padane che le fossero, delle anime. Il Cocai eguaglia e talvolta supera in una stupefacente sintassi descrittiva l’Ariosto minore: a certi momenti potrebbe richiamare il Mantegna. (SGF I 499)
Gadda insiste ad ancorare la stravaganza maccheronica a uno sfondo di radici antropologiche, folcloriche, capaci di promuovere l’estro ludico a veracità di una rappresentazione che si inabissa nelle regioni profonde (l’«umore freatico delle genti»), nelle ragioni autentiche dell’umano. Alle contaminazioni plurilinguistiche degli anticlassicisti, in cui la raffinatezza della parodia si fonde con l’intuizione vigorosamente giusta del sentire popolare, arride il privilegio della profondità, il dono, cioè, di riuscire a cogliere quel misto segreto di allegria e malinconia che fermenta sotto la superficie dell’esistenza, dove non arrivano, invece, i moduli canonici dell’«apparato rinascimentale», le figurazioni troppo impeccabilmente improntate a un ideale fittizio di decoro e di armonia:
Dire per maccheronea è dunque, talvolta, un adeguarsi al comune modo e gusto, un rivendicare e un risolvere le istanze profonde contro i piati stanchi, un immergersi nella comunità vivente delle anime, un prevenirne o un secondarne in pagina l’ingenito impulso a descrivere, la volontà definitrice del reale, per allegri segni. Tenui sfumature, sottili vincoli o precipitati trapassi, dalla satira alla maccheronea. Dalla malinconia alla maccheronea. In un senso ampio ed alto, resultano maccheronici dopo che lirici i grandi lombardi contro l’apparato rinascimentale: il Fossano, il Foppa, il Moretto, l’allucinante violenza del Caravaggio: i Fiamminghi della descrizione, del catalogo: l’animismo folle d’un Bosch. (SGF I 498-99)
2. Superficie vs profondità, dunque; l’esangue tessitura delle immagini convenzionali scompigliata dalla sapienza antica del riso, in cui si riverberano, poi, le lacerazioni della carne, la violenza della miseria e del dolore; la retorica sublimante dell’apparato, (3) insomma, contro l’indecenza impavidamente veritiera dei maccheronici, a cui Gadda collega la propria poetica di rivendicatore delle «istanze profonde»: uno schema oppositivo – costantemente prediletto dal suo discorso critico – che induce l’autore a privilegiare, rinvenendovi le radici culturali e la legittimità stessa della sua vocazione, i versanti eretici dell’antirinascimento, le esperienze letterarie più lontane da ogni conciliazione umanistica, quelle segnate dall’ibridismo, dalla contraddittorietà, dal disincanto.
Se «una felice espressione o dizione […] si raggiunge, a quanto sembra, più veramente lungo i misteriosi cammini di una sintesi inconscia, che non per grammaticali o lessicologiche deliberazioni», ecco, intanto, la proiezione cinquecentesca della propria irregolarità e perfino, si direbbe, del movimento aperto, impremeditato, eccentrico di una scrittura modernamente disancorata dalla coerenza e dalla stabilità del logos: «Certe inimitabili pagine del Cellini, che cozzano a piene corna, stupendamente, contro ogni preventivo» (Lingua letteraria e lingua dell’uso, SGF I 489). «Contro ogni preventivo»: quasi lo stemma della traccia obliqua, erratica (nonché dei continui effetti di straniamento) del narrare gaddiano. Ma il fascino che esercita su di lui l’«affabulazione […] estrosa, discontinua, imprevedibile» (Roscioni 1997: 222) delle memorie celliniane confluisce forse in quella disposizione umoristica che Gadda calcola fra le sue maniere fin dalle prime battute del Racconto italiano (avviato nel 1924), dove già figura una menzione di Cellini, che, «artista squisito nella scultura, e megalomane millantatore nella “Vita”, ci diverte e ci interessa» (SVP 479). Roscioni, anzi, giudica «inequivocabilmente umoristici (nel senso genuino della parola, cui Dossi scrupolosamente si era attenuto) […] alcuni tratti non secondari del Racconto» (Roscioni 1997: 222); e il riferimento è alla nozione autentica dell’umorismo come commistione di umori, e pertanto di tonalità espressive e registri stilistici, dissonanti, a cui, secondo la nota azzurra 2416, ha forse apposto il sigillo più emblematico Giordano Bruno: «Il motto di Bruno era, “in tristitia hilaris, in hilaritate tristis” che potrebbe essere il motto dell’Umorismo». (4)
Giordano Bruno – l’«Arrostito», come antonomasticamente ama chiamarlo – è appunto un’altra delle grandi icone del Rinascimento gaddiano, un’autorità che lo scrittore, sulla soglia del secondo libro, il Castello di Udine (del 1934), convoca con familiare rapidità a testimone del più acuto strazio autobiografico («“Umbra profunda!”, diceva di sé l’Arrostito»), (5) ma sotto la cui egida, certo sfocata e indiretta, si collocano già le «asinerie» goliardiche degli anni giovanili, cioè le stravaganze linguistiche che costituiscono il gergo degli amici «divini», ai tempi del Politecnico. (6) Nell’incompiuta Novella 2.ª, ovvero Dejanira Classis, del 1928 Gadda accenna ai «“suspir, lacrime, rizzamenti” di che il grande Arrostito diceva consister l’insania amorosa», (7) citando sinteticamente dal Proprologo del Candelaio, (8) brano che nella sua integralità rispecchia in maniera esemplare una tendenza al parossismo dell’espressione, all’oltranza torrenziale del catalogo (spesso sollecitata dal gioco delle associazioni foniche, dalle istigazioni del significante), alla perfidia parodistica, al pastiche, da cui si sarebbe indotti finanche a indicare proprio un’ascendenza bruniana nella poligenesi dello stile dell’Ingegnere.
D’altronde, non manca qualche caso di – probabile – riecheggiamento puntuale, come suggerisce l’acribia di Emilio Manzotti a proposito di un passaggio, emblematicamente dedicato alla vicenda degli umori, della Cognizione: «Gonzalo, in quel suo essere a diagramma pendolare con elongazione spinta, fatto d’un alternarsi di umori contrarî, d’un succedersi di stati d’animo opposti, ora saturnino ora dionisiaco ora eleusino, ora coribàntico…». (9) Ma occorre ancora sottolineare come il sapore gaddiano (per usare un paradosso alla Borges) della pagina della Cena de le ceneri cui lo studioso rinvia, soprattutto risieda, al di là delle concordanze lessicali o tematiche, nella tensione verbale che la gremisce, insomma nello stile della pluralità e dell’accumulo, nella dismisura dell’elenco. E un altro, particolare, stilema sembrerebbe accomunare, lungo il percorso secolare della scrittura umoristica, Gadda a Bruno: quello della precisione iperbolica e della minuzia ironicamente ostentata, sul tipo, ad esempio, delle «vecchie, con sei e perfino sette denti in bocca» (Gadda 1987a: 329), degli «otto architetti, tutti e otto razionali, maestri nel disegnar rettangoli; quattordici laureati in scienze economiche, un notaio, due dentisti, trentatre ingegneri elettrotecnici e cinquantacinque studenti d’ingegneria e d’elettrotecnica», o delle «quarantadue suocere ancora potabili (secondo loro)» e delle «diciannove bisnonne ottantaquattrenni» (Adalgisa, RR I 462-63). A questi specimina gaddiani potremmo infatti accostare un passo come questo dello Spaccio de la bestia trionfante:
Ha ordinato [Giove], che oggi a mezzo giorno doi meloni, tra gli altri, nel melonaio di Franzino sieno perfettamente maturi […]. Vuole ch’al medesimo tempo dalla iuiuma […] trenta iuiomi sieno perfetti colti, e diece sette caggiano scalmati in terra, quindeci sieno rosi da’ vermi. Che Vasta, moglie di Albenzio, mentre si vuole increspar gli capelli de le tempie, vegna, per aver troppo scaldato il ferro, a bruggiarne cinquanta sette […]. Che dal sterco del suo bove nascano ducento cinquanta doi scarafoni, de quali quattordeci sieno calpestati ed uccisi per il piè di Albenzio, vinti sei muoiano di rinversato, venti doi vivano in caverna, ottanta vadano in peregrinaggio per il cortile, quarantadoi si retireno a vivere sotto quel ceppo vicino a la porta, sedeci vadano isvoltando le pallotte per dove meglio li vien comodo, il resto corra a la fortuna. A Laurenza, quando si pettina, caschino diece sette capelli, tredeci se gli rompano… (10)
Un passo – si badi – riportato nell’Umorismo di Pirandello (Pirandello 1986: 119-20), autore che probabilmente rappresenta su questa linea un punto di snodo e di mediazione importante, ma di cui varrebbe forse la pena di approfondire la complessiva incidenza su alcuni caratteri della posizione gaddiana, se, ad esempio, già una metafora significativa, e di intonazione bruniana, come quella della «credulità tolemaica» (11) corrisponde, specularmente, alla vertigine copernicana della modernità dichiarata dalla Premessa seconda del Fu Mattia Pascal. Bachtin si è soffermato sull’«utilizzazione carnevalesca dei numeri» in Rabelais, nel quale «tutte le quantità espresse in cifre sono enormemente esagerate» e «l’effetto comico ha la pretesa di esattezza (anch’essa eccessiva) in situazioni in cui un conto esatto sarebbe, in genere, impossibile»; soprattutto, l’«asimmetria» delle cifre, che «deviano chiaramente dalle cifre equilibrate, solide, serie e compiute» e invece «sono inquiete, a doppio senso, incompiute», «riflette […] la struttura di tutto l’universo rabelaisiano. Con delle cifre simili non è possibile costruire un universo armonico e compiuto». (12) Tra Bruno e Rabelais, tra Pirandello e Gadda, umorismo e maccheronea si confondono per convergere verso la stessa immagine di un mondo aperto, disarmonico, copernicano per l’appunto, a cui solo una scrittura dai tragitti sghembi e centrifughi, instabili e divaganti, plurali e incompiuti può tentare di alludere. (13)
Ma forse, nella prospettiva gaddiana, l’umorismo di Bruno condivide con le deformazioni maccheroniche anche l’istinto coraggioso di una veridicità totale e diretta, senza riserve o edulcorazioni, se dietro il proverbiale «pane il pane e vino il vino» (14) (in cui con prosaica immediatezza il giovane Gadda condensa il mito programmatico dell’assoluta sincerità) (15) si nasconde magari anche un ricordo dell’Epistola esplicatoria dello Spaccio:
Qua Giordano parla per volgare, nomina liberamente, dona il proprio nome a chi la natura dona il proprio essere; non dice vergognoso quel che fa degno la natura; non cuopre quel ch’ella mostra aperto; chiama il pane, pane; il vino, vino; il capo, capo; il piede, piede… (16)
3. Nella genealogia rinascimentale che Gadda tende a procurare a questo motivo – affatto decisivo e fondante per la sua idea di letteratura – della verità radicale, della Cognizione (17) antiretorica, spietatamente smascherante, non può certo mancare, infine, un autore come Machiavelli. L’attitudine ad inoltrarsi impavidamente nelle province più ingrate della realtà umana, a smentire ogni giudizio stereotipato e rovesciare le impalcature dei falsi valori, è l’elemento che connette alla sconvenienza popolareggiante del maccheronico e al filosofico umorismo di Bruno l’indagine del «nihilismo fiorentino, sbocco del nostro Rinascimento» (Racconto italiano, SVP 597, n. 1). In un’intervista ad Arbasino l’Ingegnere dice di avere avuto «interessi culturali e letterari e di giudizio storiografico… per gli storici letterati… la potenza d’espressione, il senso della verità… Guicciardini, Machiavelli, Jacopo Nardi…» (Gadda 1993b: 96). Machiavelli, espressamente calcolato come modello di scrittura, compare in cima all’«elenco delle letture da fare per la redazione del romanzo», ossia del Racconto italiano, nel marzo del ’24: «1. Machiavelli. Stile, vedere un po’» (SVP 573). E un appunto del mese successivo conferma, nel laboratorio del Cahier, l’attenzione minuziosa alla fenomenologia delle scelte espressive, l’itinerario di una lettura avidamente pronta ad estrarre dalle opere del segretario fiorentino stilemi e movenze da ricalcare: «Leggendo le “Storie Fiorentine” di N. Machiavelli. – Con questi pensieri si morì»; con la frase machiavelliana che va immediatamente a nutrire l’attacco di un abbozzo narrativo: «Con questi grandi pensieri morì e il suo corpo…» (SVP 580). In effetti, pure in seguito si incontrano richiami specifici ad usi lessicali e locuzioni tipiche di Machiavelli, a testimonianza di una frequentazione assai stretta dei testi e di un ascolto delle caratteristiche del loro linguaggio, anche le più puntiformi, in cui vibra sempre la tentazione del pastiche, del recupero manieristico: così, in una nota della Meccanica si legge che la guerra del 1915-18 «fu combattuta come alcuni ancora ricordano “in su’ passi” per usare il detto del Machiavelli». (18)
Ma la desiderata consonanza con lo stile di «messer Nicolò amaro» (Eros, SGF II 224) viene in fondo a situarsi, per Gadda, in una dimensione ben più essenziale di quel che comportino più o meno sporadiche suggestioni mimetiche (quali possono essere sottese, ad esempio, all’ideazione di Eros e Priapo nelle «forme di un trattatello cinquecentesco, modulato su un fiorentino arcaico, aulicizzante»): (19) una dimensione, diremmo, conoscitiva, metodologica, in cui lo stile significa il rapporto dello scrittore con la materia della propria rappresentazione e traduce il senso, la qualità, la portata del suo dominio sugli oggetti evocati, l’orizzonte nel quale l’ordine delle sue parole si misura con il disordine delle cose. In varie occasioni saggistiche gli accenni a Machiavelli configurano, costante, l’immagine di un testimone audacemente immerso, contagiato dalla violenza della storia, compiaciuto quasi sadicamente per la ferocia di azioni come, appunto, «la iugulazione di Vitellozzo Vitelli e di Oliverotto Ufreducci ad opera del caro Valentino e alla gran cuccagna di messer Niccolò» (Carabattole a Porta Ludovica, SGF I 310). E ancora, in chiave di pastiche: «Il Valentino gli riuscì daddovero strangolare le sue vittime, nelle cave della rocca di Senigallia, suscitando l’ammirato e incondizionato plauso di messer Niccolò». (20) La psicografia del Machiavelli affascinato dalla crudeltà dei suoi eroi sembra sottilmente alludere, però, a un problema di stile, ovvero alla necessità, per chi scrive «nel tempo della povertà», di inabissarsi nel caos o nel male della società circostante, di frequentarne la patologia, di contaminarsi dei suoi segni negativi per decifrarla, conoscerla autenticamente, rappresentarla. Dal momento che – come Gadda afferma, introduttivamente, in Come lavoro – «l’uscire indenni dal sabba non ci è dato» (SGF I 429), la distanza, l’illusione dell’immunità, di una demiurgica limpidezza producono soltanto semplificazione, falsificazione, purificazioni fasulle del Pasticciaccio. A questa ragione costitutiva del maccheronico gaddiano contribuisce dunque esemplarmente anche la lezione di Machiavelli. Nella prosa inaugurale della prima parte del Castello di Udine, Elogio di alcuni valentuomini, la memoria bruciante della guerra che sfocia in «un giudizio universale della scrittura» (Pecoraro 1998a: 59) si rivolge alla veridicità tremendamente demitizzante di Machiavelli:
Leggere anche «Il Principe» ed anche «I Discorsi» – senza andarlo a raccontare ai luterani, che ci farebbero su la solita cagnara. Se certi valentuomini avessero letto il Principe! […] Leggendo certe pagine del Principe non si riesce quasi a capire se sono verità o ferocia o spasimante ironia. Forse i tre termini sono uno solo, fuori dal minestrone dei miti. Navigare nella minestra, ma cercar di capire come è fatta. (Castello, RR I 130)
La dissacrazione dei simboli luminosi e delle finzioni ideologiche di cui si ammanta ingannevolmente la superficie dei rapporti umani, lo svelamento della loro scena sotterranea richiedono una discesa impura nel magma delle cose, la contaminazione di una parola che arditamente navighi nella minestra, che attraversi e si lasci infettare, per testimoniarla diagnosticarla dominarla, dalla degradazione della storia. Il metaforismo alimentare attira Machiavelli nel cerchio della maccheronea gaddiana come destino di una scrittura che si assume nell’impurità delle sue figure l’onere di un mondo disgregato e sconvolto, rinunziando a ricomporne la confusione nelle misure di un ordine posticcio o inadeguato. «Navigare nella minestra, ma cercar di capire come è fatta»: potrebbe davvero essere l’emblema riassuntivo, l’epigrafe più giusta di tutta l’opera di Gadda.
Questo Machiavelli che scende alle radici della violenza o della corruzione, che scruta spregiudicatamente le pulsioni elementari e segrete insieme dell’agire coperte dal «minestrone dei miti», dalle «parole della frode», ricompare in un intervento del 1954 in cui Gadda, anche straordinario recensore di spettacoli teatrali, dà un’interpretazione decisamente politica della Mandragola, che «ha in sé tali elementi di rappresentazione del costume e conseguentemente di scandalo (“oportet ut eveniant schandala”) e di delazione, se non proprio di satira fustigatrice, da inserirsi palesemente in quella che potremmo chiamarla la “farmacopea eccellente: la farmacopea, diciamo, della consapevolezza e della chiaroveggenza umana”» (La Mandragola filtro di giovinezza, SGF I 1091-092):
Il Machiavelli ha saputo estrarre dal suo spirito amaro e beffardo, dalla sua spietata curiosità di osservatore fiorentino, dal suo civismo deluso e dalla sua statolatria di funzionario e di filosofo e di teorizzatore politico mal confortato dagli eventi, ha saputo estrarre una sorta di commedia irrisoria che non è frequente nel repertorio comico per la semplice ragione che non è neppur comica e non è nemmeno umoristica. La Mandragola è una satira teatrale, una beffa cattiva maturata sul palcoscenico. (SGF I 1092)
E più avanti:
Il Machiavelli ha visto, ha voluto vedere, anche sulle scene della Mandragola, gli impulsi realmente operanti nel costume e nella società del suo tempo; li ha visti nell’amarezza e forse nella disperazione dell’utopista politico, dell’uomo indubbiamente acceso da una vigorosa, da un’autentica «passione civile». (SGF I 1093)
Come già per i maccheronici, anche riguardo a Machiavelli Gadda enuncia l’antinomia cruciale, immanente alla sua poetica, di una verità del profondo, che può essere pure orrore, da scoprire sotto la superficie delle retoriche imperanti, da proclamare contro l’ipocrisia delle pretese virtù:
La satira non raggiunge tanto le instituzioni o gli instituti nella loro maestà o santità, quanto le condizioni di inefficienza, di invalidità in cui vengono a ritrovarsi per lo svuotamento, per la stanchezza di un ambiente, di un milieu: e d’altra parte, per la verbosa ipertrofia di un’etica destinata a campare sulle parole. Il Machiavelli raggiunge e scalza la radice della realtà, le operose quand’anche malvage radici dell’uman vivere: sotto il drappeggio dei simboli di superficie gli impulsi veri, i succhi vitali e malefici ad un tempo che allacciano le ragioni della vita alle non-ragioni della morte. (SGF I 1093-094)
La «radice della realtà», le «radici dell’uman vivere» in opposizione ai «simboli di superficie», appunto. Nel Rinascimento che predilige Gadda ritrova, e proietta, quel metodo della conoscenza radicale su cui fonda il suo operare di scrittore. (21) Tuttavia, bisognerà rimarcare, in conclusione, che, almeno per un punto importante, e proprio sul piano epistemologico, la validità del modello machiavelliano risulta agli occhi di Gadda insufficiente, incapace di soddisfare fino in fondo la modernità della sua posizione. Nella Meditazione milanese, alla luce della teoria del groviglio infinito di relazioni, della propria «aggrovigliata filosofia» (SVP 811), egli formula un’esplicita obiezione di parzialità conoscitiva nei confronti dell’autore cinquecentesco:
«[…] Altra idea centrale sul metodo […] riguarda quella che io chiamo “la sensazione della complessità”. Troppo poveramente si schematizza, troppo arbitrariamente si astrae dal monstruoso groviglio della totalità […]. Vi sono filosofi che hanno trascurato completamente delle intere regioni dello spirito e che rivolgendo il loro interesse su obbietti troppo parziali hanno poi allontanato sé e li altri da una più vasta regione o da una meditazione più proficua». Il critico: «Citatemi un nome». Rispondo: «L’intelligentissimo e a me caro Niccolò Machiavelli, meraviglioso scrittore, di fronte a cui tanti altri sono dei meschini e zoppicanti e reumatizzati pasticcioni. Così certi animosi detrattori del Machiavelli, che si ostinano a non vedere ciò ch’egli vide». (22)
4. Le varie facce del Rinascimento gaddiano esaminate fin qui confluiscono, al di là delle differenze e specificità certo non cancellabili, in una fisionomia comune all’insegna, si diceva, della rappresentazione crudamente autentica di una realtà profonda del vivere sottratta alle menzogne edificanti della società, alla mistificazione dei valori ufficiali. Ma Gadda ha sempre pensato che «le discipline obedienziali della penna conoscono molte vie» (Fatto personale… o quasi, SGF I 499). Il demone nativo della pluralità lo sospinge pertanto ad amare, appropriandosene, anche un altro Rinascimento, quello dei meravigliosi poemi. Anzi, Ariosto rientra nel canone supremo degli autori idolatrati: «Io ho avuto nella mia vita un amore idolatra per Cesare, per Dante, per l’Ariosto, per lo Shakespeare…». (23) L’autobiograficissimo protagonista della Cognizione non chiede che di «potersi centellinare in santa pace il suo Ariosto, in letto, il suo Boccaccio» (Gadda 1987a: 212). Numerose sono nelle opere gaddiane le citazioni di episodi e versi ariosteschi. Alle figurazioni dell’Orlando furioso, lo «stupendo poema» (SGF I 838), lo scrittore attinge di frequente per nobilitare un passaggio narrativo o il giro di una riflessione critica; ma non deve trattarsi di un semplice vezzo da letterato di vecchio stampo, se memorie e paragoni del genere s’incuneano perfino nella testimonianza traumaticamente diretta del Giornale di guerra e di prigionia: «Io vedo la divina città [Venezia] esposta alla bassezza del furore nemico come Ruggero vide Angelica bianca e nuda esposta alla fame dell’Orca, mentre il flutto dell’oceano artico le lambiva i piedi marmorei». (24) Del resto, il rimando è fatto talora in maniera meno casuale ed esornativa, conforme a una concezione della letteratura come mitografia dell’umano, repertorio di immagini rivelatrici delle costanti segrete della psiche: «Il mito stesso di Venere e Adone, il favolello ariostesco dell’Angelica e di Medoro, hanno un innegabile e delicatissimo semi-contenuto edipico: l’amante è un po’ madre-amante» («Agostino» di Alberto Moravia, SGF I 609).
Ma ciò che soprattutto emerge in queste occasioni è la chiave tendenzialmente sublime, liricizzante della lettura di Ariosto. Nel racconto La Madonna dei Filosofi il personaggio di Emilio, figlio di commerciante con il vizio, il «malvezzo», della poesia che muore poi in guerra (personaggio, quindi, dalle evidenti implicazioni autobiografiche, in quanto «compendia […] le figure di Carlo Emilio Gadda e del fratello Enrico», Pecoraro 1998a: 44), nella fanciullezza aveva «una sfrenata passione per i romanzi e l’Ariosto, che lesse nove volte in due anni» (Madonna dei Filosofi, RR I 77). Ed ecco l’epicedio che gli tributa il rimpianto dell’amata:
Maria rivedeva gli anni sfiorarla, i fuggenti anni, e ricordava il tempo di ogni dolcezza e di ogni rimpianto, il tempo del passato. E vedeva un ragazzo biondo, assorto, la cui giovenile mano aveva scritto per lei ogni parola d’amore e poi comandato li assalti nella cenere delle battaglie, davanti a’ baleni del Gòlgota buio. Non sapevano dove, né come si fosse dilontanato. Nessuno sapeva. Non aveva recato con sé medaglie, né un fiore: né alla notte aveva chiesto ribevere un attimo i tremanti baci di giovinezza, ché quelli solo avea conosciuto cui Doralice e Fiordiligi e Fiammetta così fervidi ebbero sulla lor bocca, dai donzelli loro: e sono gioia o pianto o sogno o canto infinito nella dedàlea fuga de’ meravigliosi poemi. (RR I 102)
L’universo dei meravigliosi poemi è acclimatato, come si vede, a un contesto di lirismo estremo. La temperatura estaticamente evocativa, da poème en prose, della pagina, tra pathos elegiaco, registro iperletterario e vaghezza di cadenze, riceve il suggello della sognante nobiltà delle eroine e dei donzelli ariosteschi, che sembra come venarsi di tutta la malinconia (il pianto) della sua irrealtà e si lascia perciò agevolmente attrarre in un’aura patetica di giovinezze fuggevoli e di illusioni lacerate; così come la suggestione indefinita dei ripetuti plurali – «il plurale dei simbolisti», adibito a «suggerire contorni nebbiosi, estensioni indeterminate», nell’ambito di «una lingua interiorizzata e immateriale» (25) – si adempie nel plurale, appunto, dei meravigliosi poemi. (26) L’Ariosto di Gadda viene insomma a simboleggiare una latitudine di sogno che può essere anche, nella coscienza donchisciottesca di Gonzalo, «l’ultimo hidalgo» (Gadda 1987a: 99). (Cervantes, come si sa, è un altro degli idoli gaddiani), nostalgia di antiche idealità, quasi di una gentilezza e di un’innocenza perduta del mondo. (27)
Nel saggio I viaggi, la morte, eponimo della grande raccolta data alle stampe nel 1958, a introdurre il discorso sul «destino tragicamente spaziale» (SGF I 581) dei simbolisti, ovvero su Le voyage di Baudelaire e Le bateau ivre di Rimbaud, è chiamato non a caso Ariosto, paradigma del gioco fantastico svincolato da qualsiasi responsabilità morale («sembrano essere i sognatori alquanto discosti dalla vita etica: parliamo di gente che scrive, in quanto scrive: l’Ariosto era un bravissimo uomo», SGF I 562):
La fuga di Angelica può indifferentemente seguire o precedere la tempesta che getta Olimpia e il suo amante nell’isola sola. Basta che Medoro compia i diciotto anni, che una lieve peluria gli fiorisca il labbro e la gota. Il campo a Parigi e la battaglia sono necessari perché Zerbino lo possa inseguire poi e ferire, ma la data di tale battaglia non è ariostescamente memorabile.
Il sogno sottrae i suoi eventi alle riprove categoriche della realtà. Nel non essere del sogno ci è consentito dimenticare i vincoli onde la realtà grava ogni singolo fatto […].
La distruzione di questi vincoli fa che l’inesorabile imperio del tempo venga nel sogno eluso e come dimenticato a sua volta. (SGF I 561)
Ma l’eclissi della misura etica del tempo («chi pensa che il tempo fluisca, che la vita si compia e vanisca nel tempo, al leggere l’Ariosto od il Salgari?», SGF I 561) lascia agli attossicati discendenti moderni della stirpe dei sognatori, Baudelaire e Rimbaud, la cenere e lo sgomento del non-vivere («Sognare, sognare! Non è vivere. E, come dentro di noi una voce comanda, che si abbia a vivere, così chi vuole soltanto sognare […] avrà cenere soltanto e sgomento», SGF I 573), li precipita in «un tragico nulla»:
Sembra dunque acquisito al dramma che il puro sogno, la corsa nello spazio puro, ci consegnano ad un tragico nulla. Il dramma che nell’Ariosto brav’uomo non c’è, perché è portato all’infuori dei casi di sua vita, che nel Furioso non c’è, perché è portato lungi alla materia e alla tecnica del poema; che c’è nella vita d’una nazione, nella storia d’un popolo; il dramma, nel caso studiato, inerisce alla persona storica del poeta. (SGF I 572-73)
Il dramma di Baudelaire o di Rimbaud è, almeno in parte, anche quello dell’autore, (28) coinvolge la conflittualità della sua esperienza, l’attrito fra le contrastanti tensioni culturali, ideologiche, compositive che la percorrono, fra, ad esempio, l’aspirazione a un’eticità, a una positività civile del fare letterario nella linea dei “Lombardi in rivolta” studiati da Isella e il nichilismo, il «tragico nulla», degli ideali scherniti dalla «ferocia delle cose» (secondo l’espressione del Pasticciaccio). Ma, come abbiamo ormai più volte constatato, Gadda non smette, quasi umanisticamente («il senso del passato inteso come necessario supporto della nostra efimera contribuzione alla conoscenza», SGF I 909), di commisurare lo scenario della modernità che lo intride e il significato del proprio lavoro di scrittore nelle sue più decisive traiettorie agli emblemi della tradizione, ora Ariosto come prima Machiavelli o altri, riconducendo a un’araldica rinascimentale, nella rilevante fattispecie che qui ci interessava, le prospettive di una ricerca saldamente, originalmente piantata nel cuore del Novecento.
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Note
1. Contini 1989: 19. Ma l’impostazione continiana del problema Gadda rimonta, come si sa, al Primo approccio al «Castello di Udine», del 1934, a cui era seguito, nel ’42, Carlo Emilio Gadda traduttore espressionista (Contini 1989: 3-10 & 55-60).
2. «Anni sono il Contini ha rilevato, nel corso d’una caritatevole perizia, ha sorpreso nell’atto della ingredienza ad opera quel tanto di macaronico cioè di deformante il simbolo idiomatico, o deforme con esso, di che la mia scrittura s’intride: e con lei la mia anima. D’un così chiaro e giusto giudizio, che si restringeva, suppongo, a determinate modulazioni e a determinati passaggi e del testo e dell’anima, germinò poi una fogliolina e cioè la schedula della quale mi trovo oggimai etichettato nel casellario dell’opinione, in misura troppo rudemente collocativa» (Fatto personale… o quasi, SGF I 495).
3. Che nei casi estremi può essere addirittura vaniloquio, sterile rito colpevolmente cieco di fronte alla tragedia della storia: «Un conto è disseppellire Cicerone e scrivere la Canzone alla Vergine, o trattati di geografia; un conto è scrivere gli esametri dell’Affrica, o chiamarsi Lorenzo Valla, o Marsilio Ficino, o anche Giovanni Pontano e contraffare il latino del De officiis alla Poggio Bracciolini; e un altro, un ben altro e miserevole conto è sbrodolare sopra un popolo di melensi imbecilli, incapaci d’ogni originalità dell’anima e della coscienza, squadroni di endecasillabi beoti con dodici sillabe e incartapecorirsi così per tutta l’eternità. L’Italia liberata dai Goti! Ah! Peccato che mentre un così nobile poema in endecasillabi, santissimo sacramento, veniva dato alle stampe un sifilitico la conquistasse con ottanta cavalli» (Racconto italiano, SVP 592).
4. C. Dossi, Note azzurre, a cura di D. Isella (Milano: Adelphi, 1964), 197; ma si veda anche p. 188, n. 2381. La considerazione si riaffaccia, quasi con le stesse parole, nell’Umorismo di Pirandello (Milano: Mondadori, 1986), 118.
5. Castello, RR I 119. E lo stesso «motto bruniano», «la più dolorosa conclusione alla quale possa pervenire un indagatore», ritorna nel racconto La casa, RR II 1124.
6. Cfr. Roscioni 1997: 98 sgg., il quale ricorda che «la matrice umanistico-rinascimentale del concetto di “asineria” è indubitabile» e che «punto di riferimento decisivo in un discorso come questo è, naturalmente, Giordano Bruno»; ma «che degli studenti di ingegneria avessero familiarità con l’impervia prosa di Bruno stentiamo a crederlo: Gadda ne sarebbe diventato in seguito un attento lettore, ma non penso che in quegli anni la frequentasse. Per avere qualche idea della “divina asinitade” bruniana non era però necessaria una conoscenza di prima mano della Cena delle ceneri o della Cabala. I nostri studenti ne avranno colto più o meno consapevoli echi in scrittori recenti di vocazione menippea o umoristica come Dossi; oppure, più facilmente, in fogli che correvano allora in tutte le mani» (101).
7. Dejanira Classis (Novella 2.ª ), RR II II 1039. E vari accenni al «sommo Giordano Bruno (tacciato dai gravi filosofi di essere un fantasioso e dilettantistico meridionale)» ricorrono nella contemporanea Meditazione milanese (a una cui nota appartiene il giudizio appena virgolettato, SVP 1355).
8. «Vedrete in un amante suspir, lacrime, sbadacchiamenti, tremori, sogni, rizzamenti, e un cuor rostito nel fuoco d’amore; pensamenti, astrazioni, colere, maninconie, invidie, querele, e men sperar quel che più si desia. Qui trovarrete a l’animo ceppi, legami, catene, cattività, priggioni, eterne ancor pene, martiri e morte; alla ritretta del core, strali, dardi, saette, fuochi, fiamme, ardori, gelosie, suspetti, dispetti, ritrosie, rabbie ed oblii, piaghe, ferite, omei, folli, tenaglie, incudini e martelli; l’archiero faretrato, cieco e ignudo; l’oggetto poi del core, un cuor mio, mio bene, mia vita, mia dolce piaga e morte, dio, nume, poggio, riposo, speranza, fontana, spirto, tramontana stella, ed un bel sol ch’a l’alma mai tramonta; ed a l’incontro ancora, crudo cuore, salda colonna, dura pietra, petto di diamante, e cruda man ch’ha chiavi del mio cuore, e mia nemica, e mia dolce guerriera…» – G. Bruno, Il candelaio, in Commedie del Cinquecento, a cura di N. Borsellino (Milano: Feltrinelli, 1967), II, 308-09.
9. Gadda 1987a: 217. Ed ecco la nota di Manzotti: «Non impossibile una parziale ripresa della catena di antonimi (“credente, mescredente; gaio, triste; saturnino, gioviale; leggiero, ponderoso; canino, liberale; simico, consulare, ecc.”) che nella Proemiale Epistola della Cena di Bruno circoscrive la polimorfia del convito».
10. G. Bruno, Spaccio de la bestia trionfante (Milano: Rizzoli, 1985), 144-45. E poco prima Mercurio dice: «La tua orazione mi giunse a tempo ch’io ero già ritornato da l’inferno, a commettere nelle mani di Minoe, Eaco e Radamanto ducento quarantasei milia cinquecento e vinti due anime» (143).
11. «L’io rappresentatore-creatore veduto nella sua saldezza, e nella fissità centrica che è propria di quel cavicchio ch’egli è, circonfuso d’un tempo stolido e inerte, a versar luce nella tenebra come riflettore nelle paure della notte, è idolo tarmato, per me. Codesto bambolotto della credulità tolemaica, in ogni modo, non ha nulla di comune con la mia identità di ferito, di smarrito, di povero, di “dissociato noètico”» (Come lavoro, SGF I 431). E si noti, nell’Egoista (del 1953), l’allusione a Freud, «Copernico della psicologia» (SGF I 662).
12. M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare (Torino: Einaudi, 1979), 510-12.
13. D’altro canto lo sberleffo dell’esattezza inverosimile, del dettaglio incredibilmente infinitesimale si direbbe anche un modo di ironizzare qualunque pretesa di serietà mimetica, di contestare, in fondo, l’idolo teorico del realismo come riproduzione integrale e assolutamente fedele delle cose.
14. «Dilucidare questo argomento [della femminilità] con la lettura di Weininger, che comprerò, e con i Greci: (Nicomachea). Essi hanno chiamato pane il pane e vino il vino» (Racconto italiano, SVP 463). E poche pagine dopo: «Verlaine e più anche Baudelaire dicono di sé pane il pane, vino il vino, merda la merda. Ma se cominciassero “Collo ho fier petto robusto viso aperto ecc.” che torsoli dalle gremite basiliche della terra!» (SVP 481, n. 1).
15. Al punto che Pane il pane, vino il vino è uno dei titoli proposti dall’autore, in una lettera a Carocci del 27 dicembre 1928, per quella che sarà, invece, La Madonna dei Filosofi (Rodondi 1988a: 790).
16. Bruno 1985: 70. Anche questo brano è citato nell’Umorismo (Pirandello 1986: 119).
17. Manzotti, nell’Introduzione alla sua edizione critica della Cognizione, osserva che «il sintagma del titolo germina sintatticamente e semanticamente nei territori classici del Machiavelli dei Discorsi (cfr. nel Proemio al Libro Primo la “vera cognizione delle storie”, la “cognizione delle antiche e moderne cose”, la “cognizione delle istorie”; o ancora nel Proemio al Libro Secondo la “intera cognizione di esse [cose]” e in I, 2 la “cognizione delle cose oneste e buone”)» (Manzotti 1987a: ix). E si legga la glossa di Contini 1989: 38-39 sulla Cognizione: «eccentrica fin dal titolo (di cui il Manzotti rintraccia bene l’etimo cinquecentesco, e che è perciò da considerare a modo suo un “macaronema” in settore grave)».
18. Meccanica, RR II 561, n. 4. Ancora in una nota, a Fatti e miti della Marsica nelle fortune de’ suoi antichi patroni, nella raccolta Le meraviglie d’Italia, quest’altra postilla linguistica: «Oppressati per vinti o, peggio, tolti di mezzo è vocabolo dell’epoca e del Machiavelli in ispecie» (SGF I 143).
19. Ferrero 1972: 84. Ricordiamo qui, di sfuggita, quel documento singolare di mimetismo cinquecentesco che è Gonnella buffone, riscrittura teatrale, estremamente fedele, di tre novelle di Bandello (su cui si veda Isella 1993c: 1427 sgg.).
20. Miti del somaro, SVP 921-22. Sempre la saga truculenta dei Borgia in Fatti e miti della Marsica, SGF I 143: «I due Borgia padre e figlio, Rodrigo in Soglio Alessandro, e Cesare […] aiutàronsi pure con le bibite, (boissons o poisons), con gli inviti a pranzo, e con un poco di cordicella (spago, straforzino) che il fedel Micheletto aveva appreso manovrare alla perfezione. Il Machiavelli ne andava pazzo».
21. Si noti come la verità del profondo – clandestina, inconfessabile – che la chiaroveggenza della letteratura giunge a scandagliare e illuminare, finisca per caricarsi spesso in Gadda di tinte vagamente psicanalitiche, in omaggio, del resto, al «dubbio che Freud non abbia scoperto nulla di interamente nuovo, ma soltanto ordinato, schematizzato, sistemato, ridotto in termini un materiale probante già noto da secoli» (Psicanalisi e letteratura, SGF I 462); così anche nella Mandragola è in gioco «un’analisi della sessualità reale e delle sue carte e de’ suoi titoli reali, di fronte alla schematica impotenza degli istituti conservativi; è in gioco la latenza omoerotica della società: nella figura di Ligurio parassita per amore di Callimaco (il denaro ha in Ligurio l’effetto psicodinamico di un “remedium” postremo, è una copertura ufficiale quasi, di altro e più profondo, se pure inconsapevole affetto): nella stessa parlata di Siro: e nel collaudo della virilità di Callimaco analiticamente operato da Messer Nicia» (La Mandragola filtro di giovinezza, SGF I 1093).
22. Meditazione, SVP 842-43. Una riserva analoga traspariva già nel Cahier, sia pure nel gioco dell’oggettivazione narrativa, a proposito di Marx: «Sarei andato poco d’accordo con Marx perché lo giudico un uomo dalle vedute corte. Avendo egli esteso la sua analisi a un troppo breve intervallo della funzione, non la conobbe e sbagliò l’integrale» (Racconto italiano, SVP 551). È interessante rileggere, sulla questione, anche il parere di Roberto Bazlen: «Genialità implica unilateralità, implica monomania. Scoprire un mondo nuovo crea l’obbligo di non vedere gli altri. Rendersi conto anche degli altri consentirebbe, è vero, prospettive più esatte, una saggezza più vasta, ma andrebbe a scapito di quella concentrazione, di quello slancio, di quella intensità demoniaca delle quali il genio ha bisogno per adempiere il suo unico compito» – R. Bazlen, Note senza testo (Milano: Adelphi, 1970), 153.
23. Eros, SGF II 1042; e nel capitolo VIII, dedicato a Narcisismo giovanile e pedagogia. Teorica del modello narcissico, sotto lo schermo dello pseudonimo: «Il condiscepolo Alì Oco De Madrigal mi ha confidato di aver avuto per modelli narcissici il Corsaro Nero, Dante (a lungo), “el famoso Ariosto” a lungo, Giulio Cesare […], lo Shakespeare; più tardi il Cervantes, il più grande degli inventori europei, il monco di Lepanto» (335). Cfr. ancora SGF I 1119: «Dante e l’Ariosto i miei amori» (fin dalla prima giovinezza).
24. Giornale di guerra e di prigionia, SGF II 617; più avanti, a p. 665, un compagno morto è pianto così: «Anima splendida e rara, devoto come gli eroi dell’Ariosto».
25. L. Spitzer, Marcel Proust e altri saggi di letteratura francese moderna (Torino: Einaudi, 1971), rispettivamente 52 e 8.
26. Che è una sorta di Leitmotiv dell’incanto ariostesco, giacché nella Meditazione, SVP 893, l’autore ricorda «la trasognata povertà e l’eroico “obdurare” dell’Ariosto, finché fosse polito ogni verso e tersissimo dei sonanti, meravigliosi poemi» e, con una più deliberata, formulare autocitazione, nella recensione a La congiura di Don Giulio d’Este, pubblicata nel 1931 su Solaria, a proposito dell’«intelligenza machiavellica» da Bacchelli attribuita al poeta, osserva: «Machiavelli, Ariosto! Il raccostamento sembrerebbe pazzesco se non fosse adeguatamente motivato. Ma già in altra parte del suo studio il Bacchelli insiste sulla forma mentis dell’Ariosto giovane, matura già di viva e faticata esperienza sociale ed umana: termine antinomico e pur necessario alla fuga dedalea de’ meravigliosi poemi» (SGF I 739).
27. Un diverso, e certo fondamentale, aspetto della presenza di Ariosto in Gadda (che però mi pare una suggestiva analogia a distanza riscontrabile nell’oggettività della costruzione romanzesca piuttosto che un rapporto soggettivamente meditato e instaurato) addita Corrado Bologna, con la mediazione del Calvino delle Lezioni americane, nell’impianto policentrico, pluridirezionale del narrare e nella relativa idea del romanzo come catalogo del mondo e dei suoi possibili: «Non è attribuibile, in parte (e mutatis mutandis) anche al Furioso ciò che Italo Calvino ha scritto a proposito di Gadda, testimonianza suprema, a suo parere, del fatto che si possa analizzare “il romanzo contemporaneo come enciclopedia, come metodo di conoscenza, e soprattutto come rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo”? In Gadda, “come” in Ariosto (così presente in Calvino, anche quando il suo nome è taciuto), “da qualsiasi punto di partenza il discorso s’allarga a comprendere orizzonti sempre più vasti, e se potesse continuare a svilupparsi in ogni direzione arriverebbe ad abbracciare l’intero universo”» – C. Bologna, «Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto, in Letteratura italiana. Le Opere, vol. II, Dal Cinquecento al Settecento (Torino: Einaudi, 1993), 344.
28. Roscioni parla della «malcelata, contraddittoria sünpatheia che egli manifesta per le ribellioni e le pose contro le quali ne I viaggi, la morte scende, apparentemente, in campo» e chiarisce che «il provocatorio atteggiamento di Baudelaire e di Rimbaud lo irrita perché in esso vede la defezione di due compagni di strada» (Roscioni 1997: 237-38).
Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-05-1
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