La macchina spasmodica

Italo Calvino

Il Caffè, n. 5-6, 1969 (1970). Risponde a discussioni (citate nel testo) a proposito del mio scritto Appunti sulta narrativa come processo combinatorio (cfr. Cibernetica e fantasmi a p. 164).

Caro Vicari,

Ho letto con gran piacere sul Caffé, 2-3, 1969, il tuo scritto Il significato inatteso e quello di Cesare Milanese Dal processo combinatorio alla teoresi mitopoietica che sviluppano e discutono le mie note sulla narrativa come processo combinatorio (Nuova Corrente, 46-47).

Quel mio scritto aveva un’andata e un ritorno: un’andata riduttiva e tranquillizzante (il mondo sembra infinitamente terribile, ma rassicuriamoci: le cose pensabili e dicibili sono un numero finito) e un ritorno teso verso l’imprevisto e l’inesplorato (le costruzioni mentali e le parole sembrano ripetersi in un numero squallidamente limitato, ma non lasciamoci demoralizzare: attraverso ad esse s’aprono spiragli sulla terribilità e ricchezza inesauribili del mondo). Insomma, il mio atteggiamento era per metà dominato dall’agorafobia e per metà dalla claustrofobia; da ciò derivavano contraddizioni e oscillazioni nel mio argomentare; i vostri consensi mi servono anche perché portano elementi per superarle, tu riconducendo il discorso al suo senso unitario, Milanese sviluppando l’opposizione tra le due polarità che esso contiene.

Nel tempo intercorso tra la stesura di quelle mie note e oggi (più di due anni) agorafobia e claustrofobia hanno continuato a disputarsi la mia anima, ma non mi sono mai più sorpreso a pensare a un universo finito e numerabile (idea, più che errata, infernale) e l’analisi del processo combinatorio mi è apparsa solo come un metodo tanto più necessario in quanto mai esaustivo per addentrarci nello sterminato intrico del possibile.

Scrivo questo forse anche sotto l’influenza della lettura recente del libro di Gian Carlo Roscioni La disarmonia prestabilita, che ricostruisce sui testi editi e inediti il sistema del mondo di quest’ultimo «filosofo naturale» che è Carlo Emilio Gadda. Infatti, il nucleo della ricerca di Gadda (filosofo e scrittore, perché i due si confondono in ogni riga) risulta essere – tramite l’arte combinatoria di Leibniz – proprio quello dei nostri discorsi. L’oggetto dello scrivere di Gadda è il sistema di relazione tra le cose, che attraverso una genetica combinatoria mira a una mappa o catalogo o enciclopedia del possibile, e, risalendo una genealogia di cause e di concause, a collegare tutte le storie in una, nell’intento eroico di liberarsi dal groviglio dei fatti subiti passivamente contrapponendo loro la costruzione d’un «groviglio conoscitivo» – o, noi diremmo, d’un «modello» – altrettanto articolato. Intento continuamente frustrato: la complessità dei vorticosi processi di trasformazione s’espande in labirinti concentrici e non tarda ad aver ragione del più ostinato ottimismo gnoseologico; la speculazione di Gadda è eroica perché tragica. Da tempo non leggevo esposizione di filosofia che m’appassionasse e «convincesse» quanto questa.

Vedo che il tuo discorso non diverge da questo corso di pensieri, quando commentando le mie note t’accorgi continuamente dei pericoli di tecnicismo in esse impliciti, – d’una semplificazione e mistificazione tecnicistica – e di come l’aspetto meccanico finisca per essere preponderante su quello liberatorio. La linea di soluzione che proponi è di contrapporre alla fissità dei «fatti» (decisi dall’autorità e dall’inerzia delle strutture sociali) la verità esplosiva che le parole custodiscono e che va continuamente riscoperta muovendole e disponendole fuori dalle cristallizzazioni, in «nuovi emblemi e simboli».

Nel sottoscrivere il tuo discorso, non mancherò d’osservare che il ripetitivo cui vuoi sfuggire poi lo ritrovi come significati elementari e immagini primarie, cioè non altro che strutture mitiche fondamentali, che il linguaggio continuamente veicola, cela e rivela. Ha dunque ragione chi dice che ogni nuovo mito e ogni nuova favola è riconducibile a un mito o favola antico, e queste forse a un mito o favola unica di cui tutte le altre non sono che varianti? Sì, ha ragione, purché tenga conto del fatto che Chisciotte e Amleto e Robinson sono pur stati miti «nuovi»; e se anche questi possono ridursi a schemi e meccanismi canonici, ciò prova soltanto che sono stati costruiti come si deve per funzionare da miti. Per «nuovo» non s’intende altro che quel «nuovo» che essi portano, per difenderci come tu dici contro «i fatti» o indicarci una via per padroneggiarli.

(M’accorgo che in questo capoverso ho toccato la fondamentale differenza tra il nostro attuale orizzonte speculativo e quello di Gadda: il «modello» di storia unica cui Gadda tende non è quello riduttivo e semplificatore di Propp o Greimas ma è un modello inclusivo e totalizzante. Il procedimento di Gadda va dal complicato al complicato, dalla complicazione subita alla complicazione prestabilita e poi subito di nuovo soverchiante, di cui la formula algebrica è solo un fragile schermo).

Molto bene Milanese definisce la contraddizione (che l’opera portata veramente a compimento risolve) tra stato d’indifferenza (il modello che opera scavalcando l’autore) e stato di drammaturgia (il gioco ha senso solo se è sulla pelle propria che si gioca, cosicché, compiutasi l’opera, l’autore non potrà più essere quello che era, o che credeva d’essere). Gioco sulla pelle propria, è bene insistere sulla relazione di questi due termini (anche perché è con la lieve correzione di tiro che questa sottolineatura comporta che posso dichiararmi anche d’accordo con la prima parte del discorso di Milanese): gioco, in quanto non va mai dimenticato l’aspetto ludico che incrina e dissolve la gravità sempre ideologica che tende a cristallizzarsi attorno ai discorsi letterari; e pelle propria, in quanto la letteratura si dovrebbe differenziare dalle altre operazioni mentali e sperimentazioni pratiche che tendono invece a farsi sulla pelle altrui.

Rifacendomi all’uso spastico del linguaggio (e della ragione) nel Gadda di Roscioni (1) definirei il «modello operativo (l’organon)» di Milanese: modello spastico. È questa macchina letteraria spastica che agisce attraverso l’autore, la vera responsabile dell’opera, ma essa non funzionerebbe senza gli spasmi d’un io immerso in un tempo storico, senza una sua reattività, una sua ilarità convulsa, una sua rabbia da dar la testa contro i muri.

Note

1 Roscioni 1969a: 25 e passim. L’aggettivo «spastico» (da «spasmo») è usato da Gadda per qualificare le deformazioni dell’espressione letteraria vista come «tensione (o spasmo) poetica», «tensione spastica dell’intelligenza dell’autore e del lettore».

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859

Please note that the above excerpt is for on-line consultation only
Reproduced here by kind permission of the Calvino Estate

© 2000-2024 by the Calvino Estate & EJGS
artwork © 2000-2024 by G. & F. Pedriali
framed image: Melk Abbey, Austria

All EJGS hyperlinks are the responsibility of the Chair of the Board of Editors.

EJGS is a member of CELJ, The Council of Editors of Learned Journals. EJGS may not be printed, forwarded, or otherwise distributed for any reasons other than personal use.

Dynamically-generated word count for this file is 1180 words, the equivalent of 4 pages in print.