AFFIORAMENTO PER L’INNESTO |
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Manzoni – Fichte – idea della immediatezza necessaria del linguaggio. –
Egli disegnò con un disegno segreto e non appariscente gli avvenimenti inavvertiti: tragiche e livide luci d’una società che il vento del caso trascina in un corso di miserie senza nome, se caso può chiamarsi lo spostamento risultante della indigenza, della bassezza, della ignavia politica (pubblica), della cieca ignoranza, della paura d’una razza e dell’avidità e dell’orgoglio d’un’altra. Se caso può chiamarsi la noia della vita, sensuale e disorganica, che fa ricercare nel male i veleni di un più fosco desiderio, d’una più abominevole discesa verso cupi silenzi. –
Alte anime vivono fra quella grigia plebe e quei mali. Sono pilastri residui d’una grandezza del passato o forse pilastri di una grandezza futura, fra sterpi mortiferi.
La mescolanza degli apporti storici e teoretici più disparati, di cui si plasmò e si plasma tuttavia il nostro bizzarro e imprevedibile vivere, egli ne avvertì le deviazioni contaminantisi in un’espressione grottesca. Egli fissò con il genio del narratore e più dell’esegeta e dell’analista le autorappresentazioni dominatrici di quegli spiriti: e noi sappiamo che altre rappresentazioni, se non le medesime, certo egualmente passibili di errore ed egualmente dirette conducono il vano spasimo della nostra vita verso il necessario cammino. –
Il barocco lombardo di quel tempo ha tenuissimi tocchi e una grandiosa tristezza. Solo un occhio lungamente esercitato può ridisegnare la curva dei ricchi vassoî, o dei boccali d’argento liscio. –
E sopra ogni cosa un’idea si leva che nulla può abbattere, fastigio marmoreo nella tempesta, una luce che nessun flutto raggiunge: in questo si placano gli occhî e il pensiero di Lucia.
Scrittore degli scrittori, egli visse prima la sua meravigliosa annotazione e il continuo riferimento del male antico al nuovo aumenta la risuonanza tragica di ogni pensiero. Volle poi che il suo dire fosse quello che veramente ognun dice, ogni nato della sua molteplice terra e non la trombazza roca d’un idioma impossibile che nessuno parla, non solo, e sarebbe il male minore, ma che nessuno pensa né parlando a sé o al suo amico, né alla sua ragazza, né a Dio.
Bisogna leggere e profondamente scolpire nella memoria e nell’anima ciò che Giovanni Amadio Fichte scrive nei capitoli terzo e quarto dei suoi discorsi alla nazione tedesca per comprendere che non la vanità d’accademico e non il gusto ambizioso di letterato giovincello reduce da Parigi con le primizie acerbette della moda può aver imposto al suo animo di volerla finire una buona volta, di finirla con la grottesca bestialità dei toni asineschi degli asini che fanno da sei secoli i rigattieri degli umanisti a freddo. Un conto è disseppellire Cicerone e scrivere la Canzone alla Vergine, o trattati di geografia; un conto è scrivere gli esametri dell’Affrica, o chiamarsi Lorenzo Valla, o Marsilio Ficino, o anche Giovanni Pontano e contraffare il latino del De officiis alla Poggio Bracciolini; e un altro, un ben altro e miserevole conto è sbrodolare sopra un popolo di melensi imbecilli, incapaci d’ogni originalità dell’anima e della coscienza, squadroni di endecasillabi beoti con dodici sillabe e incartapecorirsi così per tutta l’eternità. L’Italia liberata dai Goti! Ah! Peccato che mentre un così nobile poema in endecasillabi, santissimo sacramento, veniva dato alle stampe un sifilitico la conquistasse con ottanta cavalli.
Egli volle parlare da uomo agli uomini, ai miserabili uomini: ed ebbe compagno nella fatica un altro grandissimo disgraziato conte suo coetaneo, molto macilento della persona. Anche costui rifiutò alfine la spazzatura della tronfia magniloquenza e la sua parola ha una nitidezza lunare: dolce e chiara è la notte! Ed anche costui visse, prima di scriverla, la sua tragica nota.
Quello stesso amore per cui disegnò la dolce figura d’una popolana, sia pur graveolente, lo condusse a dire le cose vere delle anime con le vere parole che la stirpe mescolata e bizzarra usa nei sogni, nei sorrisi e dolori. Dipinse d’altronde anche marchesi, conti e duchi, sia nazionali che esteri, e non meno bene che quelli dal ciuffo.
Vassoî d’argento vengono recati da servi inguantati nello splendore dei palazzi: e su di essi è il pane, il pane che ingozza e a furia di lacrime anche va giù.
Vengono serviti sontuosi confetti, portate di sciroppi, dolci, gelati. Nasazzi turgidi di leguleî dal sì sempre pronto fuorescono dai calici finissimi dove i rossi vini occidentali mettono i caldi rubini o i granati dalle ombre profonde. E scorte di giovinastri sono intorno alle ville munite; giocano il soldo e poi l’anima e la vita ed ogni cosa. Rossi tramonti popolano di caldi e misteriosi fantasmi le anime e non vi è alcuna pena perché il Re Cattolico vigila circa ogni terra e ogni mare, e circa tutte le terre lontane e calde ed i mari dove con un suo brevetto pochi avventurosi vanno o per diffondere il monito sublime di Ignazio o semplicemente «para buscar la plata».
Il Sommo Vicario è con il Re Cattolico in un eguale pensiero e volere: il bene di tutta la Cristianità, la salute di tutti gli uomini. Così non vi è contrasto, né lite.
Michelangiolo Amorigi veste da bravi i compagni di gioco. Mentre il Signore chiama Matteo, un viso di giovane, sensualmente distratto, chiede «Chi cerca costui?» Il vino imporpora le sue floride gote e guarda curioso, con sorrisetto quasi bolognese. E nessun pensiero lo sgomenta.
Una bella piuma ha nel cappello di velluto violetto e una sottile spada al fianco. Le gambe nervose si vedono di là dallo sgabello. Non vi è pena, né pensiero: rosse e fervide luci sono il termine della calda, verde pianura e nelle vene pulsa il fervido sangue dell’adolescenza. –
Il soldo è sicuro. Lesta è la spada.
Nei vicoli, sotto gli archi dei passaggi, passano ridendo i micheletti della ronda e qualche puttana si rimpiatta fra sgangherate risate. «Nombre de Dios! Si fuera para farrear!». Poi quando la ronda si perde con una cadenza lontana e la luna fa diagonali di ombre e di biancore sui quadri delle case e sui tetti, si può chieder conto a uno: uno che passerà. Una spallata. E perché, e per come. – La voce è bassa e concitata. Ma qualche finestra si apre e donne in camicia cominciano a invocare la Madonna. – Il soldo comanda e la spada lavora. –
Il Signore comandò che Matteo e lasciasse i dadi ed il soldo del mondo <e> lo seguisse e il Caravaggio vide il Signore e Matteo e poi dipinse giovinastri dalle turgide labbra, cocchieri e sgherri e fervidi garzoni. Meglio girare alla larga.
Nei chiusi palazzi vi sono sale con volte dipinte, tubi di penombra: a crociera nella penombra arriva da minori volte il lume di tutti, che finestrette misurano avaramente.
Quivi dietro grate ingiuste e irremovibili pallidi visi, occhî cerchiati di rinunce distruggitrici scrutano la sana vita degli altri e la luce, la perduta luce del mondo polveroso e rivoltolato dove sono le spade, le piume, le corse affannose ed il sangue. E nelle tarde notti ed insonni i prorompenti canti di gioventù.
Negli atroci silenzî la legge si fa irreale, perché nessun termine di giusto riferimento le è conceduto.
Nulla esiste più, nulla è più possibile socialmente: soltanto sono reali gli impulsi di una fuggente individualità. Domani, sarà tardi. Memento quia pulvis es. L’ammonizione discende fra gli orrori dell’anima, ardente come i soli della Spagna, come l’espressione unica del conoscibile ed acquista un senso individuale e bestia esattamente antinomico a quello sociale e legatore per cui fu pronunciata. Non vi è legge se non nelle viscere torturate.
Un cavaliere meravigliosamente perverso attende, come un aspide, tra i fiori del pazzo giardino.
Al confine della terra sono muniti castelli. Poiché la saggezza e l’antico consiglio dei signori sulla marina tenne indietro dal frumentone loro le corse di venturose masnade e l’occhiuto vigilare valse ad aver ville senza affanno sul Brenta, l’Adige sereno e munizioni e guardia sull’Adda: e il Re Cattolico è re in casa sua e Paolo Sarpi crede nel Papa, ma più ancora nel Doge, così da presso, ben da presso alla sede (1) è il confine della terra lombarda, fra selvaggi monti e le spirali del fiume.
Lì, esulando a cavallo dalla città con seguito e tromba e lasciando a Sua Eccellenza «un’ambasceria d’insolenze» si rintanò chi, forse, non voleva patire dominio. E volle dominare dalla sua rocca sui mangiapolenta, memore della vecchia e grande dominazione dei suoi. Ebbe seguito d’anime e di canaglie, come ogni dominatore. Nella città lontana e sommessa, sui vecchî archi di fosco mattone è ancora il bianco d’un riquadro: vi è la croce, che <i> Melanesi accampava nel maggio, i riottosi, dolenti poi, al «buon Barbarossa», e la vipera che trangugia un nato.
Mentre quelli dal ciuffo bastonano chi cammina con superbia perché impari a tener bassa la testa davanti a lui più ancora che davanti a Sua Eccellenza ed al Re, ecco Sua Eccellenza deve occuparsi di molte cose. Deve condurre la guerra del Casalese e la pace del Ducato. Pare che, non ostante l’arte fine e il gran disegnare di Sua Eccellenza, ogni disegno di quella guerra venisse a rovescio, come accade talora anche ai più sperimentati condottieri.
Un po’ meglio, ma non molto andava la pace. Ed anche la pace si varrà di qualche occorrenza movimentata, per dare modo alla sua saggezza di provarsi in provvedimenti. Vi erano uomini di buon senso, ed altri dottissimi. Quale tristezza il dover riscontrare che al Maestro dei maestri successero gli scolari, e scolari degli scolari, e poi edizioni ed esegesi in usum Augustinianum e un cosiffatto ginnasio durò duemila anni! Ipse dixit dice ognuno che pensi una castroneria. Poiché il superbo costruttore dell’Organon, il sistematore delle perì tà zoa istorìai, l’eccelso indagatore della Nicomacheia servì a far ragionare Don Ferrante. Così disparati apporti teoretici e storici confluiscono in una grottesca realtà.
Peggio ancora ragionavano gli altri, quando si posero alle calcagna del villano, spargitore di malefizî. Essi non pensavano che sulla loro biancheria personale c’era molto da ridire.
Gerolamo Cardano risolse l’equazione di terzo grado e scrisse il De Rerum Caelestium!
Ma una tragica sinfonia inizia il poema: una mucca magra trottola per un sentiero ai primi freddi d’una sera d’ottobre. Un ordinato per paura non adempie a quello a cui è ordinato. Un governatore, anzi dieci governatori fanno stampare dei divieti che dovrebbero essere legge e non sono. Solo 25 lettori hanno compreso l’atroce sarcasmo di ciò. Gli altri hanno interpretato come una diligenza di storico. I primi motivi s’intrecciano e si fondono: già si delinea la tragedia spaventosa di una società senza norma e senza volere, che il caso allora travolge. Passano poi su questa le masnade a cui han dato passo i valichi rètici. I villani discorrono tra di loro abbastanza sensatamente e con un fondo che par giusto e ragionevole. Il frumentone vien sù. Lavorano e lavorano e gli pare che al lavoro debba seguire un pane sicuro, una vita tranquilla.
Ma ci sono cavalli e fanti e altre razze nel mondo: istinti profondi di difesa e di lotta, deliberate offese, ed altro volere ed altre forze, ed altri sogni ed altre follie che non quelli abbastanza onesti e un po’ chiusi della casuccia e del campicello. Anche l’antico piagnucolava sul suo campicello vitelli e calpestate carote: poi dovette scrivere gli «alti versi», di altissima e profondissima sonorità, e rigare diritto.
E così, mentre ai venturosi sognatori della potenza l’ordigno per essi inconducibile degli atti prende la mano e solo un gran sogno fu loro possibile, ai raccolti ricercatori della giusta laboriosa tranquillità e della onesta polenta piovono sulla groppa dure legnate. Spagna! Lombardia!
Tra le due espressioni conduttrici vi è chi preferisce la seconda, chi piuttosto la prima. Don Chisciotte, Renzo.
Collalto Wallenstein conduce i suoi grandi cavalli e Lutero vive come un idolo di santo cattolico nell’anima dei riformati.
Così che nella casa del prete abbeverano i loro stalloni e disegnano porcherie e grotteschi sui muri. Le mucche devono fare dell’alpinismo, e insieme con esse possono anche andare le donne con il loro rosario, visto che la gita non costa nulla e dacché le soldatesche di passaggio rappresentano un certo pericolo anche per loro.
Don Ferrante seguita a raccogliere ordinatamente la sua biblioteca e a ragionare meglio degli altri. È una persona colta. Guida l’opinione. Se vivesse oggi molte redazioni di quotidiani se lo contenderebbero. C’è nello scaffale un posto per il «Principe» e un altro per il «Saggiatore» ma non sono proprio i suoi santi. Piante più grosse, nella bizzarra foresta, hanno avviluppato e soffocato. (2)
Ma la tragica sinfonia vuol scendere nelle viscere proprie della stirpe, da poi che sembra i suoi tocchi più tremendi e più alti non essere avvertiti dalle anime.
Da che poi i mali palesi ed esterni, quali sono le percosse, l’arbitrio, la derisione, il saccheggio, la contumelia, il patteggiamento, la prepotenza, la miseria, la paura e quelli che costituiscono l’oscura germinazione dei primi, quali sono l’ignavia dell’anima e i suoi nefandi errori nel conoscere e nell’eleggere, il creder possibile il bene d’uno senza quello di tutti, l’amare il suo figlio e non la sua figlia, il seppellire da vivo chi è nato come noi e la luce deve, deve arrivare ad ognuno, l’accettare come vita una chiusa dabbenaggine, come saggezza e onestà il lavoro solo dei muscoli e l’abnegazione della campestre fatica, l’affidare la propria storia e il destino al volere di altri, il proprio pensiero ad una regola imposta da altri e perciò non sentita, il proprio sapere rivangarlo fuori da rigovernature di rigovernature; da poi che i tocchi profondi ed oscuri non si palesano alle anime, ebbene ultimo consentimento: cioè sciagura a cui consentire: una povera terra, ultimo male: la fame. –
Gli editti di Sua Eccellenza e il furore della plebaglia sono i gemiti e gli alterni sussulti d’un corpo che si contorce già nella polvere. Sua eccellenza comanda che il pane sia dato a buon prezzo: e sa o indovina ciò che significa questo comando. Ma pensa: per oggi vivremo. Le soldatesche devono mangiare e il paese le porta. I grandi devono vivere da grandi, e il paese li porta. I ragazzotti hanno una piuma e una spada e vanno nelle strade del paese. I villani sono pieni di buon senso.
I soldati di Wallenstein non digiunano. Sua Eccellenza comanda che il pane sia dato a buon prezzo e un siffatto comandamento è approvato da tutti gli animi onesti.
A proposito: c’erano anche alcuni luoghi dove si insegnava a chi volesse ad imparare il latino. Pochi capivano il latino e questi rari luoghi erano presso gli Scolopii, i Gesuiti, i Barnabiti. Si chiamavano con il nome strano di scuole.
E i «provvedimenti del governo» e il prezzo del pane ha il suo sbocco.
Quando i mucchi lerci delle cenciose carogne andavano al deposito delle spazzature perché la grassa terra ne facesse sua polpa, e fiaschi di vino con bieche canzoni toglievano dapprima lo spavento dell’odore funebre, e poi anche quello pareva una vita e un lavoro ristoratore, allora alti pensieri conchiudono il meraviglioso poema.
Luci salubri succedono finalmente ai lividori dello Spagnoletto. La sana vita di un popolo che potrebbe essere sano, impregna ripetutamente la credente donna. La sua fede e i suoi figli portano nella terra luminosa una gioconda attività. –
Renzo, il maschio bifolco, che elesse ed elegge, vuole che i suoi figli imparino a scrivere. Ma non si trattiene dall’esibirci un’ultima prova di buon senso villereccio e finisce con alcune proposizioni che Giosuè Carducci prese sul serio.
Longone: finito questa riesumazione Manzoniana il 4 agosto 1924 mattina.
1. Est sedes Itagliae regni Modetia Magni nello stemma dei Durini di Monza, <…>
2. Volendo vederne la ragione dialettica. È già in atto in questo ostracismo la reazione religiosa (Molina, Corneille, Kant) contro il nihilismo fiorentino, sbocco del nostro Rinascimento.
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