Pocket Gadda Encyclopedia
Edited by Federica G. Pedriali
Storici latini: Livio e Tacito
Emanuele Narducci
L’interesse per gli studi storici può dirsi innato in me; o se no, ha ricevuto eccitazioni che chiamerò ginnasiali con grande amore e rispetto per gli studi ginnasiali che ho potuto seguire (Cesare, Tacito, non molto Erodoto), i minori latini, piú tardi Svetonio… e perché ho avuto da taluni di questi storici latini (Tacito, Svetonio) e dai poeti… la sensazione che ci sia stato un grande momento della conoscenza umana in cui la storiografia non è stata una menzogna… senza compromessi né reticenze. (Gadda 1993b: 95 sg.)
Sono parole tratte da un’intervista del ’63. È strano che in questo testo non venga neppure nominato quel Tito Livio cui Gadda applica più volte, con evidente consenso, la superlativa definizione dantesca «Livio che non erra», e al quale in un passo del Racconto italiano riconosce «genio lirico espressivo» (SVP 478). Tra gli episodi degli ab urbe condita che più spesso ritornano alla memoria di Gadda, a partire almeno dalla Meditazione milanese, vi è la narrazione della battaglia del Metauro, che vide la disfatta e l’uccisione del cartaginese Asdrubale (del Metauro Gadda ricorda altrettanto spesso la rievocazione da parte di Orazio). Nel Primo libro delle Favole una assai enigmatica allusione ai «Salinatori» è stata correttamente spiegata con il riferimento a Marco Livio Salinatore: nel libro XXVII Livio racconta come costui, dopo essersi ritirato a vita privata avendo subito un’ingiusta condanna in un processo, accettasse per senso del dovere la carica di console, e fosse in seguito uno degli artefici della vittoria del Metauro. In lui, Gadda ha voluto emblematicamente raffigurare un milite del dovere (Pecoraro 1998: 74 sg.).
D’altra parte, gli spunti offerti dalla battaglia del Metauro vengono sfruttati da Gadda su registri diversi – nella Cognizione il ricordo emerge a proposito del quotidiano taglio della barba:
cui avrebbero fatto seguito, a opera finita, alcune ragionevoli striature color sangue disposte un po’ in tutti i sensi in tutta la regione virile delle gote; e anche sotto il mento: e queste però tali da far pensare alla battaglia del Metauro. (RR I 595)
Il noto episodio della decapitazione di Asdrubale (Liv. XVII 49 sgg.) è evocato in forma di commento comicamente iperbolico alle ferite «sotto il mento» procurate da una rasatura (Pecoraro 1996: 70 sg.).
Diverse delle citazioni liviane di Gadda sono tratte dal libro XXII, in cui sono narrate le grandi vittorie di Annibale sul suolo italiano, fino alla catastrofica disfatta romana di Canne. Nel Castello di Udine, nel contesto di una riflessione sulla necessità di tenere sotto controllo, in guerra, «bravura e generoso ardimento», è rievocata, attraverso una parafrasi rapida e vivace di Liv. XXII, 3 sgg., la baldanza temeraria del console Gaio Flaminio, il quale, cedendo alle continue provocazioni di Annibale, ficca l’esercito romano nella trappola del Trasimeno (RR I 127). In una pagina di poco successiva dello stesso Castello Gadda, riflettendo su qualità e insufficienze dei capi militari di epoche storiche diverse, ripropone l’esempio glorioso di Emilio Paolo; la figura del console romano che a Canne trovò una morte eroica è contrapposta a quella del collega Varrone (il quale riuscì invece a sfuggire al massacro), presentato, sulla scia di Livio, come un volgare demagogo, la cui viltà è ricondotta alle origini assai poco nobili (RR I 128 sg.; Pecoraro 1998: 59 sgg.):
Davanti, il magma delle permiste genti annibaliche: in sul fianco, il figlio del macellaio: «Figliuol fui io d’un beccaio…» [Dante, Purg. XX, 52] della Suburra. «Patrem lanium fuisse ferunt» [Si tramanda che il padre fosse un macellaio; Liv. XXII 25, 19] Ma il figlio s’era spulizzito e faceva dei discorsi magnifici: avvocato, questore, edile curùle, poi pretore, poi console (vittoria garantita in ventidue giorni): poi finalmente reduce trionfato di Canne. A Canne Emilio Paolo seppe restarci in eterno. Con quarantacinquemila compagni.
Come mostra anche il passo appena ricordato, Gadda si rivela particolarmente sensibile alla rappresentazione liviana del carattere magmatico e composito dell’esercito che Annibale era riuscito a unificare sotto la sua guida: una babele di costumi, tradizioni e lingue diverse; questo miscuglio suscita naturalmente la curiosità di uno scrittore che, prestando un’attenzione del tutto particolare al plurilinguismo alla base dell’italiano, affida una parte assai consistente degli effetti della sua prosa proprio alla mescolanza linguistica.
Va infine notata la ripresa di un passo del medesimo libro liviano in funzione scopertamente ironica. Nella Cognizione, le galline di Gonzalo sono restìe a fare l’uovo :
Già altra volta era accaduto che s’infuriasse, per quella inadempienza dei polli del Serruchón porco: e aveva accusato il gallo di morosità genetica e di perversione, le galline d’esser lesbiche, e tr…; poi la furia s’era schiarita in una reminiscenza di Livio, «gallinam in marem, gallum in foeminam se vertisse…» [una gallina divenne gallo, e un gallo divenne gallina: Liv. XXII 1, 13]. (RR I 688)
Situando la propria collera sullo sfondo nobilitante di una reminiscenza classica, Gonzalo riesce cioè in qualche modo a darsi ragione del furore che si è impadronito di lui, a stemperare in una condivisa universalità un’angoscia che in prima istanza gli era apparsa come esclusivamente sua. La citazione è tratta dal passo nel quale sono elencati i prodigi che accompagnano l’avanzata di Annibale in Italia; la scarsa produttività delle galline viene burlescamente interpretata come una mutazione genetica, o frutto di un portento.
Tacito è un altro grande storico latino che ha interessato Gadda in maniera non superficiale; nella stessa intervista del ’63 lo associa talora a Svetonio in quanto pittore dei costumi e dei vizi della Roma imperiale (SGF I 616; SGF II 226; RR II 310 sg). Nel ’57 Gadda si servirà di un testo famosissimo di Tacito per rendere ragione dell’atmosfera plumbea del periodo che vide la gestazione del giallo romano; rivolgendosi ai lettori e ai critici del suo romanzo, ne presenta la prima pubblicazione, nel ’46, come l’opera di uno scrittore pervenuto alla vecchiaia nel silenzio («per silentium ad senectutem pervenere», Il pasticciaccio, SGF I 508) attraverso i precedenti vent’anni del dominio fascista, mentre altri, i «sacrificati», erano invece giunti alla morte – concetti analoghi ricorrono in un passo di Eros e Priapo (SGF II 225).
In ambedue i brani, Gadda rimanda esplicitamente (anche se con un’imprecisa citazione a memoria del testo latino) al proemio della Vita di Agricola, in cui Tacito, dopo che Roma è finalmente fuoriuscita dalla tirannide di Domiziano, rivendica la dignità del silenzio che per moltissimi anni ha saputo mantenere sotto il dispotismo, ammettendo al contempo che la sua scelta è stata diversa da quella di coloro che avevano accettato di pagare con la vita il rischio di un’opposizione aperta, e denunciando con parole sofferte l’umiliante senso di frustrazione provato per buona parte della propria esistenza. È affatto evidente che Gadda, non senza qualche senso di colpa nei confronti dei sacrificati, sta cercando, tramite lo storico latino, una sorta di giustificazione del proprio atteggiamento nei confronti del fascismo (Narducci 2003: 137).
Università di FirenzePublished by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-00-0
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