Pocket Gadda Encyclopedia
Edited by Federica G. Pedriali

Manzoni

Ferdinando Amigoni

Un testo elevato all’altezza di paradigma obbligato, di capostipite fondatore del genere romanzesco in Italia come i Promessi sposi rischia di essere condannato ai vacui rituali dell’ossequio formale o alla noia delle ripetitive esegesi scolastiche. Nulla di tutto questo, ovviamente, è all’origine delle innumerevoli allusioni manzoniane più o meno velate, dei tutt’altro che rari pastiche, delle citazioni deformate dalla maccaronea che costellano l’opera narrativa di Gadda, mentre la frequenza con cui Manzoni (il Manzoni prosatore soprattutto) ricorre nelle sue pagine critiche basterebbe a segnalare la profondità e l’intensità della mai conclusa lettura gaddiana. S’impone una scelta: sarà dunque opportuno limitare l’analisi a tre affioramenti.

Si può cominciare dall’annotazione diaristica di un Gadda ventunenne, soldato del 5º Reggimento Alpini. A fare le spese delle non trascurabili risorse retoriche del suo feroce sarcasmo è questa volta un commilitone vagamente anarchico, ignorante e millantatore, la cui assoluta mancanza di umiltà e di «disciplina» intellettuale rende Gadda furibondo, e lo porta a ripensare, per contrasto, alla «sapienza», al «metodo», all’«analisi» «di cui Manzoni è insigne maestro e profondo esemplificatore, che soli ci porgeranno il modo di correggere, di districare, di lenire con spirito equanime e con acutezza di vedute pratiche ed etiche i mali presenti degli uomini» (Giornale, SGF II 456). Tutto quello che Gadda scriverà poi, quando tenterà di precisare i propri debiti nei confronti di Manzoni, è già, in nuce, in queste poche righe.

Anzitutto lo spunto di partenza che conduce al Manzoni prosatore non è affatto letterario, e, ciò che è ancora più significativo, la letteratura non viene confinata entro la riserva protetta del discorso di finzione, ma è al contrario «analisi» a cui vengono affidati fondamentali compiti «euristici», «pratici» ed «etici»: qualcosa di molto simile a un prontuario medico in cui cercare istruzioni per riuscire a tenersi in piedi, per qualche tempo almeno, sulla superficie scivolosa, in perenne trasformazione, del reale-garbuglio.

Certo, quando nel settembre del 1915 scrive queste parole, l’alpino Gadda può solo cercare d’immaginare cosa sarà il battesimo del fuoco di là da venire, e non può viceversa prevedere fino a che punto si rivelerà «merdosa» (SGF III 863) la «realtà» della rotta di Caporetto, della prigionia, della morte del fratello, della disperata sopravvivenza, dismessi, insieme all’uniforme, i vitalistici ardori di gioventù. E nondimeno, già in questo minimo frammento di diario, alla letteratura-«analisi» – indistinguibile in fondo da pratiche discorsive altrettanto analitiche ma molto meno indirettamente fattuali, come la filosofia e la matematica – spetta un compito preciso e limitato: «lenire» «i mali degli uomini»; curarli del tutto è un’eventualità che non sovviene neppure a un Gadda a cui «il destino» deve ancora elargire gran parte di quell’«impagabile razione di calci nel sedere» che «serba» per lui (come per ognuno di noi, del resto), con silenziosa e implacabile sollecitudine (Come lavoro, SGF I 434).

1924. Lasciata l’America del Sud, dove aveva dovuto trasferirsi per ragioni relative alla sua odiata (ma in fondo anche amata, in qualche misura) professione di ingegnere, Gadda mette mano a un ambiziosissimo Racconto italiano di ignoto del novecento, primo passo non occasionale sul terreno della letteratura, estremo tentativo per sfuggire alle «rinunce» e alle «compressioni» della «tragica», «inutile» vita. Rimane, di questo Racconto, un informe insieme di abbozzi narrativi, note teoriche e considerazioni filosofiche: per Gadda narrare e conoscere sono un’identica operazione. Non stupisce che per un simile, tardivo esordio Gadda senta il bisogno di «riesumare» Alessandro Manzoni, di dedicare un omaggio in qualche misura scaramantico a colui che riveste ai suoi occhi i panni del nume tutelare.

Egli disegnò con un disegno segreto e non appariscente gli avvenimenti inavvertiti: tragiche e livide luci d’una società che il vento del caso trascina in un corso di miserie senza nome, se caso può chiamarsi lo spostamento risultante della indigenza, della bassezza, della ignavia politica (pubblica), della cieca ignoranza, della paura d’una razza e dell’avidità e dell’orgoglio d’un’altra. Se caso può chiamarsi la noia della vita, sensuale e disorganica, che fa ricercare nel male i veleni di un più fosco desiderio, d’una più abominevole discesa verso cupi silenzi (Racconto, SVP 590-91).

Alle prese con la costruzione di un complicato « romanzo psicopatico e caravaggesco», ambientato nell’Italia delle squadracce fasciste e del delitto Matteotti, Gadda non potrebbe augurarsi migliore guida di colui che è per lui il maestro ineguagliato nella rappresentazione del vizio, della corruzione, della pestilenza e dell’abnorme. Il poeta della provvidenza, quello a cui la vulgata scolastica ha fornito una stabile, stucchevole fisionomia, dipinge in realtà un mondo in rovina radicalmente separato dallo sguardo di Dio. Nelle righe appena riportate, quelle che aprono la «riesumazione», tra «tragiche e livide luci», la parola che più spesso ritorna è «caso», esattamente l’opposto teologico della provvidenza. È il «vento del caso», l’impreveduto accidente, il limite contro cui s’arresta l’intelligenza dell’uomo, quello stesso «caso» che non consente al filosofo della Meditazione milanese di chiudere il «sistema», e che trascina l’universo in una precipite «discesa verso cupi silenzi».

Eppure – ed è questa coesistenza contraddittoria che fa di Manzoni un «grande maestro di verità» (Bertoni 2001: 52) – dietro alla «tragica sinfonia», alla «tragedia spaventosa di una società senza norma e senza volere, che il caso allora travolge» (Racconto, SVP 596), esiste un «disegno segreto». Il romanziere filosofo che solo tre anni dopo quest’apologia avrebbe scritto la sua definitiva Meditazione ravvisa da subito in Manzoni quella «coscienza della complessità», quell’«ermeneutica a soluzioni multiple» che si riveleranno i postulati preliminari e necessari del pensiero e della scrittura gaddiana.

«Nulla esiste più», nella Lombardia dipinta da Manzoni, «non vi è legge se non nelle viscere torturate» (SVP 594); ma l’autore dell’immane affresco riesce paradossalmente, a dispetto del «caso», dell’informe «nulla» che lo corrode dall’interno, a tenere le fila del «disegno», rappresentando «la mescolanza degli apporti storici e teoretici più disparati, di cui si plasmò e si plasma tuttavia il nostro bizzarro e imprevedibile vivere» (SVP 591). Manzoni sembra essere riuscito a risolvere, in altre parole, l’irrisolvibile aporia del pensiero gaddiano, quell’«impossibile chiusura del sistema», per cui il soggetto della conoscenza non può che tradire la complessità del dato fenomenico, o riducendone la pluralità «degli apporti storici e teoretici», o lasciandosi andare al flusso di un discorso potenzialmente infinito.

«Pensavo stamane di dividere il poema in tre parti, di cui la prima La Norma (o il normale) – seconda l’Abnorme», medita Gadda all’inizio del suo Racconto italiano, «terza La Comprensione o Lo sguardo sopra la vita (o Lo sguardo sopra l’essere)» (SVP 415). Nonostante l’incombente minaccia dei «cupi silenzi» e una coscienza del nulla di straordinaria intensità («Memento quia pulvis es»), Manzoni sembra giungere, proprio attraverso la totalità di quella vasta costruzione verbale intitolata I promessi sposi, alla «Comprensione», a quello «sguardo sopra l’essere», che si rivelerà agli occhi di Gadda sempre più impossibile, ben al di là di ogni considerazione sull’effettiva compiutezza dei singoli testi che via via andranno a comporre il corpus gaddiano.

Ed è pur sempre in questa paradossale e disperante (per il discepolo Gadda) capacità di sintesi, in questa disponibilità a incarnare «l’ultima istanza semantica», (1) a dispetto della molteplicità quasi non dominabile «degli apporti storici e teoretici», che l’autore dei Promessi sposi si situa in una irraggiungibile lontananza, di cui, con ogni probabilità, lo stesso Gadda lettore e critico non è del tutto consapevole (mentre certo lo sarà, a suo modo, cioè après coup, l’autore dei testi narrativi che recano il nome di Carlo Emilio Gadda sul frontespizio). Se si guarda con attenzione, non fermandosi alle apparenze che sembrerebbero testimoniare un’ideale, anacronistica contemporaneità tra Gadda e Manzoni (che il primo parli anche di sé, mentre descrive il barocco grottesco e tragico di Manzoni, è del tutto evidente), ci si accorge infatti che il «caso» che vanifica gli sforzi umani e sembra cancellare la presenza stessa del divino, è un «caso» storicamente prodotto, la «risultante», nessun filosofo illuminista potrebbe stupirsene, dell’«ignavia politica» di una società moribonda. Non si tratta (non ancora) di una necessaria condizione inerente al Dasein del soggetto umano, ma del frutto di precisabili mancanze in quei «grandi» che dovrebbero dare forma a un codice culturale in grado di contenere gli assalti del «caso», che è poi «ciò che non sussiste in equilibrio», «l’incombinabile», «l’irreale», «l’errore». (2)

Per il Gadda del 1924, dunque, la «Comprensione» è possibile: tale volontaristico ottimismo, nonostante «le miserie senza nome» (l’intensità dei furori del primo Gadda è direttamente proporzionale alla renitenza del reale a lasciarsi plasmare dalla luce della conoscenza ordinatrice), è all’origine, Gadda sembra esserne certo, dei molti personaggi dotati di una perfetta, illusionistica autonomia e provvisti di riconoscibilissime, idiosincratiche voci che abitano il racconto manzoniano. L’apologia manzoniana affiora infatti alla superficie del Racconto italiano con un’indicazione di primaria importanza: «Manzoni – Fichte – idea della immediatezza necessaria del linguaggio», e subito Gadda torna ai «capitoli terzo e quarto dei discorsi» di Fichte «alla nazione tedesca», precisando che bisognerebbe «scolpirli nella memoria e nell’anima» (SVP 590, 592).

Cosa ci sia di così imprescindibile nelle elucubrazioni linguistiche di Fichte, rapito dal mito romantico dell’Ur-sprache, diventa comprensibile qualora si pensi a un Gadda formatosi sui romanzieri classici dell’ottocento, che insegue invano (e sempre inseguirà) un’idealizzata e inafferrabile «immediatezza del linguaggio» («Volle poi», Manzoni, «che il suo dire fosse quello che veramente ognun dice» – SVP 591, corsivo mio). L’«espressione grottesca», in realtà umoristica, di Manzoni è ben diversa da quella di Gadda: al suo «stile isterico», alla sua «semantica dell’ansia» (Dombroski 2002a: 136), sintomi di una frammentazione narcisistica del soggetto gettato in un mondo in frantumi, rimane davvero pochissimo dell’«equilibrio» manzoniano.

L’ottocentesca naturalezza del narratore dei Promessi sposi sembra agli occhi di Gadda il frutto di quella lingua «originaria», «viva» e «materna», incarnata, secondo Fichte, dal tedesco, dotato di un’assoluta continuità rispetto all’origine, privo di quelle interruzioni che contrassegnerebbero la storia delle lingue neolatine. «L’impossibilità» – conoscitiva e linguistica – «di quella stessa prospettiva razionale che Gadda riconosce all’amatissimo Manzoni» (Dombroski 2002a: 32), su cui ha scritto pagine assai persuasive Robert Dombroski , non è certo dovuta solo a private nevrosi; è viceversa l’eloquente segnale della distanza che separa Manzoni e i grandissimi realisti del XIX secolo da uno scrittore pienamente novecentesco come Gadda. (3)

Le teorie linguistiche, a tratti deliranti, di un Fichte patriottico e antifrancese (era ancora bruciante la sconfitta di Jena) non possono non richiamare alla mente di chi conosce l’opera di Gadda, temi familiari: colpevoli di un vero e proprio matricidio linguistico, i francesi (discendenti da quei Franchi che emigrarono e abbandonarono il loro dialetto germanico) «non posseggono una lingua viva», «anzi», argomenta Fichte, «a essere precisi, essi non hanno una lingua materna». (4) è probabile che, a livello inconscio, il pure neolatino Manzoni assumesse per Gadda il prestigio di colui che possiede una «lingua materna», che ha saputo ricreare e dominare la «madrelingua», nonostante le discontinuità, i traumatici tagli (il bilinguismo francese e milanese di partenza). Matricidio, scrittura e afasia s’intrecciano dunque nelle pagine di Gadda sino dagli esordi. «Spasmo» della parola, esplosione dei nessi sintattici, disarticolazione della forma-racconto, invadenza di un Io narrante dalla voce inarginabile, ecco a cosa si condanna chi si allontana dall’«immediatezza necessaria del linguaggio», chi ha perso, certo a causa di un suo colpevole tradimento, il contatto simbiotico con la madre(lingua).

1960. Maestro di verità e di sintesi, immune da catastrofiche discontinuità e da immedicabili ferite narcisistiche, Manzoni non può essere «diviso» da «bisturi», anche se impugnati da un intelligentissimo lettore come Moravia. Gadda si sente costretto ancora una volta a difendere l’integrità di Manzoni dal temibilissimo, perché assai bene argomentato, tentativo di dissezione (autopsia, più che riesumazione) contenuto nel saggio di Moravia dal titolo Alessandro Manzoni o l’ipotesi di un realismo cattolico.

Poco importa che al lettore dell’analisi di Moravia l’urgenza di un’ennesima apologia non salti affatto agli occhi. In questo suo Manzoni diviso in tre dal bisturi di Moravia, Gadda ribadisce convinzioni che risalgono, come s’è visto, a un’ormai lontanissima giovinezza: l’«incredibile felicità e suprema nettezza descrittiva», «il personaggio che “ti viene incontro”» non possono essere disgiunti da un «riferimento alla totalità»; «l’alta e vasta creazione manzoniana» è addirittura l’emblema della «coinvoluzione» dei «sistemi», ricca com’è «d’interdipendenze e contrasti che hanno valore di realtà combinatoria», i quali «attingono» a loro volta «agli strati fondi e veritieri del conoscere, del rappresentare». (5)

Ma durante il tempo intercorso tra questo saggio e la remota apologia, molti «apporti teoretici» hanno modificato pensiero e scrittura di Gadda, primo fra tutti, senza alcun dubbio, la psicoanalisi. Manzoni non può più essere proiettato in un inesistente Eden in cui non è ancora spento l’eco della lingua adamitica: bisturi assai più taglienti di quello di Moravia hanno diviso, per sempre, il soggetto umano; impossibile riservare, persino al prediletto Manzoni, un trattamento privilegiato. Lo vediamo dunque «malato ereditario (nevrosi: psicosi)», «traumatizzato dalla vita, già in età tenera: (amori della madre, bambino abbandonato alle durezze d’un collegio)» (SGF I 1177).

L’inconscio dilaga, difficilmente arginabile: addirittura «il meglio, d’un romanzo» non «discende» «da una premeditazione concettuale, da una pianificazione dialettica», ma da quegli «strati fondi e veritieri» che Freud ha cercato di analizzare con paziente tenacia nel corso di più di trent’anni. Il discorso del Gadda maturo si fa ilare, a tratti quasi leggero, in queste pagine critiche, come nelle opere narrative successive alla Cognizione del dolore. Sbagliatissimo sarebbe tuttavia considerare tale arricchimento cromatico della tavolozza gaddiana (di cui fa fede tra l’altro il bozzetto rococò che ritrae l’«indiavolata figlia del marchese Beccaria» mentre si dà da fare, tra Milano e Parigi, per diventare, «riffe o raffe», «la madre di Alessandro Manzoni», SGF I 1180-181) come il frutto di una finalmente raggiunta «Comprensione». Quello «sguardo sopra l’essere» che Gadda ha cercato di fare proprio anno dopo anno e pagina dopo pagina, non ha dato i frutti sperati. Nessuna totalità ha lasciato intravedere il suo «segreto disegno»: solo minime luci, «porziuncole dell’euresi» galleggianti in vasti mari di buio. Anche la tragedia s’è allontanata, lasciando il posto a un pessimismo ironico, a un soggetto diviso, all’«impossibile chiusura» del discorso.

Università di Bologna

Note

1. M. Bachtin, Problemy poetiki Dostoevskogo, Moskva 1963; trad. it. Dostoevskij. Poetica e stilistica (Torino: Einaudi, 19684), 243.

2. Racconto, SVP 407. Si veda il lungo, illuministico elenco di accuse che Manzoni e Gadda rivolgono a coloro che rivestivano cariche pubbliche nella Lombardia del primo Seicento (SVP 597-98).

3. Si vedano anche le equilibrate osservazioni di Bertoni (Bertoni 2001, soprattutto ai capitoli II e III della Parte Prima).

4. J.G. Fichte, Reden an die deutsche Nation (1807-1808); trad. it. Discorsi alla nazione tedesca (Torino: UTET, 1944), 89.

5. Manzoni diviso in tre dal bisturi di Moravia (SGF I 1179-180). Di «coinvoluzione» e di «sistemi» si parla, com’è noto, in ogni pagina della Meditazione milanese; per il «riferimento alla totalità» si veda invece il saggio I viaggi, la morte, SGF I 580.

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ISBN 1-904371-00-0

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