Al Parco, in una sera di maggio

Un attacco padronale, rara avis, procedeva da «piazza» Castello verso il viale grande con un certo augusto e pure appenato batacchiamento dei quattro ferri, grevi e piatti: che il quadrupede pareva stentasse ogni volta a levarli (se non a riporli poi sull’asfalto nell’alternazione abituale), come li succiasse il magnete: forse la totale calamita del sottoterra. In quella mazurka stanca si richiudeva il malinconico giro del dovere: pei grossi ginocchioni rotondi, reumatizzati, per gli stinchi e i garetti risecchi, e gli snocchiati e infrollati pasturali dell’età sua sempiterna. Il garrese, e la punta dell’anca, dietro, erano per bucare il mantello a ogni passo. La groppa, col filone della schiena, faceva una corda molla da non dire, una catenaria, (1) se più vi piace: ma ladina molto, però. E non del tutto iscarnito il collo, nella distinzione del ritegno, altalenava giù e su quella testa orecchiuta e anche un tantinello crinita, com’e’ significassero in tra tutt’e due ma davvero ma davvero. Il semovente cocchio, con attaccato un cotal ciondolaccio, vittoriose motociclette lo sopravvenivano e gli precorrevano male odoranti pedendo in una perfida giostra, buttatesi tutte in una volta e in un fiato a quella ribalda gimcana. Era adesso, dopo il colmo del viale, era la carrozza a sospingere, con la componente orizzontale del proprio peso, il quadrupede, in lieve discesa: zavorrato e frenato per suo conto da quei quattro ineluttabili ferri sotto agli zoccoli, stromenti satanici della gravità. Sicché l’ugne piatte, larghe e rotonde, si spappavano a quattro foglie di ninfea grassa: galleggiavano ognuna per un attimo in sullo stigio padule del macadàm. (2) Lo scalpito, con le battute eguali d’un celèuma, vi risonava in una sua diligenza broccolona e tenace: decoro e pompa invitti, superstiti al franare delle ère. Nel viale, a intervalli, sibilavano e garrivano i clakson; contro l’inane si avventavano le macchine.

Dai paraocchi, lustri e funerei, della donchisciottesca bestia, dalla frangetta di crin nero e dal pennacchietto nero sulla fronte, e in uno con la loro immagine medesima, il nome e l’immagine della proprietaria balenarono ad Elsa. Solo un nome poteva legarsi a quei così nobili segni, un nome solo in tutta l’anima: «Donna Eleonora!» Le labbra lo pronunziarono, prima ancora che la avvistassero gli occhi. E vide infatti la dama: incastonata nella più assoluta coerenza con la propria figura, come l’avessero modellata di stucco: e, dalle stupende grinze del di lei volto, la percepì nel suo essere e nel suo significato immortali, ancora più tigliosa del cavallo.

Era un cavallo mitologico, d’intelletto umano, certo: o più che umano, forse: tale il cavallo di Cesare, o del paladino: forse dotato di favella, come l’ospite equino del dottor Gulliver e tutti i cavalli ragionevoli del paese di Houyhnhnms: quell’uso di parola, dicevano, che n’è dato a significare altrui notizie del cervello nostro e del nostro sentimento interiore, a proferire la verità. Pensionato degli antichi poemi (dal nome «cavallo» ricevettero dignità e nome di genere), aveva trovato impiego alle scuderie del Terraggio, sotto il blasone tutt’altro che cavalleresco della serica gente: quella che se l’era guadagnato a piedi, il blasone, col fornir foraggio agli intendenti di Bellegarde, (3) dopo averne fornito a Murat.

Era un cavallo araldico, (4) uscito di mano a Cosmè Tura sullo sfondo della stessa luce fulgente: lussuriante nei toni della porpora, del dorato arancio. Adesso, povera bestia, la sua mitologica fuga si amareggiava dell’inesorabile inseguimento di che lo facevano oggetto quella carrozza dietro al culo, anzitutto, il cocchiere, la dama: oltreché continuamente sturbavasi (per iterati contraccolpi dentro le meningi di lui) fra tanti e così malvagi petardi. Una tolemaica girogiostra di motociclette rampanti, un fotomontage iridato di saette rosse o violette e gasolina usta, intronato di scoppi, di esplosioni a catena, induceva il coagulo ultimo della trombosi nei lobi del zoccolante mummione: l’embolo definitivo ne’ vasi duri, tumefatti, calcinati, violacei, di cui gli s’intricava quella pappa di tapioca di materia grigia assolutamente ariostesca. Nel piroettante cosmo della Viscosa e delle moto Guzzi, (5) col pericolo di vedersi ribaltato a ogni giro lui e il cocchio, e il cocchiere e la padrona, e dama, oh! non più! non più! il Giovacchino, a piumeggiare sul suo fastoso galoppo, non più, non più Gérard, non più Gros, (6) a pitturar lui che rampicava nel vento, mostrando il bianco degli occhi: le froge dilatate: da un bel nulla. La pedente e sparacchiante meccanica del più triviale novecento gli finiva d’ingarbugliare quella fettuccia di veduta libera davanti gli occhi, tra i due paraocchi. Bolidi erbi-fruttivendoleschi, lattai saettanti nella domenica: con cosciame di femmine sul retrosella. E spara, spara.... E la rosea o l’azzurra fumea d’una sciarpa (di quelle femmine), svolava via con i capelli dal collo, uno sciàvero di tulle o di crêpe georgette si dilungava nel vento di corsa, orizzontale, come fumo di ciminiera nella corsa. E, sotto, la scìa cinerina e azzurrina della puzza.

Il cocchiere, Leopoldo (in realtà Baldovino Garbagnati), nobilmente incartapecorito in vetta alla serpa, la lunga frusta a mano col groppo delle redini, già non se ne dava per inteso. Una puntuta coccarda, a ritta, gli sopravanzava sul tetto del cilindro: piuttosto frusto. Egli avea l’occhio, secondo il solito, a una quarta dimensione del mondo. La coccarda pareva un echinoderma nerastro, di quelli che il pittore abbandona alla spiaggia in una luce irreale, sulla battìma d’una natura morta, con fondo.

La dama, molto ben messa in cocchio, e infronzolata in certi toni di quaresima, tra il nero e il viola, davasi a diveder dama dal garbo un po’ passo onde s’era abbandonata a sedile e a schienale, dalla maestà e leggiadria con che reggeva il parasole viola, tutto inghirlandato d’una lattuga viola di crêpe. Aveva il viso, per quanto grinzuto, e giallo, adesso però favente e arridente in una benignità inattesa, forse immeritata dal popolo. L’abituale atarassìa del suo spirito, e del suo imperturbabile naso, pareva stemprarsi e intepidirsi nell’alito germìle della primavera, di cui forse l’ammaliavano e la tenerezza e il sorriso: quello che il Luini aveva identificato e riflesso di tra i pioppi delle terre, per la gioia un po’ chiusa, tirata a cera, del Poldi-Pezzoli. (7)

E quell’irruente, quel troppo facile, e dunque isciapito e banale germogliare degli ippocastani, quella lor furia muratiana e plebea, e d’altronde scusabile, a voler di colpo inverdire tutto il Parco, avanti tutti i cespi del Parco. Una luce buona e benigna discendeva dai suoi occhi altolocati e dal suo «spirito dominatore» (tale lo celebravano i Perego) sulla fanteria ciabattosa dell’umanità. Le ultime letture e meditazioni l’avevano indotta a sospettare, prima, e poi a concedere.... che anche i lattai, dopo tutto.... Talché pareva ora, con quel lampo mollo de’ duo stralucenti bianconi, pareva proprio la dicesse: «Fratelli, il mio cuore e con voi....»

Di certo da una quindicina di ore nessun fratello, nessun garzone di lattaio.... e tanto meno di macellaio.... doveva aver pronunziato il cognome illustre in quel modo.... in quel tal modo.... che solo una creatura abbietta può venirgli in mente di pronunziarlo così.... «Poveri ragazzi....», pareva consentire con un tal volto: «.... ma già: una vita, in fin de’ conti, ci ha da essere anche per voi.... Solo.... potrei darvi un consiglio?.... » (le attenuazioni retoriche praticava tutte) «.... volete accettare il suggerimento d’una.... diciamolo, via!... d’una gentildonna d’antico sangue?.... esperta del mondo?.... Non abusate della vostra gioventù!.... Le panchine del Parco, passi.... Ma i prati fuori il dazio!.... quelli che voi con tanta disinvoltura li aggregate, sguaiatacci,.... alla parrocchia di Santa Maria in Camporella.... (8) c’è da arrossire del toponimo.... Certi prati, non vi pare anche a voi, giovanotti?.... possono pur serbarvi delle sorprese.... No, no.... L’idillio, ogni idillio.... dimanda invece.... l’olezzo d’un delicato sentire.... La donna, a colui che la stima e la ama, e non la degrada.... la donna deve esser lei a dar l’esempio.... a dischiudergli il meglio di se stessa....: come un recondito fiore.... la sua tenera.... la sua virginea corolla:.... sì, tutto il tesoro insospettato della nostra anima.... di noi, donne!.... Be’, l’uomo, si capisce, è tutta un’altra faccenda:.... dicono che è cacciatore:.... per quanto.... ne conosco anche di quelli.... che scàpen domà vedé la lègora.... In lui si vuol vedere decisione, fermezza.... ardimento, audacia anche, magari.... una certa intraprendenza, capissi.... maa.... indirizzata al bene.... La strada giusta, e non quella che si perde via.... fuori il dazio.... Una maschia rettitudine, un intimo, un virile impulso verso l’alto.... verso i più alti ideali del vivere.... Excelsior!.... come in Longfellow.... Non lo diceva anche il senatore, jeri, al tè?.... lo zio Gnecchi, al mio tè?.... «reggi il viril proposito – ad infallibil segno»....

Quei chocolats fondants del Gigli.... han fatto colpo.... e intanto neanche la duchessa Litta e più riuscita ad averne di simili... Si è dovuta contentare degli Squarciafico.... Sono più che discreti, dopo tutto.... Dicevo dunque, giovanotti, ricordatevi di dover rincasare.... Tutti dovremo rincasare, un giorno!.... E voi, ragazze.... Alle sette, lo sapete bene, dovete «mettere il riso». Purché alle sette in punto.... ci siate...., non andrò a sofisticare sul corpo.... sulla specialità.... Che importa, a noi, dopo tutto, se era del terzo o del quarto?.... o di Savoja Cavalleria?.... È un diritto naturale!.... Il medioevo è finito da un pezzo! .... lo dice tutte le volte anche il senatore.... per quanto non scherzi coi chocolats fondants! Be’, tra persone di giudizio.... ci si intende sempre.... E dal medioevo in qua n’è passata dell’acqua, sotto i ponti!.... Hanno perfino proclamato i diritti.... poveri pazzi!.... i diritti dell’uomo!.... Insomma, bisogna concedere che sono di carne e ossa anche loro....

«Ma lo spirito deve dominare la materia....»

è utile registrare qui che l’eletta gentildonna aveva «assistito», cioè pòrto (col miglior garbo) le sue membrane timpaniche, al concerto del 28 aprile: quello di cui s’è ragionato poc’anzi, che l’ingegner Valerio, viceversa, ebbe ad accompagnarvi la zia, «a farle un po’ da cavaliere». La dama v’era intervenuta: non molte seggiole discosto dalla sella curule, e dallo zio Gnecchi in persona. E vi aveva anche lorgnato con misura.

Altra volta, egualmente, tra i damaschi e i velluti e le dorature de’ salotti, o ne’ giochi e rimandi delle specchiere, aveva notato certa prossimità, per quanto instabile e calcolatamente provvisoria, e un po’ troppo grave e un po’ delusa, anche, di Valerio ad Elsa: determinata magari da nient’altro che dalle combinazioni, od occasioni, o congiunzioni, delle poltroncine e dei sedili: e dei tabourets: (9) di cui ogni salotto con vivace grazia si popola. Vi opera dunque, anche tra i rasi dun luigi quindici, l’imprevedibile puro? il mero casus, la caduta atomica di Democrito e di Leucippo, di Epicuro e di Lucrezio? forse l’accidente scolastico, di Alberto e di Toma, e di Don Ferrante? forse la congiunzione astrologica, di Guido Bonatti e dell’onnisciente Cardano? o la congiuntura, dell’odierna prassi e chiaroveggenza bancaria? Forse però però la goethiana Gelegenheit, che postula una preefficienza e preesistenza recettiva dello spirito? in amore, dunque, una valenza disponibile? Il guaio è che donna Eleonora, nelle due tracce precipiti e parallele di quel casus, le era sembrato di potervi anzi di dovervi discernere, o comunque percepire, un impercetto clinamen. Oh! forse, un’idea. Una idea obbligata, a non dir coatta: come ne vien suggerita da quel bernoccolo romanzatore che ci ossiede, (e anche ai reluttanti, ai pudenti), ogni qual volta l’aspetto di due destini è tale, da occludere in sé una possibilità verisimile. Forse il giovane, a compiere il quadro generale del suo volere e potere, ci aveva interpolato anche quell’obbligo: quella diligenza, un po’ incaponita all’atto, del mostrarsi gentile con le signore, e dòmine: assiduo e, a tratti, susurrante (dal tabouret) all’orecchio delle più quotate fra le belle: che riuscivano magari anche a sorridergli, alla fin fine, e ad esprimergli, con quel sorriso, la loro gratitudine di donne: d’essersi, un tantino ogni volta, un po’ barbificate di lui. La bella zia, mi dicono i Perego, non poté dunque sfuggire al destino delle consorelle: cioè d’esser fatta bersaglio alle sue cavalleresche volizioni. Il calcolo insegna a calcolare: e il regolo a regolarsi. E un altro giorno poi, poco dopo il concerto, donna Eleonora aveva occorso a Valerio e ad Elsa in via Brera, davanti il general comando, (10) ch’eran fermi ne’ convenevoli a lasciarsi gomitare dai passanti: i quali, poveracci, facevano del loro meglio per contentarli. Lo scambio de’ saluti e delle reverenze aveva osservato e soddisfatto le più squisite regole circa la precessione, il tono, e l’ampiezza: impegnando però in modo esclusivo la tensione psichica dei tre soggetti: tanto da non lasciar adito, in quel luogo e in quel punto, – verso i bulbi piuttosto indaffarati della dama, – né alle serpicanti precognizioni dello zelo, né ai pruriginosi commentari del dubbio.

Nel Parco, al transito, con quel parasole dietro la magnificenza del cocchiere e del cilindro, dopoché del cavallo, c’erano bottoni d’oro alle reni, piatti, sulla marsina del tipo: nella mano destra una frusta, lunga ed esile: che dopo l’eleganza padronale del collo tondo si acuiva ad inimitabili schiocchi e sparacchi dello sverzino, – al passare, – che fu raso ai platani e però al marciapiede, dov’è la grande curva del viale presso la Marsaglia, al di qua della fuggitiva carriera d’ogni motocicletta – la dama incocchiata mutuò con Elsa, dacché la riconobbe lorgnando, un lungo e incredibile saluto. Le si poté legger nel viso, di cheli più che di mummia, una meraviglia ridente: un baleno, tanto fu chiaro e improvviso, il connettere; che cangiò tosto in serio, come la campagna da sole a ombra col travenire del nuvolo: poco prima, davanti la villa von Willer, aveva accolto la levata di cappello di Valerio. Questa meraviglia di cui Elsa intuì a un press’a poco la determinante, in quanto lei pure aveva incontrato Valerio dieci minuti prima, finì di correggere – o addirittura di spegnere – la pertinace, caritatevole incredulità della gentildonna (durata mesi) ne’ confronti di lei. Lo sguardo significò allora un ammonimento – forse un contenuto rimprovero? – aiutato anche dal naso: «Figlia mia!». Al trasgredire del cocchio il capo si rilevava omai nella pace, e nella gloria, dopo la materna perorazione di quel saluto: e il parasole, rilevandosi a un tempo, d’un due dita, piaggiò col magnificar l’atto la maestà del giudizio.

Il transito di donna Eleonora Vigoni, dalla retina allucinata di Elsa, era stato filmato alle cinque emmezzo.

La nobile signora aveva percepito l’inquietudine (o il rapìto sogno, invece?) della sua nuora onoraria, «la lotta di quell’anima», così poi chiacchierò: quegli occhi, nel loro fulgore, che parevan piangere: come un po’ di giorni prima nel salone di gesso: magari dimenticando le lagrime. Più anche l’aveva colpita il veder Elsa da sola, abbandonata dal «suo» Gian Maria sulla panca verde del parco, nel luogo della gente comune, a non dire del popolo.

L’idea d’una innocente sosta, od attesa, di cugine e di pargoli, ch’era l’idea più ovvia, non sovvenne affatto (ché il cielo non volle) alla risolutiva perspicacia della direttrice di anime.

Da quell’incontro nacque dunque senz’altro – combinatosi poche ore dopo con alcuni giudiziosissimi monosillabi del senatore – quella tale diceria che serpeggiò poi per alcun tempo nella nostra città, prima che altri fatti, per quanto incerti, «venissero in luce». La diceria si tramutò in una convinzione radicata, e si epicizzò in novità chiara e venusta di motti, secondo il solito: «.... che l’Elsa Caviggioni era stata veduta al Conservatorio ecc. ecc.;.... il giorno del concerto Stangermann ecc. ecc.: .... insèmma cont el so nevód ecc. ecc.;.... che l’è poeu el fioeu del fradèll de primm lètt ecc. ecc.;.... che sono poi quelli che stanno lì in via Caminadella ecc. ecc.;.... voeunna di nost vecc familî d’ona volta ecc. ecc.; e poeu sciôri ecc. ecc.;.... ma che coi tempi che corrono ecc. ecc. E poeu dopo l’eva stada vedüda ankamò al Parco, da sola, come se si fosse appena incontrata con qualcheduno ecc. ecc.;.... cont i occ ross....» (che non era vero) «.... agitata, nervosa....» (che era ancora meno vero). «Sì, l’ingegnere neolaureato....» (il neo non si poteva tralasciarlo a un’occasione simile) «.... che dopo tutto, era un giovane serio ecc. ecc.; .... studiosissimo:.... in materia de eletricitàa poeu.... parlèmen nanka.... ecc. ecc. Ingegnere alla Ticinella.... a la Tesinella de Biegrass.... perché aveva trovato subito il posto,.... si capisce!.... on fioeu compàgn!.... E poi era anche socio del Filologico.... il Circolo Filologico Milanese... che l’è lì in via Clerici.... domà svoltà de via Bòss.... quasi dirimpètt a la Cort d’Apèll.... Che era poi fidanzato.... o in via di fidanzarsi.... be’, ma l’uomo è cacciatore.... si sa!.... cont ona gran bela tosa.... Per quanto, ufficialmente, bisògna fa finta de savè nagòtt.... Una magnifica ragazza! Piena di vivacità e di spirito....: e sono poi nobili, oltre tutto.... In fato de danée, magari.... de quii ghe n’han minga tanti.... Sigüra.... La Lola De Marpioni,.... la sorella della Maria Filiberta!.... precisamente!.... No,.... quella è la campionessa di pattinaggio....; questa qui no, non ricordo di che cosa sia campionessa.... Gran brava gente!.... che stanno lì domà al principio di via Spiga, in del palazz Brügna,.... ecc., ecc.».

«Ma.... e lei?....»

« Lei chi?....»

«Lei.... la incriminata....»

«Mah!.... el mond l’è fàa inscì.... E coi tempi che corrono.... Di’ piuttosto,.... con suo nipote....»

«Con suo nipote!», conchiudevano a mani giunte le neononne, mentre che un brivido euripideo si scaricava traverso le fulgurate medulle: d’ogni zia Checca o Peppina, che nessun Ippolito mai era venuto loro in mente di concupire-esecrare, vindicante Artemìde, nelle latebre d’un’anima incestuosa.

Come si capì dopo (per l’ovvia isterési (11) onde veniamo a conoscer l’effetto, in rapporto all’operare d’una causa) gli accenni dello zio Gnecchi dovevano aver beneficiato d’un altrettanto ragguardevole assenso. Il chiodo senatoriale era stato ribadito dalle martellate categorizzanti di donna Eleonora, della eletta gentildonna di Via Manin. Talché il gambero, come sempre i suoi confratelli, fu costituito in totem: quindi in dogma: e per quella capacità iperbatica e permeatrice d’ogni tessuto, ch’è d’ogni nuovo dogma o neoplasma o neo-gambero, ovverosia carcinoma, o canchero, si propagò e divulgò in breve tempo, e in modo mirabile, nel soma della somaresca tribù (gnecchico-recalcato-caviggionica): e più gambero era, e più dogma divenne: dacché la tribú vige e funge come corpo uno ed unanime rispetto alla mònade centrale e gamberologica.

Nessuno osò mai «prospettare», al senatore, l’ipotesi ch’egli avesse potuto «concepire» una minchioneria. La «relazione» fra Elsa ed Ippolito, cioè volevo dire Valerio, veduta nella luce d’una rivalità vittoriosa della elettrotecnica e del dinamismo sull’arcadico cioccolatto, o cioccolato, o cioccolatte che fosse, maturò a sottinteso obbligativo della buona società che faceva le viste di crederci: per deferire al senatore. La faccenda, anzi, divenne un po’ la gloria segreta della parentela: tutto è grande, pei grandi! Prima, troppo brava gente erano. Un cornuto in famiglia ci voleva pure, un giorno o l’altro, «coi tempi che corrono!» Ed eccolo, là, nell’orror sacro della sua solitudine, deliziato e pepettato la glossa, come un crisòstomo, dai birichini ravanelli delle nostre parti; aureolato, come un gervasio-protasio la nostranona cucùrbita, d’un nimbo di carta d’oro di gianduia....

«Buona sera, zia Elsa!» Due vocine la salutarono come ripetendo una giaculatoria imparata a suon di scappellotti. Erano i due ragazzi. Il più alto, arrossendo, si levò con un lento sforzo di tutta la sua volontà obbligata il berretto, mentre il piccolo, con una bollicina di muco da un foro del nasuccio nàsica, aveva una mano a comprimere, o forse a grattarsi, un ginocchio. «Adesso viene anche la mamma», soggiunsero soprapponendo le voci, come a scuola: col tono con cui dai banchi asserivano in coro: «i quattro fattori sono Mazzini e Garibaldi....» Ed ecco infatti la cognata color marrone, e la borsetta ermetica della cognata (isocròma ai guanti, e all’abito), tenuta saldamente da una mano ferma, corta e rotonda, inguantata di pelle marrone tersissima e tesa, direi gonfia: intorno alla qual mano guantata era avvolta la catenella «d’oro» della borsetta in parola, ad affermare, dopo la cosciente presa, un secondo e indissolubile vincolo.

La meglio di tutte le cognate, per verità. Ecco, mentre ancora avanzava, il sorriso aperto di lei sotto lo scintillìo degli occhi vividi e furbi, un po’ annegati nel volto, nelle gote paffute. I due rivolsero i due nasi verso la mamma, che procedeva a raggiungerli: Elsa, levatasi dalla panchina, fece alcuni passi ad incontrare l’Adalgisa.

«Appena ti han veduto mi sono scappati come due diavoli!.... Ma che cos’hai?.... Si direbbe che hai pianto....»

«Mamma, mamma!», esclamarono penosamente i due, ad un tratto.

«Che c’è?.... Lascia stare quel ginocchio!.... Ti sei fatto male un’altra volta.... al ginocchio!.... Vedere!.... Ecco!.... al solito....»

«Sì!».... «No!»....

«Mamma! mamma!.... abbiamo visto quell’uomo.... c’è quell’uomo nel viale....», ripetevano: e guardavano spauriti nel fondo d’un viale.... quello che discendeva alle rocce, e al «torrente».... dove l’anno prima avevano raccolto fiori.... d’un bianco profumo.... e «insetti color castagna, come quelli del papà»: maggiolini intontiti.... «Mamma!»

«Che volete?.... Non toccatemi!....»

«Mamma!», dissero ancora, implorando, in un’espressione di timore: ne volevano la mano, si stringevano a lei.... «C’è quell’uomo....»

«Ma che uomo?.... Che vi salta in mente?»

«Quello che ha litigato nel prato.... nel terreno da vendere.... te lo abbiamo detto.... ma sì!.... col garzone del macellaio.... che porta il cioccolatto dello zio Gian Maria.... Non ti ricordi che te lo abbiamo detto?....», spiegò il maggiore. Piagnucolava. Recitò «terreno da vendere» come un pappagallo, in una sorta d’ ecolalìa infantile meccanizzata anche più da quel trauma.

«è passato anche lui», osservò il piccino.

«In bicicletta», fece il più grande: «era una Bianchi».

«No, una Legnano».

«Una Bianchi! sei stupido!.... mamma, non è vero che era una Legnano.... non credergli....»

«Mamma, andiamo a casa!....»

«Ma che avete, che cosa diavolo dite?.... Se avete appena fatto i capricci.... per voler venire al Parco....»

«.... Ma adesso litigheranno ancora....», dicevano: le si stringevano paurosamente alla gonna. «Eccolo là.... in fondo al viale.... Ma si è alzato.... per andare nell’altro viale.... se il Bruno lo vede, litigano....» I ragazzi parevano implorare. Ed Elsa ne aveva udito le parole con un batticuore improvviso. Una luce le brillò negli occhi, stupendi, dilatati nell’ora di fulgore, che il rapido sguardo della cognata avidamente raccolse, come un primo ed inaspettato documento.

«.... Io non li capisco proprio.... Dev’essere ancora per quello spavento di giovedì l’altro.... per quella scena che han visto.... come t’ho raccontato jeri....». Poi, ai figlioli: «Ma che cosa vi succede?.... Siamo al Parco.... Non fate gli sciocchi!.... Un’altra volta imparerete a non allontanarvi nei prati!.... Erano scappati di mano.... a quella stupida d’una Dirce.... Che cosa volete che facciano?.... Non vedete quante guardie?.... quanti soldati?.... Qui non litigheranno di certo, state sicuri.... Non potrebbero neanche cominciare.... che li arresterebbero....»

«Con le manette, mamma?....»

«Dici il vigile, mamma?.... Ce n’è due.... oltre quello a piedi.... due in bicicletta che continuano a girare tutto il Parco.... adagio adagio, però.... Anche i bersaglieri devono aiutare i vigili, vero?.... E i carabinieri perché non ci sono?....»

«Mamma, quando i carabinieri devono correre, come fanno?.... che hanno la spada?.... Io cadrei subito, se mi va tra le gambe....»

«Ma loro sono grandi: e poi sono abituati....»

«Ma sì, anche i bersaglieri, anche i carabinieri....», fece l’Adalgisa ridendo. E guardò poi la cognata, con que’ due occhi d’inquisitrice benevola, un po’ da sarta, indugiando qua e là, dandosi l’aria di dover pur, badare ai dettagli, di dover finire col davanti.... con lo scollo.... «Come sei bella, Elsa!» L’ammirava davvero, quasi rivivendo con lei. «Ma perché?», aggiunse poi sottovoce: mentre i figlioli, senza staccarsi dattorno, continuavano a perscrutare le luci-ombre di dopo i cespi e i tronchi, inseguendo con quattro occhi sincronici l’andare di quel figuro, vagolante e a momenti ondeggiante, in un’incertezza come d’ubriaco.... Dagli ippocastani, ancora, non cadevano fiori.... quei fiori dal tepido, dal candido olezzo.... che le loro manine, gli anni avanti, raccoglievano come le stille gentili della primavera....

«Perché, cara, perché piangi?.... che hai?.... Il tuo Gian Maria non ti vuol bene?....»

Elsa arrossì: parve anzi indispettita, sdegnata: il broncio d’un attimo.

«Ma che cosa ti salta in testa?», protestò con veemenza, al passare un fazzolettino sugli occhi (non praticava le discipline tintorie: poteva piangere): «Perché non dovrebbe volermi bene? Mi adora....»

L’Adalgisa, con una sua franchezza irritante, di donna che la sa lunga, annuì: ma rise dell’iperbole. Quel riso da furba era perfettamente silenzioso. Nel volto paffuto, d’un color pieno e uniforme, la ciccia ragionevole e ben trattata, gli occhietti risfavillarono giocondamente.

Non le riusciva di immaginarsi il cognato in funzione di adoratore. Piuttosto lo vedeva a tavola, con una gran dignità e sospensione in tutta la faccia, in procinto di voler trasgredire poco a poco dalla protesta al corruccio: perché il lesso.... avevano dimenticato il sale: per il pepe, che non pepava: per i rapanelli troppo rapati, con via cioè tutto il fiocco, e il codino. Le sovvenne anzi di un piccolo litigio di lui con la moglie, a proposito della coda dei rapanelli: la Maria (quella del rubinetto), credendo proprio de fà polito, aveva sfrondato e decaudato i rapanelli: del ciuffo e della radice, del verde, e del bianco: riducendoli, da fronzuti e tricolori che erano, ad essere delle pallottoline rosse, ridicole. Il vecchio sangue lombardo, a quella veduta, era «insorto» con inusitata «energia». L’evirazione del gatto non avrebbe suscitato uno sdegno simile in Jean Jacques. (12)

«Ma domando io!», urlò quella volta il nobiluomo cioccolatore, fra la costernazione di tutti. E si levò di tavola. Elsa aveva finito per dover piangere; la Maria s’era giustificata nel dialetto di Lasnigo, tirando in scena le nostre parti: ciò che aveva placato d’un subito il nobile cuore del gentiluomo, altrettanto facile al perdono quanto ai magnanimi scatti, e disteso la fronte venerata del paterfamilias, permettendo agli ospiti di arrivare ad assaporare tutto il resto del pranzo, ch’era stato eccellente. La «colezione» era cioè potuta entrare in porto.

Questo rivedeva ora la madre de’ due discoli tirati allo scappellotto: mentre intanto girava lo sguardo all’intorno, quelle occhiate rapide e profittevoli dell’accortezza, che sembrano delle parentesi nel bel testo del discorso principale, della chiacchierata o della seccatura dominante. Elsa pareva ora nervosa: come in una sottile inquietudine, in un impercettibile, e pure percetto, orgasmo. Non si poté contenere: guardò a sua volta in direzione del viale, dell’«altro» viale: ch’era o pareva già immerso in un’ombra, dolce e calda, come nell’attesa di un dolce e di un supremo sgomento. Il maggio del municipio, virente e fronzuto dai fasti beauharnaisiani del Cagnola e del Canonica ai dorati parafulmini della Marsaglia, non pioveva ancora sugli amanti senza tetto la pioggia de’ suoi bianchi, de’ suoi teneri, de’ suoi popolari fiori.

«T’interessi forse di quel disgraziato?», disse l’Adalgisa col cervello alle beneficenze de’ due coniugi: e si avvide subito di aver fatto una domanda inopportuna.

«Quello.... non so chi sia:.... un poco di buono certo....»

«Mamma, mamma!....», dissero quasi con un urlo i ragazzi: più atterrito pareva il maggiore, i di cui labbri tremavano. Il poco di buono, uscito dal viale interno, s’era seduto a una panca nel viale grande: ch’era cornucopia di «màchine», moto, e carrozzelle da nolo, dette bàgheri, almeno chez nous. Fermo davanti a lui sulla sua bicicletta, un piede a terra, Bruno pareva non averlo neppur veduto: accendeva una sigaretta con un automatico che doveva funzionar poco. Alle due donne, e non ostante il gioco dell’ombre, e una certa distanza, tuttavia parve di aver a notare nel seduto una timidità strana e improvvisa, e nel fare del ciclista, invece, la più serena allegrezza. L’uomo, ora, guardava a terra, ma aveva portato la mano, la dritta, alla tasca della giacca che sta sull’anca: poi s’era come ripentito del gesto, aveva levato da un’altra tasca un suo gran fazzoletto: stava soffiandosi il naso lentamente, malinconicamente.

Bruno allora lo guardò un attimo, come si guarda una porcheria: e partì a capo alto, con gli occhi al di là d’ogni fronda come cercasse la prima stella nel cielo: la sigaretta accesa tra i labbri, una sola mano al manubrio. Dopo qualche pedalata melensa giravoltò. Elsa, in quel punto, abbassò il capo sul piccolo. Il giovane, trascorrendo nel viale a pochi passi da loro, in un agevole tornear delle gambe e degli scarpini nuovi che aveva, salutò allegramente: «Buona sera, signora Elsa!.... Buona, sera, signora!.... Ciao nasone!.... Ciao canapione. (13) Si volgeva, andando, si rivolgeva: col sorriso nel volto. Quell’impeto e quel vigore de’ capegli, dalla fronte, come una vampata violenta che il camino chiami, indietreggiava a deprimersi a meta testa sotto un cerchietto d’acciaio: questo, chiudendone il volume, li costringeva al capo con l’esatta tensione d’una molla. Giravoltò e ripassò. I ragazzi lo guardavano estasiati: «El leon in doe l’è?», gridò al maggiore, che aveva un rigo traverso il naso. «El t’ha sgraffignàa la canápia?»

L’Adalgisa avrebbe voluto offendersi per conto dei figlioli: nasone! canapione! ai suoi ragazzi! Ma l’allegrezza ebbe ragione dell’orgoglio materno. Le gote sorrisero.

«è un bel tomo!», esclamò: «un bell’originale....»: e di nuovo i suoi occhi, dalla ciccia dove s’incastonavano, feriron la cognata d’un lampo; che non mancò il segno, come una fiòcina lanciata in groppa al merluzzo, al momento giusto. Nel sorriso di lei, acceso e spento, vi fu quasi la benignità di un furbo soccorso, la dolcezza ruffiana di un invito. Invito.... come a confessare un qualche cosa.... ad abbandonare quel ritegno.... Tànt e tànt....

Per un attimo Elsa aveva seguito con lo sguardo il ciclista; i ragazzi anche loro: e guardavano a un tempo verso la panca: non osavano dir nulla: solo, a tratti, il piccolo stringeva la gonna alla mamma.

L’uomo si alzò. Veniva verso di loro: pareva assorto: un’attitudine di cattiveria stanca nella persona e nel viso, emaciato, brutto, da crederlo sudicio. Quando fu vicino a due metri, i ragazzi terrorizzati lo videro passar oltre, con una guardata inizialmente distratta alle due signore. Ma una luce di perfidia gli balenò dalle pupille, dalle iridi nere, puntute, lucide, come quelle del serpe. Essi non poterono risolvere ne’ motivi elementari, nelle causali di dettaglio, il loro pauroso ribrezzo. Soltanto, come chi ancora è incapace d’analisi, ebbero l’impressione: «che fosse vendicativo e avesse invidia dei ricchi». Poiché abbassò gli occhi anche alle scarpe di loro, le quali, per combinazione, eran gialle, nuove, e abbastanza lucide: mentre le calzettine ci ricadevan sopra tutte guaste e passite: e anche i calzoncini erano piuttosto in disordine, le gambe brutte e sgraffiate: e la pelle de’ ginocchi, al disotto la rotula, s’era screpolata (ne’ loro strusci di pellirosse) al derma bigio e pressoché cinereo dell’elefante, o di certi suini del tropico. I due nasi, poi, dovevano avergli dato l’idea ch’essi fossero dei ragazzi ben brutti, immeritevoli della fortuna: di avere delle scarpe così. La mamma dardeggiava la zia. La fiòcina aveva imbroccato il merluzzetto, l’argenteo dardo.... aveva raggiunto il guizzo argentato dell’anima; lo sguardo aveva rapito lo sguardo.

«Vorrei vederti felice, mia cara....», susurrò piano l’Adalgisa. «E non dovresti neppure diventar rossa.... d’un po’ di luce....»

Ebbe, dicendo questo, occhiolini in scintille, ma un tono nuovo, che Elsa non le aveva ancora conosciuto ne’ bei parlari di famiglia: parole quasi un alito affocato, sommesso. Sembrava attendere una confidenza segreta: il suo dire, invece, parve peccaminosa rivelazione:

«Diventar rosse!.... e perché, poi?.... Certe volte.... mi domando se è ancora possibile.... se ne vale la pena.... in un mondo così!....»

«Siamo già belle e rosse all’uscir di casa, quando ci occorre....», tentò scherzare Elsa, pur non ascritta alla corporazione del piumino. Guardò, un’ultima volta, verso dove sparivano tutti i ciclisti.

«Lasciamelo dire, sei bella!....»: e la vedova, come scrutando, la rimirò: un po’ nel modo che soglion tenere le modiste, alle prove, i parrucchieri: i pittori, anche. «.... Mi pare perfino un peccato che tu sia così bella.... così giovane.... Sei sciupata....»

«Sciupata?.... perché sciupata?....», fece Elsa guardandola con meraviglia, come se da una parola all’altra fosse altro il giudizio: infingendosi, mostrando d’interpretare a suo modo.

Era donna. Era davvero «deliziosa», come le diceva la sarta ogni volta, con piccoli gridi nel mirallegro, e aggiungeva, aggiungeva interminabilmente, prillandolo in chiave di soprano: «.... la bacerei.... la bacerei.... la bacerei.... la bacerei!.... tanto è bella....» Procedeva, ora, a lato la cognata: tutti, tutti si rivolgevano: i guidatori, anche, avvistandola così alla lontana dal fiume delle macchine. Sopra la stanchezza calda e un po’ inquieta di sua persona recava, andando lenta, la stola invisibile di malinconia. Gli ippocastani verdi accoglievano taluni dei molti raggi orizzontali del tramonto, facevano ripiovere qua e là una luce setosa (14) tra le ombre del viale.

Era fulgida. Le blandizie dorate del vespero, come ricusandosi a nimbare la tristezza del di lei volto, stavano invece consacrando in quella luce la vitale significazione di tutto il suo essere indicibilmente elegante: quel che di ignaro, di ritenuto, e tuttavia di fidente, di sospeso verso il futuro, di che sembra emanare il passo malizioso della giovinezza.

Un abito molto casto e semplice, non rattratto però. Anzi pareva indugiare in cadenze, come di peplo: non fosse stata la brevità della gonna che le mode imponevano. Di seta, a righe verticali assai vivide nello staglio de’ disgiunti colori; difficile ora elencare tutte le tinte, ma il verde cupo e il bleu-nero di certo, come in certi spettri di assorbimento. Dei guanti di pelle lievissimi: bianco-rosa forse? quasi il petalo del fior di melo? o forse erano invece verdi anche loro? Un cappello, in forma d’un elmetto un po’ piatto (di paglia tinta), o d’un padellino rovescio se volete, e un po’ sghembo anche, con due brevi penne sopra gli orecchi, tale d’un’alivola divinità: oh, era la moda di quell’anno. Degli scarpini di pelle estremamente morbida, forse d’un color lucente di erba, con un sistema ahimè troppo celere di allacciamento, ma che imbrogliandosi di tra i diti doveva far la delizia.... cioè la delizia di nessuno: se le allacciava da sé.

Ma i dettagli non contano, o la meccanìcca (15) delle fibbie. No, tutto questo non era nulla. Il guaio era che l’abito, castissimo, velava tuttavia – per talune insorgenze determinate dal «caso di forza maggiore»: contro cui quindi non era eccezione valevole – tegumentava le sommesse cause, o motivi, che potevano indurre noi ad aggettivarlo in quel modo. Cioè i motivi ineffabili, e le indescrivibili cause. Parlava ora l’Adalgisa. Lei taceva. Dal cappello i capelli si gittavan fuori: e ne irraggiavano in gran parte, né corti né lunghi: ma folti, moltiplicati e dorati; come sogni per sé fuggenti, che però la volontà chiara del giorno, con la sua legge armata di pettine, avesse ricondotti a quella ondulativa disciplina: adunatili in una «maniera». E di nuovo poi gli scarpini e le calze: erano a noi di nuovo il principio tutta un’altra serie di avvenimenti mentali, o bulbari, di deduzioni inconsce, la di cui arsi folle verso i cieli dell’immaginato sarebbe vano tentar di ancorare alla nostra povera prosa: come ai latrati d’un barboncino scodinzolante l’ascendere augusto del globo aereostatico ad aria (col fuoco dentro) denominato mongolfiera.

Il risultato complessivo era, in noi, nell’animo nostro, e in quel declino dell’ora, un disperato sgomento: un male sconosciuto e remoto: presagi, rimpianti: come il ricordo d’una irripetibile gioia del vivere, d’una luce, che giorni crudeli ne avessero allontanata per sempre: poiché tutto, di lei, pareva significare senza nostra speranza, dopo bruni alberi: «son io, sì! Quella che avete veduta e sognata: ancora per un poco, oggi, sono con voi!».

Ogni più tenera vena, in lei, doveva convogliare quel suo sangue verso il battito splendido ed efimero della sua vita, dare agli occhi la loro purità lucida e dilatata, come di un ampio turchese, come in una imagine musiva, a Ravenna. Poi, senza grido, mattutini pensieri dovevano avvivarvi la chiarità serena da tutto l’essere, quella pace quasi preventivata dal cuore: dal nostro; ch’era impossibile, contemplandola, di tirare a registro: chi non vi fosse confortato da una particolare indigenza, o da un particolare Sacramento.

La indigenza d’ogni lubido, la fede ai programmi: ch’era il più bel vanto, appunto, della sua nuova famiglia.

L’Adalgisa le spiegò allora, giustificandosi, quel «sciupata». Non intendeva dimagrita.... o stanca.... Anzi,.... al contrario,.... voleva intendere «male impiegata».... (Disse proprio queste due parole). E commentò «che in milanés», come anche in italiano, d’altronde, «se dìs l’è tràa via».... per dire.... quando una roba buona la regalano, magari.... a chi non apprezza... Come dàgh on bescòtt a on àsen.... (16) E lei invece, poverina, regalata.... così.... a tutta quella tribù di zie,.... di cugini,.... e cognati, e nipoti!.... con donna Eleonora alla testa!....

Precipitò nell’esegesi come una barca in una cateratta: e al punto stesso le apparve tutta la enormità incredibile dell’affemazione, poi del commento. Quantunque.... il Gian Maria,.... alla fin fine,.... quello.... in ballo non lo aveva tirato.... (Il nome di lui, però, le zuzzurullava sui labbri in una specie di solletico o di prurito, come, durante un’attesa, il pollice fremente di Figaro sulla corda ancor muta della guitarra. E un istinto glie lo risucchiava giù dai labbri ogni volta, un veto sacrale).

Senonché l’Adalgisa era di quelle meravigliose donne lombarde che il proprio vigor di cervello manifestano in pragma (le idee per loro sono atti), cioè in una prescienza vittoriosa d’ogni obiezione: col postulare dovunque, davanti a chiunque, la certezza nella propria infallibilità. Per quanto sbagliata sia la strada ove si son messe, per quanto appiccicoso il pantano dove si sono impelagate, ne usciranno a tutti i costi in trionfo. La lingua ce l’hanno, il «carattere» anche. E con la lingua e con il carattere si trionfa, ciò è noto, dei peggiori nemici. Oltreché del destino, dei professori de’ propri figli, e delle donne di servizio quando «sciupano l’aceto»: Dio ne guardi l’olio.

Di tutto si trionfa, quando si ha un carattere: nonché d’una povera sonnambula, che si affida ai vertiginosi cammini della notte: dove il cieco consequenziare della categoria di causa vale ed agisce, però al di fuori del suo sogno. Gli occhi della sonnambula parevano inseguire in idea in un remoto spazio un fuggente: forse uno che ripasserà, sulla sua bicicletta: che rivivrà nella immagine: una seconda, una terza, una ventesima, una cinquantesima volta.

Permodoché l’Adalgisa chiarì e commentò alla cognata le sue ragioni perfette. Si irritò poi di quanto andava ragionando, vedendo il rossore, il dispetto di Elsa: la odiò. Cercò allora delle ragioni per poterla odiare: e riuscì anche a trovarle: Elsa voleva far la stupida a tutti i costi.

«.... Ecco.... tante cose....» E la maggiore di età finì per assumere un tono stizzito, seccamente enunciativo, grandinativo: dirupò nell’autobiografia, «mì, mì, mì», come le capitava sovente, ormai. «Oh!.... Ero anch’io come te.... fo minga per dì,.... ma si voltavano tutti.... come quel stupid kì, várdel,.... che l’e passàa domà adèss:.... ma perché non li guardi?.... Non potevo venir fuori del portone che subito ci avevo due o tre scemi dietro.... ogni volta.... E signorina di qui.... e vorrei darle un bel bacione di là.... e bella biondona a sinistra.... e bella verginella a destra.... Se troeuvom!.... Oeuh, già!.... E mi guardi solo un momento.... e se lei vuole le posso insegnar io a far l’amore.... Si sa, gli uomini.... sono uno più porcello dell’altro....» (Elsa orripilò del vocabolo). L’Adalgisa tacque, però, del Fossati, e del portoncino di Via degli Angeli. Aveva detto «verginella», riprendendo il modo a certa galanteria macaronizzante dei primi del secolo, ma in realtà ci aveva in mente altro nome, in sineddoche: e di altro finale, per quanto vezzeggiativo-diminutivo lui pure. Una allitterazione un po’ da sin vergüenza, grata, comunque, al nostro orecchio di «porcelli»: alla quale si scoscende senza volerlo, in idea, ogni volta: previa metatesi (con sincope, sineresi e contrazione), solo a udir il nome d’un nostro oceanista e memorialista oceanico: e magellanico.

Si riferiva a un’epoca eroica, se vogliamo qualificarla per tale, e rigurgitante di schiaffi, in cui gli uomini erano più precisamente dei suini e abbadavano tuttodì dietro a femmine, inseguendone magari per via. Oggi, se Dio vuole, (17) un cotale malvezzo va fortunatamente scemando, o addirittura estinguendosi di giorno in giorno; con gran vantaggio del nostro decoro di bipedi e non più maialoni. «.... Ero proprio come te,.... come te oggi....», (Elsa protestò, inutilmente),.... «con più mosconi addosso che un fico.... di quei maturi, quei bei brogiotti di metà settembre.... Ho però avuto la fortuna di incontrarmi in un uomo.... il mio povero Carlo.... un uomo che mi ha voluto bene.... Ecco!» E inspirò l’aria della soddisfazione: del decoro e dell’orgoglio.

« .... Ma dagli altri!.... dalle altre!.... Dio, Dio! se ci penso!?!.... Credi: non ho, avuto che invidia, cattiveria, dispiaceri.... ma dispiaceri da piangere! da passar dei mesi nella bile.... Da quella brutta tartaruga, poi,.... che è passata di qui domà adesso,.... in carrozza,.... non so se l’hai veduta anche tu,.... con l’ombrellìn de fà ombra,.... de scònd la faccia,.... perché la gh’à vergògna a fà vede la faccia.... da tanto che è secca.... Con quel cavallo da funerale.... Se penso.... a quello che ha detto di me!.... Vorrei che Dio le facesse passare tutto quel che ho passato.... patire quel che ho patito....

«Ecco.... Credo che se esiste veramente un Dio, come predicano tutti i vostri preti» (disse proprio «i vostri», con una impertinenza irritata: impallidì, nel disdegno: la sua voce pervenne a un’acutezza stridente, ràbida, come per un attacco d’isteria) «.... se è propio vero che c’è, sto Dio,.... ma poi vorrei vederlo all’atto, che cosa è buono di fare:.... se esiste,.... quella brutta strega dovrebbe proprio calcarla giù nel suo Inferno.... nel più profondo dell’Inferno,.... giù, giù in fondo! strega!.... a brusà in sü la gratiroeula.... (18) dalla mattina alla sera....» Ignorava che i fondali son diacci.

Il viso di lei, dianzi così paffuto ed ilare, Madonna! adesso era illividito in un odio, pareva verde: «.... a rosolarci su poco a poco.... per tirarla più lunga.... püssée longa ankamò.... come San Lorenzo.... Dio, Dio!.... cosa non mi ha detto dietro!.... quel serpente....»

 

1. «Catenaria» è la figura di equilibrio della catena sospesa per i due capi: (franc. chaînette, ingl. catenary curve).

è la curva secondo cui si dispone un filo pesante, omogeneo, flessibile, inestensibile, tenuto per i due estremi A e B, nel campo della gravitazione terrestre. L’equazione della catenaria è cos iperb. , ove si denomina a la distanza, dall’asse x, del punto centrale ed imo, sedente sull’asse y. È curva simmetrica rispetto ad y. Galileo, in un geniale errore, aveva assimilato la catenaria fisica all’arco centrale della parabola. E di fatto, se te tu sviluppi la y in serie di Stirling-Mac Laurin, e te tu trascuri i termini (trascurabilissimi ne’ computi applicativi) di grado della x superiore al secondo, te tu ne cavi l’equazione , che è l’equazione d’una parabola. Il che si pratica appunto nel calcolo meccanico delle funicolari e delle linee elettriche aeree, cioè sospese. «Corda molla» dicesi d’una lunga strada che avvalli e nobilmente risalga, descrivendo una catenaria.

2. «Macadàm», dal nome dell’ideatore John Loudon Mac Adam, ingegnere, è tipo di pavimento stradale in breccia o vo’ dir ghiaia compressa: a opera di apposito compressore a rulli. Oggimai la si suole impegolare di bitumi: (catramatura): in superficie, quasi una pelle. ll Mac Adam, nato ad Ayr nella Scozia, (1756-1836), fu ispettore delle strade: (di Bristol, 1815: poi del Regno Unito, 1827). Collaudò pertanto, con vantaggio della città e del Paese, il suo nuovo sistema: che aveva sperimentato con caparbia tenacia, suis sumptibus, fin dal 1798. Rifiutò (cortesemente) il titolo di baronetto.

Adottato, il bitume, ne’ viali di Milano, con un certo anticipo di fase in confronto di altri municipi: (1902-1904 circa).

3. Bellegarde, Enrico Giuseppe conte di: d’antica nobiltà savojarda, havvi pure chi lo fa nascere a Chambéry (1755 o 1760) e morire a Verona (1831). Più probabilmente Dresda 1756, Vienna 1845: disparità di lumi degli storiografi ne traggon la penna in sussulti. Militò nelle armate austriache d’Italia (1797) agli ordini dell’Arciduca Carlo: e più tardi le comandò (1800, dopo il Melas e dopo Marengo): e riuscì lui pure a riscòtere. Oh, un paio di stangatelle a caval di Mincio, non ho mai capito bene se a Monzambano o a Valeggio, se a Natale o, se a Santo Stefano del 1800: e chi glie le appioppò fu il Brune: (Guglielmo Maria Anna, futuro maresciallo dell’Impero ed ex-giornalista). Aveva firmato, rimpetto al secùro, i «preliminari di pace» di Leoben: 18 aprile 1797, lunedì di Pasqua, il giorno medesimo che Verona, stretta, manifestò il suo parere. Questi s’erano perfezionati nel trattato di Campoformio, (17 ottobre 1797), oggi Campoformido, alt. s.m. metri 77, a 8 chilometri da Udine. Per essa carta l’impero austriaco, più affamato d’un drago, deglutiva d’un sol colpo la vecchia ciacolona dei Manin e dei Tron: previamente depredata de’ suoi meglio ori dalla manina del nanetto, e brigante forte però: ori, argenti, cavalli di bronzo lisippei, codici della Marciana, Tintoretti, Tiziani, galere, velature, cordami, ecc. ecc. ecc. ecc. Firmò adesso, il Bellegarde, rimpetto a Brune, l’armistizio detto di Treviso (16 gennaio 1801), ripercussione della vittoria di Moreau a Hohenlingen, la «Marengo del Danubio»: il qual Treviso preluse, per l’talia, al trattato di Lunéville (9 febbraio 1801).

Commendatore di Maria Teresa dopo la fazione di Caldiero (30 ottobre 1805), feldmaresciallo (1809), presidente del consiglio aulico (1810), rioccupò la Lombardia quando il secùro, fu assecurato, ma non troppo, nell’isola ferruginosa. «Entrò a Milano» addì 8 maggio 1814. Dopo la pace di Parigi (30 maggio) allestì e torchiò, e fe’ recitare per tutta terra l’indispensabile (12 giugno 1814)

Proclama.

Noi Enrico conte di Bellegarde, Ciambellano e Consigliere intimo di Stato di Sua Maestà Imperiale e Reale Apostolica, Commendatore dell’Ordine Militare di Maria Teresa, Gran Croce dell’Ordine di Leopoldo, ecc. ecc., Feldmaresciallo, ecc. ecc., Presidente del Consiglio Aulico di Guerra e Comandante in Capo dell’Armata d’Italia, ecc, ecc.

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sotto lo scettro dell’Augustissimo Imperatore e Re Francesco I, Padre adorato de’ suoi sudditi, sovrano desideratissimo; da tutti quegli altri che non l’avevano ancora assaggiato.

Ecco il Bellegarde. Seguirono parate militari, funzioni religiose, inni, luminarie.

4. Annitrendo con la rabbia d’un inferocito gatto s’impenna, ed acùmina più che corni gli orecchi, il cavallo: raspando l’aere, con zoccoli, sopra al reluttare del dragone resupino: il qual mostro ha spalancate le fauci: di che lingueggia, come lista di fiamma, la sua lingua ontosamente impudica. Me il Cavaliere glie l’ha drizzato per entro caverna, il buon colpo, e trafitto della su’ lancia il palato, e dritto dritto quegli indimoniati bulbi, e cervella.

Accade tuttociò nel «San Giorgio» di Cosimo ovvero Cosmè Tura (1430 circa – 1495): ed è tela rappezzata di duo metà che decoravano, dall’esterno, le portelle dell’organo del Duomo di Ferrara, mentre l’Annunciazione le decorava dall’Interno. Le immagini e l’aggettivo «araldico» si erano già coagulate in un testo nel 1934: la «Esposizione della Pittura Ferrarese del Rinascimento» è dell’estate 1933: e lo scrivente, ebbro, vi trascorse indimenticabili ore. Nel bellissimo catalogo te tu vi leggi, a pagine 46-47, di penna di Bernardo Berenson (in traduzione): «Il Tura è un grande maestro del grottesco, e della sua forma più alta: il grottesco araldico, il blasone. Gli esempi di grottesco, per nulla affatto incoscienti, ed anzi perfettamente voluti, abbondano nelle sue opere. Ha tutto un serraglio di animali simbolici, e se dipinge un cavallo, come nel San Giorgio, gli dà, come farebbe un armaiuolo, il frontale di un cavallo araldico, da torneo». Al genio nonché all’arte del Tura, alla sua formazione ferrarese, alla sua coerenza spietata, ossessiva, nata da «una immaginazione che fiorisce sul metodo», dedica magistrali note e pagine il Longhi: Roberto Longhi, in Officina Ferrarese, Roma, Le Edizioni d’Italia, 1934-XII, pp. 33 e sgg. Accenna, l’insigne critico, alle «follie più feroci del Tura e del Crivelli, alla dolorosa eleganza del giovine Bellini, alla speciosamente rigorosa grammatica mantegnesca». Se ne ripete l’origine «da quella brigata di disperati vagabondi, di sarti di barbieri di calzolai e di contadini, che passò per un ventennio nello studio dello Squarcione. Anche il Tura è “di Squarcione”, come firmavano lo Schiavone e lo Zoppo. Anch’egli dà un’interpretazione medievale, irrealistica, del Rinascimento, e si educa sognando all’ombra dell’altare criso-cupro-elefantino di Donatello».

«Che cosa sortisse da questo incontro di spiriti antichi e di problemi moderni nel temperamento feudale, ghibellino, di Cosmé Tura, cortigiano di Borso d’Este, è a tutti noto». E più avanti ragiona «della sua architettura che dà nell’assiro e nel salomònico», di «turbini impietrati», di «una natura stalagmitica», di «un’umanità di smalto e di avorio con giunture di cristallo», di «cieli di lapis azzurro», di «tramonti di croco ossificato». Leggi: e te tu vedrai.

5. «Moto Guzzi» = motociclette di fabbricazione Guzzi. Officine Guzzi a Mandello del Lario, ramo che volge a mezzogiorno, o quasi, riva orientale, dopo un po’ di golfi e di seni da Lecco. Sparso, il borgo, sull’ampio ventaglio della deiezione. Guzzi! Nome vivo e dirò palpitante nella sistole-diastole d’ogni italico centauro.

6. Gérard (Francesco Pasquale Simone, 1770-1837) ci presenta d’un polputo Murat Re, a piedi e a capo scoperto, ma in procinto di coprirselo, la lussuriante e cresputa e però non pettinata capellatura, l’occhio inutilmente vivace in un volto pieno, puerile, ed imberbe: e giù giù poi tutto l’armamentario e l’impaccio fastoso delle pellicce, dei codini, dei codoni, dei cordoni, dei cordoncini, delle olivette d’osso, degli alamari, dei guanti, della fusciacca, del colbacco, con un fioccolone d’oro da una parte, che ciondola, e col piumacchio nivale; un moretto, di cui s’intravede metà il naso, gli porge quell’indescrivibile copricapo. Glorifica poi massimamente, il Gérard, in un valido scorcio, le ben tornite cosce, e chiappe, del cavalcatore quarantunenne ed eroe-Re deglutitore di bistecche. Lo strascico d’un sciabolone turchesco, poggiato al suolo, ma attaccato al padrone, e’ ti fa l’effetto di una coda metallica o d’una sorta di animalesca appendice: di quella così esibita e magnificata persona.

Nel dipinto di Gros (Antonio Giovanni, barone di: 1771-1835), la faccia del Re a cavallo è altrettanto piena e puerile: e tra capelli, fiocchi, peli, piumacchi, ne vien fuori, con perianzio pistillone e stami, quasi un maestoso e fantasioso fiore dei tropici, che ha per orchi il volto, con le gote un po’ cascanti: e bamboccio. Il piumacchio centrale del colbacco, di fili candidi e pari, ed eretto e pur docilmente inflesso nell’aere, sgorga da una specie di vagina di altre inimmaginabili penne, a ricciolo, ma tenere e lanose da non dire, tra di struzzo e di papera, e di oca del Madagascár. Il fioccolone del colbacco è doventato addirittura una carrucola, un paranco doppio di nave, che governa due sottofiocchi. Una pelle di tigre s’è arrovesciata sul cavallo, con la coda che la nasce dal collo, e la testa morta a sbatacchiare sul didietro: ed è un meraviglioso leardo, il cavallo, o anzi un roano pomenato, e balzano da tre. Che batte quasi il Cosmé per l’acutezza cornificata de’ due orecchi in istato di perpetua erezione, e per l’elettrico disprigionato da’ crini, che li travolge, rabbuffandoli, il vento: e per quel zoccolacchiare inane ed aereo della impennata, come l’avesse veduto il serpente. Bianco, degli occhi: vene turgide, al muso: froge soffianti: spuma. Bella, poi, la coscia, e anzi tutta la gamba del Re!: una nota unita, un fuso inguainato, inguantato, dentro la tempesta tigrina della chincaglieria. Sullo sfondo, il pennacchio del Vesèvo.

7. Il museo Poldi-Pezzoli, nell’omonimo «palazzo» (entrata da via Morone), colpisce il visitatore per la ricchezza e la buona manutenzione delle sale nobilmente arredate: (pitture de’ maestri grandi, mobili, arazzi, orologi a tic-tac, pavimenti lucidissimi). «è lo stupendo» (e piuttosto tetro) «appartamento di un amatore d’arte e collezionista del periodo 1850-1879, Giovanni Giacomo Poldi-Pezzoli». Così la guida della C.T.I. Legato in testamento alla città che si fa un dovere di addomenicarvisi per nulla moneta, a morir d’uggia tra il Lissandrino e lo Hayez, tra Cosimo Tura ed Emilio Cavenaghi, tra Filippo Càrcano e fra’ Galgario, tra Pier della Francesca ed Eleuterio Pagliano, e il Pollaiuolo e il Palizzi e il Mantegna e il Montagna e il Pitati e il Crivelli Carlo mio dilettissimo, e gli Induno e il Cima, ecco il Luini v’è rappresentato: un po’ meno che a Brera, forse, e che all’Ambrosiana. La battuta vuol significare che i fulgori de’ tramonti, la gran porpora e gli ori de’ tramonti lombardi, e’ finiscono captati ne’ musei: contubernali all’odor di cera del Poldi.

8. «In camporella», (andá in camporella, fà a l’amor in camporella, menà la tosa in camporella), gergale ed estremamente volgare per dire «nelle prata extra muros, nella suburbana campagna».

9. «Tabouret» (franc. s.m.), è sgabello: da noi e sgabello rotondo e, al di sopra, paffuto: per imbottito cuoio, o velluto. Soprattutto lo sgabello girevole (in sostegno fisso a tre piedi) del sonatore di pianoforte. Capita spesso ai grandiglioni ingegneri d’essere invitati a sedere su inadeguato sedile: (troppo basso). Donde ginocchia in bocca.

10. «General comando» (dal tedesco General Kommando): de’ milanesi vecchi per dire il Comando del III Corpo d’Armata, in via Brera. Designazione ereditata dai bisnonni, e legittima anteriormente all’8 giugno 1859.

11. «Isterèsi», nel discorrere de’ fisici, è il ritardo onde un fenomeno si determina correlativamente ad un altro. E usasi dimolto bene per i fenomeni periodici: nel qual caso la voce è sinonimale a «sfasamento, ritardo di fase». Dal greco ὕστερος = posterior: ὐστερέω e ὐστερίζω = venir dopo, venire più tardi, tardare, indugiare, rimanere indietro.

12. Leggivi, all’apertura dell’Emile: «Il [l’homme] mutile son chien, soncheval, son esclave».

13. «Canapión» è nasone: (dial. lomb.): canàpia, s.f., è naso pronunziato. Dovendo regalare un titolo a ciascuno de’ due fratelli, e valendo, ognun de’ due, per un identico merito, il giovanotto bellamente disvaria: dalla lingua al dialetto.

14. La foglia stessa dell’ippocàstano, dopo al primo schiudersi e buttare del germoglio, è tenera e vagamente setosa, un po’ come quella adulta del gelso, ma d’un verde più intenso. Cavane, il tramonto, raggi, e luminescenze di seta.

15. «Meccannìcca», s.f., è gergale lombardo per ordegno, ingegno, dispositivo meccanico: (dal franc. mécanique, s.f.): e dicesi anche «il trucco, il tranello» e perfino «il trabocchetto».

16. «Dàgh on bescòtt a on àsen» – dare un biscotto a un asino: (comasco-valtellinese). L’Adalgisa aveva imparato la frase a Inverigo, al Crott di Castègn.

17. «Se Dio vuole.... fortunatamente....»: avverti l’andamento cialtronico della frase. Con malo democritismo il termine secondo (da fors) contraddice alla validità santa e sommessa del primo, che ha fondamento in una Teodicea.

18. «Gratiroeula», (da gratá = grattare: dial. lomb.), è propriamente grattugia (dial. mil.) e, per similitudine, la lastra bucherellata del confessionale: ma nella precipitazione iraconda dell’Adalgisa passò per graticola. Circa la specie del tormento, be’ ti sovvenga un po’ po’:

Come tenne Lorenzo in su la grada,
E fece Muzio, alla sua man, severo,
Ecc. ecc.

(in Par., IV, 83-84).

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859

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