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Fame a Longone.
Meditazione e rito di Carlo Emilio Gadda primogenito

Federica G. Pedriali

Sì, l’odore di mio figlio è come l’odore di un campo fertile che il Signore ha benedetto. Iddio ti dia la rugiada del cielo, la fertilità della terra e abbondanza di frumento e di mosto! Ti servano i popoli e si inchinino a te le nazioni. Sii padrone dei tuoi fratelli e i figli di tua madre s’inchinino dinanzi a te.

Fame di primogenito

Gemelli lottano nel ventre di Rebecca, moglie di Isacco. I due popoli nati da lei si separeranno, questo il piano di Dio, e Dio basta eccome a giustificare la preferenza materna per il gemello minore, quello che, secondo il piano, il maggiore servirà. Ignaro per avanzata età, o forse per desiderio di quieto vivere, Isacco. Ignaro cioè del ridicolo cui le manovre di madre, il tradimento ai danni del primogenito, hanno ridotto il patriarca e tramite di Dio. Ma tant’è. Genesi è anche storia di donne in combutta col divino su faccende domestiche, questioni di fertilità. Ci scappa la benedizione per Giacobbe, già profittatore (profittatore maternamente istigato) della fame di Esaù, ed ora profittatore pure del padre che non sa riconoscere il suo primo figlio. Una benedizione però non si ritratta, quella difatti ormai lavora. E poi chi mai contesterà l’irregolarità procedurale, se Dio stesso, col preferire Giacobbe-preferito-di-madre, ha sovvertito la legge? Non certo Isacco. «Hai tu una sola benedizione, padre mio?», chiede incredulo l’ex-avente diritto di fronte alla legalità della commedia degli errori in cui si sono risolte le sacre scritture. La sanzione privativa paterna non lascia dubbi: le origini della specie impongono moltiplicazione e scarto, il mondo va cioè popolato, e presto. E ad ogni nuova generazione, tra i figli, il rinnovarsi della lotta per la selezione parentale, il narrema fondante del libro del Genesi:

Priva di fertilità sarà la tua dimora e senza la rugiada del cielo. Vivrai della tua spada e servirai tuo fratello; ma quando ti rivolterai, ne scuoterai il giogo dal tuo collo.

Rivoltarsi, scuotere gioghi, avendo servito. Consolazione assai magra, per uno che ha peccato per fame, e più forse per fiducia nell’inalienabilità ultima del diritto. E come credere in un termine alla schiavitù – per sé? per la propria stirpe?

La mensa e gli eroi

Inutile raccomandargli la regolazione dei visceri, la dieta cristiana, l’integrazione alimentare – Gadda ha una temibile fame di giustizia. In un tempo primo, infatti, il bimbo, ossia Gadda in quanto bimbo è stato unicamente caro alla madre. Poi è toccata la primogenitura, e peggio, nel circolo vizioso dell’obbligo conoscitivo. Perché non esistono due cose uguali. Due cose disuguali possono però avere la stessa origine, o matrice. Questione questa delicata, affatto intrigante per la teoresi, ma che il principio economico, meno sensibile agli intrighi della speculazione, risolve in quattro e quattr’otto. Infinitamente germinante, il reale difatti continuamente elegge – non sosterrà entrambi i disuguali, non allo stesso modo. E chi governa questo vizio? Chi cioè inscrive nella disuguaglianza quel qualcosa che dal soggetto di conoscenza ottiene il criterio elettivo, l’investimento di sostanza? Una ragione avanzante finalisticamente in una biologia? Se così fosse, si potrebbe ancora ben sperare, pur temendo. Non si tratterà, piuttosto, di un torpido dinamismo materico, tendente alla continuità? narcisisticamente intento alla progettazione dell’erede? dell’erede che assicura la continuità?

Ovvero, ancora e sempre, anche in una più aggiornata cosmogonia, il problema dello scarto. Dell’individuo diversamente euristico ma non diversamente erede. Forse anche migliore erede, eppure sacrificato. Sacrificato non però nel sacrificio glorioso di una significazione più vasta, ma per aporia costitutiva dell’atto di conoscenza. Che è polarizzazione partigiana, ad un fine (fine partigiano): originaria nell’origine. L’aporia, o ipocrisia, patita nei propri inizi. Perché a quella, la conoscenza, prestano scusa (ulteriore scusa) finzioni giustificative, ipocrisie compensative – ossia compensative a parole, per tenersi buono lo scartato. Compensazioni in totalità, sogno democratico, sogno utopico, riforma degli schemi, armonia prestabilita, armonia pregressa. In una generale aspirazione di comodo, spacciata per comune e condivisa: aspirazione anche generosa all’equanimità, ma poi sistematicamente messa al servizio del suo contrario.

A Gadda, non a caso, l’inghippo universale, non vera coinvoluzione, no, riaccende ogni volta il delirio di parte, di parte lesa ed offesa, a dispetto delle consolazioni della filosofia. Perché la collettività è l’insieme necessario di relazioni che legano ad un patto, il patto dell’esistenza; perché l’individuo, pensato da solo, in isolamento, equivale a un puro nulla. Perché non si dà rilancio di identità, non conquista di onnipotenza discorsiva che compensi la categorizzazione subita, l’ineleggibilità all’ordine del discorso in quanto prova secondaria, o difettiva. Perché i nuovi schemi e relativi miti non nascondono la pochezza pur sempre operativa dei vecchi narremi. Ed ecco, nella riaccensione, intervenire la fame come strumento di retribuzione, intervento a volte anche eccellentemente dissimulato – migliore dissimulazione e disperazione con cui esasperarsi, ad essere della progenie di Esaù, per la subita alienabilità del diritto (la dissimulazione è pure il mezzo disperato contro cui Kant avverte, e che a Gadda, in margine a Kant, fa postillare verità tragica):

farò sparir dalla mensa, una dopo l’altra le succulente vivande e gli artistici piatti e i nitidi vasi d’oro e d’argento […]. E non solo queste cose pesanti ed estese dispariranno, ma così come labenti spetri, mostella labentia, dissolverò li eroi e le armi e tutto ciò che è nell’anima e nell’amor nostro.

L’offerta al Pargolo

L’io è antropofago per conato formale e con alimento della sua virtù guerriera. Incorpora icone, simulacri, modi della parola, parti della persona, la persona intera. È così che chiede a Dio come evolversi sullo spunto tematico trasmesso dal repertorio genetico. Con Dio di mezzo, ossia con le figure parentali di mezzo, il nascente supporto unitario e singolo della sperata verità affronta lo sviluppo intestinale tra i riti di iniziazione al collettivo, alla collettività – ogni tappa felicemente superata una celebrazione della cumulata ingestione della carne dei maggiori. Dio però già si riversa in nuovi umidi e tramessi, già l’urto biologico tra opposte cariche narcisistiche invita a ritentare, con miglior sperma e fortuna, l’erede, il maschio, il maschio migliore, il campione della razza (le figlie, quando vengono, comportano invero poca spesa di cucina). C’è, cioè, nel calvario biogenetico, anche l’età della delusione filiale per il genitore che è tornato a figliare, e che infine mette, sì, in tavola, in un piatto che dovrebbe essere di minor conto, il frutto senza compagno della propria nuova incarnazione, la vera Natività. Cade la p maiuscola. L’io si vuole umile pastore in un diverso presepe, si vuole sazio, perché bisogna far mostra, con Dio, che il miracolo del dono che soddisfa tutti egualmente origina dall’equità della scienza praticata in cucina:

Ecco la mamma viene
Con un dolce pieno di gioia:
E i miei fratelli quanto me se ne mangiano.
La fetta pesa sulle ditine,
Come un dono troppo greve d’un re meraviglioso.

Eppure, a dispetto dello zelo, quel volere non è potere. Forse «il cuore non l’offriva; e lo sguardo del cielo non discese sovr’esso». Forse il cuore l’offriva, ma Dio si è lasciato cogliere in difetto di equità. Forse, cioè, la finzione democratica non è bastata a dissimulare una gestione familiare rimasta ferma alla benedizione unica dei tempi di Isacco. E per i non benedetti, per i non preferiti di madre, ancora e sempre il giogo della polarizzazione – ossia la servitù sotto l’identità dell’eletto, che altri non è che l’io filiale positivamente sussistente sul modello parentale.

Le geometrie della servitù. Le sbarre, gli occhi cerchiati, la contiguità del dentro e del fuori. Dentro, volumi chiusi, la tortura della luce che non arriva che per decurtazioni architettoniche, le finestrette, le volte minori. La tortura del suono, con occhi in ascolto anche di notte, a tarda notte, perché il di fuori è magnificamente vivo, oltre che contiguo. L’irrealtà della legge, il farsi irreale del principio per cui l’essere si struttura, fino a che nulla esiste più, «nulla è più possibile socialmente: soltanto sono reali gli impulsi di una fuggente individualità» – la servitù dell’inesistenza:

Domani, sarà tardi. Memento quia pulvis es. L’ammonizione discende fra gli orrori dell’anima, ardente come i soli della Spagna, come l’espressione unica del conoscibile ed acquista un senso individuale e bestia esattamente antinomico a quello sociale e legatore per cui fu pronunciata. Non vi è legge se non nelle viscere torturate.

Ovvero un vuoto paradossalmente dominato dalla legge, pur nella irrealtà d’ogni legge. Un vuoto identitario sempre più capace, per aumentata capienza: per ipertrofia dell’inidentità. Una spettrale mensa psichica sempre più piena delle capienze vive con cui è in contiguità e antinomia. E più il di fuori preme, evolutivo n + 1 o involutivo n - 1, e più il viscere n si fa capiente e contenitore, per esorcismo di sistema imperfetto, non coinvolgibile. A nulla del resto gli vale persino l’adesione euforica alla legge dell’n + 1, la sovraordinazione dell’io in funzione euristica a scopo pubblico, nella ragione collettiva. La sua euforia, anzi, serve solo ad esibire l’imperfezione di tutti gli n, specie dei supersistemi, in cui pur ben sperava, perché l’auspicata superordinazione emendativa con ascensione di livello o sistema o caos comporta, in realtà, nell’emendando, una totalitaria riduzione di complessità e differenziazione, il test pratico d’ammissione delle leggi di sistema.

E qui, o n si è fermato al pliocene, nel suo sviluppo intestinale, o non sbaglia a confondere n + 1 e gens, supersistema e superpadre. Coinvoluzione di totalità e superego che non per nulla suggerisce, in casi di eccesso di finalismo nella riduzione dell’individuo alla funzionalità dell’homo utilis (cittadino, lavoratore, soldato), la figura del Saturno divoratore dei suoi nati. Così n gioca al rialzo d’aporia, sull’aporia di base dell’atto di conoscenza; così cioè prova ad impaurirsi del suo Dio, pur cercando di incuterne il rispetto in quell’inerzia materica che passa per dinamismo evolutivo, ed è invece elezione erotica dell’euresi minima. Così, dunque, annuncia Giudizio e Rivelazione a partire dall’exemplum, la difformità del proprio destino di viscere n ed ex-pargolo p. Difformità che è da esibirsi perché è orrore, perché è ridicolo, perché è l’unica fonte di metodo e di conoscenza. Pericolosa professione di empiria che investe certo il progetto filosofico, certo il romanzo da farsi, sempre da farsi, in stato perenne di abbozzo per troppo azzardo psicopatico e caravaggesco sui materiali, sulla cultura tutta.

Ma se anche avverte il rialzo aporetico con cui la si denuncia, la torpidità universale lascia n ai suoi ozi, alla collazione del libro dei libri, a una scrittura vorace, vuota di esistenza e piena di esistente. Non c’è limite umano, o disumano, che questa, la voracità scrittoria, non riesca a rimuovere; non disciplina, filosofia inclusa, di cui non mostri irragione e ridicolo. A voler esibire irragione e ridicolo: a non voler proprio prendersela con filosofia – che appunto altro non è che una questione molto semplice e kantiana di buona volontà. Questo perlomeno sino al giorno della defecazione dall’esistente.

A tale vuoto ipertrofico viene passata, al più, un’offerta di lenimento. Il sano buon senso. La regola riequilibrante della mezza mela, del pane guarda caso integrato, del mezzo alfabeto vitaminico, dalla A alla H. Ecco il pasto ideale dell’uomo giusto. E per i giorni particolarmente difficili, il brodino cristiano, il brodino sedativo della Roche – tutto il potere del Sedobrol. Per i dolori cronici, invece, l’offerta materna. Una zuppa lunga, biada dell’uomo. Alcuni sottaceti. Tre peperoncini verdastri, stanati, questi, dalla numerologia più tranquillante, di più sicuro effetto antropologico. Stanano difatti, in similitudine, da un’altra figura del tre, un’offerta di farmaco, di nuova tossicità, a rimedio dell’endogena:

Ingegnandosi dentro il buio della cucina, dal fondo di un dimenticato vaso la sua speranza tenace era pervenuta a stanare alcuni sottaceti: e quei tre peperoncini verdastri, vizzi, aggiustatili in un piattino slabbrato, da caffé, tornata poi nella sala aveva deposto il piattino sulla tavola, nell’atto devoto di Melchiorre che depone in offerta, davanti al Pargolo, il vasello prezioso della mirra.

Dei tre magi, Melchiorre, simbolo di penitenza. Dei tre doni, la mirra, prefigurazione della passione di Cristo. Un’offerta di cibo, poco cibo, come farmaco: e di farmaco come cibo. Un farmaco versatile, destinato in un destino tutto viscerale alle viscere tanto del vivo che del morto. Una parodia della nevrosi fagica, della fissazione sul tempo primo, in cui il bimbo era, sì, lo si ripeta sino allo stordimento (ma, ripetendo, anche si frastorni con metodo chi in queste cose osa leggere), unico nell’amore della madre. Una rassicurazione di equità, sul modello trinitario della tripartizione in uno, dell’unità del tre. Una supplica che è pure un rimprovero, cioè un invito a vivere, se il figlio è anima. A morire, se il figlio è morte:

Così la morte mangerai,
che mangia gli uomini e il morire finirà,
morta la morte.

è strano che il figlio, gran fagocitatore di Shakespeare, non si sia nutrito, per l’occasione, di questi versi.

La campagna apparita

Sul paese della fame appare il tempo, per volontà cosmica di ritorno. Riparte la dialettica di stagioni, giorni, ore e cibi, una liturgia alimentare accomunante riattiva la perpetuità del ciclo. A Lukones, o Longone, non fa molta differenza, e comunque nel paese del banzavois, granturco panciavuota, si riprende a mangiare puchero, sul mezzogiorno, perché la scena del rito stagionale sia pronta, sempre più pronta. Il rito ha avuto il suo semestre invernale, di riposo, come ogni cosa della terra, ed ora torna a manifestarsi in un’estate interminabile.

Torna il pasto del figlio, dalla memoria del tempo. Riccio, granchio, scorpione marino, pesce spada, la tassonomia non è chiara. Un piccolo, certo, uno appena nato, ma grande abbastanza da avere le dimensioni del neonato umano. Deglutito intero dalla testa, crudo o bollito. Provvisto di mandibole a forma di zanche, o di spada. Violato infine nelle difese, ridotta in schegge la corazza: cavatane fuori, a forza e in trefoli, l’innocenza di carne marina. Un discreto polimorfo, e un discreto pasto, concresciuti su alternative e compossibilità – il testimoniale collettivo ci lavora sopra, perché ancora si ha da vedere animale compagno.

Torna cioè il tabù, tra chiacchiere di popolo, truismi della parola ufficiale, prescrizioni dietetiche da alimentazione unica, su cibo unico; torna l’utopia del perfetto condizionamento dello spirito, della rieducazione da pane integrale. Ma altro e più profondo è l’orrore discorsivo per il Lucifero privo di pertugio inguinale: sé chiuso in sé, sé attossicato dal sé e dal pasto, dai pasti che hanno seguito il pasto. Crono, anzi, più che Lucifero – prigioniero dei suoi prigionieri, e più ancora, prigioniero del neonato senza eguali, del neonato umano inghiottito intero, forzatane sadicamente la forma o corazza-Forma in un prolungamento antropofagico del parto. Questo il vero incubo del mito, nonostante il travestimento in favola locale.

Un incubo maturato dall’assunzione dei Maggiori al montare dell’intaso da Modello inservibile, o servibile, al più, per la verifica distruttiva di fattori euristici preclusi. L’incubo della capienza digestiva caduta in mano nemica – come col ventre di Troia. Ossia l’orrore del tabù introdotto nell’interiorità per ferire, per lacerare il gastrico dove il pensiero, per troppo carico analogico e intralinguistico, ha somatizzato l’ansia in ansa, in svolta pericolosissima della colpa. La legge è però davvero consustanziale all’essere, o meglio certa legge è consustanziale a certi esseri. Sangue di gabelliere, discendente di giustiziere giusto, e aspirante traghettatore infernale, il figlio della fame è difatti anche il continuatore d’eccezione d’un sapere biologicamente avvertito. Non per nulla è sangue venuto per primo: sangue e sapere che, proprio per questo, non teme d’azzardare la denuncia, la verità, il dolore, il gigantismo mitico, la fantasia di potenza, l’abbandono delle pacificazioni della teoresi.

Da un tempo che potrebbe essere solo antropologico e non è, torna cioè ad apparire l’appartenenza del soggetto ad una storia, il suo exemplum per la sua Rivelazione e Giudizio. Exemplum paradossalmente anche inesemplare, voluto e tenuto con esclusività, perché storia di individuo singolo, unico, a dispetto di dati anagrafici e psicologici non unici. In quella storia ed esclusività un Crono lacero e prigioniero gira attorno a una madre. Girano pure il tarlo nel legno, il vento per le stanze, il gastrico sulle ferite del gastrico. Gira insomma il cosmo nella vacuità cosmica. E gira anche la madre sul suo dolore di madre, inseguendo in immagine il figlio che non ripasserà, il secondogenito, ah!

Un inesausto metaforismo la incrocia sulle sue ellissi, in un dialogo della sordità, della pena, dello scherno – disposizione diegetica delle cose e dei mondi all’accumulo e alla maturazione, per il transito verso il discrimine che nuovamente esaurirà il tempo. Disposizione peraltro anche resistita, perché la storia, con tutto il suo terribile segreto, rischia pure la banalità di cosa unica, sì, ma ammessa, messa agli atti. Messa per sempre e per iscritto nel regno delle responsabilità. Per questo è cosa anche da resistersi rendendosi intransitivi, o come dire intransitabili all’eseguibilità del racconto. Quasi un transeat a me che per poco, invero proprio per poco, trattenga dal far toccare gli esiti ultimi, l’accumulo ultimo e decisivo – come se, trattenendo, ancora si potesse cambiare qualcosa.

Ed ecco, infatti, dopo le esibizioni di chiusura anticipata tra segnalazioni di non transito, anzi e meglio, tra riprese di modalità iterativo-incipitarie per impedire o dare a vedere d’impedire il progresso del tempo, ecco dunque all’altro capo e del libro e del male l’accumulo preconclusivo dei segni, di tutti i segni, non uno escluso, fame non esclusa, per la scena della veglia e del cordoglio collettivo per il pesce, maresciallo cerimoniere e quasi psicagogo il popolo. Il tableau vivant, ciclicamente vivant – vivo e vivente quanto può esserlo una morte in vita che non cessi di ripetersi da premesse incancellabili –, in memoria della tenca melmosa del venerdì. Sullo sfondo, se è legittimo parlare di sfondi in un universo invero volto in uno, il test astronomico-liturgico dell’Addolorata. L’inganno equinoziale della luce, un settembre colto nell’ora in cui pareggiando le durate pare anche eguagliare l’aprile. Che è quando cadono, che è quando cioè sono caduti gli angeli, in guerra. Angeli-echinodermi, o cavalieri-echinodermi, o santi-echinodermi – angeli in verità poco o nulla metamorfici, e di cui è comunque prudente dire al plurale. Armata pluralità umbratile adesso proliferante nello sfondo, per accumulo dei sensi di colpa nei loro riguardi, eppure sempre risingolarizzabile per il primo piano della rabbia infernale: che è dove la scena, o storia, va compiutamente allestita, così che il figlio la sorprenda e si sorprenda nella fissità di cosa in eterno compromessa.

Il pesce del venerdì. Ergo un Cristo di pesce, un pesce della memoria. Pesce-dio ben sconcio, anche a guardare superficialmente nei segni. Sconcezza della singolarità, dal centro della pluralità non meno sconcia del collettivo. Faccenda, questa della corporeità del corpo sociale, invero sempre assai strana – qui, non eccezionalmente, collude con le ombre. Sconcezza, cioè, dell’ombra ritornata tra i corpi, tra troppi corpi. Ossia ombra degradata del Martire, del Caduto di guerra che si rimanifesta, si rifà corpo. Che in morte continua a prestarsi ad elezioni di Somiglianza o somiglianza al Modello: facendosi inseguire in immagine da chi, ed è una madre, nel dolore non smette di percorrere i sentieri di casa, tra brevi pause di rito, alle congiunzioni fisse del rito, nel luogo deputato all’attesa. Luogo altrimenti noto al figlio maggiore e Gonzalo come sala della fame, alias sala da pranzo – lì difatti infine lo attende, lui povero cristo, il corpo fetente dell’altro cristo, il solo martire legalmente riconosciuto in famiglia, e ancora oggetto di offerta. Perché che altro è questo pesce del venerdì se non un’offerta? Offerta di transustanziazione, alla rovescia – dalla memoria, che non ingiallisce (non è una fotografia, per quanto anche guardi vecchie fotografie), ad una pantanosa physis gialla.

Ovvero, e più ancora. Degradazione della madre, piazzata al centro del penultimo arazzo del Tempo, per le battute estreme del ciclo, Les trois saisons. L’automne. Al centro della scena di folla e di putredine, col pesce. Madonna dagli occhi in eterno arrossati dalla pietà per le creature. Perché quelle, le creature, come tanti odorosi e giovinetti funghi (ultima modesta natività dell’anno: dell’anno gaddiano, a tre battute e con poco seguito nel semestre invernale, appena passato l’equinozio di settembre) la riconnettono alla Creatura automaticamente, per automaticità dell’amore materno, ed esclusivamente. Miracolo di reciprocazione tra singolarità (del divino endofamiliare) e indistinzione (del collettivo esterno).

E il tutto è un miracolo invero di troppo. Ricevuto come tale con scatto reattivo di dinamiche psichiche primordiali, riemerse dalla notte dei Tabù per istinto postremo alla difesa e all’offesa. Il pacchetto, o set, o fondamentale kit, del tutto il calice, coraggio, hop!, così ridicolmente adatto a quello scherno di cristo cui Gonzalo, col suo tenace non essere o non voler essere il non Gonzalo (a suo modo affermatività nella negazione, e alla faccia del cosiddetto soggetto debole), si è intestardito a ridursi, pensando di potersi ancora giocare, con vantaggio, la dannazione eterna dei visceri.

Difatti. Dissacrare l’Uno («Peccato che uno si fosse buttato in aria, l’aria bonna, a quel modo: ma la gravitazione aveva funzionato, il 9,81»). Disperdere i molti e proci. Accusare la madre, con la scusa dei molti. Minacciarne la canna, che è quella cosa e parte del corpo che terribilmente s’intasa avendo tracannato orrori di desiderio («Se ti trovo ancora una volta nel braco dei maiali, scannerò te e loro»). E ricordare, soprattutto ricordare, credere di ricordare: ricordare per accusare, autoaccusandosi. Che è certo il miglior modo per tener testa al tempo – non dalla testa, no, ma dal reparto trippe. Perché quello, il tempo, adesso che dal discrimine della stagione precipita come mirra caustica nel cavo addominale (in questo immensamente superiore al tempo dell’infanzia, dove il carnevale del rifiuto precipitava al massimo il mal di pancia alle merde: eppure è lì che tutto è stato scritto), già imbalsama la carne viva di questa storia nella precisione immarcescibile degli ultimi gesti (precisione peraltro anche precisamente degradata: la degradazione, così giusta, così moralmente giusta, della lezione del testo nei suoi due ultimi tratti):

Traversò la terrazza e la sala, rovesciò a terra il cestello con tutti i funghi; gettò via dal piatto la viscidezza gialla della bestia, senza toccarla.
Salì alla sua camera, dove, aperto alla pagina, lo attendeva il libro. Prese invece la valigetta, la riempì confusamente del necessario, povera suppellettile, ridiscese tutte le scale, uscì da basso. I lari gli dicevano senza poterlo seguire, gli dicevano dalla camera «Addio! Addio».

Ad aggressione avvenuta ed alleviata, un’alba postluciferina ma senza pertugi sulla possibilità inventarierà la scena della campagna nuovamente riapparita. È funzionaria diligente del catasto del tempo. Diligente e puntuale alle consegne. Ha da consegnare, alle germinazioni del ciclo venturo, l’ennesima messa agli atti di questa storia. Storia fondata su un’avversativa, su un’avversione che cioè rifonda tutti gli avversativi, anche quelli, lasciati sospesi, dell’utopia – per disaccordo con l’utopia, conforto degli scartati; nell’abbandono della legge, per incoinvolgibile, per incoinvolto amore di legge.

Sul tavolo un libro aperto, una fotografia del fratello di lui, ragazzo dal volto sorridente, dopo tant’anni!: con una mano sul manubrio della mitragliatrice: era visibile, in parte, la struttura del velivolo. Uno degli intrusi indugiò a guardare la fotografia, e lesse poi alcune righe nel libro aperto. «…. Ma le leggi della perfetta città devono….».

University of Edinburgh

Nota esplicativo-tensiva

In epigrafe le parole di Isacco a Giacobbe, nell’atto di benedirlo credendolo Esaù (Gen. 27, 27-29). Sempre da Gen. 27 le citazioni nel paragrafo e premessa minima Fame di primogenito (Gen. 27,38 e 39-40). Di nuovo molto stringata la seconda premessa, La mensa e gli eroi – prima lontana approssimazione a quella spiacevole agape, o tentata dissoluzione gastrica, che sarà argomento soprattutto dell’ultimo paragrafo. Da Meditazione, SVP 675, la cit. in chiusura; v. SVP 716, per una ripresa autoesplicativa («Quando dico “farò sparire li eroi” […]»). Cfr. Psicanalisi e letteratura, SGF I 470, per il perno concettuale: unicamente caro alla madre (definizione calzante del soggetto e figlio unico, nel tempo davvero perduto che precedeva la primogenitura). E v. I. Kant, La pedagogia, trad. A. Valdarini (Torino: Paravia, s.d.7 – una copia, annotata, di questa edizione è conservata presso il Fondo Gadda, Biblioteca del Burcardo, Roma): 86, e anche 58, per quell’altro perno (perno sottolineato e postillato da mano gaddiana, e di rado la mano è quella cosa mozza che scrive da sé, per quanto Calvino un po’ ci sperasse): «la dissimulazione è un mezzo disperato». Da Roscioni, in parte, e all’origine di questo studio, lo spunto dell’erede (Roscioni 1995a: 28). Ovvero l’idea del narrabile (non esclusivamente del narrabile ottocentesco) come tensione anche strutturale all’identificazione dell’erede / eliminazione del non erede.

Entrando nel merito di una fame che fu «insaziabile, serpentesca, cannibalesca» (Giornale, SGF II 684) non solo nelle prove estreme della fame di prigionia, o per voracità verso tutto e tutti. Offerta al Pargolo è titolo-condensazione del sintagma, da Cognizione, RR I 697: «nell’atto devoto di Melchiorre che depone in offerta, davanti al Pargolo» – estratto poi citato per esteso in corpo al testo. Le altre citazioni esplicitate vengono rispettivamente da: Silente locomotore, Gadda 1993a: 30-31, vv. 31-35 (Ecco la mamma viene); A. Manzoni, I promessi sposi, a cura di L. Caretti (Torino: Einaudi, 1971, 2 voll.), I, 183 (il cuore non l’offriva – con richiamo al sacrificio all’erede da parte della prima Gertrude, nel Fermo, e conseguente declinazione di Esaù e servitù nel Gertrude c’est moi gaddiano; c’est moi invero molto speciale e da cui parte la diversa declinazione, altro era il contesto, di Pedriali 2007c); Apologia manzoniana, SVP 594 (nulla è più possibile; Domani sarà tardi – cit. nella versione del ’24). Dal sonetto 146 i versi di Shakespeare, a chiudere. Per il resto, paragrafo a congestione e quasi indigestione di spunti – tutti però accorpati a buon fine, i.e., per non appesantire un discorso che vuole poter procedere rapidamente (o gaddianamente tendere verso le dimostrazioni che lo attendono), con spunti per lo più da Eros e Priapo, Meditazione e Cognizione. Cfr. Eros, SGF II 274, 298, 330, 332-34, 354, 374, a proposito di conato formale, virtù guerriera, calvario biogenetico, maschio migliore, antropofagia endofamiliare, ingestione del modello semplice o cumulata, e molto altro ancora. O si veda Meditazione, SVP 754-55, 795, 810, 812, circa la non coinvolgibilità dei sistemi imperfetti, la libertà di adempiere la legge come passaggio di sistema, il Saturno-supersistema annichilatore dei suoi nati, o il motto eternamente variato redento e coinvolto o annichilato. O ancora, Cognizione, RR I 621, 623, 683, per l’idea dei dadi sedativi Sedobrol, l’invito a prendersela con filosofia, e la defecazione del soggetto dal corpo sociale. O per finire, ma ancora senza esaurire la lista, RR I 600, per il richiamo ai principi della dieta dell’uomo giusto, ossia alla regola del mezzo alfabeto vitaminico, a quell’homines cibis unicis utentes, o sogno utopico di pane integrato, per l’uomo integrato, sognato proprio da tutti (i.e., da tutti gli autori di utopie, non dal solo Girolamo Cardano, da cui si preleva il sintagma), e che qui ha suggerito di tenere a mente anche diciture dall’Artusi (a suo modo utopia di cucina nazionale) e gli studi sulla minestra biada dell’uomo di Piero Camporesi – in particolare Alimentazione, folklore, società (Parma: Pratiche, 1980) e Il paese della fame (Bologna: il Mulino, 1985). Da Prima divisione nella notte, RR II 873, l’immaginativa di Presepe e Natività («Mi piaceva discendere nel solleone il sentiero delle rocce di puddinga, come d’un caro e caldo se pure artificioso Presepio: di cui fossi un umile pastore: il più discosto, con la sua zampogna, dalle dolorose ore del mondo») – non unica in Gadda, qui è stata coniugata collo scadere progressivo dell’offerta al non più Pargolo.

Restando nel merito della Cognizione. Campagna apparita è titolo-citazione dall’explicit del romanzo (RR I 755). Il paragrafo ha spunto anche dal sintagma «il figlio nelle sue rapide apparizioni, doveva arrivare con fame» (RR I 599), sintagma preparatorio, con altri, nel primo tratto, dell’episodio del pasto sul neonato (RR I 600-604), passo molto presente ai gaddisti per il parossistico progresso dal pasto ai pasti (Biasin 1991: 115-117), nella rivalutazione delle grandi narrative della specie (Lorenzini 1995: 324-325; Maffei 2004). A trasformare il neonato (antropologico e astrutturale) in Neonato (struttura specifica di una data psiche) qui e già in Pedriali 1997 (ora Pedriali 2007b) hanno contribuito, oltre alle premesse in seconda al paragrafo precedente, anche le osservazioni di Manzotti nel suo commento al testo – cfr. Gadda 1987a: 87, alla voce neonato umano, r. 1341: «Il nesso risemantizza le due parti del composto (neo-nato), ristabilendo il valore primitivo non ristretto ad esseri umani». Si riprenda però pure Eros, SGF II 334, dove tra i modelli o alimenti adatti ad una antropofagia normale viene fatto figurare il fratello maggiore e quasi padre – appunto che ci fa sospettare che il nostro De Madrigal possa aver lamentato, nei modi tipici della dissimulazione (i.e., tra le righe dell’opera intanto che quelle provvedono a stordirsi e a frastornarsi, come da una mezza riga di Giornale, SGF II 834), di essere stato oggetto di un’alimentazione contro natura: figlio maggiore innaturalmente tirato su sul modello del minore. E valga, tra gli indizi, anche un’intera testimonianza della sorella Clara, che in quanto figlia e dunque femmina contò proprio poco nella cucina di casa Gadda (da cui anche la battuta parentetica, probabilmente molto inelegante, in corpo al testo, all’altezza dell’Offerta al Pargolo; ben più signorilmente s’esprime in proposito Roscioni 1997: 108-09 e sgg.): «Da bambino era allegro, vivace e quindi sempre pronto, disposto a giocare con i fratellini che lui amava molto perché, essendo il maggiore, si sentiva come un impegno verso di noi, sentiva la responsabilità di questa primogenitura e quindi ci proteggeva quasi, aveva per noi un amore proprio paterno quasi, pur essendo poca differenza in età» (Gadda 1993c: 186, e v. anche, rimanendo in tema, il maggiorasco all’incontrario, a famiglia dissolta, alla divisione dell’eredità – lettera a Clara, del ’37, cit. in Italia 2007c: 88-89, con caso di contabilità a proprio danno che sarebbe da aggiungersi alle partite di Pedriali 2004e, ora in Pedriali 2007a: 67-84). Insomma, il fratello maggiore e quasi padre. Che difatti protegge quasi. Con amore proprio paterno quasi. Si sbaglierà (si sbaglia? a connettere? connettendo questo lessico, tanto famigliare da non ripentirsi quasi nella grammatica protestataria del soggetto, ai corsivi già riportati in Pedriali 1999a, e ora in Pedriali 2007a: 27, un cugino che è come un fratello, je feci quasi da madre: corsivi chiusi, già lì e già allora, nel circolo vizioso e viziante di Eros pedagogo, perché «l’amore o trova simili le persone amate o le fa» – altra potente disgiuntiva). Di certo si sbaglierà ad insistere a connettere così poco con così tanto (il tanto appena riportato, citando da Roscioni 1997: 43, con testimone dallo zibaldone materno dell’ottobre 1892): ma i quasi dei Gadda insegnano, a noi e a Gadda, che la parola, che per temibili disgiuntive non lo fa simile, gli affida pure la gestione di somiglianze (quasi padre), e occasioni di promiscuità (quasi proteggere: dopo tutto, in quella stessa grammatica altre non proteggono che il loro desiderio). Somiglianze ed occasioni con cui rivendicare spazi fittizi, di diritto fittizio: artificioso presepio spazio-temporale in cui compiere tutto il dovere della maggiore età, almeno quello: il dovere verso i figli che davvero è dei genitori. Cfr. Giornale, SGF II 686: «dovevo precederli», con paterno pensiero di primogenito ancora rivolto ad Enrico e a Clara dal fondo di carcere e Caponiera di Rastatt. Ma vedi anche l’opposto insegnamento e del destino e di Virgilio, Aen. VI 308, 313: «impositique rogis iuvenes ante ora parentum», «stabant orantes primi transmittere cursum». Versi cit. e tradotti in Castello, RR I 205, 216; parafrasati-appropriati, in anticipo sulla cit. a centro testo, in Eros, SGF II 220: «La moltitudine anelante al tragitto implora il tragittatore, […] il poeta ne signifera le voci e i gesti […], d’ognuno il gesto onde sollecita la sperata preferenza». Insegnamento di volti (di genitori e di quasi genitori) fissati su volti di figli (e quasi fratelli: e quasi amanti) che la morte ha volto anzitempo anticipandone il turno – con fondante rivolgimento testuale (protesta, appunto, che si rivolge) cui qui si connettono, dagli opposti spazi lasciati liberi dalla lettera della parola (si pensi allo stupefacente si volti, si rivolti, comandato dal dottore, alla visita medica, Cognizione, RR I 621, altro che esortazioni trasgressive dell’Adalgisa), le Applicazioni 6 e 7 in Pedriali 2007a.

Da tutto ciò, ossia da tale inesauribilità dei testimoni, il rialzo di sospetto di fronte alla risemantizzazione / esplicitazione neonato umano («raggiungeva le dimensioni di un neonato umano», RR I 601) – esplicitazione affatto rischiosa viste le tensioni in circolo, e qui intesa (diversamente da quanto in genere s’intende) come spia non ulteriormente esplicitabile di un più orroroso pasto in anticipo sui tempi. Che è pasto non tanto e non solo sul massimo tabù della specie (la favola primordiale del cannibalismo latente in ogni psiche: a monte cioè di ogni ragione o irragione storica). In questo caso, infatti, il soggetto esibisce il tabù facendone parte integrale di una narrativa intimamente personale, non più meramente antropologica (anonimo-collettiva) – narrativa detenuta (da detenere: come si detengono appunto i carcerati) con diritto d’autore (d’autore che è primariamente uno storico: «Solo quello che ha portato attimo per attimo […] la pena del viver proprio potrà tenersi biografo di sé […] così e non altramente», con martellante polemica storiografica verso «altri biografi che non fosser lui» che spende e spegne la battagliera premessa di Eros, SGF II 219-20). All’altro capo della quale minacciata storiografia e compiuta cognizione, oltretutto, il pasto che non si confonde coi pasti (e dunque quasi primo pasto) riceve ulteriore esplicitazione nell’episodio del pesce del venerdì, dell’ottavo tratto (RR I 722-37), tratto o tracimazione della canna intasata e del soggetto e del testo per conclusivo rifiuto della comunicazione eucaristica col Modello (cfr. RR I 737, per le cit. dal rifiuto, in corpo al nostro testo: «Se ti trovo ancora una volta nel braco […]» e «Traversò la terrazza e la sala […]»). Nella sua mirata precisione gestuale, o metodicità binaria a chiave (con utilizzo di vecchie chiavi e stilemi: l’indefinito ridondante, l’astratto che non tocca l’oggetto – «rovesciò a terra il cestello con tutti i funghi; gettò via dal piatto la viscidezza gialla della bestia, senza toccarla»), il rifiuto si estende, cioè, per cifre simboliche, dalla singolarità del Modello (il pesce fetente in trono) alle copie (la collettività sempre rinascente, sempre vitalmente fresca dei «giovinetti funghi»: dei venuti su come funghi di fine estate, fatti oggetto di esibizione metatestuale e quindi di intensificata focalizzazione discorsiva, in quanto licenza geografica, RR I 723, 726). Inoltre, sull’ultima catena di reazioni provocata dalle offerte del postprandio (chiuderebbero un pasto, se pasto ci fosse stato – cfr. RR I 736: «Vuoi il caffè?»), i lari raddoppiano il loro addio dalla sede generativa dell’Ombra (la camera da letto di Gonzalo, che Gonzalo condivide col letto e con le memorie del fratello), con raddoppio ritmico geminato ripreso poi conclusivamente dalla madre, dopo che il figlio, sempre con metodo ed esaurientemente, ha ridisceso tutte le scale e lasciato la casa («Lo salutava mentalmente, chiamandolo, chiamandolo […]», RR I 737; alle geminazioni in cifra di Cognizione presta più sintonizzato orecchio Pedriali 2007a: 51-65, già Pedriali 2002b). Questo anche per dire (di nuovo pur non avendo certo detto la scena esaustivamente) che è difficile condividere la posizione di chi guardando alle varianti di questo passo vi riscontra un’attenuazione o presa di distanza dalle ragioni soggettive del dolore – cfr. Fagioli 2002b: 95-96, a proposito dell’oltraggio a forme organiche viscide, pesce e funghi (per noi singolarità data e collettività data). Oltraggio che nella nuova versione viene a sostituire quello alle cose, fiasco e bicchieri (fiasco dato e bicchieri dati pure loro, vista la collusione di dato creativo e biografico; v. le prime redazioni di Cognizione, Gadda 2004a: 23-25, e la travestita, minimamente travestita Villa in Brianza, Gadda 2001a: 25-27, al cui riguardo di poverissime prime elaborazioni v. già Manzotti 1996: 222-23). Sin troppo nota inorganicità e suppellettile di scena domestica, nel cui rovesciamento sarebbe da leggere l’annuncio più soggettivo del sangue fittizio versato di lì a poco. L’opposto sembra essere il caso. Pesce e funghi, ossia la nuova approssimazione al dolore, non più irriflessa, sommamente ritualistica, precisa infatti, per correlativi cosiddetti oggettivi, le ragioni tutte soggettive (sempre più precisamente messe in quanto affatto soggettive: pur non toccandole) per cui l’aggressione scatta come meccanismo a tempo, e con date modalità.

Altri suggelli tematico-strutturali (e temporali, viste le speciali congiunzioni di cielo e cibo) corroborano il nesso, o serie di nessi, tra il Pasto e il Non pasto, tra l’Offerta e l’Aggressione. Principale tra questi la poca cena, a base non casuale di brodo, sottaceti e mirra, della passione misconosciuta di Gonzalo (misconosciuta per via del maggiore esempio e della maggiore passione dell’altro cristo), tra i tratti 6-7. Per il quale tramite si perviene a quell’evidente transeat a me che è la chiusa del settimo tratto e conseguenti soluzioni intransitive, troncamenti, inserzioni, e rimozioni di elementi extra-testuali, da Gadda adottati, o lasciati adottare, prima dell’edizione del ’71. Sul nesso strutturale-temporale e astronomico-liturgico tra i tratti 7-9, ossia tra Addolorata, equinozio, il trapasso in autunno, l’inserzione e la rimozione di Autunno («che un capolavoro non è», Manzotti 1996: 251, e in genere sulla sua inserzione-rimozione, pp. 232, 235-37, esiti già ricapitolati in Pedriali 2002b, e ora in Pedriali 2007a: 59-61), insomma tra semestri estivi attivi e semestri invernali disattivi (il dimidiato anno gaddiano che per le stesse soggettive ragioni del dolore si fa individuare persino nell’Adalgisa, e che qui suggerisce di dire Les trois saisons, dallo spunto «Les quatre saisons. L’été», RR I 627), si veda di nuovo Pedriali 2007a (gli insistiti anticipi della terza Applicazione e le inaspettate conclusioni della sesta).

Al narrema e agli episodi della fame si riconnette poi, con giro metaforico invero non così lungo, pure il seguente ragionamento. Angelo: in genere, in Gadda, angelo della morte (RR I 729). Ma nella Cognizione anche Angelino: nipote della pescivendola, pescatore di tenche da bimbo in compagnia del Martire di guerra (RR I 724), e come quello tecnicamente non eroe. Sull’incidente aereo che uccise Enrico Gadda il 23 aprile 1918, v. Gadda 1983c: x («tornato incolume con i suoi compagni da un’incursione nei campi nemici, con già la licenza in tasca, aveva voluto provare da solo un nuovo apparecchio»). E meglio ancora, da diversa versione-gestione degli eventi (a gestirli non sono cioè parenti ed amici), v. Roscioni 1997: 162-64 – meglio anche per lo stringersi, intorno all’incidente, di altri testimoni lessicali su cui mettere l’enfasi (li conservano, nella loro ufficialità, gli archivi dell’Aeronautica militare: «aveva allora deciso di effettuare un giro sopra l’aeroporto […] ed era stato pochi istanti più tardi che il comandante la Squadriglia, capitano Rino Fougier, aveva visto l’aereo improvvisamente “scivolare ed avvitarsi a circa 150 metri dal suolo”. Dopo “due giri e mezzo di avvitamento” il provetto pilota […]», p. 163). Se le cause rimangono, per i sopravvissuti in causa, non accertate (fu il vento? un guasto? un malore?), quel volere che infallibilmente è un potere (la massimizzante massima d’epoca) e che per Enrico fu anche un voler volare, con pericolosa manovra, per ingannare il tempo (p. 164), lascia nei due impietriti superstiti il senso, l’immagine, l’inquietudine d’una inarrestata mobilità (è l’Enrico è andato di qua, di là con cui Adele, nell’alba del rientro in patria di Carlo, patria presentita vuota, risponde alla domanda: «Ed Enrico dov’è, come sta Enrico?», Giornale, SGF II 849). Un volare-volere il proprio fato (dall’epitaffio, dettato da Gadda: «ci lasciò fanciullo | e sorridendo volle il suo fato», Gadda 1993a: 55), il proprio e l’altrui, per fatuità di aligero. Ossia per vera fatuità di fatuo. E dunque non soltanto per interferenza di connotazioni funebri (quei fuochi fatui di cimitero su cui si assesta Terzoli 2005: 14, 23), dando così senso infinitamente più devastante all’esibitiva dinamica orbitale del tempo («[…] era come un segno estremo dell’essere portato davanti ai volti dei ritratti, dove alìgeri fatui, sul vuoto, orbiteranno entro il sopravvivente domani», Cognizione, RR I 683-84). Da cui, in Cognizione, il dissacrante ma preciso, tecnicamente preciso tentativo di dissoluzione gastrica o infame agape sull’Eroe («Peccato che uno si fosse buttato in aria», RR I 728), e l’avversativa che ripristina la legge, la costante universale di gravitazione («ma la gravitazione aveva funzionato», cfr. Tecnica e Poesia, SGF I 252, «il potere catastrofico del 9 e 81, la chiamata abissale della gravità», cit. che qui invita ulteriore cfr. verso Pedriali 2007a: 160). La potente avversativa del 9,81 e quasi 1918 – fatalità rinnovata del campo gravidico che infine astringe pure la leggerezza dei fatui (sono i giri di vite da dare ai ns materiali coll’ausilio anche di Pasticciaccio, RR II 239, dove il moscone, messaggero come sempre d’angoscia, annuncio angosciante-ronzante della turpitudine della morte, Roscioni 1995a: 48-49, araldo infernale d’una specifica vendicatività dei morti, Leucadi 2000: 149, è pure il travagliato, il pubere, l’equinoziale livido metallo dello sfidante, che difatti sfida la regola orbitale della metafora mosca e moscone, del Carso e non, della Brianza e non – metafora in Gadda molto attiva tra molte putredini e tra molta carnale vivezza, assurgibile ad allegoria cosmica per entrambi i tramiti, o mortuario carosello-cosmo domestico, RR I 683, o tolemaico planetario vivo, RR I 247 –, essendosi inventato lo speciale andirivieni della lemniscata, per verde e/o brunita ebbrezza di gioventù: «ebbro, quasi, d’esservi astretto dalla fatalità»). Ovvero e giravoltando l’avversativo. La legge funziona, ha funzionato (tragicamente funzionato). Ma non comporta dissoluzione risolutoria (assolutoria). Vittoria troppo impossibile per un gastrico troppo stretto a vite, troppo ulcerato dal troppo tentare. Tanto l’angelo-moscone che più non torna ancora ritornerà, imponendo all’anima, alle sue due opposte soglie d’anima (l’estremamente piccolo, l’estremamente grande già di Pedriali 2002b e ora Pedriali 2007a: 53; poi di nuovo, almeno per un estremo, Pedriali 2007a: 156), col piccolo psichico, o leibniziana piccola percezione, del Ciclista), la persecutoria rigeneratività che è delle immutabili icone.

E dunque angeli – creature e/o velivoli e/o corazze del micro-macro moto alto ed alato / basso e corporeo, con giro figurativo ricco di coesistenti ambiguità (è il segreto d’ogni iconografia davvero attiva e dominante). Giro che qui ci è riuscito di tener breve – breve e plurale, prudentemente plurale per troppo carico e imbarazzo referenziale, all’origine. Perché il fine, come nell’origine, ossia come in Gadda, era di segnalare: segnalare, sì, quel così gaddiano celare in genericità di categoria anche quanto è ovviamente riconducibile all’Ombra cui tutto o quasi tutto o tutto quasi è riconducibile (eppure in gaddistica si è anche a lungo detto della sua assenza dalla scena scritta, Gioanola 1987: 22, della sua non attivata agenzia, Roscioni 1997: 116, 118; da qualche parte, difatti, andava ben salvato qualcosa, dal generale intaso del soggetto, e il meglio era di dare decorso critico ad altre tensioni, specie l’aggressività di marca matricida, salvando una fraternità salva). Riconducibilità peraltro pressoché totale, a cominciare dal conflitto d’anima in lutto (ulteriormente spaccata dal lutto) espresso dai testi poetici del ’19 in morte del fratello. V. il perfetto exemplum inesemplare di Sala di basalte, segretezza e quasi secrezione dei suoi segreti (l’inesemplarità è avvertita sempre come molto frustrante in gaddistica, che gli preferirebbe una più esemplare, generica universalità, valga per tutti Manzotti 1996: 324 – «lo stesso caso di Gonzalo appare quasi troppo privato e insignificante […]. Il “naturalismo” o “realismo” residuo […] insomma non si confanno del tutto alla tragica rappresentazione per exemplum del destino dell’uomo»). Segreta prima messa in scena e lessema di una dissimulazione che manierizza la consuetudine linguistica (il caso ovviamente plurale dei Lari rammentati in corpo al ns testo, e che in Cognizione sono tuttavia pure quei morti singolari che pluralmente tornerebbero ad occupare il loro letto, lasciato uno ed intatto alla partenza, RR I 638-39). Primo perfetto esercizio d’indefinitezza referenziale, con scarti tanto verso il plurale che verso il singolare indefinito (scarti che comunque non evitano la figura, quella figura individuata, molto più rischiosa: tra altre figure individuate, anche quelle molto rischiose – cfr. Gadda 1993a: 23-26, in particolare vv. 33-50, per l’intera gamma di attanti: ombre di quelli, ombra di quella, ombra di nessuno tra i giganti del vento e della tenebra). Prima delle sale pietrificate della fame gaddiana, per quanto tecnicamente non ancora sala da pranzo: sotto il settembre gemmante, ma ormai al discrimine con la tempesta: negli avversativi della corrente, vento e/o acqua, che avversa gli amanti di cui è la notte: nell’equazione-riduzione umbratile di quelli che (che sono quelli che avevano / non hanno più, piangono / pregano, passano / si celano – ossia coloro che nella moltiplicazione spettrale dei presenti cavano dall’ombra, con altro sintagma che diverrà subito motivico, i neri cubi di tre ruoli ben precisi: paggio scomparso, fanciulla in lutto, sconosciuto soldato; non è grande poesia ma cela egregiamente quanto c’è da dire). Ovvero e riconnettendoci al nesso tra cibo armato e pena armata: angelo ed angeli che imperterriti (i.e., multiformi e monoformi), benché continuamente degradati anche negli angiolini di questo mondo, continuano a produrre angeli armati (o cavalieri o santi armati, o altra armatura più straordinaria ancora) dal senso di colpa nei loro confronti. Sublime-sadico inferno della retribuzione (Racconto, SVP 457-58) – oltre che della competizione, i casi di lotte tra santi (di cui uno chiuso e vincente nell’iconografia fissa e appropriativa della lorica e della spada, e preferibilmente San Giorgio, al cui proposito v. anche Pedriali 2007a: 140-41) che sono così centrali a quella mancanza di centro messa in mostra (o con più sottile dire: messa in mostro) da strutture narrative poi in realtà perfettamente (e perversamente) centralizzate. Ma su tutto ciò, come già Gadda, si avrà modo di tornare altrove.

Restano da dichiarare alcuni luoghi testuali, variamente accorpati, quasi accorpati, o cit.: Cognizione, RR I 600 («come i Danai nell’arce di Troja»), 604 e 625 («svolta pericolosissima» dell’ansa duodenale, e conseguente «ansia indicibile sul giro del gàstrico»), 605 (l’antenato gabelliere-giustiziere), 610-611 (girare di Gonzalo dietro la madre che gira, come per coglierla in fallo nei suoi giri d’attesa del secondogenito), 612 (vento che gira per la casa), 620 («il tarlo vi si udiva cigolare a fatica, con un giro duro e breve»), 724 («La mamma voleva dire di sì: la disperata automaticità degli impulsi» – automatismo o sonnambulismo girovago della madre e/o fanciulla in lutto / in moto tra instanziazioni di physis che somiglia, che potrebbe somigliare a chi non ritorna, cfr. Gadda 1987a: 406, rr. 401-02, o Terzoli 2005: 14-16, sul giallo e delle fotografie e del pesce e della madre anziana, e sulla contiguità testuale dell’aspetto in morte di pesce e figlio; automatico e sonnambulo è del resto pure il soggetto, con sindrome motivica però tanto più grave per via degli esiti esistenziali che il motorismo mentale di lei ha per il sé, v. il sonnambulismo fissante / allucinazione delirante di Gonzalo, ai tratti 6-7, in particolare RR I 697, «seguitava a fissare come un sonnambulo […]», e v. più ancora Pedriali 2007a: 142, 146), 728 («Tutto il calice, coraggio, hop! Non era il tipo del “transeat a me”»), 712-14 (con ripresa di modalità iterativo-incipitarie), 725 e 726 («sensibilissimi all’idea del venerdì […] siccome era di venerdì»), 740 («Venuto l’autunno, passata la Madonna di settembre» – il tempo, già lo si è notato e ancora lo si noti, tende all’Addolorata, con tendere cioè segnatamente tensivo, dalle prime battute del romanzo: «si andava già per la Madonna di settembre», RR I 575), 726 («la blanda serenità equinoziale: aprile entrava nella stanza, come il settembre nostro»), 734 («delle arachidi brustolite che precipitano il mal di pancia alle merde»: nel ricordo-delirio infantile della fiera di San Giuseppe; sul precipitato escrementizio, anche però con euforia di estrusione postica, v. Rinaldi 2004), 750 (Sul tavolo un libro aperto: con ma che dà la scusa per osservare l’avversione degli avversativi gaddiani, molto più avversari della riconciliazione nella più vasta universalità della morte di quanto Benedetti 1995 o Di Meo 1995 o Savettieri 2001 o Donnarumma 2006: 54-55 non suppongano quando considerano gli sguardi gettati da Gadda sopra la vita – sguardi-istanze che sono, appunto, non di ritorno ma di giudizio, il caso degli attacchi proemiali della Meccanica, per i quali v. Pedriali 2007a: 113-14). Un’alba aperta? una nuova disponibilità del mondo? in chiusura della Cognizione? Afferma l’ipotesi Bouchard 2000: 122, in particolare il commento: «La cognizione also finishes – without closing – at the dawn of a new day. It extends an invitation to stop trying to wrap being in the singularity of a proper name and start describing instead the being(s) of the “gelsi”. These are the mulberry trees appearing on the horizon of a countryside yet to be peopled». Countryside yet to peopled indeed. Col puchero, col mezzogiorno, con Lukones, coi gelsi – coi gelsi già tutti registrati nei registri del tempo, oltre che nel catasto teresiano (Dalle specchiere dei laghi, SGF I 226). Registrati cioè pure loro per il ritorno del narrema di un mondo che tiene, che intorno a quello si organizza. Mondo-Crono capiente, ipercapiente, che si sostiene come e in quanto capienza – ma pur sempre ventre chiuso alla possibilità. Non esattamente un’alba aperta, dunque, non dopo questi segni. Per quanto, col nuovo giorno, Espero anche sembri essersi ritirato dai cieli. Da cui di nuovo il richiamo, nel ns explicit principale, alla figurazione del Lucifero privo di pertugio inguinale: figurazione tratta e contrario dall’iconografia medievale del Satana aperto, divoratore-generatore di uomini per il tramite di orifizi normalmente operativi – regime evacuativo-sessuale fondamentalmente sano, fecondo, a suo modo ricco di figli. Il satana, insomma, del Giudizio universale giottesco agli Scrovegni. Similmente, e con spunto addizionale post scriptum, è antropofagia normale, per non dire paradossalmente idealistica, quella che prevede la perfetta digeribilità dello stessoergo carne umana con carne umana –, vs l’allopatia del diverso e del differenziato: «C’est ce que dit Hegel. En toute logique, cela conduit à la nourriture carnée pour l’homme. Et même à l’anthropophagie: celle-ci est conceptuellement requise par l’idéalisme spéculatif» – J. Derrida, Glas (Parigi: éditions Galilée, 1974), 133. O come si dice più speditamente in inglese, food for thought – pensiero invero di cui nutrirsi, o su cui riflettere, specie quando si tratta di decidere quale sia l’alimentazione corretta del diverso.

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ISSN 1476-9859

© 2008-2024 by Federica G. Pedriali & EJGS. Previously published in F.G. Pedriali, La farmacia degli incurabili. Da Collodi a Calvino (Ravenna: Longo, 2006), 59-74; then in M. Porro (ed.), Gadda e la Brianza. Nei luoghi della «Cognizione del dolore», Atti del convegno internazionale di Longone, 6-7 May 2005 (Milan: Edizioni Medusa, 2007), 55-73, and, with additions, in F.G. Pedriali, Altre carceri d’invenzione. Studi gaddiani (Ravenna: Longo, 2007), 85-103.

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Framed image: after a detail from Jusepe de Ribera, Saint Jerome and the Angel of Judgment, 1626, Museo e Gallerie Nazionali di Capodimonte, Naples.

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