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L’analisi linguistica di G. Devoto
Gianfranco Contini
Il primo scrittore contemporaneo oggetto di laboratorio è stato in Italia Carlo Emilio Gadda, per l’esame stilistico che del Castello di Udine compì Giacomo Devoto: nel primo d’una serie di saggi che fino ad oggi comprende, oltre a quello scritto del ’36 (negli «Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa»), un Pascoli e la lingua italiana moderna (lettura estratta dal volume collettivo Giovanni Pascoli, Firenze [1937]), una nota sulle Correzioni di Italo Svevo (in «Letteratura», 8, del 1938), uno Studio su Caterina da Siena (ivi, 18, del 1941), un Dal «Piccolo mondo moderno» (sempre ivi, 21, del 1942). È una suite che merita intera ogni attenzione (mentre interesse quasi adeguato (1) suscitò appena l’inizio): e ciò non soltanto perché il Devoto, di professione indoeuropeista fra i più illustri, è quasi l’unico ad aver praticato in Italia indagini del genere, (2) ma per la sua oggettiva portata, per la ricchezza d’intelligenza che vi si dispiega (anche se, sottolineando preliminarmente l’intelligenza del Devoto, già rimane implicito che nel bilancio consuntivo della sua personalità esiste un leggero squilibrio a carico dell’intelletto piuttosto che del gusto, come del resto accade a più d’un critico estetico, e proprio a quelli di formazione più filosofica).
A prima vista, vertendo sulla parole e non sulla langue, per ripetere la famosa distinzione saussuriana, la stilistica del Devoto sembra far gruppo, perlomeno all’ingrosso, con lo Spitzer e la scuola dello Spoerri, insomma iscriversi non lontano dall’iniziativa del Vossler, e non aver nulla a spartire con la stylistique ginevrina. In realtà, le scuole strutturaliste di Ginevra, di Copenaghen e magari di Praga hanno lasciato fortissime tracce nella carriera ultima del Devoto; che, pronto a riconoscere come magistrale, fin dalle pagine gaddiane, l’impulso partito dal Traité de stylistique française (anche in Grammatiche 1941, sulla «Nuova Antologia» del 10 dicembre 1941 – ma già in pagine al nostro scopo importanti circa la normatività, su «Lingua nostra» del maggio 1940), ha con l’interessante Introduzione alla grammatica (Firenze 1941) inteso offrire alla scuola media il primo sistema grammaticale dell’italiano, pur con le sue approssimazioni e qualche reviviscenza dell’etimologia, e offrirglielo partendo da una più o meno espressa comparazione d’italiano e latino, come il Bally moveva da un paragone di francese e tedesco; e di gusto ginevrino o danese sono per la maggior parte i suoi scritti su «Pan» (del 1935) e su «Lingua nostra», o l’altro sul Prefisso S- in italiano (nei Mélanges de linguistique offerts à Charles Bally, Genève 1939); mentre nelle «Note critiche» dell’importante Storia della lingua di Roma (Bologna [1940]), così ricca di simpatia per il saussuriano Marouzeau, se la concezione della lingua come strumento è praghese, la determinazione a posteriori (già nello scritto gaddiano) di quattro aspetti o poli della lingua, letterario (o controllato), usuale (o di riposo), espressivo e tecnico, ricorda certo lo schema quadripartito dell’espressione nella Poesia crociana (sentimentale o immediata, poetica, prosastica, oratoria), ma su materiale chiaramente ginevrino. Sennonché qui conta soprattutto che la vicinanza al Bally e alla sua stylistique (denominazione per il Devoto infelice) permanga quand’egli viene a trattare monograficamente dell’intenzione stilistica individuale. È quanto mai significativo che nel capitolo sulla norma, cioè in un capitolo di stylistique, si anticipi l’enunciato della tesi, che sarà svolta in separata sede, sul concreto problema letterario di Piccolo mondo moderno; e addirittura si fornisca un’espressa definizione dell’analisi stilistica. Com’è stabilito il raccordo? La stylistique riguarda la scelta compiuta entro il materiale sinonimico. In quanto faccia passare alla coscienza le inconsce distinzioni affettive, la descrizione s’avvia a diventare normatività: nell’ordine di proposte non universali, ma specifiche, adatte alle singole «tradizioni» linguistiche. Ora, «anche all’interno della lingua letteraria esistono differenze di situazione che solo scrittori impassibili e consumati riescono a fondere in uno (stile) superiore». L’analisi stilistica esamina i particolari, definisce l’avvenuta fusione di «“tradizione e poesia” [le virgolette vogliono indicare che la nomenclatura dipende stavolta dallo Schiaffini, dal titolo d’un libro dello Schiaffini], e con intelligenza e simpatia ricostruisce le vicende del combattimento fortunato o sfortunato». Per tal modo, di contro all’idealismo, quello filosofico e quello vossleriano, che liquida la langue nella parole (o, se si preferisce, e poiché anche il Devoto accoglie questi termini, la lingua nel linguaggio), il Devoto tende a riportare la parole alla langue. Il relativo disinteresse di Ginevra per la parole, dovuto a un vitalismo di tipico accento bergsoniano, qui non esiste più; e l’iato fra langue e parole è colmato, conforme alle esigenze almeno teoriche della cultura italiana. Ma il testo poetico, o diciamo letterario, non ha un valore oggettivo sintetico, in quanto è ricondotto al momento in cui ogni scrittore è scolaro, come ogni parlante è scolaro, innanzi alle infinite possibilità di scelta: gli si può, sia detto con ogni serietà, rivedere il compito; e quella del Devoto appare come una nuova retorica, una retorica, beninteso funzionale, relativa alla lingua come strumento, non già come ornamento (perché della lingua come linguaggio non può interessarsi, secondo le «Note critiche» citate dianzi, il linguista). Una volta portata nella luce della coscienza, la finalità della langue non si distingue più da quella della parole (la finalità che, sia detto fra parentesi, il Bally sembra interpretare pragmaticamente, confondere col fine); e quanto all’altro carattere che secondo il Bally distinguerebbe quella da questa, l’aspetto collettivo o sociale, del rapporto fra parlante e ascoltante, di questa dualità, rimane una chiara e del resto confessatissima traccia nella prassi normativa del Devoto critico malgré lui letterario, per quella collazione di giudicato e di giudice, di gusto del giudicato e gusto del giudice, anche se quest’ultimo sia manifestamente nell’intenzione giudice trascendentale.
Le tesi dei primi tre saggi del Devoto sono riassunte nel terzo, su Svevo, che muove da un confronto del testo 1898 di Senilità con quello corretto del 1927, in questo modo: «Quello che in Pascoli è blanda, talvolta pavida, aspirazione a uscire dalla “prigione della lingua” [e qui il Devoto ha usato soverchia indulgenza all’onomatopea e ai termini dialettali, troppo smentito certe prove di naturalismo e descrittivismo], quello che in Gadda è cozzo di piani linguistici differenti che dànno frequenti effetti di grottesco alternati con passi francamente epici, in Svevo è arresto AL DI QUA delle possibilità della lingua: la lingua che stenta ad adeguare le sue rigide unità di misura con le unità sempre variabili quali risultano dalla analisi dei nostri ricordi dei nostri impulsi, delle nostre debolezze». Un problema molto affine a quello di Svevo è prospettato nel saggio su Fogazzaro, che per riuscire veramente comprensibile suppone anzi di necessità la lettura di quelle altre pagine: in quanto in questo suo ultimo capitolo il Devoto ha tecnicizzato il più privato dei suoi linguaggi critici, fra l’altro usando gran copia di termini fra virgolette, e per questo suo aggiornamento accostandosi una seconda volta all’abitudine di taluni critici estetici, in particolare di Alfredo Gargiulo. Il saggio fogazzariano dunque mostra che, mentre Piccolo mondo antico (o anche Il Santo) è stretto agevolmente a una tradizione linguistica già istituita, di normale racconto, Piccolo mondo moderno presenta contaminazioni con una tradizione nuova, di autobiografia senza le corrispondenze formali, cioè prelude al moderno racconto «analitico», nel senso precisato per Svevo; ma il racconto analitico pone l’obbligo dell’«attenuazione» della realtà, degradata a parvenza, e della «distinzione» di varî io, ciò che si ottiene o con una «costrizione» grammaticale (per esempio Proust) o con una «evasione» agrammaticale (musica, lingua straniera, interiezione, dialetto: per esempio l’evasione onomatopeica di Joyce); il fallimento di Piccolo mondo moderno è dal lato della costrizione e dell’attenuazione, mentre vi restano valide le zone relative all’epos (o «eternità») di Fogazzaro, sia come partenza, sia come ritorno o redenzione dopo la rinuncia all’analisi. Da questi schemi, di cui è già evidente l’alto livello intellettuale, si ricava un elemento stranamente comune: la costanza delle constatazioni negative. Ma questo rilievo è insufficiente: la molla dell’interesse del linguista Devoto sta precisamente nel lato negativo. L’importanza di quel romanzo di Fogazzaro, è detto nella conclusione, è proprio nell’avvertire, benché senza attuarla, l’istanza d’una nuova tradizione linguistica, cioè a dire nel punto in cui parzialmente fallisce come libro e sopravvive quale indizio. Circa il caso Svevo il Devoto è anche più esplicito: in contrasto con la perfezione di Proust e la tecnica di Joyce, inimitabili e perciò sterili, Svevo, nel momento stesso della sua impotenza espressiva, sarebbe un precursore. La simpatia del Devoto va ai grandi vinti; il suo interesse prende il via quando la tradizione antica s’altera e incrina, a patto però di non consistere cristallizzata in forma di tradizione nuova. E questo è poi senso storico o è antistoricismo? La parola giusta al riguardo è uscita di bocca allo stesso Devoto, quand’ebbe a scrivere in Grammatiche 1941: «Non ha importanza se noi grammatici nella definizione crociana siamo piuttosto cultori di una scienza naturalistica con alcuni addentellati storici, oppure storici impigliati in molti schemi naturalistici».
Questo punto, decisivo, andrà precisato sùbito, ma solo dopo compiuta l’altra e opposta constatazione fondamentale circa le analisi del Devoto: quella del suo senso dell’unità. Lo scritto più normativo e, arrischiamo la parola, pedagogico del Devoto è senz’altro quello su Carlo Emilio Gadda; dov’è commovente scorgerlo intento a smorzare, rassettare, condurre all’ovile lo scrittore più puntualmente violento e centrifugo che possa immaginarsi. Travagliato dalle avverse dominanti dell’elegia desolatissima e della deformazione ironica, Gadda non corre certo a comporle con facilità, e non è detto che una comprensione dialettica eventualmente più accentuata di quella del Devoto riesca a recuperarlo intero, corpo e beni, al regno della poesia. Ma per il momento, più che l’ovvia metodologia utile a rintracciare, quando c’è, la non-riuscita di Gadda come non-unità, importa l’opzione del Devoto per i «passi francamente epici», poesia insomma d’una realtà naturale. Ciò determina la specie dell’unità cara al Devoto; e poiché il passaggio dalla descrizione stilistica alla normatività è una vera conversione della scienza del Bally in arte, le correzioni da lui proposte c’informano dello stile corrispondente. Il castello di Udine definisce i soldati italiani della guerra del ’15 come «degni di vivere in un motivato obbligo», espressione senza dubbio d’una deformazione concentrata e contratta; ma il Devoto commenta (e fu uno dei luoghi che determinarono la cortesissima protesta dello scrittore): «Le due parole finali sono un bell’esempio di “vuoto stilistico” in netto contrasto con l’immagine impeccabile di un dovere consciamente accettato»; (3) e in questo ideale, quanto mai razionale e analitico (nell’accezione corrente), dello «scriver bene» del Devoto (non l’opponiamo soltanto, questa formula, allo «scriver male» sveviano, formula triviale da lui giustamente respinta, ma pensiamo al tipo di scriver bene delineato in una sua pagina), in questo ideale dunque è ovvio riconoscere un ideale funzionale.
Ad analoghi e più precisi risultati conduce l’esame dei capitoli sui due narratori. Come il saggio gaddiano travestiva un’esatta impressione critica, quella della pluralità d’ispirazione nell’autore (queste sono le memorie del Devoto, travestimenti di autentiche intuizioni critiche), così e più rigorosamente le Correzioni hanno a loro vero centro notevoli verità critiche. A tale centro si allude dove si sottolineano, e semmai non abbastanza a fondo, le costruzioni assolute di Svevo (spesso mutate nell’edizione 1927 in complementi preposizionali), e soprattutto le artificiosità irriformabili del dialogo, nato come discorso indiretto. Come non vedere che qui si tocca l’escavazione interna, il sondaggio fermamente praticato nelle zone oscure dal più grande romanziere italiano del secolo? Ora ecco qui un periodo che il Devoto trova impeccabile grammaticalmente, solo difettivo di legami formali:
Entrò vestita semplicemente di una vestaglia nera, la capigliatura nel grande disordine di capelli sconvolti, e forse anche strappati da una mano che s’accanisce a trovare da fare qualche cosa, quando non può altrimenti lenire.
E propone di correggere (s’intende sempre che egli non varca i limiti della discrezione, offre una mera correzione-schema):
Entrò vestita semplicemente di una vestaglia nera con i capelli disordinati, sconvolti; forse anche strappati da una mano che, non potendo lenire, si era accanita nella ricerca di qualche cosa da fare.
Un tal restauro condotto giusta lo «scriver bene» del Devoto, e qualunque altro obbediente a un «scriver bene» qualsiasi, in quanto elimina la vitalità irrazionale del complemento assoluto (la capigliatura...), ed entro ad esso delle costruzioni fortemente nominali (nel grande disordine per «grandemente disordinata», disordine di capelli per «capelli disordinati»), in quanto soprattutto cancella l’incanto di quella mano scandalosamente isolata nel suo presente gnomico al proprio disperato operare, espunge nientemeno che gli elementi lirici del discorso, cioè si rivela assolutamente antistorico: non si potrebbe negare, in questo senso, che il gusto sia una qualità eminentemente storica. E dove sono più i valori affettivi della stylistique del Bally, in una riduzione talmente logicistica e arcigna? Resta comunque che l’eccesso di rigidità del modulo funzionale rispecchia, sia pure come conseguenza estrema non indispensabile, il rigore d’un principio d’unità tonale. E seguiamo anche il Devoto nella via adottata per dimostrare il suo teorema. Acutamente, a provare che il preteso «scriver bene» di Svevo è qualcosa di molto più fondamentale, il Devoto accumula esempi da cui si ricava che Svevo corresse per obbedire a censori futili, senza fede, isolatamente (ancora, dunque, la mancanza d’unità!); si ricava, dice il critico, «la rassegnazione, la non-convinzione, diciamo pure la mancanza di sincerità»; e forse era più opportuno definirla non-radicalità (oltre che incoerenza), tanto il problema vero stava più oltre. Ma parallela all’unilateralità dell’incontestabile rilievo generale è ancora l’antistoricità dei singoli interventi quando il giudice si fa a incarnare la coscienza comune alla quale comparare l’italiano di Svevo. A noi par dubbio che Svevo guasti sostituendo viso a faccia, perché faccia doveva esser per lui normale-volgare, e non evocare per niente la trivialità dell’amante, la «facciona» di Angiolina, che sarà mera armonica suggestiva del Devoto, non mica d’una Trieste 1898; e crediamo ch’egli sostituisca soccorrerlo ad appoggiarlo perché in questo verbo, anziché l’eco d’un sostegno fisico, doveva sentire come noi una massa tecnico-amministrativa. Come ideale consigliere di Svevo il Devoto ha probabilmente molte ragioni, ma prescinde dalla storia, dall’approssimatività lessicale proprio del suo ambiente (o sociologismo ginevrino!): lo «scriver male» di Svevo è infatti tale solo per lettori storicamente non al corrente, non al corrente insomma della vecchia Trieste (di questi lettori Svevo stesso si preoccupò), e si supera staccando in immaginazione le forme scorrette con semplici atti meccanici. Anzi: gli errori lessicali sono sullo stesso piano di quelle imperfezioni grammaticali che il Devoto ritiene eliminabili d’autorità quanto semplici errori di stampa. Se il filologo sarebbe sull’ultimo punto più filologo (o più storico) del Devoto, è per la non separabilità della grammatica in parti. La «descrizione» storica, apparentemente così agnostica in quanto il giudizio storico è già esso giudizio di valore, appare più esauriente della descrizione grammaticale, in un punto in cui il grammatico fa le sue prove migliori ed elabora i più originali risultati.
L’ultimo capitolo dà resultanze critiche meno insigni. Solo dopo un lungo smontamento di questo pezzo serrato e benissimo costruito (ma non mancano trovate non composte, come la sagace definizione del dialetto quale mezzo di evasione agrammaticale, che però non può applicarsi precisamente al dialetto fogazzariano, giustamente preso per mero elemento pittoresco e descrittivo) ci si accorge che la questione agitata è sempre quella del cosiddetto misticismo o, se si vuole, del dannunzianesimo di Fogazzaro. (Mette il dito sulla piaga il consiglio, dal Devoto riferito in nota, del Momigliano, che sposta la ricerca verso Malombra; e così, indirettamente, verso la non abbastanza indagata partita di dare e avere tra Fogazzaro e D’Annunzio, che ha aspetti immediati oltre ai comuni ingredienti francesi o russi. L’«analisi», e in ispecie l’analisi come sensualità suddivisa e abbondanza descrittiva, sembra altrimenti difficile che aspettasse, a nascere, proprio Piccolo mondo moderno). In compenso, le pagine sono perentorie per quello che è dell’ideale del Devoto. Fogazzaro potrà risultarne una sorta, lì, di alto bozzettista, magari delle situazioni intime: il Devoto parla di epos, e ne riconosce i caratteri nella trinità di linearità solennità armonia; mentre, se intendiamo bene, la mancanza di costrizione e d’attenuazione si traduce in una disuguaglianza di livello. Nel suo epos Fogazzaro è classico; e classicismo deve apparire al Devoto quella sua grammatica che già ci si è chiarita come desiderio di naturalezza e naturalità, sicché egli può offendersi di «formule banali» e sdegnare «la volgarità del cui oggetto» (cui fende).
Abbiamo così innanzi il doppio movimento del Devoto, la sua non diremo antinomia ma contraddizione (contraddizione, s’intende, hegeliana, come momento essenziale del pensiero): da una parte l’amore dell’iniziativa linguistica da un esclusivo riguardo dinamico, a condizione che non consista in una legalità o «tradizione» nuova, dall’altra il rispetto per un principio di unità, coerenza e fusione tonale; da un lato la misura basica d’una tradizione precedente, e cioè trascendente, dall’altro il canone d’una tradizione interna, organica, e dunque immanente. Nella mescolanza di elementi storicistici e naturalistici questi ultimi tendono a prevalere, se, quando alla storia come passato o virtualità di passato si oppone la storia come presenza, questa è però controllata su un modello che non è lei; e se anche il Devoto, accettando nelle «Note critiche» da un gentiliano qual è il Calogero il concetto d’una lingua «monologica», trasporta in terreno idealistico la dicotomia sociologica del Bally, ciò che risospinge anche la sua «poesia» verso la trascendente «tradizione» è l’idea e il metodo della normatività. Se è vero che, di contro all’idealismo elevante pur la langue all’istante creativo e sintetico, il Devoto riporta anche la parole degli autori al momento didattico delle scelte (e con tutto questo egli è ancora più un ideologo che un temperamento positivo e sperimentale), il giudizio non andrà per nulla irrigidito, ma lasciato aperto: quanto, almeno, nel Devoto la distinzione di passato e presente conserva tuttavia di freschezza empirica. Gli scritti visti finora sono su scrittori, se non tutti contemporanei, abbastanza moderni da consentire al Devoto di confrontarli alla sua coscienza linguistica: l’unico saggio che tratti d’un classico, Caterina da Siena, precisa che i valori filologici di preistoria linguistica (arcaismi, dialettismi) non hanno un’apprezzabile portata stilistica; o in altre parole: l’autore «passato» e lontano è abbastanza sottratto alla possibilità del paragone con una norma corrente da rimanerne soltanto la «presenza». (4) Non che manchino, neppure nello studio sulla santa, le correzioni o traduzioni in normale da parte del Devoto (quando si tratti delle zone «pratiche» delle lettere), ma è chiaro che qui il loro valore è strettamente simbolico. La vera norma, più vistosamente che mai, è l’unità. La conclusione riassume infatti così lo Studio: «la tradizione linguistica [tradizione press’a poco nel senso immobile di “poesia”] documentata dalle lettere di Caterina da Siena si compone dunque di quattro aspetti: di una notevole letterarietà [il critico si riferisce mentalmente alla quadripartizione citata più su] in tutta la parte dottrinale, fondata su un ritmo pacato, su [la virgola separa due ordini di dimostrazioni] una omogenea interiorità di lessico [astratti, metafore]; di una letterarietà resa meno interiore, terrena, attraverso il giro dell’allegoria, senza che il ritmo ne risenta [senza cioè la rigidità del barocchismo o preziosismo: è il punto più felice della dimostrazione]; di una non-letterarietà in molte delle parti “pratiche” delle lettere culminante nella assoluta aritmicità dei periodi, saltellanti o tortuosi [o fortemente disgiuntivo]; di una letterarietà esaltata nei non frequenti episodi di estasi, in cui il grido della immedesimazione con Dio è tradotto in periodi fortemente scanditi, affannosi, rigidamente sottomessi alla parola mistica». Anche superfluo che si sottolinei qui, a carico del classicismo desiderato dal Devoto: il ritmo pacato, l’omogeneità lessicale, la ripetizione della centrale parola mistica; e viceversa l’aritmicità come elemento negativo. Potremmo a questo punto consentirci il lusso di formulare la costante dei saggi del Devoto: descrizione d’un’unità ritmico-tonale minacciata. Il ritmo di Caterina è descritto dopo una decomposizione bizzarra (e successiva statistica) in parti esortative, affermative e di motivazione: col che il Devoto traveste al solito un’autentica impressione critica, l’imbarazzo in cui pone il nesso espositivo-pragmatico di Caterina chi potrebbe aderire solo alla pura esposizione o al puro pragma. Quella decomposizione serve semplicemente a provare l’unità, o, come dice il Devoto, «la sovranità dell’intelletto». Nella figura dell’unità, o magari nello schema dell’unità (se egli può denunciare per loicità d’intelletto, tacitando le inchieste locali del gusto, «disarmonie lessicali» o «parole violente» nella stupenda lettera CXCVII), egli ritrova la presenza di Caterina, e l’astrazione della grammatica gli è stata utile.
Resisteremo all’indiscrezione e maleducazione di chiedere, perorando dopo questo breve discorso, nuovi documenti; nella specie, nuovi saggi che approfondiscano o colmino l’iato fra passato e presenza linguistica: la problematica del Devoto è lì. Se l’attività del Devoto è «discutibile», ciò va inteso nel significato di cosa che merita la discussione, che susciti essenzialmente la discussione. Quella discussione infinita che si conduce con gli intelligenti in senso stretto, che uno fa all’interno di se stesso.
Note
1. La reazione fu rappresentata da una risposta dell’interessato Gadda, Postille a una analisi stilistica, in «Letteratura», 2; e accessoriamente da una nota di Enrico Falqui, Devoto e la stilistica, ora nel volume Ricerche di stile, Firenze [1939], pp. 13-20.
2. Poiché in tutt’altro ordine, che con molto gusto tiene ancora della stilistica in accezione semmai tradizionale, si svolsero (e non si escluda dal valore aspettivo di questo passato remoto una sfumatura di rimpianto) le ricerche del De Lollis, nei Saggi sulla forma poetica italiana dell’ottocento (ora nella raccolta Scrittori d’Italia, Milano-Napoli 1968), e del suo valoroso, e precocemente vissuto e morto, discepolo Domenico Petrini, nel volume pariniano (ora incluso nei due tomi Dal barocco al decadentismo, Firenze 1957, egregiamente curati dal Santoli).
3. L’esempio citato vale, come si esprimono i linguisti, per intere serie; e un elenco sufficientemente lungo è del resto nello scritto di Falqui. Si ricordi ancora questo, almeno, poiché porta su uno dei punti più lirici e patetici del Castello: dove l’ufficiale giovinetto e morituro di Gadda «pareva un poeta fra le rovine, in una calcografia wertheriana», lo «scriver bene» del Devoto suggerisce «pareva un poeta fra le rovine come in una stampa dell’ottocento», frase che «avrebbe salvato con la sua genericità il passo da una caduta». Una così evidente decolorazione delle armoniche poetiche e l’affermazione che la «calcografia wertheriana disturbi con secondari effetti di grottesco e d’ironia», non devono stupire se non quanto l’ingrandimento consequenziario d’una premessa, per chi non misurasse abbastanza la deviazione iniziale. Posto infatti che sfuggano quelle armoniche poetiche, un fantasma concretissimo e centrifugo come quello di cui si discorre non può non dovere la sua esistenza, per un osservatore logico, a un’intenzione astratta di porre appunto armoniche ed echi centrifughi, con gli effetti che si sono definiti.
4. A rigore va precisato che la posizione del saggio su Pascoli risulta intermedia e impura, in quanto in esso non si tratta di misurare, come in tutti gli altri casi, l’efficienza linguistica interna, bensì di segnare lo stacco portato dall’intervallo d’un quarto di secolo nelle abitudini linguistiche correnti. Qui le obiezioni non spetteranno tanto al punto d’arrivo, ch’è al solito il gusto privato del Devoto, com’è chiaro dalla sua sensibilità non solcata da esitazioni al valore esclusivamente durativo del prefisso s- (al qual proposito egli non esita a farsi legislatore: «il “grammatico” formula una regola, anticipandola nel tempo, quando l’uso non l’ha ancora stabilita»); quanto al punto di partenza, cioè a dire il valore strettamente documentario dei testi pascoliani. Forme quali intermettere e coltare per davvero «testimoniano la sua età»? o non testimoniano, a rovescio, un’anima di prezioso, prezioso pascoliano s’intende, di preziosismo sentimentale e, per così dire, gnomico, non già di preziosismo oggettivo e semplicemente parnassiano? Preziosismo soltanto troveremmo noi, a seguire l’ordine dell’analista Devoto, nel gerundio anticipato alla reggente (che oggi sarebbe per lui «tecnico burocratico», non «narrativo»), nelle costruzioni eventualmente più latineggianti (meno «moderne»), in minuzie ornative, sia di consecutio temporum, sia di eccessiva «esattezza formale», usate in epigrafi (quasi che l’epigrafe, nonostante la diffida del Devoto, possa altrimenti considerarsi storicamente l’epigrafe funzionale che risulterebbe dalle consuete correzioni del critico). Il saggio pascoliano ha così fornito la riprova sperimentale dell’impossibilità di sorprendere la lingua (la langue), di sorprenderla in fatto fuori della parole; la langue è una finzione scientifica, una mera ipotesi di lavoro. (Un’obiezione analoga circa tale impossibilità è mossa al Bally da Elise Richter, nel suo saggio su impressionismo, espressionismo e grammatica, in «Zeitschrift für romanische Philologie», XLVII, 349 ss.).
Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371- 18-3
© 2007-2025 by Riccardo Stracuzzi & EJGS. Previously published: G. Contini, L’analisi linguistica di G. Devoto, in Lettere d’oggi 4, nos. 3-4 (1943): 77-91; then in Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1939-1968) (Turin: Einaudi, 1970), 661-71. First published as part of EJGS Supplement no. 7, EJGS 6/2007.
The archival research carried out on behalf of EJGS was part of a project funded by the Edinburgh Development Trust, University of Edinburgh. The digitisation and editing of EJGS Supplement no. 7 were made possible thanks to the generous financial support of the School of Languages, Literatures and Cultures, University of Edinburgh.
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