Il Gadda ritrovato
Nel laboratorio dell’Ingegnere

Giuliano Gramigna

Carlo Emilio Gadda, Un fulmine sul 220, Milano, Garzanti, 2000, 324 pp.

Come lavora Carlo Emilio Gadda? Ossia, come non lavora, «che dà ugual frutto, a momenti, nella vicenda oscillante di uno spirito fuggitivo e aleatorio…», secondo quanto proclama l’autore medesimo in una confessione famosa. Ce ne informa preziosamente il libro appena uscito da Garzanti, Un fulmine sul 220 (pagine 324, lire 32.000), curato da quel sommo regolatore dell’opus gaddiano che è Dante Isella. Il volume rende noti quaderni e carte emersi dalle cave della Garzanti, che chiariscono un lungo tragitto elaborativo (dal 1931 al 1936 e poi al 1943, data di stampa dell’Adalgisa) di una carriera letteraria chiamata e insieme strascinata «dall’improbabile, forse più che dal probabile» (uso le parole gaddiane).

Del Fulmine sul 220 si è parlato molto in anni passati senza avere nozione precisa della composizione di questo ammasso stellare, nato, diluito, estinto nel tempo – in certo modo, un mito prima che un testo. Qui si dà al lettore il primo getto della novella eponima, poi divenuta tra il ’33 e il ’36 un romanzo in cinque capitoli (nel progetto), lasciato infine cadere perché dal bozzolo era uscita prepotentemente l’angelica farfalla dei «disegni milanesi» dell’Adalgisa.

Non è un libro per filologi e ricostruttori di scartafacci; è un libro per lettori di Gadda patentati ma anche virtuali. Il funzionamento, sotto i nostri occhi, del laboratorio gaddiano, è non solo seducente ma più romanzesco di qualunque romanzo.

Con buone ragioni la Garzanti ha fatto uscire, insieme con il Fulmine, l’Adalgisa in una molto elegante riedizione dei Narratori Moderni. Si consiglia di mettere a confronto l’inizio del capitolo primo, La crisi domestica (nel Fulmine sul 220), con l’incipit proverbiale del «disegno» Quando il Girolamo ha smesso (nella citata Adalgisa), che racconta l’arrivo dei lucidatori di parquets «nelle migliori case di Milano»: per constatare in atto, cioè in lessico e in sintassi, gli acquisti del modulo gaddiano. Dove non dirò che Gadda diventi finalmente Gadda ma tocca la sua eccellenza espressiva.

E un paragrafo si dilata in pagina, per inserzioni imprevedibili seppure necessarie: come l’accenno mitologico a «Hermes carrucolatore» e alla sua «celeste combriccola»; le microtrovate di una semplice interiezione («Be’») o di un cambio onomastico (Cavenaghi anziché Cavigioli…).

Un fulmine sul 220 inscena la «prudenza/demenza» del ceto mercativo-politecnico milanese, in ugual misura odiato-amato da Gadda. Vi si esagitano situazioni e personaggi divenuti familiari a ogni lettore della intera saga o fabula o incubo gaddiano. Sulla scorta del «primo getto», lo si può leggere anche come una storia di incontri tra strati sociali diversi, anzi di adulterio fra la delicata donna Elsa, moglie del nobiluomo Gianmaria Cavigioli-Cavenaghi, e il garzone macellaio Bruno, storia che Gadda addirittura pensava di concludere con una doppia morte per folgorazione.

Il romanzo potenziale che Gadda inseguiva nei suoi quaderni, tormentati di varianti, a un certo momento gli esplose in mano soprattutto per la vitalità autonoma ed eccessiva del personaggio dell’Adalgisa, una delle meravigliose donne lombarde, stiratrice e canterina del Fossati, a buon diritto assurta a insegna non solo di un libro (il maggiore, direi, con La cognizione del dolore) ma dell’intero modo espressivo dello scrittore.

Nella Nota al testo Dante Isella spiega, con grande finezza critica e pertinenza di rimandi, ciò che è accaduto dentro il Fulmine, cioè dentro il laboratorio gaddiano: in particolare quando introduce l’ipotesi di un «avantesto romanzesco» antecedente ai «disegni» e che il buon lettore avrebbe potuto divinare da un insieme di indizi e lacerti testuali, e che ora gli si squaderna nel Fulmine.

Il fatto è che il narratore Carlo Emilio Gadda in partenza si propone un prototipo di romanzo dirò così tradizionale da perseguire (vedi gli incastri e grovigli balzacchiani di parentele): diventa sperimentale (anzi il maggior sperimentale in Italia) solo al momento di entrare in colluttazione con la lingua e il suo «furore» personale.

Il lavoro negli anni, testimoniato dal Fulmine, non ha a che fare appena con la fulguratività crescente del linguaggio ma anche del trasmigrare di blocchi o fantasmi narrativi da una storia all’altra, che magari si costituirà proprio per effetto di tale spostamento. Vale quanto dire che in Gadda alla fine era vivissimo l’impulso a una sintassi del narrare, l’ambizione grande di «fare romanzo». Abbastanza per mettere in crisi i vecchi schemi esclusivi di un Gadda «calligrafico» e frammentista.

Un fulmine sul 220 soddisfa il piacere «secondo» di scoprire in atto certi processi del laboratorio; senza intaccare, in ogni caso, quello che è il piacere primario: il piacere — inesauribile — di «leggere un Gadda».

Corriere della Sera
3/8/00

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859

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