Pocket Gadda Encyclopedia
Edited by Federica G. Pedriali
Io
Christophe Mileschi
Sulla questione dell’«io», la posizione di Gadda, in sede teorica, è drasticamente chiara, come esplicitato sin da Meditazione milanese:
Altro errore profondo della speculazione: di vedere ad ogni costo l’io e l’uno dove non esistono affatto, di veder limiti e barriere, dove vi sono legami e aggrovigliamenti. (SVP 647)
L’«io» non esiste, come non esiste nessuna entità che si possa propriamente dire singola, nessuna monade racchiusa all’interno dei propri confini, nessun oggetto che sia autonomo nel (e dal) flusso delle ininterrotte e imperscrutabili interazioni fra tutte le cose:
La nostra individualità è il punto di incontro, è il nodo o groppo di innumerevoli rapporti con innumerevoli situazioni (fatti o esseri) a noi apparentemente esterne. (L’Egoista, SGF I 654)
Dire «io», attribuire all’io determinate prerogative, competenze, scelte, opinioni, e via dicendo, sembrerebbe perciò dover esser assolutamente illecito (sempre in sede teorica). Stando al pensiero di Gadda, non solo è impossibile valutare l’importanza degli influssi noti, reperiti o reperibili, ma è anche impossibile elencare tutti gli influssi subiti, tutti i condizionamenti per cui «io» penso, faccio, desidero quello che penso, faccio, desidero, e via dicendo. Vale il motto rimbaldiano: «Je est un autre». Chi dice «io» parla, magari senza saperlo, di qualcun altro, di un estraneo, di uno sconosciuto destinato a restare tale, sempre e comunque:
Se una libellula vola a Tokio, innesca una catena di reazioni che raggiungono me. (L’Egoista, SGF I 654)
Se l’individuo può essere raggiunto, e in parte (ma una parte che niente permette di misurare) piegato dal volo di una libellula a Tokio, cosa può ancora significare «io», come può l’individuo ancora pensare di circoscrivere un territorio suo personale, come può pretendere di de-finire il proprio «io», distinguendo, per esempio, un dentro e un fuori? Quello che Gadda dice, nella stessa Meditazione milanese, del principio di causa, si applica anche al concetto dell’io: crederci tradisce un’illusione ottica e ontologica, e apparirà nei millenni futuri una grossolana superstizione (SVP 651). E in modo ancora più generale, vale per l’io ciò che è vero per qualsiasi ente o concetto: si può artificialmente e illusoriamente isolarlo all’interno di confini arbitrari, ma è comunque intimamente connesso con il «mostruoso groviglio della totalità»:
Non è possibile pensare un grumo di relazioni come finito, come un gnocco distaccato dagli altri nella pentola. I filamenti di questo grumo ci portano ad altro, ad altro ancora, infinitamente ad altro. (SVP 645)
Come sempre con Gadda, si può far risalire il discorso teorico lungo una linea doppia, che da un lato porta verso le sfere dell’astrazione pura, dall’altro ci riconduce alla realtà vissuta, al mondo in carne e ossa.
Per quanto riguarda l’astrazione, è ovvio che il pensiero di Gadda sulla questione dell’«io» (e, come abbiamo visto, dell’« uno» in generale) trova ampie conferme epistemologiche, sin dalla fine dell’Ottocento. La «crisi dell’io» serpeggia e talvolta esplode in tutta la produzione letteraria europea, da Lautréamont, Rimbaud, Maupassant, a Campana, Boine, Montale, dal Crepuscolarismo italiano al Surrealismo francese, per fare solo qualche esempio sparso e en passant. L’avvento della psicanalisi, che poi si divide in più rami, concorre anch’esso a mettere in forse la chiarezza della nozione di «io»: nell’«io» o con l’«io» coesistono altre forze, altre entità, in concorrenza o in conflitto tra di loro, e potrebbe anche essere che le frontiere della persona debbano essere rimandate ben oltre i limiti dell’esistenza personale e familiare (Jung). Anche nel campo delle scienze esatte, si manifesta una crisi dell’io, anche se di segno inverso, in quanto l’osservatore è oramai coinvolto nell’osservazione, diventa coautore dell’osservato, e risulta quindi sempre più difficile distinguere l’«io» che guarda da ciò che vede. Cosa Gadda avesse letto esattamente, alla fine degli anni ’20, non è facile precisare, ma è ovvio che le sue idee teoriche su queste questioni sono già in fase con la punta più moderna dell’arte e dell’epistemologia contemporanee.
D’altro lato, però, si può e si deve anche tener conto di dati di fatto che niente hanno a che fare con la speculazione, ma tutto con l’esperienza scontata sulla propria pelle (per quanto sia sempre artificiale questa distinzione fra corpo e mente): l’esperienza della guerra, e più particolarmente dell’esercito in guerra. In quanto soldato, prima ancora di teorizzarlo, Gadda ha potuto vivere di persona l’abolizione dell’io, il cancellarsi delle sue prerogative, il suo dipendere enormemente, e in certi momenti interamente (l’ordine d’attacco), da volontà esteriori (si veda Manovre di artiglieria da campagna, in MdF). Volontà esteriori, ma che subito diventano anche interiori, interiorizzate, dal momento che l’«io» individuale si sottomette all’ordine, dal momento che ubbidisce. Guarda caso, nella Meditazione milanese, per esemplificare il concetto che ogni singola cosa (oggetto, persona, situazione…) è un grumo di relazioni attuali con innumerevoli altre cose, Gadda fa prima l’esempio della centrale elettrica (linea speculativa, ma anche tecnico-materiale e autobiografica), e poi, l’esempio di un generale d’esercito durante la battaglia (linea esistenziale e corporea).
Le idee teoriche di Gadda sull’io e sull’uno tornano in modo ricorrente nella sua produzione narrativa. Nel Pasticciaccio, dopo la presentazione liminare del «metodo» sui generis di Ingravallo, agiscono per lo più implicitamente, rendendo impossibile la conclusione dell’indagine, nella fattispecie la designazione di un colpevole, di un «io» colpevole, se vogliamo: nominare l’assassino (anzi, a quanto sembra, l’assassina) vorrebbe dire arrestare arbitrariamente il flusso indipanabile delle causali, reciderle e limitarle entro una determinata persona e personalità, in contraddizione con la gaddiana epistemologia del groviglio. Nella Cognizione, tali teorie si riversano esplicitamente in alcune delle sfuriate di Gonzalo, fra cui la celebre invettiva contro i pronomi, «pidocchi del pensiero», che finisce col prendere di mira la persona del peone. Andrebbe riletta tutta, ma limitiamoci a qualche riga esemplare:
… Io, tu… Quando l’immensità si coagula, quando la verità si aggrinza in una palandrana… da deputato al Congresso,… io, tu… in una tirchia e rattrappita persona, quando la giusta ira si appesantisce in una pancia… nella mia per esempio… che ha per suo fine e destino unico, nell’universo, di insaccare tonnellate di bismuto, a cinque pesos il decagrammo… giù, giù, nel duodeno… bismuto a palate… attendendo… un giorno dopo l’altro, fino alla fine degli anni… Quando l’essere si parzializza, in un sacco, in una lercia trippa, i di cui confini sono più miserabili e più fessi di questo fesso muro pagatasse… che lei me lo scavalca in un salto… quando succede questo bel fatto… allora… è allora che l’io si determina, con la sua brava mònade in coppa, come il càppero sull’acciuga arrotolata sulla fetta di limone sulla costoletta alla viennese… Allora, allora! è allora, proprio, in quel preciso momento, che spunta fuori quello sparagone d’un io… pimpante… eretto… impennacchiato di attributi di ogni maniera… paonazzo, e pennuto, e teso, e turgido… come un tacchino… in una ruota di diplomi ingegnereschi, di titoli cavallereschi… saturo di glorie di famiglia… onusto di chincaglieria e di gusci di arselle come un re negro… (RRI 637-38)
Il commento a queste righe sarebbe quasi superfluo. Si osserva che la polemica speculativa contro la nozione di «io», pacatamente sviluppata dal Gadda della Meditazione, ora si amplia in una fustigazione del narcisismo, e dell’enfatizzazione di qualsiasi titolo di gloria personale e sociale. Chi crede nell’importanza e nell’unicità della propria persona non si accorge che il perimetro in cui è (crede di essere) racchiuso è «fesso», nella doppia accezione del termine: irreversibilmente aperto, ma anche, se finge di esistere davvero – come infatti avviene ogni volta che chiunque dica «io, tu» – insopportabilmente stupido.
Sul versante teorico, la diatriba è motivata dall’infondatezza della «parzializzazione» del tutto nell’io; sul versante esistenziale, per altro, la sfuriata di Gonzalo fa eco con le molte invettive consegnate dal sottotenente Carlo Emilio Gadda nel suo diario di trincea, contro i «vili», i combattenti cioè ansiosi di salvare la pelle, di preservare il loro «io»:
Combattere tra soldati che hanno paura d’una fucilata, che ingialliscono al rumore del cannone nemico, che se la fanno addosso al pensiero d’un pericolo lontano, e non hanno moglie e figli (non raccontatemi mai una tal balla!) ma solo per paura personale, paura di me, paura di io, paura di esso Io, del proprio Io, del proprio Io-me, combattere tra questi, come sono due o tre dei miei giannizzeri che il diavolo li scoglioni, che gusto è? Non nego che il sacrificio della vita sia gravissimo per tutti: che gravissimo appaia anche a me: ma l’uomo deve essere uomo e non coniglio: la paura della prima fucilata, della prima cannonata, del primo sangue, del primo morto, è una paura da tutti; ma la paura continua, incessante, logorante che fa stare Scandella e Giudici e Carrara rintanati nel buco come delle troje incinte, è roba che mi fa schifo. (Giornale, SGF II 575; 24 luglio 1916)
Da queste righe, nonché dal brano precitato della Cognizione, è poi facile risalire, tematicamente e stilisticamente, a Eros e Priapo, che si propone di analizzare gli annessi e connessi del narcisismo, ovvero dell’enfatizzazione dell’io, in cui Gadda addita la causa principale del successo del regime fascista (con circostanze aggravanti, com’è noto, per quanto riguarda le donne).
Tirando le somma, salta fuori una vistosa contraddizione. La critica all’«io» da un canto fornisce di argomenti la rabbiosa condanna del fascismo; d’altro canto, motiva l’impietosa denuncia di chi mancò di entusiasmo bellico, di chi nella trincea non seppe o non volle credere, ubbidire, combattere con la debita lena. Di tale contraddizione, si possono trovare altri indizi o sintomi, come la rabbia spropositata di Gonzalo, che era anche e soprattutto, com’è ovvio per ogni lettore della Cognizione, rabbia di Gonzalo-Gadda contro se stesso (la «ruota di diplomi ingegnereschi» è fra gli attributi irrisi da Gonzalo), o l’improvviso coinvolgimento di Alì Oco de Madrigal (anagramma di Carlo Emilio Gadda), il locutore di Eros e Priapo, nella diatribe contro i narcisisti, nelle ultimissime pagine di uno scritto che, quindi, non può più andare avanti.
L’aporia del « sistema» gaddiano era già manifesta nella Meditazione, là dove Gadda, per chiarire il suo discorso sull’inesistenza dell’io e dell’uno, faceva l’esempio del graduato in un esercito. Perché l’esercito, specialmente l’esercito in guerra è proprio quella realtà in cui le frontiere virtualmente arbitrarie e fesse che definiscono cose e persone, fattualmente si induriscono, si irrigidiscono, in modo tendenzialmente irremovibile: noi e il nemico, chi ordina e chi ubbidisce, il fronte e no… Queste cose forse continuano a comunicare fra di loro, ma ognuna forma, almeno per chi ci si trova chiuso dentro, una realtà a sé stante, con limiti di una chiarezza che non tollera di essere messa in dubbio; e il generale, nel momento in cui dà ordini e viene ubbidito, si fissa nell’assolutezza del proprio io e grado. Modello di rigidità delle nomenclature e delle gerarchie, anzi paradigma di ogni gerarchia «faraonizzata» (il concetto, come si sa, è desunto dalle riflessioni gaddiane sulla monolingua), l’esercito è, in pratica, l’esemplificazione migliore dell’esatto contrario di quanto Gadda pensa, in teoria, sull’io e sull’uno.
Sorge il sospetto che l’esempio preceda la teoria esemplificata, se si può dire, che il discorso teorico sia invero stato allestito nel tentativo di legittimare (di fondare davanti «alla corte suprema della realtà» – Meditazione, SVP 842) le posizioni personali assunte a livello storico e politico. La critica alla nozione d’«io», per esempio, offrirebbe (in teoria) una possibilità di annullare il senso di colpa per aver voluto la guerra, per aver «fatto fuoco e comandato il fuoco con convinzione e con gioia» (Castello, RR I 143).
Esaminando la questione dell’«io» in Gadda, ci si accorge dunque che il militarismo (ossia, in senso lato, la fiducia in una organizzazione stabile, priva di ambiguità, perfettamente efficiente – e violenta, all’occorrenza – delle cose umane) è il punto fermo per il quale l’epistemologia del groviglio viene meno, una specie di unica eccezione alla regola gaddiana, senza però che Gadda espliciti di essersene accorto. Se esalta la complessità, la molteplicità, le innumerevoli connessioni fra tutte le cose che finiscono col privare di significato i concetti e confini pratici e teorici comuni, l’opera di Gadda è anche sede di uno sforzo mai smentito per giustificare l’istituzione militare e varianti (la giustezza della guerra del ’15, la disciplina, la legittimità delle ragioni patriottiche, allora e sempre, quindi delle frontiere di Stato, e perfino, negli anni del Castello di Udine, la politica di espansione coloniale, l’autarchia…). Ma teoria del groviglio e culto dell’esercito sono inaccordabili: anzi non possono non entrare in aperto conflitto l’assiomatica del gerarchico e l’assiomatica del groviglio, an-archica in senso stretto.
Il luogo d’incrocio conflittuale tra questi due sistemi, è proprio l’«io», come tematica nell’opera ma fors’anche come realtà vissuta dallo scrittore. Mentre spinge al massimo la critica (fondatissima sul versante teorico) alla nozione di «io», Gadda è anche un autore nel quale e per il quale l’«io» – la propria persona, immagine, fama – è (e diventa in modo sempre più acuto col passare degli anni) una vera e proprio ossessione. Indagare la questione dell’«io» ci porta cioè sul campo di battaglia di Gadda contro Gadda.
Université Stendhal-Grenoble 3Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-00-0
© 2004-2024 by Christophe Mileschi & EJGS. First published in EJGS (EJGS 4/2004).EJGS Supplement no. 1, second edition (2004).
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