Gadda e Milano:
mito e demistificazione

Raffaele Donnarumma

Gadda milanese?

Sulla milanesità di Gadda esiste un vero mito storiografico. Già i primi recensori notavano, in lui, un’anima lombarda, in cui si univano una cultura scientifica e positivistica, formatasi al Politecnico; un risentimento satirico e realistico da far risalire a Parini e Porta; una severità morale di ascendenza manzoniana; e una tensione stilistica che richiamava quella Scapigliatura che, com’è noto, è fenomeno essenzialmente lombardo, seppure con una propaggine piemontese. C’è, in questo mito, una buona dose di verità; ma c’è anche qualche non lieve forzatura. Da un lato, Gadda aveva poco o nulla a che fare con i Dossi, i Faldella e i Cagna cui lo si apparentava e che, anzi, si andò a leggere solo dopo che gli vennero indicati come suoi predecessori. La sua formazione letteraria era anzi robustamente nazionale e se metteva insieme Manzoni, Carducci e d’Annunzio «come schegge d’una bomba» (SGF I 505), era proprio per omaggio ai padri di una patria non solo letteraria. Del resto, Gadda è sin dagli esordi uno scrittore europeo, per capire il quale gioveranno ben più Shakespeare, Dostoevskij o Zola che non Carlo Porta o l’abate Parini; e uno scrittore attento come pochi alla grande cultura contemporanea, se il suo precoce ed eccezionale interesse per Freud si innesta sì su una base di psicologia positivistica in cui concorrono anche autori lombardi (come Paolo Mantegazza), ma che si svincola da quei modelli per acquistare subito libertà critica e intellettuale. Quanto poi al razionalismo di eredità illuministica e al moralismo, pochi scrittori come Gadda sono stati insofferenti di perbenismi e sedotti dalle ragioni dell’irrazionale.

D’altro lato, che idea di milanesità presuppone il mito? Un’idea che, a dire il vero, non pecca per oltraggio al luogo comune: Gadda sarebbe milanese non solo per essersi formato in questa città e per aver contratto un debito permanente con la sua cultura, ma per razionalismo, moralità, risentimento, amore delle verità quadrate e generosa insofferenza dell’approssimazione e dell’irresponsabilità. Sarà un caso che i più convinti fedeli del mito operino a Milano e in Lombardia? Non ci sarà, in questa costruzione, un sospetto di interesse privato in atto pubblico? E soprattutto, il mito regge alla lettura di Gadda senza lenti lombarde? Naturalmente, nessuno ha potuto ignorare la presenza, così ingombrante, del livore antimilanese e antilombardo di Gadda: ma è parso più utile leggere oltre la lettera, e cercare persino in una talvolta astiosa satira antimeneghina l’espressione di un’autentica, profonda milanesità. Il prezzo è stato, però, la rimozione di quella stessa, scomoda lettera. Così, il mito della milanesità ideale e metaforica di Gadda è diventato un risarcimento contro il suo antimilanesismo anche troppo reale e letterale: dal quale, invece, mi sembra necessario partire.

Inutile, infine, evadere la più semplice, la più brutale delle domande: a chi serve un Gadda milanese? O più precisamente: serve alla scuola un Gadda milanese? Riterrei un arbitrio imporlo anche solo all’interno di una città che ha conosciuto e conosce un’immigrazione così massiccia, dall’Italia e ora dall’Africa e dall’Asia. Un’identità milanese tanto localistica e tanto legata a un certo passato sarebbe, per chi ha altre origini, una falsificazione: indurrebbe o a un rifiuto polemico e difensivo, o a un conformismo dettato dal senso di inferiorità, o a un misto di sentimenti, in cui poco spazio avrebbe un’intelligenza serena. Se poi uscissimo dalla città, allora ci dovremmo scontrare con tre difficoltà almeno: in primo luogo, la cultura della Milano tra fine Ottocento e inizio Novecento potrà risultare distante quanto quella della Firenze di Dante e, in più, non riuscirà a vantare altrettanti motivi di fascino; in secondo luogo, il dialetto lombardo che Gadda usa e che è orgogliosamente rivendicato dai suoi mitografi è dei meno esportabili (a differenza, poniamo, del romanesco del Pasticciaccio); infine, – siamo franchi – c’è da sospettare che in questi anni Milano non desti sempre, nel nostro paese, entusiasmi diretti e simpatie immediate. Un pregiudizio, certo; ma un pregiudizio col quale bisogna pure fare i conti. Per uno studente di scuola superiore, allora, il mito della milanesità di Gadda sarà più un ostacolo che un incentivo alla sua lettura, più una difficoltà da superare che un punto d’arrivo.

Le questioni intorno alle quali ci stiamo muovendo sono ovviamente capitali; e la scuola le affronta con radicalità, proprio perché non può nascondersi dietro la maschera del disinteresse e della scientificità accademiche. Così, non possiamo ignorare che il mito milanese provochi associazioni ovvie e irriflesse con l’attualità, in uno studente di scuola superiore come in chiunque. Non voglio entrare qui nella questione strettamente politica; se non altro perché Milano ha dato al parlamento nazionale non solo la Lega di Bossi, ma anche un movimento tutt’altro che regionalista come Forza Italia di Berlusconi (cognome, per altro, citato da Gadda fra i più milanesi). E lasciamo stare che questa stessa regione in cui, pochi anni fa, qualcuno minacciava la secessione, era stata nel secolo precedente una delle massime protagoniste del processo unitario (anche se, è bene ricordarlo, i modi e l’estensione che si sarebbero voluti dare a quel processo non collimavano perfettamente con quelle che ne furono le forme reali). Il nostro primo compito, dunque, sarà conservare il senso della distanza storica, evitando sovrapposizioni indebite e confusioni. La Milano di Gadda è per lo più la Milano fra le due guerre: anche quando ci sembrerà che i problemi di allora siano quelli di oggi, occorrerà distinguere, e fermarci a chiedere se quell’identità sia reale o solo apparente.

C’è poi una questione culturale anche più vasta e complessa. Credo che l’attenzione alla geografia della letteratura, necessaria per intendere intere epoche della nostra storia, non sia lo strumento più adatto a capire il secolo concluso; e se esprime il bisogno di definire la propria identità in una generazione ora matura, forse può essere sentito come poco urgente da chi ha, diciamo, trent’anni e meno, e si è formato in un clima decisamente (anche se non solo salutarmente) internazionale. Non dispongo di dati sociologici: sospetto però che un diciottenne, ammesso che senta il bisogno di dichiararsi milanese, intenderebbe l’aggettivo in tutt’altro senso da quelle probe virtù civiche attribuite sopra alla milanesità di Gadda. Riconoscere le proprie radici locali è sempre necessario; ma richiede onestà, per non diventare un atto parziale o addirittura mistificatorio. Possiamo anche credere, nietzscheanamente, che ogni tradizione sia inventata; ma qualcuna lo è un po’ troppo, o in modo un po’ troppo interessato. Il localismo appartiene, spesso, a questa seconda categoria; e altrettanto spesso ha come obbiettivo polemico l’integrazione. Certo, appunto l’integrazione sembra la strada più difficile: società realmente multietniche, come quella statunitense, sembrano avere presa la via di una convivenza forzata, in cui i singoli gruppi etnici e religiosi rivendicano la loro autonomia con più forza di quanto non cerchino il dialogo. È un modello che fa di necessità virtù, e che cerca di trasformare l’esclusione patita e il razzismo subito in scelta di separatezza e volontà di autoaffermazione. Ma è questo che vogliamo?

Molti dubbi, dunque, a cui non possono essere date risposte sempliciste. Almeno, evitiamo qualche equivoco. Il rapporto fra globalizzazione e localismo (una variante di quello che, altrimenti, chiamano comunitarismo) è troppo organico e fitto per consentire la liquidazione di uno dei due termini. Non si vive a Milano come si vive a Roma, a Napoli o a Palermo, ma neppure a Pavia o a Brugherio; e, a dirla tutta, non si vive a Quartoggiaro come si vive a Brera. Certo anche quando ci trasferiamo in una città diversa da quella in cui siamo nati e cresciuti, il suo passato agisce su di noi. Eppure, quel passato è in genere più contraddittorio di come vorrebbero immaginarlo i localisti; e il presente, in qualche misura, è in tensione con esso. Oggi parleremo soprattutto di una Milano del passato, per farla reagire sia con il mito di un Milano scomparsa, sia con le immagini diverse e contrastanti che noi, oggi, abbiamo di Milano. Resta la libertà di ognuno; e resta la necessità di scegliere fra un’idea di cultura come spazio dell’affermazione di un sé individuale o collettivo, e un’idea di cultura come spazio aperto di incontri e conflitti.

Una brutta e mal combinata città

Di tirate e di sarcasmi contro Milano, l’opera di Gadda trabocca. «Milano è una brutta e mal combinata città», sentenzia Libello (1938) prima di accanirsi contro una «bruttezza» architettonica neppure scompagnata da una certa tristezza climatica. Palazzi sbilenchi, mal divisi, dal retro e dalle fiancate indecorose, rivelano una schiavitù alla «necessità economica», un «troppo fiducioso abbandono e trascuranza dei valori non tangibili dell’intelletto»: a vincere sono un’ottusa acquiescenza al senso comune («èm semper fà inscì») e un individualismo renitente alla «disciplina organizzatrice» («mì foo come voeri mì») (SGF I 87, 89, 91, 92). Incultura, pressappochismo, e soprattutto mancato senso del bene pubblico: Milano appare a Gadda come l’anti-utopia, la città reale deformata dall’assenza di valori razionali, etici, civili. Su quei valori, tuttavia, non bisogna farsi troppe illusioni. Da un lato, Gadda contrappone a questo disordine la risistemazione di via Dante, del Foro Bonaparte e di piazza Castello avvenuta fra 1875 e 1895 e che rimanda al decoro di un’Italia umbertina, che non so quanti rimpiangeranno; dall’altro, plaude ai «nuovi edifici a portici di piazzale Fiume», esempio di risistemazione urbanistica fascista. Perché appunto nella disciplina, nel dirigismo e nel nazionalismo fascista il Gadda di questi anni crede. Tanto che, in un articolo del 1936 (Anno XIV, restauri del Duomo), non esita a celebrare l’«alto e illuminato consiglio del Duce», promotore dei lavori:

La Milano fascista anno XIV, e seguenti, è lieta e fiera di recare i nuovi marmi alla sua «chiesa maggiore» nell’unità e nella perfetta egualità delle anime; (SGF I 807)

come a dire che solo il Duce può porre freno all’individualimso miope che ha devastato la città, riportandola a quel senso di comunità civile che aveva conosciuto, addirittura, nei secoli in cui il Duomo nasceva (del resto, in Immagine di Lombardia la Milano che fa «Duca il suo condottiero» Francesco Sforza sembra preludere non solo allo «stato rinascimentale italiano», SGF I 858, ma allo stato corporativo fascista).

Sono Uggia e Cattivo Gusto ad aver presieduto alla fisionomia della città, ci spiega Pianta di Milano – Decoro dei palazzi (1936). Così, da un lato ci troviamo gli edifici sbilenchi, dissimmetrici e diseguali di una moda cosiddetta razionale, e che a Gadda pare sommamente irrazionale; dall’altro una passione esotico-storicista che crea bizzarrie antifunzionali come il cosiddetto Kremlino alla Città degli Studi, presso il Nuovo Politecnico, e che ricorda le ville satireggiate nella Cognizione del dolore. Nell’Uggia e nel Cattivo Gusto, allora, sono degenerati quella razionalità e quella tradizione che Gadda vorrebbe rinnovati, e che l’incultura seppellisce. Ma per colpa di chi?

Il Robespierre della borghesia milanese

Gadda non ha dubbi: la responsabilità dei mali di Milano va attribuita, anzitutto, alla sua borghesia, di cui egli aspirava ad essere, in una lettera, «il Robespierre» (Gadda 1983c: 46). Le virtù che il luogo comune riconosce ai lombardi sono virtù eminentemente borghesi: operosità, buon senso, volontà di benessere, fattività; ma sono tutte virtù di cui Gadda denuncia il rovescio, e fa vedere i mali. Il buon senso è spesso acquiescenza al senso comune; la volontà di benessere si traduce in ottusità bottegaia e mercantile; la fattività diventa un po’ troppo spicciativa e testarda (come in Adalgisa: «era di quelle meravigliose donne lombarde che il proprio vigor di cervello manifestano in pragma (le idee per loro sono atti), cioè in una prescienza vittoriosa d’ogni obiezione: col postulare dovunque, davanti a chiunque, la certezza nella propria infallibilità», RR I 500). Persino uno scritto nato per una destinazione francamente celebrativa, e intitolato semplicemente Milano (1953), elogiando civiltà, operosità, giusta volontà di guadagno, non può trattenersi dal notare che la «disciplina» milanese è «talora opaca» (SGF II 1075), e dal lamentare una certa indifferenza per la complessità del «mondo delle circostanze morali» (SGF II 1077). Quella milanese, insomma, è una «società laboriosa, ma non colta» (SGF I 88). L’indagine sulle forme della pseudo-cultura borghese è, anzi, uno dei soggetti prediletti da Gadda. I Cavigioni dei Ritagli di tempo, tutti con il «bernoccolo dell’ingegneria», sono «entusiasti» del Guerin Meschino, un modesto giornaletto che ospita anche poesie in un milanese un po’ improbabile, da assaporare nella quiete sonnacchiosa del postprandio. Quanto a letture, non siamo messi meglio. Usciti da una formazione scolastica «un po’ troppo greve di classicità», si buttano a capofitto in libri d’intrattenimento, non privi di pretese e non esenti da qualche prurigine:

«Un posto nel mondo», di Virgilio Brocchi, «La collana della regina» (Maria Antonietta, beninteso), di Luigi Pedrazzi, «Les mémoires d’une femme de chambre» di Octave Mirabeau, e «Il dramma di Mayerling» d’un paio di dozzine di dramaturghi e storiògrafi specializzati in mayerlingheria. (Adalgisa, RR I 412)

Ciò che identifica la borghesia milanese è tuttavia, per Gadda, la sua predilezione associazionistica, che si divide fra attività filantropiche e culturali, fra Società Patriòtica e Famiglia Artistica Meneghina, fra Tazzinetta Benefica e Circolo Filologico. Non può mancare la musica: anche se, alla Scala, saranno preferiti teatri meno eletti, come il Fossati e il Carcano in cui si esibisce la giovane Adalgisa; oppure i Concerti del Conservatorio, che, con i loro programmi novecentisti suscitano una pressoché unanime esecrazione:

La sala «risfolgorava di luci». (Negli occhi). Ivi la società musogonica della città industre, aja di laboriosi pupilli, dopo le molte buone opere, s’aduna a purgare le sue indigestioncelle farisaiche, i suoi peccatuzzi stitici, col porger orecchio a quegli altri peccati, un po’ più cipperimerli per fortuna, di Luigi Dallapiccola o di Igor Strawinski. «Oportet un eveniant scandala». Il semiarabo giapponese dal nome cileno fornisce agli imbottiti melomani e melomanesse del Quadronno e del Pasquirolo quel zinzino di scandolo che ci vuole, giusto, per potersi decentemente scandolezzare. Nonché indignare, compiacere, inorgoglire. Da potersi congratulare l’un l’altro della propria apertura d’ali. Da poter fremere od allibire secondo grossezza, trasecolare, sudare. (RR I 456)

Approvazione o biasimo, non fa differenza: il concerto, come qualunque occasione culturale, è sottomesso al bisogno di affermare la propria identità, in quanto identità di gruppo. Non si tratta solo di quel filisteismo e di quell’opportunismo borghesi che si denunciavano almeno da un secolo. La questione non è solo il conformismo sociale, che riduce la cultura a mero ornamento e a fasto di rappresentanza; né un puro prolungamento dello spirito pratico (quello che promuove «studio delle lingue (che oggi è la base)», RR I 412). Concerti, ritrovi, associazioni sono riti in cui la borghesia milanese celebra il proprio essere «tribù» (questa la parola che ricorre nell’Adalgisa), il proprio condividere valori o disvalori, il proprio riconoscersi come ceto solidale e compatto.

Dunque la «metropoli industre» rivela, inaspettatamente, un carattere provinciale? Dunque la borghesia milanese è, anzitutto, una «somaresca tribù» (RR I 491) che con le sue chiacchiere si seppellisce nella propria ristrettezza di vedute (o «larghezza di vedute», dice Gadda con ironica antifrasi, RR I 475 n. 33)? Parrebbe proprio di sì: tanto che la sua violenza non esita a fare vittime fra i renitenti a conformarsi al suo spirito. Così, se Adalgisa, censurata per le sue origini popolari, trova comunque una sua autonomia, Elsa, moglie di un uomo opaco e ottuso come Gian Maria Cavigioli, soccombe al peso delle convenzioni, e cerca uno scampo nel tradimento con il garzone Bruno (più che nell’Adalgisa, nell’incompiuto Fulmine sul 220 da cui l’Adalgisa è tratta).

Questo spirito tribale, del resto, coinvolge tutta la Milano dirigenziale e perciò non risparmia neppure quell’aristocrazia su cui Gadda torna più volte. È vero che, fra borghesia e aristocrazia, permangono delle distanze. La contessa Eleonora Vigoni (una delle peggiori malelingue, persecutrice sia di Adalgisa, sia di Elsa) ha una cultura più scelta: la scopriamo così ammiratrice di Longfellow, Tennyson, Coleridge; eppure, nei suoi accessi di pruderie, leggendo Swinburne tollera l’ode a Mazzini, ma rabbrividisce «all’idea delle Lesbie, Faustine, Dolores, Erodiadi, Bersabee e Marie Stuarde varie, di cui non finiva più, viceversa, d’ingolosirsi la magistrale spasmofilìa o algolagnìa del poeta» (RR I 546). Il conte Agamennone Brocchi, in San Giorgio in casa Brocchi, non si accontenta di feuilleton, e scrive per il nipote un’Educazione razionale della gioventù secondo i concetti etici moderni trombonescamente ispirata a Cicerone. Ma con i loro limiti, i nobili gaddiani non si sottraggono al senso tribale della borghesia, cui, anzi, appaiono costantemente confusi: così, Gian Maria Cavigioli è un «nobiluomo cioccolatiere» (RR I 494), ben poco distinguibile dai suoi concittadini meno blasonati; e così altri conti e contesse che compaiono nelle pagine dell’Adalgisa o altrove. Neppure la vecchia aristocrazia, infatti, dimostra una sensibilità culturale vera: il conte Brocchi, incappato nella Triennale di arte contemporanea, si trova a censurare inorridito quell’arte novecentesca di cui lo stesso narratore, del resto, ci dà un’immagine satirica e irresistibilmente comica; mentre la contessa Brocchi, tutta presa da un terrore bigotto per i mali del secolo, cerca inutilmente di preservare il figlio dal contagio. La tribù della Milano aristocratico-borghese, insomma, elabora unita un sistema educativo repressivo, perbenista, conformista.

è vero che, di fronte a queste chiusure, i ceti popolari si presentano talvolta come portatori di valori alternativi: basti pensare, per restare in Casa Brocchi, a Jole, la cameriera con cui il diciannovenne Luigi scopre i diritti dell’istinto (o l’orrore del peccato, secondo la madre); o soprattutto ad Adalgisa che, sebbene faccia di tutto per apparire una «vera signora», conserva tuttavia la forza spicciativa e talvolta brutale della popolana. In ogni caso, Gadda è piuttosto estraneo a tentazioni populiste. La Milano popolare non è una Milano da idillio. Bruno, il garzone dell’Adalgisa, è simpaticamente canagliesco, ma pur sempre canagliesco. Gildo nella Meccanica è addirittura un mezzo teppista, animato da un odio di classe socialista che Gadda non manca di satireggiare, sino a farne un imboscato nella Grande Guerra. Quanto a suo cugino Luigi Pessina, che invece in guerra parte, per morire di tubercolosi, ha un’onestà che Gadda trova un po’ ridicola: socialista autodidatta, formatosi alla Società Umanitaria, ci appare incrostato di luoghi comuni filantropici e hughiani. Che la moglie Zoraide finisca per tradirlo con l’aitante Velaschi, che invano i genitori nobili imborghesiti hanno tentato di sottrarre alla chiamata al fronte, appare alla fine come il frutto necessario di una sorta di darwinismo sociale. Così alla fine, con una specie di amaro compenso simbolico, il giovane ricco, bello, forte e spregiudicato ha la meglio sul popolano buono, onesto, e malato.

Storia senza nostalgie

Il mito di una Milano popolare vitale e ribelle contro una Milano borghese asfissiante e repressiva non ha dunque corso. Né ha corso un altro mito, che pure si insinua: quello di una Milano del passato superiore a quella del presente, abbrutita e infelice. Gadda ammette l’elegia della città che cambia e scompare – come la Parigi del Cygne di Baudelaire – solo a patto di smorzarla ironicamente prima, e di negarla narrativamente poi. Così, nell’Adalgisa il rimpianto per la Milano d’anteguerra è un riflesso anzitutto della giovinezza scomparsa del narratore, su cui stinge il lutto per gli amici che nella guerra sono caduti. Quella stessa, del resto, è la Milano contro la quale si è battuta Adalgisa; o quella delle stoltezze socialiste e delle trame da imboscati della Meccanica; o ancora, quella dell’«epoca “positivistica”» (1895-1905), ricordata da una lunga nota dell’Adalgisa per ritrarne più la desuetudine che i meriti (RR I 553-557), e riassunta dalle buffe manie collezionistiche e dall’ingenuo scientismo di Carlo Biandronni, il ragioniere sposato sempre da Adalgisa. Il rimpianto della Milano umbertina (che, come abbiamo già visto, si salva dalla requisitoria di Libello) ha certo un significato politico in quanto celebrazione, da parte di un conservatore, di un ordine e di un decoro borghese che il fascismo non saprà restaurare davvero; e perciò il ricordo di Bava Beccaris può tornare, per il narratore della Meccanica (non per i suoi personaggi), senza troppe censure (RR II 498). Ma è anche il rimpianto di un’infanzia di cui Gadda sa eccezionalmente ritrarre il senso di avventurosa scoperta, senza nasconderne gli aspetti scomodi e scandalosi. Così Una tigre nel Parco rievoca i giochi infantili al Parco Sempione, luogo avventuroso per le testimonianze del passato spagnolo e asburgico e per gli incontri amorosi fra cameriere e soldati; ma smaschera anche le radici della nevrosi del narratore, rivelandone le perversioni precoci.

La storia, insomma, non sembra consentire altre nostalgie che quelle private e individuali. Non è del resto un caso che soprattutto la Meccanica, ma in parte pure l’Adalgisa, si presentino come racconti storici: più ancora che per l’ambientazione in un passato abbastanza prossimo (1914-1916 e 1931), per la tendenza a scivolare in epoche anteriori e per l’esibizione di quello scrupolo documentario e di quella felicità digressiva che il racconto storico richiede. Se proprio deve cercare una stagione mitica del passato milanese, allora Gadda celebra il ruolo che Milano ha avuto nel Risorgimento, o retrocede nei secoli, giungendo al medioevo comunale e all’età sforzesca.

Eppure, sprofondando ulteriormente, anche il passato mitico acquista tratti problematici. Quali rapporti intrattengono Milano e la Lombardia con la loro preistoria celtica, con la loro antichità longobarda? Nell’Adalgisa, lo spirito tribale della Milano borghese e patrizia sembra rinnovare «“i clan dell’antica gente”, proprî, cioè, dell’antica società gallica. E aggiungi le “fare” (élites etniche, aggruppamenti de’ nuovi venuti, in ogni borgo o città) degli invasori longobardi» (RR I 447, n. 42): come a dire che lo spirito di consorteria fa parte del patrimonio storico-genetico della città. Ma il problema è affrontato di petto altrove, e Gadda dà due risposte speculari in due periodi distinti della sua vita. In Immagine di Lombardia, del 1942, l’incontro fra barbari e Romani tende alla conciliazione. Quella lombarda è una «vigorosa civiltà di tipo latino», tanto che, nonostante il sostrato gallico, «il dialetto milanese, da Bonvesin de la Riva a Carlo Porta, sarà lessicalmente una parlata neolatina al cento per cento» (SGF I 856). E quando i longobardi invasori travolgono la cultura latina, questa «esercita un’azione fascinatrice sul vincitore: e a poco a poco risorgerà dalla cenere» (SGF I 857). La conclusione merita di essere riportata per esteso:

Lo spirito lombardo, formato nella cultura latina e nel cristianesimo latino, ha svolto e svolgerà una sua funzione importante nella civiltà nostra. Nel fondo dell’animo certa gaiezza e golosità insùbrica, certo umore generoso e facilmente proverbiante: e un impeto impegnato con serietà nell’azione, e spesso, la dirittura ingenua, vivida, entusiasta, della tradizione barbarica. I lombardi si sentono trascinati all’atto, al lavoro, da una forma di passione morale. Le recenti e folte immigrazioni interne dicono che la Lombardia ha creato tanto lavoro buono per poter chiamare altre braccia e intelletti a secondare le sue genti nell’opera. (SGF I 862)

Milano e la Lombardia come parte integrante della civiltà latina un tempo, della nuova Italia poi. Ma la «civiltà nostra» in cui lo spirito lombardo ha avuto e ha tanta parte è solo quella genericamente italiana? Non sarà quella più specificamente fascista, data l’enfasi sulla latinità e l’anno, 1942, in cui Gadda continuava a scrivere in appoggio al regime?

Non avrei dubbi in proposito. Ma l’interessante è che, caduto il fascismo, Gadda dispone gli stessi argomenti in modo opposto. Undici anni dopo, in Terrore del dattilo del 1953, Gadda ricorda sì che «il dialetto lombardo poggia su un fondo semantico prettamente latino (neolatino)», ma per rivendicare «il sangue e la discendenza longobardica, la mens germanica» e una «componente longobardica» «percepibile, a volte, nella “qualità” e nella forma del conoscere, del dire, dell’agire» (SGF I 515). Nella «tonalità celtica» del lombardo si esprime non solo «un calcolo di natura economica: risparmiare tempo, risparmiare saliva» (SGF I 518): c’è anche «una sorta di invincibile genio, di persistente reluttanza dell’animo e dell’os barbarico (gallico, indi forse longobardo) a conformarsi con la dizione dei vincitori latini, e più tardi dei vinti (gallo-romani)» (SGF I 519). Fra Lombardia e Italia c’è ormai un conflitto che Gadda non nasconde:

Il barbaro, venuto o costretto al paragone con la favella romana (oggi con la fiorentina), al riscontrare l’impossibilità della imitazione esatta, del rifacimento immediato (fonetico, lessicale, sintattico) di codesta favella, «entra» in uno stato di rivendicazione della propria entità e libertà (etnica e linguistica): si domanda, in altri termini, perché la favella di Roma debba essergli imposta, perché gli dei o l’Eterno Giove abbiano concesso codesto privilegio agli uomini pallidi che hanno trasgredito oggi il Po […]. Questo che oggi qualunque cicaletta chiamerebbe «il complesso celtico di inferiorità» nel confronto con la parlata e con la prevalenza latina, è stato forse il motivo segreto e remoto di un recuperarsi delle tonalità galliche, delle cadenze ossitone, dentro la cittadella inespugnata del linguaggio: di un linguaggio di popolo. Il contenuto semantico della parola e del discorso ha dovuto disciplinarsi a un’osservanza collettiva e pubblica, ufficiale e curùle. Il tono, l’impeto, il flatus è rimasto libero patrimonio dei liberi.
«Mì voeuri pensà con la mia testa». «Mì son vün che bisogna lassà büì in del sò broeud». «I mè danée me piasen a mì». (SGF I 521)

è una pagina di cui sarebbe illegittimo appianare la complessità. Da un lato, Gadda rivendica la matrice autoctona e la fierezza dello spirito lombardo, senza però che questo incrini minimamente la sua fede nella grandezza di Roma (una fede che, abbandonata la retorica fascista della latinità, si cristallizza in una più quieta passione letteraria e civile); dall’altro, non disconosce affatto né la sopraffazione romana, né che «il complesso celtico di inferiorità», pur nella banalità della diagnosi, abbia più d’un motivo di essere: tanto che le frasi milanesi finali sono, in decrescendo, una testimonianza non di patria virtù, ma di miope egoismo bottegaio. Il mito di una Lombardia celtica e longobarda, che Gadda attinge esplicitamente dal Cattaneo di Lombardia antica e moderna, e che è stato rinnovato nella propaganda politica leghista proprio in opposizione a Roma (certo non quella repubblicana o imperiale, ma quella ben più presente della cosiddetta prima Repubblica) non può insomma trovare un adepto in Gadda. O almeno, non sempre. Perché, a onore del vero, occorre ricordare Nord-Sud, ancora, uno scritto dell’immediato secondo dopoguerra, in cui si risponde a un articolo di Mario La Cava che giustifica il separatismo siciliano. Gadda difende il Nord e in particolare Milano dall’accusa di aver sfruttato il Sud. «I “governi” d’Italia erano, in pratica, alle mani di meridionali», scrive; e aggiunge: «Il funzionarismo statale italiano recluta meridionali all’80%: lombardi al 0,05%» (SGF I 914):

Rinomato, negli anni che correvano i treni, il notturno Milano-Roma via Fidenza-Sarzana, detto «il sarzanino», di cui usavano precipue gli industriali milanesi per correre periodicamente a Roma a implorare o a… persuadere… i magni direttori generali… che la tal legge, la tale disposizione, il tal decreto, il tale articolo… piovuto loro sul collo come un gastigo di Dio… insomma, vedessero, considerassero, ponderassero, studiassero attentamente la cosa… ma così non poteva andare. Roma legiferava, con la competenza di causa che la distingue negli affari economici: e Milano si riversava a Roma sul sarzanino. (SGF I 915)

Lasciamo da parte cosa si nasconda dietro quei puntini di sospensione (ma una certa spavalderia truffatrice che a Milano, come altrove, si esercitava, Gadda la conosceva bene: come mostra l’episodio del fallimento della Banca nell’Adalgisa). Neppure si può ignorare che la «competenza di causa» di Roma «negli affari economici» suoni ironica anziché no. Ma certo la tensione, che Gadda avverte, è in qualche modo contenuta. Per lui, la questione dell’unità nazionale si incrina solo al di là dello stretto:

Ho i miei dubbi sulla eventualità di un migliore tono economico della Sicilia separata. Comunque, tentare è già un’idea: e provare è una prova, per quanto dolorosa ad ogni animo italiano. Certo non sarebbe logico che noi seguitassimo a lasciarci amministrare da funzionari siciliani divenuti stranieri: e a riserbare uffici ed impieghi a stranieri quando ne abbisognamo noi stessi. Anche le rispettive gestioni finanziare e le circolazioni rispettive dovrebbero distinguersi: con gran sollievo dei separatisti e con nostro disappunto certo (visto che abbiamo qualche garibaldino in famiglia) ma forse non letale rammarico. (SGF I 917)

La vera opposizione, dunque, non è Milano-Roma, e finisce per essere Milano-Sud d’Italia. Il tono si fa risentito: se i Siciliani vogliono separarsi dal resto del paese, dice Gadda, facciano pure, e vadano in rovina. A ben guardare, questa stizza è ancora interna alla tradizione risorgimentale e, anzi, alla tradizione risorgimentale lombarda: per la quale, l’accessione del Regno borbonico fu, comunque, un problema. L’insofferenza c’è, ma ha un’origine diversa da quella che si è manifestata in anni più recenti.

è ovviamente un estremo, per quanto significativo. In tutta la sua opera narrativa Gadda rappresenta i meridionali (e voglio proprio dire i meridionali in quanto meridionali) in modi divergenti: non mancano le puntate acide, ma neppure bisogna dimenticare che i suoi pochi eroi positivi (il colonnello napoletano Di Pascuale nella Cognizione, il molisano Ingravallo nel Pasticciaccio) vengono dal Sud. E quanto a Roma, la capitale resta quel monumento di perturbante complessità e fascino che i lettori del Pasticciaccio sanno. Non è un caso, allora, che in San Giorgio in casa Brocchi il ruolo del tentatore spetti proprio a un romano: il pittore, reo, davanti alla pudibonda contessa Brocchi, sia di essere pittore, sia di venire da quella città. «Ma se Roma l’è la capitale d’Italia!», la redarguisce appunto il conte (RR II 662). E dietro il luogo comune risorgimentale, non si capisce quanta inquietudine rimanga.

La scansìa d’ogni possibilità

Dunque Milano non può essere capita, secondo Gadda, se la considera solo dal punto di vista della sua storia, del suo localismo. Tanto insiste sul suo provincialismo, quanto ricorda che la città è un luogo di incontri, di scambi, di comunicazioni. La metropoli è tale perché accoglie, dentro di sé, una massa di immigrati che cooperano al suo progresso, ma sulla quale Gadda non può trattenere il sarcasmo. Così, in Pianta di Milano, viene descritta la sorte del Kremlino, l’edificio «teatrale, pizzuto, e dolomitico, ma soprattutto assai sciocco» costruito presso il Nuovo Politecnico:

quell’arzigogolato castello si riempì d’una turba di inquilini occasionali maschi e femmine (russi profughi, levantini con berretto basco, greci di Smirne riconquistata dall’Ataturco, ebrei d’Ucraina, violinisti polacchi, neo-ungheresi in attesa di divorzio, venditori di tappeti, ecc.) che friggevano le ova in camera da letto e cacavano a turno dentro i pochi cessi disponibili: e di tanto in tanto procuravano anche un po’ di lavoro alla Regia Questura, come non ne avesse abbastanza del suo. (SGF I 60)

La folla variopinta (una folla che oggi Gadda aggiornerebbe con magrebini e cinesi, rumene e filippine) suscita il risentimento di cui si anima la Cognizione del dolore: e non esprime, inutile nasconderselo, solo la nevrosi soggettiva di un uomo ossessionato da un bisogno di ordine. Certo, la xenofobia di oggi è di tutt’altro tipo e risponde a un fenomeno di altre proporzioni; e del resto è probabile che il nazionalismo spingesse Gadda a travestire di panni esotici immigrati nostrani, così che dietro russi e polacchi si debbano riconoscere pugliesi o napoletani. Resta però qualcosa su cui riflettere: quanto sia radicata, e a quanto rimonti, la xenofobia in una certa Lombardia, nel suo oscillare fra insofferenza per i meridionali e insofferenza per gli stranieri; giacché, leggendo queste pagine degli anni Trenta, qualche dubbio può nascere. E non parlo solo di borghesia: visto che anche il proletario Gildo della Meccanica (romanzo in cui l’immigrazione veneta non crea molte inquietudini, se la stessa protagonista Zoraide è di Castelfranco e ha una zia a Vicenza) ha scarsa simpatia per i «terroni» (RR II 474).

Di fronte all’eterogeneo che popola la metropoli Gadda non ha insomma un atteggiamento univoco: da una parte esso è causa di turbamento e confusione, dall’altro elemento di vita e di fascino. Significativamente, i luoghi e le ragioni di questa eterogeneità hanno tutti a che fare con l’economico: sono i mercati di Una mattinata ai macelli (1934), Mercato di frutta e verdura (1935-1936) e Carabattole a Porta Ludovica (1940), la fiera di Casi ed uomini di un mondo che dura quindici giorni (1936), la Borsa di Alla Borsa di Milano (1935). Quel primato del danaro che altrove Gadda stigmatizza come segno dell’angustia milanese, diventa così anche la ragione della sua vita, il suo modo di comunicare con l’esterno. E proprio nel suo nome, la città diventa il luogo della molteplicità, della ricchezza di esperienze, dell’apertura:

Tutto esiste a Milano. Milano è la scansìa d’ogni possibilità, d’ogni idea che possa diventare industria, o commercio. Non vi è industria o commercio, che non sia rappresentata a Milano. (SGF I 231)

è la Milano dell’Incendio di via Keplero: una città di storie, di destini, e la cui voce, come accadrà nel Pasticciaccio, è quella di un’intera «comunità fabulante», mista di classi e di individui diversi. Dunque Milano (e poi la Roma del Pasticciaccio), come la Parigi di Balzac, la Londra di Dickens, la Pietroburgo di Dostoevskij: cioè la metropoli in cui i destini si incrociano e prende forma il romanzesco. Che è anche il modo più onesto, più intelligente di rendere omaggio a una città: guardarne la complessità e le contraddizioni, senza mistificarla. 

Università per stranieri, Siena

Nota bibliografica

Il luogo comune sulla milanesità di Gadda non si esaurisce nella produzione che è stata direttamente dedicata all’argomento e che, anzi, spesso sarebbe scorretto accomunare alla prospettiva di cui parlo all’inizio di questo intervento. Fra i testi più utili, ricordo soprattutto Sobrero 1979a: 4968-777; Contini 1989: 73-79; Isella 1984; Isella 1994a: 115-198; Lo scrittore Carlo Emilio Gadda moralista lombardo: dall’ambiente familiare d’origine alla fortuna della sua opera in Europa. Atti del Convegno, 9-11 ottobre 1993, Olginate, Edizioni del Centro Internazionale di Studi Lombardi 1994; Silvestri 1994a – di carattere linguistico è invece Italia 1998.

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-07-8

© 2004-2025 Raffaele Donnarumma & EJGS. First published in EJGS. Issue no. 4, EJGS 4/2004.

Artwork © 2004-2025 G. & F. Pedriali. Framed image: detail from a photo of the converter test room at the Società Ercole Marelli, Sesto S. Giovanni (from Lombardia, vol. II of the series Attraverso l’Italia, Illustrazione delle regioni italiane, published in 1931 by the Touring Club Italiano, part I, p. 109).

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