Pocket Gadda Encyclopedia
Edited by Federica G. Pedriali

Lutto

Paolo Zublena

Due sono stati i lutti centrali per Gadda – la morte del fratello Enrico in guerra nel ’18 e la morte della madre nel ’36 –, ed entrambi hanno potentemente influito sulla sua scrittura narrativa. Si può anzi dire, senza tema di smentita, che il capolavoro di Gadda, La cognizione del dolore, sia un tentativo di elaborazione di questi due lutti, l’uno tematizzato nell’omologia tra realtà finzionale e plot narrativo, l’altro vissuto come anticipazione dal protagonista-alter ego dell’autore di un fatto nella realtà biografica già avvenuto.

Elaborazione del lutto… questa nozione «confusa e terribile», diceva Derrida. In effetti tutto il Novecento, da Freud in poi, ci ha insegnato quanto il concetto sia ambiguo. Da ricordare, innanzitutto, la corrente sentimentale a doppio verso generata dal lutto, in cui l’oggetto viene nel contempo amato e odiato; poi – naturalmente, giusta il celebre saggio freudiano – il bordeggiamento della malinconia quando l’oggetto del lutto viene introiettato, o la normale risoluzione del lutto con il trasferimento della libido su un nuovo oggetto; la costituzione dell’io a partire da un lutto originario che istituisce il rapporto con la morte secondo un’apprensione derivata da tale lutto – superando così la necessità di una improbabile e anche volgare elaborazione, secondo la tesi di Derrida.

Ecco, per Gadda (o per Gonzalo: l’identità tra il personaggio e la biografia di Gadda è talmente ovvia e sicura, e persino poco mediata, che non bastano le più affinate risorse della narratologia a decostruirla) non pare valere alcuno degli sviluppi appena accennati. Semmai torna alla mente la posizione di Daniel Lagache, che mette in rilievo l’identificazione con il morto, destinata a condurre al desiderio di morte la persona colpita dal lutto: la figura ideale del morto provoca il senso di colpa, che è causato dall’essere ancora in vita; il Super-io spinge la coscienza al dovere di morire, l’Es la orienta verso il desiderio di vivere, in modo tale che il lavoro del lutto consisterebbe in un disimpasto o, in altre parole, in una distinzione tra chi è morto e chi sopravvive. Con tutta evidenza, questo disimpasto in Gadda-Gonzalo, a proposito della morte del fratello, non avviene mai:

La tragica orribile vita. Non voglio più scrivere; ricordo troppo. Automatismo esteriore e senso della mia stessa morte: speriamo passi presto tutta la vita. Condizioni morali e mentali disastrose: Caporetto, gli aeroplani, Enrico, immaginazioni demenziali.– è troppo, è troppo.– (Giornale, SGF II 849-50)

Dolore di Enrico; orrore, aumentato dalla solitudine della casa. Memorie ossessionanti, nella nitidezza dei particolari. Ricordo tutto implacabilmente: rimorsi, tenerezze e pianto. (SGF II 859)

Enrico è il mio compagno ancora nei momenti di raccoglimento, nell’atroce solitudine, nel vuoto perenne che mi circonda. La tristezza e il dolore feroce mi seguono mentre m’addormento e mi sveglio, mentre penso alla sua tomba deserta e lontana, agli anni lontani, alla vita lontana. Questo tutto che mi circonda è una inutile e stupida sopravvivenza. (SGF II 864)

Per Gadda sembra davvero essere sparito il desiderio di tirare avanti proveniente dal fondo dell’Es: rimane solo un automa, sopravvissuto a se stesso, alla sua stessa morte («Tornai a Longone come morto: senza più voglia di nulla.», SGF II: 863) – così anche nella Cognizione, dove Gonzalo affronta una vita-sopravvivenza insensata, e denunciata come tale proprio dagli ossessivi ritorni della cronicamente introiettata «disperata memoria» del fratello: «Chiusone in sé il nome, la disperata memoria» (Gadda 1987a: 291). L’ombra del fratello opprime tutta la Cognizione attraverso la reticenza, il loud silence di una compatta rete metaforica (il bianco letto vuoto a fianco di quello di Gonzalo, il tarlo, il vento che ha abbattuto l’aereo, le montagne amate e assassine, l’inesorabile forza di gravità:

sotto fredde stelle.... Chi si amava è nella terra.... Era nel suo viso una luce.... un sorriso.... Sotto fredde stelle.... nell’arsura dei fumi e tra le schegge dei monti infernali. (Gadda 1987a: 194)

Ed era nella sua casa ora, il consorzio, come lo aveva sognato, pre sagito, il Marchese: «Per i miei figli, la villa, le pere, per i miei figli». Peccato che uno si fosse buttato in aria, l’aria bonna, a quel modo: ma la gravitazione aveva funzionato, il 9,81: con due fili rossi sui labbri delle narici, e gli occhi aperti, aperti, dentro cui si spegneva il tramonto.... Coi labbri pareva voler ribere il suo stesso sangue.... perché non sta bene.... dal naso.... il sangue.... due fili rossi.... dal naso. (Gadda 1987a: 414-15).

Ha sostenuto Federica Pedriali, con ragione da vendere, che la morte del fratello – e il conseguente, impronunciabile astio nei suoi confronti, ibernato dalla perdita ma vivo sotto le braci, e girato sulla madre colpevole della velenosa distinzione nell’amore filiale – sia al centro del nucleo patemico della Cognizione (Pedriali 1997: 132-58). È inoltre da accettare in toto l’intelligente glossa di Dombroski, che rileva come la mancata accettazione della perdita e l’incapacità di ricondurre l’individualità del lutto a un «principio formale d’assenza» (Dombroski 2002: 92) che fondi l’io sulla apprensione della morte iscritta nel lutto originario (riformulo in termini derridiani) sia alla base di un esito inevitabilmente nichilistico. Tutto vero. Resta però da misurare il rapporto del lutto fraterno con il lutto filiale: molti studiosi – qui, sì, eccedendo nell’identificazione tra biografia e fictio, ma forse in fin dei conti proprio tradendo la sostanza della figura testuale di Gonzalo – hanno ragionato sul rapporto che Gadda-Gonzalo ha con la madre vivente, e tale sino al termine del romanzo: ma sta di fatto che Gadda ha cominciato a scrivere la Cognizione dopo la morte della madre (1936), e – sarà facile supporlo – in primo luogo per affrontare i sentimenti contrastanti suscitati da quel lutto.

Non c’è dubbio che la morte della madre sia stata anche una liberazione per Gadda: la possibilità di vendere Longone, l’autarchia economica…: tutto ciò torna come orribile rimorso (nella Cognizione: la preoccupazione per la madre che non torna, l’anticipazione della sua morte…) nato da un’ambivalenza emotiva già presente in vita. Ma torna anche la ripetizione del lutto per il fratello, nella fine della persona che per lui più aveva sofferto, la quale – soffrendo disumanamente per lui – aveva però sanzionato la sua già ben nota preferenza nei confronti del più giovane dei figli. È troppo, è davvero troppo, avrebbe detto Gadda… Da questo triangolo, due morti e un morto in vita, non si può sfuggire. Non a caso il lutto per il fratello si trova sempre nella Cognizione abbinato a quello – anticipato, nella fictio, ma già presente nella vita – per la madre:

Ma le vecchie, nelle buie contrade dell’inverno, gli si strappano i brillanti dai lobi. (I morti figli non le difendono, assorti, immemori, sotto alle croci della Cordillera). La povera persona loro, da cui lo strazio del parto s’è scancellato, e lo strazio della morte, incurva, debilitata, non merita perle. Nel buio un letamaio si spalanca. (Gadda 1987a: 214)

E soprattutto, al centro della Cognizione, ecco l’incipit del quinto tratto, una vera e propria scena primaria del lutto:

Vagava, sola, nella casa. Ed erano quei muri, quel rame, tutto ciò che le era rimasto? di una vita. Le avevano precisato il nome, crudele e nero, del monte: dove era caduto: e l’altro, desolatamente sereno, della terra dove lo avevano portato e dimesso, col volto ridonato alla pace e alla dimenticanza, privo di ogni risposta, per sempre. Il figlio che le aveva sorriso, brevi primavere! che così dolcemente, spassionatamente, l’aveva carezzata, baciata. Dopo un anno, a Pastrufazio, un sottufficiale d’arma le si era presentato con un diploma, le aveva consegnato un libercolo, pregandola di voler apporre la sua firma su di un altro brogliaccio: e in così dire le aveva porto una matita copiativa. Prima le aveva chiesto: «è lei la signora Elisabetta François?». Impallidendo all’udir pronunziare il suo nome che era il nome dello strazio, aveva risposto: «sì, sono io». Tremando, come al feroce rincrudire d’una condanna. A cui, dopo il primo grido orribile, la buia voce dell’eternità la seguitava a chiamare.

Avanti che se ne andasse, quando con un tintinnare della catenella raccolse a sé, dopo il registro, anche la spada luccicante, ella gli aveva detto come a trattenerlo: «posso offrirle un bicchiere di Nevado?»: stringendo l’una nell’altra le mani scarne. Ma quello non volle accettare. Le era parso che somigliasse stranamente a chi aveva occupato il fulgore breve del tempo: del consumato tempo. I battiti del cuore glie lo dicevano: e sentì di dover riamare, con un tremito di labbri, la riapparita presenza: ma sapeva bene che nessuno, nessuno mai, ritorna. (Gadda 1987a: 255-57)

Gadda nega che la spaccatura, l’astio e il conseguente rimorso dipendano dalla morte di Enrico («Il figlio pareva aver dimenticato al di là d’ogni immagine lo strazio di quegli anni, la incenerita giovinezza. Il suo rancore veniva da una lontananza più tetra, come se fra lui e la mamma ci fosse qualcosa di irreparabile, di più atroce d’ogni guerra: e d’ogni spaventosa morte», Gadda 1987a: 317) – quale sarebbe, allora, questa «lontananza più tetra»? L’assoluta privatezza del lutto, la prigione dell’ego? la totalizzante introiezione necrotizzante escludente la possibilità stessa di comunità? Nessuno ritorna, appunto – ossia il lutto nichilistico… Ma è poi vero? I fantasmi ritornano, eccome. E disegnano la scena della fine del tempo, del lutto plenario, del dolore senza fondo:

.... Un sogno.... strisciatomi verso il cuore.... come insidia di serpe. Nero.
Era notte, forse tarda sera: ma una sera spaventosa, eterna, in cui non era più possibile ricostituire il tempo degli atti possibili, né cancellare la disperazione.... né il rimorso; né chiedere perdono di nulla.... di nulla! Gli anni erano finiti! In cui si poteva amare nostra madre.... carezzarla.... oh! aiutarla!.... Ogni finalità, ogni possibilità, si era impietrata nel buio.... Tutte le anime erano lontane come frantumi di mondi; perse nell’amore.... nella notte.... perdute.... appesantite dal silenzio, conscie del nostro antico dileggio.... esuli senza carità da noi nella disperata notte....
E io ero come ora, qui. Sul terrazzo. Qui, vede?.... nella nostra casa deserta, vuotata dalle anime.... e nella casa rimaneva qualcosa di mio, di mio, di serbato…. ma era vergogna indicibile alle anime.... degli atti, delle ricevute.... non ricordavo di che.... Le more della legge avevano avuto chiusura.... Il tempo era stato consumato! Tutto, nel buio, era impietrata memoria.... Nozione definita, incancellabile.... Delle ricevute.... che tutto, tutto era mio! mio!.... finalmente.... Come il rimorso.
E il sogno, un attimo!, si riprese in una figura di tenebra.... là!.... là, dove sono andato or ora, ha visto? al cantone della casa.... Ecco, vede? là…. nera, muta, altissima: come rivenuta dal cimitero. Forse, col suo silenzio, arrivava alla gronda: sembrò velo funereo, che ne ricadesse.... Forse era al di là d’ogni dimensione, d’ogni tempo....
Non suffusa d’alcuna significazione d’amore, di dolore.... Ma nel silenzio. Sotto il cielo di tenebra.... Veturia, forse, la madre immobile di Coriolano, velata.... Ma non era la madre di Coriolano! oh! il velo non mi ha tolto la mia certezza: non l’ha dissimulata al mio dolore.
Conoscevo, sapevo chi era. Non poteva esser altro.... Altissima, immobile, velata, nera....
Nulla disse: come se una forza orribile e sopraumana le usasse impedimento ad ogni segno d’amore: era ferma oramai.... Era un pensiero.... nel catalogo buio dell’etermità.... E questa forza nera, ineluttabile.... più greve di coperchio di tomba.... cadeva su di lei! come cade l’oltraggio che non ha ricostituzione nelle cose…. Ed era sorta in me, da me! E io rimanevo solo. Con gli atti.... scritture di ombra.... le ricevute.... nella casa vuotata delle anime.... Ogni mora aveva raggiunto il tempo, il tempo dissolto.... (Gadda 1987a: 168-71)

Ci si perdonerà l’estensione del brano citato, ma ogni parola qui è capitale. Nella figura nera, madre e morte si identificano: nel rimorso. Il rimorso è senz’altro quello provato dall’autore per la morte reale della madre (si badi alla registrazione dei fatti minuti – le ricevute –, tutto ciò che testifica il passaggio di proprietà). Ma la latitudine figurale della nera signora velata sembra andare oltre: verso l’apátheia del lutto strutturale, oltre ogni corrente patica e dopo ogni tempo. È la figura di un lutto così terribilmente – e tetramente – interiorizzato da elidere la possibilità della organizzazione del soggetto a partire dal rapporto con la morte d’altri, dalla necessità-impossibilità dell’Erinnerung. Di qui la mortale solitudine di Gadda, il suo rancore per la comunità, la sua dolorosa morte-in-vita, il suo soffocante esito nichilistico.

Università di Milano

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-00-0

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