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Meditazione milanese
six extracts
- Il dato e l’inizio della attività relatrice
- La grama sostanza
- La materia e la molteplicità
- Il carattere estensivamente indefinito dei sistemi reali
- La dissoluzione dei miti
- Il male
Il dato e l’inizio della attività relatrice
Quando le nuvole sorgono, come sogni, dai monti e dalle foreste: diademate di folgori le montagne attendono i battaglioni d’assalto: il soldato si ferma, guarda lontano e pensa: «Quali saranno i miei atti?» Ma già sono.
Così ci chiediamo: «Donde comincerò?» Ma abbiamo già cominciato.
Ci chiediamo inoltre se sia possibile eleggere e se sia in pronto alla scelta un criterio; se è possibile che un metodo sorregga e quasi preceda la permeante analisi o se è doverosa una conoscenza avanti la determinazione del metodo.
Una perplessità siffatta s’è palesata nelle manifestazioni del pensiero. Si adduce, a ragione della incompiutezza del «Tractatus de intellectus emendatione» di Benedetto Spinoza, il fatto ch’egli intuisse il fondamento della correzione non essere se non l’idea centrale della prima parte dell’Etica, o di tutta l’Etica, l’idea della unità. Il culmine della conoscenza era la scaturigine essa e propria del metodo.
In realtà la questione, posta così schematicamente in forma, è mal posta. Un metodo è già conoscenza ed è ragione elettiva; presume nozioni, occlude una elaborazione critica. Se non le nozioni centrali di un aggruppamento conoscitivo, come potrebbe indicare l’esempio citato, presume almeno dei dati, dei termini di relazione. Il metodo rivolgiamo a risparmiare fatica (adopero volutamente questa malgraziosa espressione) nell’imminente lavoro. Per esso respingiamo alcunché, sciegliamo alcunché, così operando come nel truogolo forsennatamente il grifo maialesco ed i sensi, allorché separano il cibo possibile in cibo reale e in rifiuto.
Da un punto di vista necessariamente psicologistico e storicistico è affermabile che ognuno di noi e la collettività stessa de’ nostri uomini e l’intero genere umano instituisce e deve instituire l’analisi iniziando un processo di afairesis: molto dopo verrà, se verrà, l’apodeixis. E il processo si attua nei modi e coi mezzi onde il topografo eseguisce la triangolazione d’un territorio. Da una base nota, resultante dei termini di relazione sufficienti, di distanze cioè e di angoli noti, si procede alla determinazione di punti ignoti. Questi servono alla lor volta come stazione o riferimento per la ricognizione ulteriore.
Se non che il terreno sul quale il geodeta fonda il suo teodolite è, rispetto ai fini ch’ei si propone, una salda, una univoca realità. E ancora: lo sviluppo della sua ricerca è uniforme e consente l’uso costante di strumenti costanti Il terreno del filosofo è la mobile duna o la palude deglutitrice: o meglio la tolda di una nave reluttante contro nere tempeste. Ed è questa nave il «bateau ivre» (1) delle dissonanze umane, sul di cui ponte, non che osservare e riferire, è difficile reggersi.
Questa prora pensante taglia mari strani e diversi: ed ora la stella è termine per la misura, ed ora, nella buia notte, il metodo non potrà riferirsi alla stella. Mobili sono i termini per il riferimento conoscitivo iniziale: diverso, continuamente diverso il processo.
Insisto in questi due motivi o aspetti del tema che per verità sono connaturati.
Primo: la nostra analisi ricever inizio da un nostro dato psicologico e storico, cioè personale ed ambientale, (2) che si devolve in un flusso, che è in una velocità; che è labile, mobile. In quanto labile in sé per prima approssimazione noi lo intuiamo come un sistema in sé, vale a dire come qualcosa di non semplice in sé. In quanto mobile rispetto alla oscura esteriorità, (3) di che ci rendiamo ad essere gli imprecisi assertori, il dato nostro psicologico e storico ci par essere astratto e come vividamente nitificato da questo sistema esterno, o almeno immerso in una più vasta, se pure difforme realtà. E noi desideriamo appunto misurare il divario variabile che intercede ad ogni attimo fra il nostro dato e l’inconosciuto che è oggetto di ricerca e d’amore.
Secondo: a mano a mano che il processo conoscitivo si attua, venir deformandosi sia le parvenze psicologiche e storiche sia l’oscuro e indistinto sistema esterno. E dicendo del deformarsi non alludo più tosto a un cangiare storico del dato o delle parvenze che a un suo logico ed attuale derogarsi a significati nuovi, anche se colto e misurato nella sua momentanea, supposta immobilità, nell’esser suo solo d’un attimo.
Anche fuori del tempo noi vi scorgiamo attività e vincoli supermultipli gli uni agli altri. Il critico: «Ma la conoscenza si svolge come processo nel tempo, come sintesi nel tempo.» Rispondo: «Ve lo concedo. Non di ciò parlavamo. Dicevo: – supposto per astrazione che noi potessimo vedere tutto il reale extra tempus, come Leibniz immagina possa vedere e veda di fatto la Mente Divina, il nostro dato ci apparirebbe multiplo in sé quanto agli aspetti o significati. Esso ci apparirebbe germine e pianta, effetto e causa essere e divenire: ed essere oltre l’essere, e divenire oltre il divenire: e ci apparirebbe saturo d’una infinità di relazioni sopraordinate le une alle altre.»
Per quanto riguarda l’inconosciuto sistema (4) esteriore, l’oscuro e totale e desiderabile termine di riferimento supremo, come possiamo scorgervi deformazioni se esso ci è ignoto? Ma la nostra fantasia (la nostra ragione, se volete) viene infaticabilmente plasmandolo e riplasmandolo secondo uno schema di percorrenza che par quasi adombrare la necessità d’una posizione antitetica al dato, in quanto da presso e quasi grado a grado un sistema siffatto si contrappone deformandosi alle stazioni o pause del dato deformantesi. (Adopero i termini temporali come schema – successive – stazioni in senso più diffusamente logico.) Così Cesare non dà tregua ai migranti Elveti. «Postero die castra ex eo loco movent. Idem facit Caesar.»
Circa la posizione del dato, sistema già esso, e del sistema esterno: e circa la lor disgiunzione, se necessaria o precaria o semplicemente opportuna, non voglio qui dire. Noto il fatto e lo giustifico naturalisticamente e storicisticamente per ciò che il dato almeno in qualche modo ci urta, cioè qualcosa sia pur malamente e imperfettamente ne conosciamo realiter: nel mentre il sistema esterno è un indistinto e alla sua fabbrica lavoriamo con fantasia e con amore: che son due che sempre bisognò tener d’occhio ché, a perderli di vista un solo minuto, s’abbandonano subito ai loro istinti, dopo di che generano un gramo lor figlio, il Sogno: il quale, al raggiungere una sua infelice pubertà, si tramuta nella Demenza.
La movibilità e deformabilità de’ fenomeni storici (5) e la deformazione dell’oscuro sistema integrante (6) son correlate alla movibilità del metodo della conoscenza, al flusso della attitudine, della vis conoscitiva: e ciò sia che pensiamo questo metodo come asserimento, e quasi volontà d’espressione, o come invece un più blando coordinare apprensioni fortuite, di che resulti il tessuto realtà. Non intendo qui proporre una scelta fra le due tesi diverse o fra le molteplici tesi possibili a questo riguardo. Intendo solo chiarire e concludere: il flusso fenomenale si identifica in una deformazione conoscitiva, in un processo conoscitivo. Procedere, conoscere è inserire alcunché nel reale, (7) è, quindi, deformare il reale.
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La grama sostanza
Una delle idee che più insistentemente e necessariamente appaiono nell’indagine è quella di essere, poi di sostanza. Se l’accenno eracliteo, che più sembra divergerne, e gli intoppi scettico-sofistici che decaddero ad espressione banale (8) e fino a grottesche parvenze di malcostume teoretico e pratico, avessero potuto meglio accentuarsi in uno sviluppo si sarebbe risparmiato pena e cammino e l’idea di sostanza, disseccando sé e inaridendo più liete fontane, non avrebbe di sé coperto ogni cosa, così come la sabbia copre le città cirenaiche.
Il dato ci denuncia in realtà un persistere oltre che un divenire: ma che è questo persistere? Io lo interpreto come un permanere, quasi privo d’alterazioni, d’alcuni elementi d’un sistema, mentre altri si deformano più intensamente. Son essi questi elementi apparentemente, provvisoriamente inalterati, son essi che ci permettono di travedere una continuità del sistema, un’unità e consecuzione del tempo, un essere, un nucleo sostanziale: se tutto fosse movibile e mosso, nessuna forma o figura sarebbe pensata.
Giocando agli scacchi, si ottengono situazioni logiche continuamente difformi: quel gioco è, in misura tipica, una perenne deformazione logica. L’elemento deformatore ci sembra essere il solo pezzo attualmente mosso, nel mentre la restante massa dei pezzi ci appare il persistere attuale o provvisorio del sistema. È per altro un persistere sui generis, un persistere che risente della mossa eseguita e che reca in sé il medio d’una mossa futura, un gramo e malescio persistere. Il pezzo giocato, limitando e quasi eleggendo una serie di situazioni future, conferisce attualmente fisonomia e caratteristiche logiche a una determinata partita, sceverandola da altre partite a scacchi. Si dirà quindi il gioco Carlo contro Marco, il gioco Stefano contro Senatore.
Notato questo, qual di noi può pensare a un gioco degli scacchi cristallizzato – sostanziato – nucleato – archiviato in un essere fisso e indeformabile, in una figura determinata, cioè in una determinata situazione dei pezzi? Questo gioco non sarebbe più una partita. Sarebbe il nulla scacchistico o l’impensabile scacchistico, che fa lo stesso.
Nel gioco degli scacchi non esiste sostanza ma, per esprimermi con imagini grosse, una certa congerie di rapporti funzionante attualmente e imperfettamente da sostanza, perché attualmente immobile rispetto all’elemento logico attualmente deformatore del sistema logico totale: che è il pezzo attualmente giocato.
In un tessuto che costituisca totalità (o quasi) d’attorno ad un suo elemento, poniamo a una sua fibra; rispetto alla variazione attuale caratteristica di quell’elemento, (sia essa pensata come fatto o come coscienza), rispetto cioè ad una variazione non comune ad altri elementi del contesto, questi elementi altri funzionano attualmente da sostanza. Si tratta invero, come già notai e come sarò per precisare anche qui appresso, d’un parer sostanza rispetto a quella singolare coscienza: o d’una somma di relazioni che paiono non alterate da quel singolare atto, per ciò che ne sono poveramente, debolmente alterate.
Esempio. Io solo, elemento, nella nazione italiana, contesto, introduco l’attuale variazione di redimermi da un mio proprio e personale errore, da una mia idea sbagliata ad esempio, satura di male conseguenze per tutti. Rispetto a questo mio mutamento, non comune ad altri, la rimanente nazione è sostanza. Questa sostanza è poi necessaria al mutamento, ché io non potrei cangiare quel male per tutti in bene per tutti, se non sussistessero (9) i tutti: sostanza e mutamento sono dunque connaturati.
Così si possono concepire aggruppamenti infiniti degli elementi d’un dato sistema che siano attimo per attimo (10) a funzionar da sostanza, cioè da massa stabile, da agente del momentaneo persistere, da somma operatrice della continuità, (11) rispetto all’elemento tipicamente perturbato, alla fibra corrotta, al pezzo giocato sulla scacchiera. E nella successione logica o temporale questi aggruppamenti possono internuclearsi o parzialmente sovrapporsi, come accennerò dicendo della incongruenza de’ sistemi reali: (Paragrafo [ ]). Vale a dire: se l’elemento 1 ed il 2 ed il 3 giocano la parte di sostanza rispetto all’elemento 4, può darsi che poi ed altrove il 4 con il 3, con il 2 giochino la parte di sostanza rispetto ad una alterazione caratteristica di 1; o che il 4 ed il 2 sien contro l’1 ed il 3; e così tutte le combinazioni, non matematicamente, ma logicamente possibili: logicamente cioè consentite dai vincoli innumeri della realtà totale. (12)
Collaudiamo dunque una grama e imperfetta sostanza, cioè una situazione teoretica inalterata per attimi congenere a un flusso teoretico pulsante per attimi: dove alcuni elementi permangono o durano rispetto ad altri che mutano e cangiano, d’un sistema conoscitivo, o reale. (13) Il concetto tradizionale di sostanza è una fisima, è una chimera. Io immagino un permanere inalterato di alcuni elementi come necessaria correlazione al proprio deformarsi di altri.
La mia grama sostanza esiste in quanto soltanto si operano dei mutamenti e corrompimenti: essa è, per usare una imagine grossa, la parte ancora dura e coriacea di un pollo qua e là putrescente.
Circa l’impiego della parola elementi, non desidero intavolare le diatribe del semplice o del composto: elemento o nucleo elementare costituente è per me designazione relativa al sistema o insieme o figura resultante: il che non toglie che un elemento possa rivelarsi a sua volta come un sistema. Il muro, elemento della casa, è un conglomerato di mattoni: e il mattone un impasto di granuli.
La deformazione logica (concludo) implica perciò la necessità di un permanere, di un essere, quando ella debba attuar sé medesima. Non può una figura cangiare se non assommi rapporti molteplici, di cui alcuni permangono attualmente (14) non alterati: ché un’alterazione, un’alloiosis pura, od assoluta, o totale che dir si voglia, non è pensabile se non come negazione ed annichilazione del quid teoretico nucleante quella figura. I conservatori sono la manna, sono la bazza dei petrolieri: altrimenti costoro non saprebbero con chi prendersela.
Propongo due temi derivati.
Primo tema. Se la deformazione d’un sistema implica mutamenti nella totalità de’ rapporti che intercedono fra li elementi di esso, ella comporta altresí una deformazione intrinseca o interna (come vi paia più chiaro) di ciascun elemento interessato. A meno che cotali elementi non vengano grossamente rappresentati come nuclei di bestiale materia, come sfere ad esempio, o come chicchi di riso: e fra essi immaginati altri enti, ad esempio distanze variabili: il che significa regredire a villanesche imagini e cercare e inventare degli dei da teatro nuovi e più sciocchi.
Proposto questo primo tema, rispondo che la deformazione della figura comporta deformazione interna degli elementi colpiti; i quali non m’è dato di concepire se non pensando a grovigli o nuclei o gomitoli di rapporti, privi affatto d’un contorno polito, e ciò contrariamente a quanto li raffigura la consuetudine pigra del pensiero comune. Così da poi che ogni elemento è a sua volta groviglio o figura o sistema, così una parte de’ suoi propri elementi permane in lui non corrotta da quella prima mutazione da che siam discesi e quella parte funziona in lui da sostanza attuale.
Secondo tema. Si possono dare alcuni elementi non interessati nella deformazione della figura, oppure tutti gli elementi partecipano della deformazione, qual ch’essa sia? I pezzi non giuocati devono considerarsi partecipi della mutazione di rapporti introdotta dal pezzo giuocato?
L’esempio prescelto ci suggerisce una risposta affermativa a queste domande, nel senso che i pezzi non giuocati risentono qual più qual meno della nuova situazione: in quanto ciascuno di essi è un garbuglio o gomitolo di rapporti logici attuali, il suo valore logico attuale, la sua essenza logico-storica, per l’operarsi della deformazione è mutata. Talora debolmente mutata.
Permangono inalterati in ciascun pezzo certi fondamenti logici a priori (e cioè le mosse astratte che ciascuno potrebbe fare se fosse onninamente libero, se, avulso dalla partita reale, venisse collocato sopra una scacchiera vuota) mentre le mosse concrete, effettuali, storiche sono legate a quella situazione logica che, a cagione del gioco fatto, s’è determinata fra le infinite possibili, s’è arricchita o impoverita di vincoli. Ma ciò costituisce un’osservazione laterale.
Volevamo esaminare se vi siano, se siano pensabili, elementi non deformati in un sistema deformantesi. L’esempio citato parrebbe suaderci a dir no. In quanto appartiene al sistema, l’elemento ha subito una deformazione, se pur minima: se non l’ha subita, non appartiene al sistema. Eliogabalo perde un braccio: la nostra fantasia, per quel suo vezzo di adoperare sostanze a tutto spiano e dove meno bisogna, ci sospingerà ad asserire che li occhi di Eliogabalo rimangono con ciò inalterati: ma egli non può levar la mano perduta a proteggerli dal vento polveroso e la loro funzione è così menomata.
In altre parole: ci educheremo a concepire ogni cosa come un groviglio o somma di rapporti nel senso più elato; e non nel senso della sola possibilità (che è un’idea mediocre) ma in quello più proprio della realtà attuale e storica. E allora, ogniqualvolta esamineremo manifestazioni della realtà mondo e non astrazioni o finzioni del pensiero (che per ispeditezza d’analisi pone a sua posta ed astrae e delimita, quasi, instituisse ad arbitrio le regole d’un gioco) dovremo ragionevolmente conchiudere che ogni mutamento del sistema implica un mutamento, per quanto piccolo, di ciascun elemento costitutore del sistema.
Lascio la dimostrazione della reciproca, che è evidente per sé.
Ma se il sistema è uno, ed è il tutto? Ebbene ogni elemento, per quanto impercettibilmente, muta con esso: vale a dire che ogni mutazione della totalità è riferibile, se pure in misura evanescente, a ogni elemento di che la totalità stessa resulti. Rimane acquisito all’analisi che questa mutazione implica un residuo, un permanere d’alcunché, un variare di altro: e in quello, cui per grossezza nostra giudichiam permanente, non tutto in realtà permane, ma soltanto qualcosa; e così nel secondo qualcosa un terzo, e così discendendo.
Ma allora tutto si dissolve! La metà della metà della metà e così mille volte non è se non un infinitesimo, non è che il nulla.
No: non così grossamente dobbiamo procedere, affidandoci a mere parvenze quantitative. – Dicendo che qualcosa permane e funziona da grama sostanza, intendiamo dire che la deformazione operata dall’elemento perturbatore, al quale più propriamente fu demandato il compito del trasformare, non è deformazione originale in essa sostanza, non è un’attività della sua struttura, non è la sua realtà, non è la sua opera. Gli elementi funzionanti da sostanza sono come passivi, rassegnati, nei riguardi della modificazione introdotta: son pesi morti, ingombro di premesse stantie; son gente che dice: «assentiamo a una volontà non nostra», sulla qual gente per altro la volontà del diverso si fonda, per fabbricare alcunché.
Il pensiero logico è attivo, euristico nel pezzo mosso, (funzionante da simbolo mnemonico) (15) e nei logicamente prossimi: si scarica invece sulle situazioni logiche degli altri pezzi come un risultato, cioè come attività in essi non attualmente originale o cosciente. (16)
Altri esempî. Le vertebre degli acquedotti imperiali sono sostanza o permanere o residuo d’un’euresi logica che trattò e manipolò le premesse naturali: calce, mattoni, reazioni chimiche, pietra, operazioni meccaniche. E le forme così cavate, seconde premesse, furono il permanere co-necessario d’un divenire tecnico, economico, politico: e questo divenire eran le fontane e le terme e la gente che vi beveva e vi si bagnava, e l’imperio e le fortune e la vita e la sanità ed il male e l’ozio ed il fasto e relazioni infinite.
Così una brocca di maiolica par essere figlia dell’eternità o propriamente sostanza, verso il fuggevole atto del versarne quel po’ d’acqua, che ha dentro. Ma furono quel contenere e quel versare a determinarne il sussistere ed essa è, come forma o brocca, la grama sostanza del contenere e del versare.
Il critico: «Con il depauperare la sostanza e il negarle un’operazione originale e cosciente, voi andate paurosamente dilontanando dai concetti che i Filosofi veri ne ebbero di persistente supporto od agente, o di intima e identica virtus nella fenomenologia del molteplice o, se vi paia, nel guazzabuglio del diverso, nella catastrofe, nella dégringolade del divenire.
E tanto dilontanate da invertir quasi le parti: e l’azione è divenuta passione.
È dessa sostanza, appo i Grandi, lo scheletro inmarcescibile della realtà, e suol esser vestita di transeunti modi, (17) o accidenti, come il camaleonte quando trasuda i labili toni dell’iride.»
Rispondo: «Riconosco che la mia grama sostanza diversifica perciò appunto da quella più tenace de’ Filosofi: così l’idea della utilità del cibo e del suo identico riferirsi ai fatti della nutrizione diversifica dalla tenacissima immagine d’una bistecca – suola di scarpe.
Ma versate quella bistecca nel letamaio e dentro al corso di pochissimi dì vanirà la di lei caparbia sostanza «qual fummo in aere od in acqua la spuma». Così nel letamaio diveniristico vanirà ogni idea di coriacea sostanza. E solo penseremo a un tardo e pigro alcunché, cognato a un labile ed agile: e l’uno penseremo necessario al manifestarsi dell’altro.
E ad ora ad ora, inoltre, mutuate le sorti, giocherà l’uno e l’altro il gioco della tenebra e della luce, come li antichi congèmini, figli di Leda.
«Ciò è grave», direte: e soggiungo: «peggio per me».
D’altronde, anche ne’ Maestri, v’è molta briga di parole e di termini in siffatti grattacapi e garbugli. Credo che passando da Maestro a Maestro, da cervello a cervello, la sostanza attinga talora, come una fanciulla sull’altalena, oppositi momenti concettuali: e la bruta materia o impedimento platonico, e (presso Spinoza) la gloria splendida della Virtus viva ed onnina e totale, dell’Efficiens primo permeante ogni aspetto del mondo, vestito di tutti li aspetti del mondo.»
Il critico: «l’esempio da voi citato della nazione-sostanza rispetto all’emendamento vostro e quell’altro delli aquedotti rispetto all’euresi storica della romanità mal si contengono nell’allineamento prescritto da un’unica idea.»
Rispondo: «Dato l’infinito soprapporsi e disgiungersi delle posizioni reali, è logico che ogni alcunché, e quindi anche la mia grama sostanza, possa diportarsi con vario plauso e parvenze a seconda de’ luoghi, luoghi logici intendo: e qui parrà, vertebre delli aquedotti, un ostinato ed amorfo perdurare contro al vento e alla pioggia e alla fuga de’ tempi, quod non imber possit diruere aut innumerabilis annorum series et fuga temporum; e là un esterno e lontano formicolare di gente, vita della nazione rispetto al tormento mio singolo e proprio: e qui sarà poco, calce e sgretolati mattoni, rispetto al molto, romanità; e là sarà molto, nazione, rispetto al poco ed al minimo, o me.»
Il critico: «Non mi direte che il bronzo impresso, da che fu rilevata l’effigie imperiale, sia un codeterminarsi dell’Impero defluente verso l’eternità.»
Rispondo: «Ho ferma fede di rivolgermi a chi scéveri bene i pensieri, e usi con acutezza delli esempî, necessariamente poveri e stenti: ché se altrimenti fosse, ogni fatica sarebbe vana. – Il bronzo o lo stagno ed il rame onde fu cavata la medaglia di Nerva e consegnata ai secoli l’effigie imperiale, quel rame dico e quello stagno saranno stati e saranno per essere il codeterminarsi d’un divenire primigenio (logicamente primigenio) ben altrimenti vasto ed immenso che l’Impero non fosse: il divenire delle stelle e dei mondi. Noi non sappiamo. Ché procediamo verso l’interno e l’esterno, verso il profondo e l’eccelso, verso il passato e il futuro da una pausa mobile e poverissima, o attimo. Ma sentiamo con profondo convincimento che anche questo aspetto particolare, ché alla sostanza singolarmente può riconoscersi, di materia prima od infima, (18) di permanere fisico, è purtuttavia il connaturarsi d’un divenire.
Nella Fisica moderna l’idea del permanere della materia (sostanza fisica), per esempio del rame, attraverso manipolazioni e cataclismi d’ogni genere, è ferma certezza. D’altronde lo studio dei fenomeni radioattivi e considerazioni altre di natura elettrochimica che non intendo qui richiamare, hanno preso a scuoterla, a menomarla. Non certo le comuni reazioni chimiche muteranno la sostanza rame, che uscirà sempre da esse, come Venere dal bagno più Venere che mai non sia stata, più rame che mai. Ma forse altri e lontani sperimenti e matemi ci potranno dire qual’è il grado di permanenza nel tempo degli elementi chimici, e come debbasi più limitare questa ipotesi rozza che è stata formulata nei secoli dentro dal nome di materia. La materia occlude dei complessi di rapporti che ingenuamente crediamo a lei deferiti, in lei sola alloggiati. E può darsi di fatto che essa sia simbolo e mnemosynum di una infinita sodalità. Affranti così dall’aspetto simbolico delle cose, attribuiamo potenza e valore al pezzo di legno chiamato cavallo e temiamo scioccamente il cavallo dell’avversario, invece di temere la potenza logica che si scàrica dal suo cervello, per nostra vergogna.»
Esercizio. Sebbene le note seguenti non procedano dalle infrascritte giusta una rigida linea di sviluppo; sebbene sien riferibili a gruppi di fenomeni singoli e risultino impure d’alcuna idea e infermità laterale, costituiscono pur tuttavia un’utile addizione al presente paragrafo e contribuiranno a renderci famigliari alcuni concetti, frammezzo ai quali avremo a dibatterci ancora.
Nel disegno e nella costruzione delle macchine occorrono due ordini di considerazioni i quali ci determinano a sceverare nella realtà due serie di fatti: la mente disegnatrice è preda di un richiamo finale o tensione risolvente il problema e di un richiamo del precedente o dell’indugio bruto, onde le acquisizioni logiche del mondo, la materia (questa parola nel senso più lato), (19) si frappongono alla esecuzione-pensiero.
Le macchine reali pervengono quindi a una forma diversa e lontana, da quella cui la fantasia finalistica ci aveva indotto a dover auspicare: esse son sature di espedienti e grossi gnocchi dovunque, voluti dal bruto indugio della realtà: come lo stelo d’una pianta, che sia cresciuta nel dibattito delle tempeste, è contorto e par l’imagine d’un caparbio resistere: e come l’anima anche dell’uomo, che è germinata pura nel suo mattino, ed è davanti alla notte un grumo di deformità e di perverso dolore. E il richiamo del preesistente logico o materia è talora così brutale ed intenso che l’imperio de’ fini vanisce, a quel modo che dileguano nella caligine le vette di lontani monti.
Un esempio. Il fine fece desiderare agli umani (20) la costruzione di alternatori ad asse verticale perché questa struttura consente risparmio di spazio, e di costo de’ fabbricati: non che un migliore emungimento del salto fuviale. Ma la costruzione di alternatori siffatti proponeva alla mente esecutrice la difficoltà grande del sospendere le grevi ruote e il lor asse: si ebbe ricorso, com’è pensabile, a delle sfere di acciaio duro e a un lenimento della pressione d’appoggio mediante olio in pressione. Il dispositivo non contentava li umani, ché il costo della manutenzione era elevato e frequenti gli arresti.
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Gli umani preferirono allora alternatori ad asse orizzontale: le ragioni dell’indugio bruto trionfarono sul richiamo finalistico. In prosieguo di tempo il diffondersi della sospensione Mitchell (non importa descriverla) per sistemi rotorici ad asse verticale, diede ottimi risultati. L’indugio bruto era vinto e l’uso dei generatori verticali fu nuovamente prediletto.
Per questo esempio è palese quanto sia accettabile in prima istanza la lotta platonica fra üle e morfé.
In realtà la macchina risolve un problema di collegamento logico fra i dati, materia interpretata come acquisito logico, regione logica non originalmente (21) deformantesi, ed i fini, acquisendo logico: crea fra i primi e i secondi un sistema di rapporti.
è spiacevole che al grido della palingenesi: «Natura, natura!» (nel qual grido si colgon per altro toni giustissimi) certuni abbian ricusato di prendere a considerare con serenità i fenomeni dell’artificio o vita meccanica. Una centrale telefonica automatica; una stazione radio; un palcoscenico moderno costituito dalle più artificiose disposizioni meccaniche, fotogenetiche, elettriche: non sono men reale natura che il sulfuroso vulcano, o l’arido greto del torrente, o lo sterco delle bestie quadrupedi, o bipedi. Quei fatti della invenzione son fatti e son dunque natura: ché la mente disegnatrice è natura e la storia degli uomini tutta è natura. E se perplessità etiche insorgono circa il coordinamento di quei fatti, o l’emendazione di alcune lor forme, o il giudizio del loro valore, troppo facile, troppo comoda è l’Etica che loro denega ogni forma, ogni valore, ogni ragione di futuro sviluppo, ogni realtà. E il moderno caseificio non è men naturale dei cestelli dove Polifemo lasciava stagionar le sue formaggelle, incorrotte dalla mollezza civile; e le autoclavi a vapore, e le liscivie fornite dalla industria chimica ai risciacquatori dell’oggi e le asciugatrici centrifughe, son cose vere e natura quanto la cenere del bucato di Nausicaa e delle sue lavandaie, che «lietamente lavavano alla bell’onda», se sia lecito storpiare in tal modo un onesto endecasillabo.
Come la macchina o artificio instituisce dei rapporti, come il pensiero-disegno inventa cotali rapporti, in un certo senso così questi fatti della invenzione o disegno sono da meditar molto, poi che ci propongono un esempio di euresi logica sufficientemente rapida nel tempo perché si svolga, voglio dir a mio modo, sotto li occhi del singolo.
La creazione logica è da noi avvertita altresí nella storia dei popoli e nella dejezione infinita dei momenti e delle forme sociali, economiche, politiche, morali: ma certo è allora meno appariscente per chi vive aggrappato al suo attimo. Ed è avvertita nelle trasformazioni biologiche superficiali che i giardinieri e coltivatori favoriscono dentro l’arborea semenza di certe piante e de’ fiori e de’ semi da scelta; e nell’arte consolatrice; e nell’adattamento del corpo a un lavoro: muscoli che si sviluppano per il duro esercizio de’ ferri nel fabbro: che si educano nel violinista, nell’atleta, nel calciatore: centri nervosi che dal balbuziente solfeggio pervengono alla esecuzione di una sonata per pianoforte; ed è avvertita in genere in ogni sviluppo. Ma non mai così nitidamente è avvertita come nella costruzione e disegno del nuovo.
Ciò che con moderna parola dicesi organizzare è un reperire, un inventare: un instituire e chiarire la ragione modale d’un processo, quanto alla finalità conosciuto. Mettere in ordine è eseguire quest’ordine, fabbricare la coordinazione. Così quando per la prima volta si disegna, inventando, la macchina.
Poi, il già organato, il già disegnato, è sostanza.
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La materia e la molteplicità
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Voglio proseguendo avvertire che, come dall’idea del molteplice non dissocio quella del suo germinare, dirò, e vi insisterò, di questa germinazione o attuazione: dirò d’un molteplice attuantesi.
Il critico: «Permettete che vi interrompa. Bisogna dall’Uno derivare il Molteplice.»
Rispondo: «Già dissi, al paragrafo 1º, pagina 17: il terreno del filosofo è la mobile duna; e per terreno intesi, in quel luogo, il dato, ché era in corso un bell’esempio analogico, il terreno del geodeta. Quel che prima io vedo, io sento, dal ponte rullante della mia nave, sono i marosi e la lor rabbia o verde o cinerea, e il cupo fragore dell’arrembaggio loro avverso le prode: poi penso, integrando, l’Oceano.»
E mi si lasci proseguendo avvertire che, comparate sostanza e materia, come la prima così anche questa riscontriamo imperfetta; la prima per le già descritte ragioni: quest’altra per ciò che l’identità sussiste nel simultaneo, soltanto sub quadam specie e non affatto sub omni specie. Voglio dire: proposto uno schema per la cognazione dell’identico, ne’ limiti solo di questo schema vi è identità coattuale, e non relativamente ad ogni concetto che possa superordinarsi ai fattori o gestori dell’identità, separatamente considerati. Se vi è identità d’obblighi nella molteplicità dei soldati, quanto allo schema per cui vengon detti soldati, non sono identiche le fattezze dei visi o le relazioni famigliari o le stature o le mani.
Non vi è assoluta identità nelli oggetti, ma solamente una certa similarità: cioè identità relativa solo ad alcun cànone, o schema, a quel cànone o schema che postula da essi oggetti la nota comune dell’identico coattuale. (22)
Voglio adesso rifarmi all’enunciato del teorema centrale, onde asserii che al molteplice attuantesi è correlato un permanere logico simultaneo, un identico nel concomitante, o materia. Se immaginiamo difatti una vivente molteplicità, cioè un molteplice in corso di attuazione, quale il mondo presenta a sé stesso, non possiamo in quella pluralità non riscontrare un permanere identico; un permanere per fattori comuni nella frenetica differenziazione.
E questo coesistere della materia con il germinante molteplice è così necessario, e così intrinseco al mondo, come la spinoziana coesistenza del triangolo e del valore due retti cavato sommandone gli angoli; o come il coesistere della leibniziana parabola e della costante lunghezza, per qualsivoglia segmento che resulti come Pi-Cu. (è desso uno degli infiniti segmenti intercetti sull’asse della parabola nel modo che segue: da uno dei punti infiniti della curva si spicchino la normale all’asse e la normale alla curva.)
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Perché il molteplice infatti possa devolversi ad essere, deve procedere ad ogni pausa da un men dovizioso molteplice, cioè da una molteplicità meno fratta: e ciò possiamo comunque asserire anche se non rechiam giudizio circa i fenomeni inversi, o involuzioni, ove paia qualcosa annichilarsi in un indistinto.
è vero che della molteplicità serbiamo consueta una idea, come se ella fosse cristallizzata, fissa, anzi che germinante e nascente: marmellata di susine consegnata per il tempo eterno a un baràttolo, il mondo, e questo baràttolo sigillato in eterno, dopo celebratosi il vacuum. Ma un cotale concetto, finché almeno rasento le rive della mia terra, oras Italiae fugientis, finché mi tengo cioè in prima istanza vicino al mondo che chiamano empirico o storico, repugna alla mia mente.
E penso invece la molteplicità come attuantesi a ogni attimo, e germinante come da una continua vibrazione dell’essere. E allora se il molteplice si devolve e si attua, allora procede dal meno molteplice; come allorché, la mia pelle si sviluppa, dov’era una cellula se ne fan due; e, se si sviluppa una patria, da ogni madre e marito, nascon più di due figli. E un abete ricrea più che un abete, quando la selva loro riveste le terre e il vento con le nuvole di primavera vi promuove e raccoglie religiose, profonde mormorazioni.
Ma come può l’otto dar sedici e sedici dar trentadue? Bisogna che ogni termine dell’otto, ogni chicco dell’otto, rechi in sé la possibilità della prossima differenziazione: e non è questo prossima un futuro temporale, quanto più tosto un futuro teoretico. E per essere un chicco e darne poi due, deve implicare un certo che permanente, un fattore greve, che sarà comune ai due differenziati: e questo termine tipico per che il genere, o uno, si superordina alle specie, o due, è materia. A noi una siffatta materia appare estensiva e matrice de’ corpi ma conosciamo anche, in questo mio senso, materia non estensiva: così la potenza comune derivante a due giovani dalla comune natura: poi essi s’avvieranno a strade diverse. Così le possibilità meccaniche consegnate a due ordegni apparentemente eguali, per esempio a due cannoni da 305 mm.: i quali recheranno molestia a casematte diverse.
(D’altronde ogni attitudine è correlata a prossimi fatti estensivi: ma ciò qui non importa, ché d’altro siamo a discorrere.)
Così la teoria della evoluzione, ne’ suoi più recenti comunicati, ama rappresentare i complessi genealogici come un successivo differenziarsi o molteplicarsi, per deviazioni, per divergenze, (23) delle specie dai generi. (24) La scimmia e l’uomo han fatto strada insieme per un pezzo e si sono poi lasciati, andando cadauno alla sua: strada comune han fatto per un pezzo i mammiferi, divergendo poi nei generi in che fu divisa la classe: e per un pezzo anche i tessuti e le ghiandole e gli organi tutti, poi differenziatisi morfologicamente come devoluti ad officî diversi, sia nelle specie diverse, sia nel singolo.
E nel mondo umano (specie che si fa genere) già le razze si differenziano: e in queste così le nazioni: e in queste nazioni le minori collettività; e nei collegî minori gli individui, o sistemi biologici apparentemente ultimi.
Si sente che tutto ciò è vero.
Mille e centomila sono i soldati, ma uno sarà per adempiere ad un suo particolare compito od officium e l’altro al suo proprio, pur essendo destinati ad un compito supposto grossamente, agnosticamente comune, prima della battaglia. E la struttura stessa del faggio è nei rami ch’ei disgiunge dal tronco o fascio del compiuto suo essere: e dai rami altri deriva e da questi le fronde e dalle fronde le innumeri e mormoranti foglie. E ognuna ha un pensiero suo ed è nel pensiero comune.
E cioè le relazioni del diverso sussistono aggrappate a un quid morfologico che è loro comune, che loro consente di sporgersi verso l’abisso pauroso; ivi, in un attimo magico, il molteplice identico si determina e insieme si differenzia.
Così è data pace all’animo di quello che giudica sé prigioniero d’una gente, o d’una occasione, o d’uno stato, o d’un attimo: e di quello anche (a cui è allusione ne’ meravigliosi poemi) alla di cui puerizia e tenero intendere i genitori non han saputo sorridere: «cui non risere parentes».
Penseranno eglino che il lor merito e la propria lor forza si esprimono differenziando sé da pause già note: e se pur le reneghino e accedano a momenti verso di esse antitetici, dovrà pensarsi che la matrice del diverso è un necessario pensiero: ed è la comune realtà e agglomerazione storica, o la madre comune. Ed è talora la madre dei disperati, dei crocefissi e degli arrostiti.
Il critico: «Se alcunché sarà doppio, già ora è doppio, o ché nulla si crea.»
Rispondo: «Non intendo occuparmi qui di problemi causali. Intesi chiarire quella modalità dell’essere per cui il diverso, o molteplice differenziato, traina con sé un molteplice identico: e affermai che questo procedimento appare necessario, come il valore due retti per gli angoli dello spinoziano triangolo, o come nella leibniziana parabola la costante lunghezza de’ segmenti Pi-Cu. – E dissi che il permanere identico nella coesistenza logica o coattualità è ciò che chiamo materia.
Quanto al nulla si crea vi prego, se parliate con me, di astenervi da simili aforismi: che rendono forse alcun servigio alle discipline fisiche nello studio di problemi e di trapassi finiti: ma che sono, nel nostro dibattito, logogrifi privi di senso. Con maggior sicurezza può sostenersi che tutto, perennemente si crea.»
La presente ricerca conchiudo adunque con questa già troppo ripetuta asserzione, che ne costituisce l’enunciato centrale: materia è l’intrinseco medio onde ci accade di dar ragione del diverso in quanto esso germina coattualmente, del diverso cioè allorché sia pensato come cognazione infinita: (mentre talora lo supponiamo erroneamente immobile, come non lo sono le vette dell’Alpi.) Questo, credo, può asseverarsi e dove il differenziato germini dalla nostra propria coscienza e dove da una coscienza più lata, la quale ancora e sempre sottragga immensi territori logici all’audace ricognizione degli umani.
Esercizio. Devo tornire due cilindri di macchina, con una lieve differenza: per esempio uno con un foro da sinistra, rispetto a certo osservatore, l’altro con un foro da destra. Mi bisogna materia sufficiente per i due cilindri, cioè un fucinato di acciaio lungo a sufficienza per cavarne al tornio i due cilindri differenziati: oppure due fucinati d’acciaio.
Il critico: «Questo esempio è una goffa stupidità, di cui non si intravede nemmeno il senso.»
Rispondo: «Goffa e stupida cosa invece è la logica de’ trapassi finiti, sempre la si adibisca ne’ problemi che li trascendono. La Mente che mi sospinge a differenziare, ad eseguire cioè i due diversi cilindri, deve porgermi il destro di creare, di cavare questo diverso da un non diverso: dacché devo crearlo: se già fosse dato e cristallizzato come diverso, non lo creerei. E difatti la Mente è operatrice del reale e non è la matrice di sogni deformi.
Così ho pensato il cilindro comune, fattor comune logico, e poi ho pensato i due fattori differenzianti, cioè il buco a destra e il buco a sinistra. E come la Mente a ciò mi ha costretto, così anche nella estensione (25) mi ha costretto ad aver molta materia, cioè una permanenza o comunità nel simultaneo, una molteplicità identica nel simultaneo, per cavare due diversi dall’uno.»
Il critico: «L’acciaio preesistette eternamente al vostro lavoro.»
Rispondo: «Asteniamoci dal renderci confessori d’una eternità fisica, che forse non è più certezza nemmeno pei fisici. Al mio lavoro preesistettero il ferro o l’ematite, non già il fucinato: che fu battuto sì lungo, giusto appunto perché bastasse a tornir due cilindri. La materia della mia differenziazione è il fucinato.
E poi io sono Mente finita, pausa piccolissima o attimo d’un processo eterno, o almeno più vecchio dell’ematite e del ferro. Sicché la vostra obiezione non ha valore: la Mente eterna e infinita sapeva, meglio di me anche, doversi il molteplice differenziato cavar dal molteplice identico, dalla materia.»
Il critico: «Quando Ford compone diecimila e centomila automobili eguali, sosterrete ancora che la materia serve per la differenziazione? Ciò sbugiarda le vostre assurdità.»
Rispondo: «Non le mie assurdità, ma la limitatezza del pensiero comune. Osservo anzitutto che quelle macchine non sono, a rigor di forma, eguali, ché, già Leibniz lo disse, non vi è nulla di eguale: in una certo bullone sarà più serrato, e meno, nell’altra: ed esaminandole, per così dire, con il microscopio, vi si distinguerebbero differenze infinite. Pesandole, si reperirebbe che l’una è grave per 999 kili e l’altra per 1oo1, sebbene il catalogo di Ford predichi, per ragionevole approssimazione, che tutte pesano mille.
Ma vi concedo che questa risposta, pur avendo un suo senso, è una povera cosa. Ben altra è la risposta buona, che mi fo a registrare qui appresso.
Ritengo sogno puerile, o degno d’una mentalità pleistocenica, quell’apprensione dell’automobile (26) per cui ella sia pensata come un nucleo di relazioni chiuso in sé, definitivo in sé, avulso dal futuro contesto del mondo e financo dalle relazioni future che d’attorno a lei medesima siamo già per promuovere e per allacciare: per cui ella sia pensata come eguale fra eguali, come scatola contenente soltanto possibilità identiche, davanti le quali ci si fermi di botto, stralciando una pagina artatamente dal libro del mondo e recusando di leggerne il futuro processo. Automobile gnocco: automobile pacco postale: chiuso, legato, inceralaccato, sigillato in aeternum. Tutti i gnocchi sono invece unti, agglutinati, filamentosi per formaggio e per salse, e uno cento ne traina, e ognuno dei cento poi mille e ognuno dei mille, milioni: e così in infinitum. Altro che le ciliegie, delle quali sogliono li esperti affermare che una tiri l’altra!
Una automobile è desiderata per il lavoro o per il piacere e occlude siffatte motivazioni: e percorre una strada o quell’altra: pian piano o sfrenatamente: ed è ben tenuta, spazzolino e piumino, o strapazzata come un vecchio cavallo: e vi siede una bella, o un pancione. E dura un anno, o due. E l’una va in una rimessa e l’altra in un’altra. E l’una, imbroccando la curva del cataclisma, giù dalla strada e dallo spalto pauroso del cañon precipita giù nell’abisso, e l’altra, composta febbrilmente da Ford, si decompone contro un deplorevole paracarro: in minor tempo ancora si smonta; che non ci sia voluto a montarla.
E l’una insomma, dal deformarsi incessante della realtà è devoluta ad una operazione e ad un compito, e l’altra a diversa operazione e governo.
Ognuno dei diecimila grumi di rapporti usciti dal modello unificatore di Ford ha vita e sorte e morte diversa ed è un diverso.
E non soltanto la materia antonomastica, acciaio o legno o bronzo o cuoio o gomma o vetro o vernice, ha fornito la intrinseca possibilità del diverso. Ma il diecimila automobili pur essendo, nell’apprensione consueta, alcunché di men materiale rispetto a quelle prime materie (perciocché piccole differenze vi sono discrete: e una Mente elaborò il diecimila) è già passato nel nostro spirito ad esser materia, in quanto sommette diecimila fattori comuni, grossamente comuni, a dei nuclei di relazioni che sono per differenziarsi, che sono per ulteriormente arricchirsi: e ciò con precipitare giù dallo spalto eccelso della rotabile verso l’alveo profondo del Colorado, rimbalzando diverse volte su sé stessi (questi nuclei o automobili) in loopings terrificanti, ovvero con l’incorrere contro questo, o quel paracarro.»
Il critico: «Alla stregua di quest’ultimo punto due opere dell’ingegno, ad esempio due architetture, sono per voi materia ove soltanto piccole differenze ne procurino la distinzione.»
Rispondo: «Sì; affidandomi al vostro discernimento. Creato lo stile o maniera della Rinascita fiorentina, e coltane una sua pausa, ecco una base comune o materia cioè un comune andazzo delle Menti figuratrici sopporta il differenziarsi de’ singoli ingegni. Così nell’euresi e nella deformazione perenne l’acquisito logico è soppalco momentaneo dell’acquisendo. Così certa tecnica è materia, è dato costante cioè su cui possiamo far conto ed insistere, per ulteriori e diverse e più squisite elaborazioni.
Se due lavori dell’arte hanno un fondamento comune, cui debbasi in modo necessario riconoscere come intrinsecamente comune, questo fondamento è materia. Se si pensa così che i due canti di Guido da Montefeltro e di Buonconte da Montefeltro esprimano due devoluzioni moralmente antitetiche da un dato comune: (antitetiche perciocché contro il giudizio volgare Dante salva l’uom d’arme pentito e con il volgare abbandona al loico unghiuto il callido figlio della règola); bisogna concedere che materia della disgiunzione Guido-Buonconte sia la loro comune umanità, cioè l’identico del diverso: (27) arbitrio libero che declina al frodolente consiglio, arbitrio libero che accede alla pronunzia del nome di Maria e alla croce, cui l’Archiano disciolse.
Se due novellieri ritraggono con sensibilità diversa come si dice oggi un oggetto comune: quella favola o storia comune è materia per le loro interpretazioni diverse, in quanto esse vengano pensate conecessarie nella attività espressiva della stirpe, fronde sul ramo. La designazione volgare di materia del poema è meno superficiale di quanto si creda, ovunque si pensino i momenti espressivi come disgiunti e differenziati da un comune identico.
Naturalmente quelli che credono nell’automobile pacco postale, credono anche nelle «Georgiche» pacco postale, nato per sé, vivente in sé, avulso da tutto, chiuso nella scatola buia del singolo. Ma ogni poema è nelle latebre delle stirpi profonde, e nelle genti e nel mondo infinito.»
Divagazione. Il critico: «Voi, così attento ai vincoli e ad ogni sodalità del reale, crederete nella realtà delle scuole letterarie.»
Rispondo: «Sì. Tanto io quanto un mio compagno di classe, che era poco più imbambolato e deficiente di me, siamo parti della comune scuola di retorica. I miei insuccessi non devono tuttavia compararsi con i suoi lauri.
La mia scuola letteraria, poi, va dallo Stelvio al Capo di Spartivento, per quanto concerne la purità del dire: e così alcuna volta parrò malgrazioso, e allobrogo o retico: e per altri criteri va dal Carso, dove ho sudato, alla landa hannoverese e alla fortezza di Federico in Rastatt, dove non disdegnai le bucce crude delle patate: e dall’Adamello e dai selvosi Altipiani ad altri siti ancora.
E poi nelle mie vene di bastardo è sangue ungaro e celtico, e visigotico e longobardico. E poi una congerie di modelli e una moltitudiine di maestri: e verso questi una mia diligentia cioè quasi un amore. E una disciplina, cioè quasi una guerra.
Sicché la mia scuola è male insediata ne’ divani rossi del caffè Làzzeri.»
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[Il carattere estensivamente indefinito dei sistemi reali]
[…]
(La partita a scacchi, che essendo un gioco finito e chiuso ci dà l’idea di un cosmo logico, con premesse che la chiudono, come un muro chiude un giardino.
Le premesse sono le mosse matematiche o astratte, poste come realtà prima o divina di quel gioco. Esse sono il primum ineluctabile, sono il tempo-spazio e le categorie del mondo scacchistico. Ogni Schilleriano gioco ci dà, con la sua cinta daziaria logica, funzionante da Dio, ci dà l’idea d’un cosmo. E perciò l’esempio gioco non è infinitamente estensibile, come un esempio tolto dalla realtà quale la centrale elettrica. La premessa immaginaria di ogni gioco è il Dio categorizzante di quel gioco; e quel gioco è chiuso in sé, come nucleo logico. Ciò tra parentesi).
Si può stabilire da quanto precede un teorema che potrà parere paradossale, ma che è vero: si può chiamarlo Teorema della necessità della ricostruzione del coesistente: “La considerazione di un oggetto finito costringe la nostra mente a riconoscere l’esistenza di tutto il noto, di tutto il pensabile ed altro ancora”.
Voi direte: in realtà la mente, da un oggetto finito si dilunga qua e là verso alcune cause o derivazioni: e verso quelle solo e non verso altre: ma non è affatto vero che essa vada verso l’infinità del molteplice. Come una vecchia e distinta signora, adorna di pizzi neri e vecchi breloques che, uscita dalla sua casuccia vada alla vicina chiesa e dall’amica vicina e non oltre. Le chiese lontane non le collega a sé, al suo essere. Direte ancora: dall’oggetto meretrice io non risalgo affatto all’oggetto macchina a vapore. Rispondo: intanto io parlo di oggetti reali e concreti cioè di relazioni esistenti: quella tal reale e vera meretrice, (grumo di rapporti reali) quella tal reale e vera centrale elettrica: e non parlo di termini generali, astratti per comodità di pensiero dalla realtà storica (entia rationis.) Poi io non affermo che la mente dell’uno, cioè la mente psicologica individuale possa essa da sola, dall’osso del Dinosauro, ricostruire il Dinosauro ed il mondo universo. Ma la meretrice avrà per amante un manovale delle ferrovie. E costui, per immaginarcelo, dovremo pensare anche a Giacomo Watt. (28) Poi: se la vecchia signora non può, il giovane e forte alpinista in un mese avrà esplorato non solo tutte le chiese dei dintorni, ma anche tutte le montagne dove quella non ha mai messo piede. Vi è insomma mente e mente.
E poi i collegamenti necessarî non sono tutti consegnati a una sola mente, come i libri della Biblioteca Nazionale non ad uno scaffale unico, né la cultura d’un popolo a un libro unico, né le sorti d’una patria a un unico soldato. Altro errore profondo della speculazione: di veder ad ogni costo l’io e l’uno dove non esistono affatto, di veder limiti e barriere, dove vi sono legami e aggrovigliamenti.
Topograficamente noi siamo costretti a credere che di là da questi monti vi saranno altre valli, come il leopardiano interlocutore della luna, l’errante e meditante pastore. E al di là delle valli altri monti, e così in infinito fino a chiudere la sfera, che è l’imagine geometrica, topografica dell’uno-tutto. Se ci rifiuteremo noi di ammettere ciò, perché in eterno legati alla Val di Nievole o alla Val Malenco non vorremo credere all’esistenza della Val di Chiana o della Val Camonica, ebbene c’è chi pensa a fare che la pezza terrestre non sia tagliata al punto dove vorrebbe la nostra caparbia ignoranza.
E cioè gli abitatori di quelle valli, che noi neghiamo, e il vento efemeride che spira da esse e i fiumi che ne discendono fragorosi a primavera. Con questo esempio topografico, che invito a pensare con intensità, intendo chiudere la dimostrazione per exempla. – Se ne deduce, anche dal punto di vista etico, che una posizione conoscitiva implica un determinato equilibrio etico; che è riscattabile se si estende il sistema, operando una deformazione teoretica.
Devo aggiungere che per lo più si è parlato di catena delle cause e questa imagine insufficiente e l’irrigidimento prodotto dalla parola causa usata sempre al singolare anche per questo rispetto ha gravato d’un peso morto l’indagine. Ogni effetto ha la sua causa è un’asserzione che non comprendo assolutamente. Io dico “ogni effetto (grumo di relazioni) ha le sue cause”.
L’effetto, come l’individuo sono mezzi espressivi del nostro spirito (si badi non dico modi del linguaggio) il quale in prima istanza se ne è servito, come il dormente, accecato dalla luce improvvisa, apre un quarto di occhio.
L’effetto non è che una mutata relazione, una intervenuta deformazione in un sistema: che poi ci riconduce al sistema totale: ma essendovi una gradazione possiamo per approssimazione ritenere infinitesimo l’effetto all’infuori del sistema considerato. Ad es. la cessazione di esercizio di un utente della centrale elettrica, diminuisce l’erogazione di energia di questa centrale (sistema considerato), ma non turba tutta l’economia elettrica generale della nazione (sistema generale). Si dirà: ma è in nostro potere determinare i limiti di un sistema? Allora che cosa è sistema, in sé? Rispondo: i limiti del sistema sono determinabili in base al grado di approssimazione dell’analisi che ci interessa di istituire, così come negli usi pratici di calcolo ci si ferma al secondo o terzo termine di una serie convergente, contenti di questa approssimazione; così come nell’indagine visiva procediamo a occhio nudo – oppure con lente – oppure con microscopio: e questo a più o meno ingrandimenti secondo il grado di dettaglio che vogliamo raggiungere.
Se noi diciamo gli studî di Pieruccio, intendiamo in prima istanza due grammatichette, un libro di lettura, una penna (sistema considerato in prima istanza). Ma un altro vorrebbe comprendervi anche certi suoi stati mentali e allora occorre studiarne l’animo, la sensibilità, ecc. Un altro vuol comprendere anche gli influssi sulla sua salute. E allora dovrà affinare ed estender l’analisi. E così via.
Se noi diciamo malattia, in prima istanza è il sistema immediato d’una certa indigestione. Ma il paziente soffriva già… pativa già… aveva mille preoccupazioni: e allora eziologia profonda, storia del male, ricerche agnatizie, indagine morale e storica: ambiente, influsso della suocera, ecc.
L’effetto, dicevo, è una deformazione intervenuta in un sistema (limitato dal grado di perfezione della nostra istanza. Il grado di perfezione della nostra istanza risponde a condizioni oggettive e non psicologiche, beninteso se noi ragioniamo bene. Cioè i limiti assegnabili ad un aggruppamento sono removibili ad istanza della coscienza).
Ma è pensabile un fattore deformante da solo? Una causa da sola? No: ciò è un non senso. Un atto deformante non è un individuo ma una sinfonia di relazioni intervenenti: abbiamo visto che uno spostamento in un sistema è spostamento, alloiosis, di tutti gli elementi (29) di un sistema: non è concepibile una mutazione d’un elemento, da solo: perché nel mondo delle relazioni non esistono monete tesaurizzate nell’arca e dimenticate dalla pulsazione vitale, ma tutte si muovono e rappresentano soltanto rapporti. Se dei chicchi di riso compongono una figura (si badi che l’esempio che io porto è pericoloso perché ci ostiniamo a ritenere i chicchi come individui: essi sono soltanto grumi di relazioni) e io sposto un chicco, deformo il sistema: e così se guasto un chicco, pur lasciandolo dov’è.
Aliter: gettiamo un boccon di pane nel lago e tutti i pesci si precipitano (non un solo pesce) come frecce centripete verso il boccone, raggi d’un cerchio. Aliter: si deprime il barometro qui a Milano (zona ciclonica) e tutte le masse d’aria che percepiscono ciò si precipitano qui: (cioè dagli otto canti della rosa dei venti e non da un canto solo, p.e. Grecale.)
Ciò vale a dimostrare che non solo le cause sono sempre da pensarsi al plurale, in quanto l’atto deformante non è un individuo ma una somma di relazioni intervenenti (non voglio indagare qui come o da chi procurate: di ciò altrove), ma anche gli effetti. Non esiste l’effetto, ma gli effetti: l’effetto non esiste e non è individuo: esistono degli effetti cioè relazioni nuove.
Esempio: l’individuo umano p.e. Carlo, già limitatamente alla sua persona, non è un effetto ma un insieme di effetti ed è stolto il pensarlo come una unità: esso è un’insieme di relazioni non perennemente unite: (p.e. il suo amore per una certa ragazza dura in lui tre mesi e la sua ira contro un debitore otto giorni.) (30) Ma poi è assolutamente impossibile pensare Carlo come persona, come uno, come un pacco postale di materia vivente e pensante. Ciò vien praticato su larga scala: eppure è cosa grottesca, puerile, degna di mentalità pleistoceniche.
Il suo apparire nel mondo ha dato luogo a rapporti sociali, economici, psicologici, ecc.: le galline della fattoria si sono accorte di lui sparnazzando spaventate ai suoi primi strilli, il testamento d’uno zio è stato mutato a suo favore, la levatrice, il prete, la balia, il medico, il sindaco, l’ufficio anagrafe e l’ufficio leva hanno dovuto scomodarsi per lui, accorgersi della sua presenza. Poi volle mangiare, bere, giocare, lavorare. Sono intervenuti nel mondo, dal fatto Carlo, milioni di miliardi di nuovi rapporti. La realtà totale ha in lui un nucleo deformante e introducente in essa una infinità di rapporti. – Così dicasi della morte dei cosiddetti individui, che muta e perverte miliardi di trilioni di rapporti. Essa non avviene in un attimo: e ciò è stato largamente avvertito, e ripetutamente cantato fino dai più insulsi menestrelli. La perenne deformazione che si chiama essere vita, giunge talora ad apparenze così difformi dalle consuete che noi ne facciamo nome speciale e diciamo morte.
Esaminerò altrove questo concetto e il suo reale contenuto.
Qui voglio concludere che cause ed effetti sono un pulsare della molteplicità irretita in sé stessa e non sono mai pensabili al singolare. La più semplice causa, un colpo di martello presuppone l’incudine. E la forza non è mai sola: si manifesta polarmente.
L’ipotiposi della catena delle cause va emendata e guarita, se mai, con quella di una maglia o rete: ma non di una maglia a due dimensioni (superficie) o a tre dimensioni (spazio-maglia, catena spaziale, catena a tre dimensioni), sì di una maglia o rete a dimensioni infinite. Ogni anello o grumo o groviglio di relazioni è legato da infiniti filamenti a grumi o grovigli infiniti.
Ciò ci induce per altro a dover in altra sede esaminare 1º) Se e perché possiamo parlare di grumi o nuclei, conservando ancora qualcosa del concetto di individualità grossa od empirica (pacco postale) e dei concetti monadistici in genere, o se ciò è solo un trapasso, come lo sterratore che provvisoriamente ammucchia certa terra in un luogo: 2º) Se la relazione fra nucleo e nucleo sia e possa pensarsi immediata, per treno diretto, o se vi siano stazioni e grumi intermedî: se ciò sia ammissibile o no. O si debba dirigerci verso un tessuto di relazioni elementarissime (di relazioni polari binate p.e. come nel magnetismo); o più elementari ed indistinte ancora, vibrazioni infinitesime dell’essere. Si manifesteranno così i problemi della coscienza e della individualità teoretica, dell’uno, della monade, del sistema. Per ora già ci basta di aver demolito il pregiudizio che ha nome persona o cosa.
La semplicità io chiamo aggruppamento. Esiste (kantianamente) una attività nucleante che crea queste idee e dispone il reale raggrumandolo. Ma tale attività ordinatrice è una funzione storica del pensiero, non un assoluto. Nei millenni futuri l’applicazione del principio di causa apparirà una grossolana superstizione, come a noi Encelado soffiante lava e lapilli. La teoria della molteplicità dei significati ci spinge ad ammettere una invenzione continua, se pur lenta e non apparente in psicologia; e questa invenzione è modo di collegare, provvisorio, ecc.
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[VIII]
[La dissoluzione dei miti]
[…]
Un avvertimento dato a tempo, o anche un semplice rilievo espressivo, o una semplice sosta o esame di coscienza posson evitare lunghi dispiaceri e fatiche inutili nella disputa e l’espressione (intesa in senso integrante) deve essere non ultima cura di chi contempla questioni aggrovigliate e suscettibili di generare equivoci.
Mi sia permesso di insistere, se pure in forma mitica e grossolana, sul concetto di periferia e ciò faccio per amore e con fatica, non per imbrattare la carta costosa, cioè per facilitare la comprensione quanto le mie deboli forze me lo consentono, perché la realtà psicologica e storica ci offre esempî di periferia che possono essere propedeutici al concetto di limiti attuali (provvisorî) della conoscenza.
Sul ripiano d’una biblioteca, che vi prego di immaginare indefinito sia verso destra, sia verso sinistra sono ritti, allineati e stipati dei volumi. I volumi posti sul ripiano così immaginato e descritto non siano però infiniti, come la lunghezza del ripiano, ma siano un certo numero.
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Che accadrà, essendo i libri stipati? Quelli del centro saranno ritti, verticali, mentre alle ali decadranno: quelli di sinistra verso sinistra quelli di destra verso destra: e i due libri estremi a destra e a sinistra saranno addirittura sdraiati sul ripiano e cioè orizzontali. Vediamo che la verticalità dei volumi è nettamente reale al centro del gruppo, dove l’uno sostiene l’altro polarmente (cioè l’uno respinge la caduta dell’altro verso di sé e la rende impossibile) mentre è gradualmente meno reale a mano a mano che progrediamo verso le due estremità, o periferia.
Lì la verticalità scompare addirittura e diviene non verticalità ma orizzontalità: (che è il non essere della verticalità.)
Così le ali o cornus di uno schieramento militare danno luogo a situazioni che ne deformano i caratteri rispetto a quelli del centro. Ecc. ecc.
Così è di molte situazioni umane. Mentre al centro si brucia alla periferia non si arriva neppure ad iniziare la combustione. Il metallo è già fuso nel centro del forno a crogiolo e le pareti sono fredde ancora. Il fuoco abbrustolisce i ladroni, con sinistri bagliori, nelle caverne della sventurata Proserpina divenuta sposa di Plutone e la crosta terrestre reca la lanugine puberale della primavera: e verdi steli sono irrorati del respiro verginale di Proserpina, non per anco rapita. – Il sole (centro) arde e la luna è fredda (periferia della periferia). Onde il poeta cantò.
Quando la fredda luna
sul largo Adige pende…
Il critico: «Non credo affatto che la luna sia totalmente fredda e che vi imperversi lo zero assoluto, con tutte le sue sinistre conseguenze.»
Rispondo: «Nutro anch’io la medesima opinione.»
La provincia fornisce alla metropoli il materiale umano che questa rapidamente distrugge: le metropoli sono punti di macerazione o di più intenso consumo del materiale umano ma anche punti centrali o dialettici. (Se si pensa topograficamente distesa sulla sua terra una gente, la metropoli, accentrante relazioni, è il punto di consumo o cancrena.) Sono divoratrici di materia perciocché l’enorme produzione-dialisi (mi esprimo così in prima istanza) di relazioni che esse operano ha per corrispettivo un richiamo continuo di elementi a fattor comune, ossia di materia umana.
(Come l’officina di Ford, per dare diecimila macchine esprimenti diecimila sistemi diversi di relazioni, chiama acciaio ed acciaio, cioè materia e materia, cioè permanere e permanere, e questo permanere per poter dare il diverso. Vedi paragrafo La materia e la molteplicità.)
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[IX]
[Il male]
Perché gli Eletti? Infatti la totalità serve a nucleare sistemi di sistemi. E gli eletti sono come coloro che scappano perché i carabinieri arrestano gli altri. Cooperazione dei sistemi in un sistema, ecc.
Farò come al solito una ipotiposi banale, che spiega il mio pensiero: tre tigri inseguono cinque uomini: tre uomini sono afferrati e due si salvano. Il merito dei salvati non esiste. Essi sono salvi perché gli altri tre hanno impegnato le tigri. È il numero cinque che ha il pregio di essere superiore al tre.
Il critico: «I due salvati correvano di più.»
Rispondo: «Correvano sempre molto meno delle tigri, che avrebbero raggiunto anche loro, se non avessero avuto a che fare coi tre divorati.»
Nel mezzo del tessuto gli eletti si ergono, come parole di verità, sulla confusione tenebrosa che viene indotta in chi deve delinquere ed è margine doloroso del compatto tessuto. La maglia liscia e ben fatta del centro dice a quella della periferia o margine o vivagno: «Come sei brutta! Tu delinquis naturam communem». Respondo patronus: «Non quidem delinquit. Est quod est. Ex illius enim forma constituitur realitas». Il male è una coesistenza eticamente periferica del bene. Ciò noi vediamo nettamente sul terreno etico-economico.
Sicché la virtù mi appare un rapporto fra quello che si fa e quello che si può fare. Essa è relativa ad un sistema, cioè ad ogni uomo. Il debole ragazzo che affronta coraggiosamente un ragazzo più grande di lui è coraggioso (virtuoso caso particolare di virtù) mentre il pugillatore non sarebbe chiamato tale affrontando quel ragazzo.
Così uno che potrebbe rubare dieci e facendosi forza ruba soltanto 5 è già un po’ virtuoso.
Meglio: il ricco che con tutti i comodi studia è meno meritevole di chi fa ciò con inenarrabili sacrifici.
Onde non esiste virtù in assoluto ma rapporto fra il nostro grado di libertà e ciò che facciamo. – E uno apparentemente colpevole può essere più virtuoso d’un altro risplendente delle 7 perfezioni, perché dato il suo punto di partenza quel poveraccio ha fatto già molto.
L’alpinista che partito da quota 0 ha raggiunto 1ooo ha fatto più che il collega, partito da 5oo e salito a 1200, perché ha compiuto un dislivello 1ooo e l’altro 700. – Eppure il volgo (dotto e ricco e patrizio e sapiente) dà la palma al secondo; e fa bene perché ciò che conta non è la virtù ma la realtà.
La virtù è una funzione derivata.
L’idea di virtù come corpus fisso (fagotto di ornamenti della propria persona) è una barocca idea dell’antichità retorica roboante e plutarchiana, (31) della bassa grecità (non si trova p.e. in Omero):(32) come idea comoda, facile, bonaria, e scipita, e suscettibile nei blandi pomeriggi autunnali di chiacchiere à n’en plus finir, piacque molto ai latini, (33) ai retori greco-latini (cioè ai venali maestri greci degli aristocratici zucconi di Roma) e di lì si travasò in tutta la storia della declamazione fino ai nostri giorni. Si pensi che ancora il Leopardi, dico il Leopardi, che nella sua tragica vita ha tanta materia di osservazione diretta («Zibaldone») fa della retorica Plutarchiana! (sia pure usando una prosa squisita, insuperata.)
La volontà buona distrugge il concetto di virtù-corpus dappoiché si capisce che la volontà buona del povero cretinoschi non avrà le stesse forme e gli stessi effetti assoluti di quella di Anton Ludovico Muratori o di Giovanni Battista Vico.
Virtù è adempimento e poi perfezionamento e poi invenzione: ma adempimento e perfezionamento e invenzione sono infinitamente varî e non esiste un corpus fisso della virtù. Dico ciò proprio fino alle ultime conseguenze: il bere vino è male per l’ubriacone, bene per chi soffrendo di astenia gastrica ha bisogno di un blando eccitante. Il ferire d’arme uno per derubarlo è male, bene per difendere la propria madre aggredita. L’astenersi dal sesso è bene per chi deve prepararsi ad una gara ginnica, male per lo sposo nella prima notte di nozze, ecc. – Questi esempi sono caricaturati e paradossali, dicono però chiaramente che non esiste un corpus fisso di virtù. P.e. il nazionalista deve combattere, l’anarchico disertare. (34)
Il critico: «Voi fate del pericoloso relativismo.»
Rispondo: «Io non faccio nulla, poiché tutto si determina in me. Chi ragiona bene non corre alcun pericolo, come il forte alpinista non è in pericolo rasentando l’abisso. Naturalmente chi soffre di vertigini ha paura della forra e non osa guardarla, e chi teme il diavolo ha paura di star solo al buio, e che il diavolo si nasconda, e che da sotto il letto spuntino le malignissime corna sue.
Voi fate un gioco di parole, poiché il mio relativismo è ben diverso da quello di chi dice: “Non esiste bene o male: l’uno val l’altro”. “Al di là del bene e del male…” et similia. Qui io sto dicendo un’altra e ben diversa cosa. Dico che non esiste un contenuto standard della virtù, ma che virtù esprime un rapporto, variabile a seconda dei casi. Ed è una funzione derivata d’un sistema di rapporti (35) detto realtà. La virtù dell’alpino è cosa diversa da quella dell’aviatore, e quella del soldato (questo secondo esempio soprattutto mi preme) da quella del generale. – Al soldato si potrà perdonare qualche bestemmia, all’uffìciale no. Il soldato deve mirare e sparar bene. Il generale potrebbe essere guercio ed essere un Napoleone. Il generale può mangiare e dormire comodamente per lavorare intensamente e con acume quando bisogna. La sua virtù è pensiero, volontà, acume. Il soldato può non pensare, basta che sia disciplinato e tenga pulito il fucile: ma dovrà sacrificarsi nel sonno e nella dura fatica.
Insomma il mio «De officiis» contiente tanti paragrafi quanti sono gli uomini, e perciò non troverò mai un editore che si sobbarchi alla spesa di stamparlo. Qualche officium sarà comune al soldato e al generale. P.e. “il senso di gelosa avarizia per ogni oggetto che sia proprietà della nazione, pensando ai sacrificî che essa sostiene per vettovagliare l’esercito”. Ma ciò in senso astratto. Ché nel generale tale sacrosanta avarizia dovrà manifestarsi con ordine amministrativo e vigile sorveglianza e nel soldato col non sciupare la roba affidatagli.»
Il critico: «Conosco un popolo in cui era diffuso questo apoftegma: “Sciupiamo il più possibile calzoni e scarpe e fucili, cosicché la guerra finirà presto ché il governo non avrà più potere di continuarla.” Ciò per parte degli umili, che secondo alcuni saranno i primi, per ciò solo che sono umili, anche quando si abbrutiscono più di quanto comporterebbe la loro umiltà: e per parte dei grandi c’era la più spaventevole confusione, tanto che un ufficiale di mia conoscenza, a me molto prossimo, anzi talmente prossimo da essere un me stesso, fu dimenticato due o tre volte e nel momento del maggiore bisogno con tutto il suo reparto e talvolta la dimenticanza valse ad affamare lui e i suoi come un branco di lupi rognosi e dovette mendicare il pane dai viciniori – e talvolta la dimenticanza valse a privare di una valida e alacre difesa un settore del sanguinante fronte (quale era quello del suo amore e della sua volontà e del suo disciplinato reparto).»
Per gli umili rispondo: «Tale scienza sociologica e tali fantasmi e relazioni inesistenti sono stati e saranno scontati da quel popolo con somma di dolori e privazioni quadrupli di quello che sarebbe costato il dovere dell’avarizia. Ciò per quanto mi dite degli umili. E per i grandi… si vede che essi perdevano con facilità il taccuino delle entrate e delle uscite e che centomila uomini presenti o assenti, vivi o morti; morti utilmente o morti inutilmente – importava loro poco più di uno spazzolino da denti usato». (36)
Utilitarismo integrante. Un esempio caratteristico della molteplicità dei significati può essere offerto nel campo della defluenza storica da quello che io chiamo l’utilitarismo integrante cioè la scoperta del concetto di utile in senso sempre più lato. Io intuisco ciò come il defluire di una deiezione gretosa o meglio di una deiezione lavica in cui gli strati mobili e caldi superiori rigurgitino sopra gli inferiori già raffreddati e più lenti.
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Questo rigurgito o raddoppiamento lavico dovuto alla cristallizzazione da raffreddamento degli strati vecchî e delle parti lontane dal centro di emissione occorre nella vita etico-politica dell’uomo. Ciò che al grado n pareva utile, allo sviluppo n + 1 pare meschino e dannoso, perché si sono scoperte (inventate) relazioni più integranti: e l’azione viva e calda e nuova e moderna rigurgita, riscaturisce sopra la cristallizzazione del lembo o strato n, integrandosi e creando l’n + 1 ecc. – Così l’uomo che muore per la patria (n + 1) ha superato il concetto di conservazione della sua persona fisica (n) che era il non plus ultra della sua Etica di poppante.
Esempio storico: Gli emigranti italiani sbarcavano 30 anni fa a Buenos Aires facendo a piedi nudi nell’acqua 100-150 metri, dove le barche non arrivavano per troppo scarso fondale. La loro virtù fondata sull’utile (una pausa dell’utilitarismo, la pausa n) consisteva nel levarsi le scarpe e si conferiva al proprio io avendo scarpe facilmente levabili e nell’essere grandi e nobili nel far ciò. Dipoi il capitale inglese ha prestato a Buenos Aires di che costruire uno dei più grandi e costosi porti del mondo, e il transatlantico attracca al pontile. La virtù consiste ora nel scendere con elegante disinvoltura dal ponte del piroscafo sul pontile del molo. – Occorre ora avere scarpe che non si perdono per strada ed essere grandi e nobili nel non levarsi le scarpe e nel non perderle per istrada, cioè esattamente il contrario di prima.
Quando la linea Pavia-Tortona non era costruita, per andare a Genova dovevo passare per Mortara e Alessandria: ora non più. E l’utile, fondato sulla virtù, consiste oggi per chi vuol correre a Genova nel guardarsi bene dall’andare ad Alessandria, ché ciò farebbe perdere tempo e denaro.
Perciò l’utilitarismo, o la virtù-utile è un concetto in continua fase di integrazione (o meglio di deformazione, ché si danno anche epoche di regresso come p.e. passando da un regime capitalistico a un regime di pauperismo e dalla strada e dall’acquedotto imperiale all’asinello e al ponticello medievale) e ci offre un buon esempio.
Il male. Come si può spiegare l’asserita coesistenza o necessità dialettica del male? Del male vivagno o margine del buon tessuto? L’attività operatrice e dialettizzante le situazioni che diciamo buone, p.e. la maschilità, è una viva realtà e, come l’acqua, sprizzerà da ogni buco del serbatoio. Essa è una tendenza operatrice del reale. Ma se relazioni reali non si offriranno, si offriranno situazioni fittizie o fantastiche. Così il prigioniero è sempre maschio pur essendogli interdetta l’opera sessuale. – Allora la operosa magliatrice annoda l’irreale, cioè il male.
Il concetto bene-male ci riporta quindi a sussumere una potenza o tendenza o pressione del reale, e ciò rispetto ad ogni argomento o relazione: quando nessun veto rende irreale la convergenza si ha il bene. P.e. (faccio un esempio di 2 relazioni, ma le convergenze sono in realtà di infinite relazioni) Mario maschio ama Elena (1a relazione di potenza) e ha denaro per accasarsi (2a relazione di potenza.) Si uniscono secondo le leggi e si ha il bene. La relazione economica non pone alcun veto, cioè non toglie realtà alla erotico-genetica. Ora Stefano ama Maria ma non può accasarsi per povertà: si congiungono fuori della legge e fuori dell’abitato, e si ha il male. (Cioè la relazione economica aveva posto un veto alla genetica rendendola irreale o fantastica.)
Ho scelto questo atroce esempio per 2 ragioni. Prima e occasionale: esso ci dà il particolare insegnamento che anche nella realtà genetica i fattori economici non sono extra-reali o immorali. Essi rappresentano una esigenza p.e. per l’allevamento della prole. E se di ogni individuo si può dire che ha diritto alla vita sessuale, si dice ciò nel senso sentimentale-umano, ma la realtà economica nega la prole p.e. quando sulla terra non c’è più posto per alimentarla. Allora si deve stabilire un equilibrio fra la attività genetica e l’attività di redenzione economica (guerre di conquista, lavoro, industria, dissodamento di nuove terre, ecc.) ché altrimenti il procreare è una irrealtà: cioè si mettono al mondo figli che moriranno di dolore, di vergogna e di fame. – Anche il coniglio e il topo delle cloache o mus decumanus sono prolifici: basta un potente acquazzone che faccia levare di dieci centimetri il livello delle acque luride nei collettori, invadendo la banchina, e la gloriosa stirpe decumana muore affogata. – Perciò non basta seminare ma bisogna combattere e lavorare ed essere: altrimenti si forniscono schiavi allo straniero.
La realtà tien pronta la potenza di ogni ordine di relazioni, ma solo nei punti di convergenza di tutte (37) le relazioni e di nullo veto da parte di alcuna, si ha il bene: o realtà. Così a una gara di tiro con bersaglio mobile, il tiratore tien pronto il fucile ma spara bene se ha il bersaglio di fronte: se no spara male, a vanvera, è irreale e fantastico. Nelle furenti guerre il rapporto fra i colpi che feriscono e quelli sparati è una frazione piccolissima. I colpi che feriscono sono (in quanto colpi) il bene o realtà – gli altri sono la fantasia. (Naturalmente chi spara non sa, dato che opera con intelletto finito, quali sono gli uni e quali gli altri e perciò crea cortine di fuoco o sbarramenti.)
La seconda ragione per cui ho scelto l’esempio coniugale (schematizzato a 2 relazioni), è inerente alla trama del mio pensiero e non rappresenta una parentesi pratica. E cioè noi vediamo che il cumulo delle circostanze o relazioni (reali) nel senso più esteso possibile fa il bene. E siccome noi non le avvertiamo tutte, il bene (anche relativamente ad un determinato oggetto) varia secondo l’estensione integrante che la nostra mente opera circa quell’argomento. L’estensione integrante che ho denunciato nella storia esiste in certa misura anche nella interpretazione individuale, finita, attuale, di un nucleo di relazioni od oggetto.
Anche parlando comunemente si dice: «Io ho creduto bene di fare così», cioè animato da sincero desiderio del bene, ho ritenuto il bene essere questo. Ma tale espressione ammette implicitamente la possibilità di una diversa interpretazione (integrazione più o meno estesa.)
Importantissima nota è la seguente: l’integrazione o estensione conoscitiva può peccare per difetto: p.e. certi avari perdono cento per correr dietro all’uno. Ma pecca per effetto se è fantasiosa: p.e. certi politici credono troppo facilmente a certe palingenesi e fabbricano castelli in aria. Spesso le due cose s’uniscono e sono implicite l’una nell’altra: il libidinoso cerca l’immediata soddisfazione del senso anziché la lotta e la vittoria.
Riassumo la spiegazione bene-male:
1º «Il bene o realtà si attua per la coincidenza di una enorme dovizia di relazioni ed è quindi manifestazione centrale, o convergenza; o quadrivio; o fibra centrale del tessuto. Il male si ha per gradi procedendo verso l’estremo o limite periferico dove la convergenza delle relazioni è sempre minore finché il tessuto si dirada, il fiume diventa sponda».
Prima avevo ricorso alla metafora del vivagno, per prima spiegazione, ora trovo che è meglio dire: il tessuto si dirada e vanisce, ammettendo che i due margini (cioè l’estremo male) siano un vanire della realtà.
2º «Questo ci costringe ad ammettere una potenza che ogni relazione ha di manifestarsi e di concomitare con altre per tradursi in realtà, o meglio una onnipresenza della relazione (38) (onnipresenza logica, non spaziale). Ma la potenza è concetto fittizio che accettiamo solo per ora e demoliremo poi».
3º (Importante) «La periferia non è periferia di tutte le relazioni: cioè prego di non interpretare grosso modo il paragone del fiume e della sponda. Ogni relazione ha la sua direzione e quindi la sua periferia. Nella geometria proiettiva si definisce stella l’infinità delle rette convergenti in un punto. Ebbene essa rappresenta ciò che voglio esprimere. Il punto di convergenza è il bene o realtà e i punti lontani (su ciascun raggio) sono i punti di male relativamente a una relazione (ad un raggio)». (39)
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In pratica: si può essere ladri e coraggiosi: (irreali relativamente alle relazioni economiche) – dissoluti e onesti (irrealtà riguardo al sesso) ecc.
Cioè sebbene la vita etica leghi le relazioni, si può peccare d’un solo genere di peccato, e andare all’inferno per un solo motivo, come Brunetto Latini, ricordato da Dante come padre buono e caro.
Il critico: «Voi riducete il bene alla realtà. Un assassinio reale è per voi un bene».
Rispondo: «Non mi sarei mai attesa una interpretazione così grossolana. Vi ringrazio comunque di avvertirmi scherzosamente con essa che forse l’espressione del mio pensiero è imperfetta e che presso menti sovraoccupate può ingenerare confusioni.
Io ho continuamente insistito sulla convergenza del massimo numero possibile o pensabile (40) di relazioni necessarie a dare il bene, cioè la più reale realtà: ora l’assassinio difetta di un gran numero di relazioni, p.e. la morte violenta della vittima (poniamo sia una moglie infedele) non redime il male per cui è punita. E così molte altre relazioni che scorgerete da voi pongono il veto alla realtà o bene dell’assassinio. Esso è chimera, fantasia, cosa sbagliata e non realtà. (D’altronde anche l’errore della moglie era chimera, fantasia, cosa sbagliata e non realtà).
Non solo: ma oltre all’insistere sulla convergenza di tutte le relazioni (per tutte intendo il più possibile, dato il mio concetto di limitazione dell’umano giudizio) ho ammesso che quel tutte varî nella storia (nella deformazione o evoluzione storica) e possa aumentare; e così varî da individuo-giudice passando ad altro individuo-giudice e possa aumentare.
Vedete dunque quanto io sia lontano dal chiamar buona una cattiva azione perciocché essa è avvenuta; lontanissimo da ciò è il mio pensiero, che anzi nega realtà alla cattiva azione, al male: e lo interpreta scolasticamente come un parziale non-essere, cioè come un non-essere relativamente a un gruppo di relazioni (a un settore etico o fenomenico, se più vi piace.)»
«Perché dite etico o fenomenico?»
«Perché dalla mia teoria risulta che la massima realtà o fenomenalità è la massima eticità. (41)
Ciò che risalta dalla mia esposizione è il tema della coesistenza del male e del bene più che quello della loro intrinseca natura: ma anche di questa ho detto qualcosa che credo non volgare.
Sono certo che il tema della coesistenza sarà motivo di scandalo, se giungerà ad altri orecchî che non siano quelli del quaderno accogliente i miei pensieri. Ma esso è tanto vero, che nella pratica umana voi notate una certa pietà o commiserazione anche verso i peggiori delinquenti, che coesistono con i più luminosi etici e coi moralisti. E tali delinquenti, presso i popoli civili, sono piuttosto considerati dei mostri che degli uomini, e trattenuti dal mal fare con il carcere o altro, che puniti.»
«Voi siete contrario alla pena di morte?»
«Il trattener dal mal fare non si rivolge soltanto alla storia dell’uno: ché se uno ha ucciso sua suocera, non potrebbe ucciderne una seconda, e sarebbe inutile punirlo per difesa del corpo sociale. Ma ai molti. È una intimidazione (almeno si spera) verso tutta la categoria dei delitti. Sicché si pensa che certi atroci delitti, se siano atrocemente puniti, siano presentati come possibilità che vaniscano anche nella coscienza sbagliata e oscura (cioè nucleo di relazioni non complete o reali) dei delinquenti, rei probabili.
Realmente devesi notare che la certezza della punizione trattiene dal mal fare: p.e. io non salgo sul prato davanti alla guardia municipale, ché son certo avrò la contravvenzione. L’inefficacia della pena deriva piuttosto dal fatto che il delinquente spera di evitarla e di sfuggire alla giustizia umana. Ma ciò pertiene non al grado della pena, sì all’efficacia maggiore o minore dei mezzi di indagine e di accertamento. Devesi quindi raccomandare più che l’eccesso della tariffa di pena al legislatore, l’attività della polizia nel cogliere i delinquenti e del giudice istruttore nello smascherarne le malefatte.
Il poeta e drammaturgo inglese William Shakespeare scrisse un’opera di teatro intitolata «Amleto, Principe di Danimarca» che è ricchissima di significazioni, non ancora tutte, forse, messe adeguatamente in luce. – Egli mostra l’inammissibilità o irrealtà del delitto che perverte la stoffa del reale ingenerando altri delitti espiatorî o rammendi della stoffa (ma non espiatorî nel senso cristiano, sì in un terribile senso di ripristinamento logico-teoretico o intrinseco alla realtà.)»
Il critico: «Allora appunto questo drammaturgo che voi citate sembra anzi ammettere la realtà piena del male.»
Rispondo: «Se il male vuole una riparazione, chiede una ricostituzione, ciò significa che esso è irreale. Esso prende a prestito dal futuro (storico o logico) la riparazione o ricostituzione, il riavvicinamento al reale; come certi impiegati dello stato ottengono prestiti (male) cedendo all’istituto prestatore il quinto dello stipendio futuro: (riparazione.)»
è appunto il mondo dei fenomeni più propriamente economici che ci offre ipotiposi e analogie atte a manifestare e chiarire il mio pensiero. Un affare sballato, p.e. lo sfruttamento di una miniera di minerale troppo povero, conduce al fallimento la società mineraria che l’ha intrapreso. Che vuol dir ciò? Che si consumano dei capitali ossia delle riserve, già pronte oppure tolte alla vita del domani, per lavorare a un’impresa sballata. Cioè quel consumo, che si manifesterà con la perdita del denaro degli azionisti e con l’annullamento dei crediti dei creditori della società, quel consumo è l’elemento riparatore o nemesi (come direbbe Giosuè Carducci) dell’affare sballato.
La realtà economica è quella che più prontamente reagisce all’errore nel senso che il fallimento, (42) indice di errore o male economico o irrealtà denuncia al più presto e ripara il male, con sacrificio riparatore: (il sacrificio è tutto nelle tasche degli altri o vittime, beninteso). La realtà biologica reagisce meno prontamente e solo parzialmente nell’individuo, ma pure reagisce, e più ampiamente nella collettività, nella specie: un individuo può rovinarsi la salute prima di accorgersi della natura de’ suoi eccessi, o meglio prima di trovare in sé il metodo della redenzione. È perciò che, interpretando finalisticamente il mondo, riesce facile di scorgere una ragione della molteplicità o pluralità di individui: se l’uno perisce, l’altro almeno si salvi. Se l’abete è nato sul margine della frana e, cresciuto, cadrà: altri abeti sono al sicuro. Se un soldato muore, altri si salvano per generare. Donde il molteplice, il permanere, il fattor comune, la materia, ecc., residui della mania di differenziazione da cui è affetto l’universo, vera idea fissa dell’universo che vuol provare ogni esperienza, assaggiare ogni frutto, anche apparentemente malefico.
Nella realtà etica la ricostituzione o ripristinamento o riavvicinamento al reale esiste pure ma è difficilissimo scorgerla e, ragionando frammentariamente e finitamente, come siam soliti, sentiamo nelle orecchie un ronzio che ci dice: «Fai pure, nessuno ti vedrà.»
Ma questo ronzio è il diavolo subsannante la sua vile incitazione: o le ombre della notte, che ridono d’un atroce pensiero. D’altra parte certi etici, che soffrono di miopia, e prediligono sul loro piatto l’intingolo della semplicità son capaci di chiamare Castigo di Dio uno scontro ferroviario ove è rimasta uccisa una domestica un po’ linguacciuta.
Scolio. Una conseguenza interessante l’Etica, deducibile dalla mia distinzione in bene di 1º grado e bene di 2º grado è la seguente.
«Il male morale non è soltanto quello che si apprezza da una conseguenza storica di male: p.e. dal conseguir ad esso un male fisico, politico, tecnico, economico, psicologico; un dissesto in genere».
Infatti tale apprezzamento del male morale è insufficiente a determinare tutto il male morale. Tale apprezzamento ci consente di constatare il solo male di 1º grado che è il non-bene fisiologico (nel mio senso lato) il decadere di n: perché ci vien posto sott’occhio l’oggetto n sciupato o semidistrutto, degradato a n - 1, la casa bruciata dall’incendio doloso, il corpo dell’uomo rovinato dai vizî, il corpo sociale distrutto dalla cieca libidine delle folle o dei loro degni patroni e tribuni (p.e. maffia e capo maffia.)
Ma esiste anche un male non visibile dal comune dei giudici: il male del non fare, del non creare, del non accedere all’n + 1; del non sforzarsi, del non sacrificarsi volontariamente, del non costruire. Il male di chi vivacchia, di chi tira a campà, di chi si contenta della tradizione, il male Lamartine come io lo chiamo, riferendomi all’ingiuria che il poeta delle «Harmonies poétiques et religieuses» rivolse alla nostra nazione, dopo averla girata in lungo e in largo. Questa ingiuria fece scattare il baldo marchese Taparelli D’Azeglio, genero del noto scrittore lombardo Manzoni, autore a sua volta della «Disfida di Barletta» e pittore dei «Bravi in agguato nel bosco» – a cui (quasi che il mondo fosse una traduzione di scene, da padre a figlio) non parve vero di riviver le penne e la spada del suo Fieramosca, del suo Fanfulla.
Questo male pertinente all’n + 1 non sembra palesarsi al comune de’ giudici dacché non è riferibile a un già creato che venga distrutto, ma è vero male, e certo la spada folgorante dell’Arcangelo lo persegue e lo fruga, per dirla con il sommo poeta, non meno dell’altro.
Exemplum: Carlo, in un momento di debolezza, s’è allontanato di 1oo passi dalla linea di fuoco, con la scusa della dissenteria e madido, stravolto, atterrito, s’è buttato per terra, invocando Dio di fargli sparire dagli occhi il mondo, ché gli pareva di impazzire, se il mondo fosse continuato così. Si riscontra la sua ingiustificata assenza durante un appello del comandante di compagnia, fatto proprio sotto la tempesta del fuoco di distruzione. Carlo è fucilato entro le 24 ore. Però in altre occasioni aveva avuto slanci generosi: per esempio quando, all’arruolamento, disse spontaneamente «mandatemi al 5º Reggimento Alpini».
Emilio non s’è mai allontanato dal suo posto durante tutta la guerra, ma bisogna sapere che quando gli chiesero, all’ufficio d’arruolamento: qual corpo scegli? (in certa misura e in condizioni normali si consentiva una tal scelta) egli rispose ed era nel suo pieno diritto: «Genio automobilisti.» E fu destinato a un certo autoparco d’un certo corpo d’armata. – Disimpegnò sempre lodevolmente il suo servizio e fu congedato onorevolmente, a cose finite, cioè a guerra finita.
Ora immaginiamo che Carlo ed Emilio si presentino al terribile giudizio di Chi tutto giudica al di là della pace e al di là della guerra: Emilio dopo una vita edificante, con figli e nepoti, con croci e stelle e diplomi, e Carlo, lacero e seminudo, sporco di sudore e di terra e degli orribili grumi del suo sangue cagliato, col viso e col torace ancor sanguinante dalle mortali ferite del fuoco di plotone, con un ciuffo di capegli madidi sulla fronte terrea. Emilio vanta la sua prole, e la stirpe infinita che camminerà lieta e superba nelle strade del mondo: e vi saranno per essa gli imenei ed i giorni e le opere, e i giorni dei giorni, e le opere delle opere, e agli imenei saranno corona fanciulle e poeti, giovani, Veneres Cupidinesque, e il più dolce poeta dirà il più tenero epitalamio.
Carlo sa di aver mancato al dovere e non chiede nulla. Emilio ha compiuto tutto il suo dovere: e nessun giudice, nessun uffiziale ebbe mai nonché a punirlo, nemmeno a richiamarlo.
Il critico: «Mi fa specie che voi, incline sempre a tener dalla parte de’ più forti e de’ più fortunati, militarista accanito, sembriate inclinare ora a una certa umana clemenza nei confronti del disertore.»
Rispondo: «Io non posso conoscere ciò che Dio sarà per decretare. Quanto al disertore è un disertore di 1oo passi. Quanto al militarista, ciò è vero, accetto la designazione ma il mio è un militarismo in signo rationis. E quanto al dovere compiuto da Emilio, non vi è posto per esso nella mia arzigogolata filosofia, ché io, come ben sapete, ho un debole per il quinto reggimento alpini e per l’n + 1: (e gli automobilisti… ero contento quando qualche granatona o spring-granata che fosse, un po’ più lungo del solito, schizzava fuori dalla zona magica, sacra ai muli e agli alpini putrefatti, per travasarsi sulle teste loro. Così molti automobilisti fecero messe di medaglie al valore, di quelle che non convenne sprecare per i zotici figli della montagna.)»
Il critico: «Il fuoco di sbarramento decompone le colonne rifornitrici e manda in briciole i potenti motori. Orrendi cubi e tetraedri di calcare e dolomia prorompono da mostruosi crateri.»
Rispondo: «Già. E chi si credeva al sicuro, gli capitano perfino tra capo e collo… le medaglie al valore. Ed è ragione: ché la sorte lo ha costretto a far di necessità virtù e a cambiar la fifa in rassegnazione, e il sacro boschetto in eroico peana. Ma, se fosse per lui, l’n + 1 sarebbe ancora e sempre in viaggio come la luce delle stelle che ci giungerà fra un milione e mezzo di anni.»
Il critico: «In complesso gabellate come vostra filosofia del Nietzschanesimo e del D’Annunzianesimo rancido. Ricordate il primo verso del libro di «Maia»: «Gloria al latin che disse: “Navigare è necessario, non è necessario vivere”» e la inscrizione o sigla d’annunziana delle laudi, tutto il libro dell’«Elettra», che conoscete quasi per intero a memoria. Tanto l’amore per la vita eroica è in lui vivo ch’egli osa rivolgere la sua rampogna al Figlio di Dio:
O Galileo, men vali tu che nel dantesco foco
Il piloto re d’Itaca Odisseo
Troppo il tuo verbo al paragone è fioco
E debile il tuo gesto. Eccita i forti
Quei che forò la gola al molle proco.»
Rispondo: «è merito certo del Poeta questo suo anelito verso la potenza e il lavoro, e la gloria e la navigazione, questo sdegno del poltrire e del permanere e del conservare per conservare. Il suo motto di altri anni più tardi è «per non dormire» – e sebbene nella sua vita, come fan tutti del resto, sia stato molto indulgente verso sé stesso: e abbia, come pochi sanno, saputo ben pettinare e ravviare e ungere ancora de’ poetici balsami l’arruffata chioma delle sue diverse marachelle, giustizia gli va resa quanto allo spirito eroico. Giustizia al fante del Veliki Hrib e del Faiti Hrib.
Ma voi, o critico, siete a vostra volta in errore chiamando D’Annunzianesimo quello che fu lo spirito di molti uomini, di Antonio Sciesa e dei Bronzetti e del Pellico, dei Morosini, di Manara, di Mameli, di Dandolo e del Bruno e di Curio Dentato per non citare tutta la “sacra legïon degli spiriti” e dei 300 che alle porte calde o Thermopiloi con il lancio dei dardi loro nascosero il sole.»
Il critico: «Ci credo poco, a certe eclissi solari.»
Rispondo: «Astronomia e poesia possono sempre accordarsi.»
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1. è questo il titolo del celebre poema di Rimbaud, dov’egli ha raffigurato sé stesso.
2. Per ambiente intendo elazioni infinite. Anche il sistema solare e al di là di esso la regione stellare a che esso appartiene. Anche i millenni ove sono sdraiati li aspetti o modi che ci coinvolgono.
3. Se l’esteriorità è percepita, è dato essa pure. Ma è percepita o soltanto immaginata come pseudo-ragione integrante il dato? Comunque, io la penso come un al di fuori logico o indistinto logico. Vedasi più avanti la definizione di limiti periferici e di termini della ragione.
4. Nel corso della presente meditazione la parola sistema è usata, sia pure con più lata estensione, nel senso onde la si usa in matematica e in meccanica. Sistema è un insieme di enti che hanno proprietà comuni, se anche solo relativamente a un nostro momento conoscitivo. Così: sistema di punti, di rette, di curve. Sistemi deformabili, sistemi rigidi. Talvolta mi occorrerà di alludere a un sistema filosofico ma in tal caso il significato comune della parola apparirà con evidenza dal contesto. Talvolta i due sensi coincideranno: p.e. sistema esterno o integrante.
5. Storici nel senso più lato: p.e. i fatti astronomici, biologici, psicologici storicamente considerati.
6. Anche i gatti, i licheni e i metalli avranno un lor proprio oscuro sistema integrante.
7. Alcunché, nel senso più lato: p.e. una nuova relazione, o una volontà coordinatrice, che è a sua volta un gruppo di relazioni; o un criterion elettivo; o altro.
8. Alludo alla povertà delle posizioni critiche in genere nella filosofia greco-romana.
9. Si tratta d’un sussistere, o durare, o permanere logico, oltre che temporale.
10. Attimo logico, oltre che temporale.
11. Continuità logica, oltre che temporale.
12. Bene ammetto una ramificazione di aggruppamenti, da cui scaturisce la totalità magliatrice.
13. Strascino dietro al mio carro questa disgiunzione espressiva, per non intavolare dibattiti che voglio di proposito escludere dalla presente meditazione.
14. Cioè momentaneamente, per un attimo almeno.
15. è superfluo notare che per pezzo mosso – pezzi intendo i treni di rapporti logici ad essi legati nella nostra ragione: (in questo esempio nella ragione o calcolo scacchistico.) Il pezzo ligneo non è, ciò è ovvio, che un promemoria o ente semaforico.
16. Si può perciò parlar di coscienza o di attività originale d’un pezzo, in quanto esso si identifica con una regione logica, nell’insieme logico della partita.
17. Non si voglia vedere in questa parola un’allusione a Spinoza.
18. è un’infima relativo al nostro povero occhio.
19.Vedasi il paragrafo no. [3º]: La materia e la molteplicità.
20. Scelgo appositamente, per comodità del lettore, questa espressione artificiosa e sbagliata.
21. Qui originalmente – per impulso proprio; come quando si dice «creazione originale, spirito originale». Ciò risulta dal già detto e da quanto sarà per seguire nel paragrafo no. [XII] «Il dato». Vedasi tutto il paragrafo, ove questo concetto è svolto più [ ].
22. Quale ricchezza di motivi che non posso qui accogliere, germina da questa semplice nota! Essa è riprova dei sistemi e del procedere del reale.
23. è questo il termine tecnico.
24. Qui non conferisco a questi due vocaboli il senso stretto che hanno nella biologia sistematica, ma un significato relativo dell’uno rispetto all’altro: l’uno indica il generale l’altro il differenziato huic subiectum. L’espressione huic subiectum cioè generi subiectum per dire speciale è di Cicerone («De off.» I. 27-96).
25. Sul significato del parallelismo spinoziano e de’ parallelismi razionalistici in genere ci sarebbe molto da dire: non qui beninteso.
26. Così di ogni oggetto: vedasi l’allusione alla brocca (§ 2º pag. [33-34]).
27. Vogliasi accordar molta attenzione a questo esempio. Lo schema etico del giudizio dantesco va dall’identico al differenziato.
28. Intendo ironizzare così la limitatezza di chi vorrebbe ammettere che una situazione del mondo reale non implica tutta la realtà.
29. Si chiama elemento, già l’ho detto ed insisto, ciò che è logicamente semplice e indistinto rispetto alla funzione logica del sistema: ma non è un indistinto in sé, sibbene rispetto all’atto momentaneo del sistema.
30. Egli è dunque un Club o Accademia i cui soci variino continuamente, perché alcuni si dimettono, altri subentrano.
31. Più che a Plutarco in sé mi riferisco al plutarchismo imperversante nella pseudo-storia e agli exempla virtutis. L’epifonema della storia maestra del vivere è da alcuni beoti inteso nel senso di prestare alla storia un nemesismo o exemplum virtutis, per poi dire: «Vedete?» Ma la Storia è cosa ben più aggrovigliata e complessa di quanto gli edificatori neppure immaginano e il primo insegnamento che dobbiamo trarne è la complessità enorme del reale e il secondo è il relativismo del giudizio, ché la storiografia è fatta da alcuni cervelli e mani finite e non da Dio.
32. L’acre grecità del periodo migliore dice cose alle cose – e Paride è spregiato dai valorosi – ma Omero non farà mai dei paralleli edificanti fra Paride e non Paride col trionfo del bene e lo schieramento del male: e neppure allorché dormitat bonus (sonnecchia bonariamente) non dirà mai: «Cattivo Paride!» né «Bravo Achille, continua così e sarai la consolazione de’ tuoi vecchi genitori». Né Eschilo, né Sofocle, ecc. borbottano le litanie della virtù: né lo Shakespeare di «Re Lear» e di «Amleto», di «Giulio Cesare» e di «Antonio e Cleopatra».
33. Mentre nel latino originale virtus significherebbe valenza, validità, cioè realtà, reale esistenza.
34. S’intende che il nazionalista ha anche il dovere di sparare sull’anarchico, se diserta, ecc.
35. Quale è questo sistema? Rispondo categoricamente: «è il più ampio possibile, ma non nel senso cravattoide che si debba sognare palingenesi inattuabili, sì d’un’ampiezza… reale.» Nella mia infanzia tutti li scalmanati e li acchiappanuvole avevano svolazzanti cravatte, più o meno beethoveniane, e talora impillaccherate di pomodoro. Donde il mio aggettivo cravattoide (per dire poco reale – e un po’ sconclusionato.)
36. Questi dolori da me vissuti, a oncia a oncia.
37. Questo tutte è detto così per fare in fretta. Occorrono parentesi delle parentesi per spiegare bene il mio pensiero.
38. La relazione maschilità è onnipresente nei maschi, anche se troverà difficoltà a dar frutti di vita ecc. Così la relazione appetito, così quella gravitazione, così quella teorema di Pitagora, così quella acido solforico reagisce con l’ammoniaca, anche se non troverà ammoniaca, ecc.
39. Nella geometria proiettiva il punto periferico di ciascun raggio è unico essendo il punto ad infinito. Qui sulla carta esso appare sdoppiato 1-1, 2-2, 3-3.
40. Nelle relazioni pensabili, oltre a quelle pensabili chiaramente (razionali) includo le pensabili col senso (oscure di Leibniz).
41. Come si vede il mio pensiero trae lo spunto da Hobbes-Spinoza ma credo di aver potentemente svolto e addirittura modificato l’equazione spinoziana virtù = potenza (realtà.)
42. Fallimento intendo in senso lato e cioè impresa economica che non si regge, sforzo economico eccessivo, ecc.
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ISSN 1476-9859
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