Pocket Gadda Encyclopedia
Edited by Federica G. Pedriali

Corpo-fiume, corpo-vite

Federica G. Pedriali


Il dio seduto sulla riva

La lezione è semplice, tutto scorre, e la metafora è quella del fiume, anche se per ben usarla occorre saper vincere le tentazioni della fissità dell’osservazione dalla sponda. Ma anche a sentirsi del fiume e nel fiume, ecco subito emergere, dal flusso bio-psichico, l’immagine dell’ io natante e battello, partecipe, sì, della promiscua fluidità esterna e immerso in una sua non meno paurosa liquidità interna, eppure paradossalmente garantito, protetto, confermato entro i confini magici del corpo e della mente. La lezione è semplice, ma le strategie per sopravviverle si fanno presto azzardate.

Gadda lascia subito tracce di fiumi nei suoi scritti. L’Isonzo, dopo il crollo del fronte italiano a Caporetto, non si fa attraversare, e il Giornale di guerra, con schizzo sommario, mette anche quella impossibilità agli atti della cattura. Questioni di portata e di impoverimento delle defluenze imbrifere patrie suggeriscono al neo-ingegnere, nel ’21, il primo intervento tecnico, la prima pubblicazione saggistica; questioni di chiamata imperiosa dell’io categorizzante rammentano all’aspirante filosofo, nel ’28, tra le molte metafore aventi a che fare con l’acqua, un tecnicismo fluviale, la chiamata della cateratta, anche lì con schizzo. Un fiume, nel ’24, ossia ai primi seri abbozzi di romanzo, assume il violento straparlare di chi è impedito nella fantasia di potenza; mentre una nave, ancora con disegno, conferma, in una lettera del ’22, l’instabile navigazione mentale del mittente. Tra le due date, del resto, l’esperienza delle turpe risacca dei sargassi umani – la traversata atlantica, il periodo argentino – e la scoperta della diluviale broda biblica – gli immensi fiumi sudamericani. Del ’27, invece, il costituirsi in motivo poetico ufficialmente gaddiano dell’immagine del battello ebbro e alla deriva tra le parvenze; e di nuovo del ’28, anno sempre degno di nota per Gadda, il primo configurarsi, nel proemio della Meccanica, della metafora infine completa:

Ma per piani aridi e illuni o nell’aggrovigliata paura delle giungle immense udrà forse taluno di là da ogni voce de’ viventi come segui il torbido fiume delle generazioni a devolversi e penserà che sciabordi contro sue prode le rame e li steli dalle selve divelti; e verdastre, con i quattro piffari all’aria, le carogne pallonate de’ più fetidi e malvagi animali, quali furono in vita e saran pecore, jene, sanguinolenti sciacalli, saltabeccanti scimie, asini con crine de’ lioni e gran baffi: e il branco lurido e tronfio arriverà nelli approdi lutulenti a travolgersi, dove è soltanto la vanità buia della morte.
Ma la sacra corrente seguiterà defluendo, con una mormorazione delle tenebre, verso lontane stelle. E resupino sulla cóltrice nera del flutto e come adagiato nel silenzio e nella solitudine della sua morte, trapasserà segno o corpo che parerà fatto di cerea luce: greve per tutte le membra della fatica mortale, di che solo avrà voluto vestir il fulgore di sua giovinezza: e avrà il capo stancamente nel flutto, il viso rivolto verso i cieli gelidi. Così composto nella sua morte parerà un fiore pallido della eternità.
Ma è meglio cambiare discorso. (1)

Tutto scorre, non si sfugge. Ma la lezione, a manometterla con accortezza, predicherà durata, valore, essenza (è la chiamata dell’io categorizzante), ovvero contrapporrà un’eternità corporea, in perpetuo disfacimento, ad un’altra, non meno materiale, ma traguardata, tramite la forma, sui traguardi di permanenza dell’infinito. Così, cioè, l’io si costruisce un mondo, lo organizza e si organizza, pur non facendo mostra di ascriversi tra gli aventi valore, tra i portatori di corpo-segno sublimato: un mondo-fiume chiamato agli incredibili approdi dal comando sin troppo temuto di una Biologia e dal potere fittizio di un Sé in ascolto dalla riva (vede ciò che ode, e decide, così crede, gli esiti dei decorsi). Non è generoso né divino, questo osservatore apparentemente all’asciutto, e azzarda mosse, è chiaro, che non gli competono. Com’è chiaro, nonostante l’oscurità a tratti del dettato, che il discorso, appena impostato all’altezza del ’28, non cambierà.

Una Meccanica latrice di prosciutti

I corpi a Gadda germinano di carnevale, spuntano in primavera, tant’è vero che la loro stagione si chiude, puntualmente, ritualisticamente, e con trapasso violento, d’autunno. Ma è una violenta lotta tra forze anche la primavera, per quanto, poi, le forze battaglianti si rivelino dello stesso segno in entrambe stagioni, nel segno unico del corporeo, ossia del corporeo puro, che è tuttavia pur sempre segno, perché non esistono corpi non iscritti nell’ordine dei segni, o meglio, non si danno manifestazioni del corpo, e dunque della realtà, in assenza di una gestione di segni; questo per lo meno nell’ambito delle faccende umane, di altri più funzionali ambiti è impossibile dire.

Anche il corpo dei corpi, pertanto, quello privo o quasi di vita, e più ancora quello la cui vita è stata violentemente intermessa dai riti di stagione – il corpo violato, quaresimale ed osservatissimo di Liliana nel Pasticciaccio (lo osserva il testo, lo osserva voyeuristicamente l’inchiodato lettore), o quello ferito, autunnale, già al trapasso, già lambito da lingue di tenebra della madre nella Cognizione (tecnicamente ancora vivo, già si offre all’ossessione dei viventi per il Sé definitivamente restituito alla Materia) –, anche quel corpo-corpo risulta deciso e consegnato, dalla codifica, ai registri di stato della specie: anche, cioè, l’orrore aperto che isola nel testo e dal testo il corpo ferito, oltraggiato, quasi non fosse mai appartenuto alla propria storia, costituisce un preciso sistema di segni, un giudizio bene impresso su carni. (2)

Tanto più iscritti, allora, se il grado comparativo è ammissibile, i corpi vivi e guizzanti dei viventi: vivi per evoluzione, germinazione, cognazione, tutti vocaboli prettamente gaddiani: per emersione dalle acque, resurrezione alla forma, elezione della vita. Per desiderio, insomma, ed esibizione del desiderio. E senza scarto tra corpo e segno, nonostante le insaziabili proposizioni vive dell’essere: nonostante, cioè, il corpo chieda o creda di chiedere più vita, più guizzo, meno segno. (3)

Quelli di Gadda, si vuol dire, sono corpi-persona, materia scritta e individuata, generata dal luogo, dalla stagione, dalla congiunzione astronomico-liturgica, dalla banalità della Storia. Vivono, se ciò è possibile, per metà dell’anno soltanto, schiusi alla più scontata corporeità, quella sessuale, dalla promiscuità del carnevale, dall’aequo pede dell’equinozio, dalla crudeltà dell’aprile, dalla lancia penetrante del San Giorgio, dall’esuberanza passionale del maggio, le sere più belle! Tendono, nel loro breve arco, al fuoco fermo del luglio, alla terra vestita d’agosto, agli uragani punitivi di fine estate, alla posa imperdonabile dell’Addolorata, alla seconda ed ultima chance di equinozio, al diavolìo dell’autunno, nome sempre utile, quello del diavolo, in un calendario del corpo sensibilissimo ad una particolare nozione di sacro. (4)

Esiste, cioè, il male. E si manifesta, si incarna nel ciclo manifesto del corpo, nella metà dell’anno in cui i viventi sono osservabili, e conoscono oggetti del desiderio, hanno antagonisti da eliminare, amano terribilmente la propria immagine, tanto da esibirsi come immagini di potenza sessuale e fondare su quella altri simulacri, la famiglia, la città, la nazione, la cultura. È quello, ovviamente, il tempo del Duce, fallo massimo, iscrizione ed esibizione massime di fertilità, modello supremo per i falli minimi raccolti a fare da oceano in piazza: coglione massimo, perché altro era il compito della nazione o la missione vitale della famiglia, perché il fiume doveva esser reso sacro col lavoro, con l’utilizzo dell’elaborante plasma della specie a scopi di costruzione civile.

Non diversamente, in questo tempo e decorso del corpo, si esibiscono le donne, splendide. Ed ecco di nuovo trascorrere e farsi notare, nella corrente, Liliana, nobile, melancolica, appassionata, bellissima; o la Tina, viva, imperiosa, negli occhi due fieri lampi, bellissima; o la Ines, sdrucita, bugiarda, profumo caldo di viscere, pure lei bellissima; o la Virginia, procace, prepotente, come diavola fasciata in pelle d’avorio, sì, come corpo in combutta col diavolo di cui sopra. Troppo splendide, queste donne del Pasticciaccio, e non solo di quello – troppo vivo segno. Troppo, cioè, prese da una loro vividezza: e vendute, per quel tramite, al regime dei segni e delle iscrizioni. Sono tutte, difatti, a lor modo, figlie, spose e madri del Fallo. Le smascherano, tra gli altri, a seconda dei casi, la stessa bellezza – formulare, a tratti relativamente fissi, pur nella grandiosa inventività espressiva del giudice fuori campo –, o le ipersessuate consorelle, le megere – la Zamira, osceno fornice sdentato, la maga Circia, laida ubriacatura, laido sesso-trappola –, o il carnefice, che espone, appunto, la carne di Liliana, carne fina, carne scritta: prosciutto dei migliori tra quelli usciti dalla meccanica, ben tetra, di corpo e linguaggio, corpo e potere. Gadda, gran studioso di meccanica, oltre che impietoso giudice non divino, non cessa di denunciare l’inutilità, il peccato di tali corpi, e il suo è elegiaco, satirico elogio:

Oh!, lungo il cammino delle generazioni, la luce!…. che recede, recede…. opaca…. dell’immutato divenire. Ma nei giorni, nelle anime, quale elaborante speranza!…. e l’astratta fede, la pertinace carità. Ogni prassi è un’immagine,…. zenzado, impresa, nel vento bandiera…. La luce, la luce recedeva…. e l’impresa chiamava avanti, avanti i suoi quartati: a voler raggiungere il fuggitivo occidente…. E dolorava il respiro delle generazioni, de semine in semen, di arme in arme. Fino allo incredibile approdo […].

[…] Oh confortevole aura, salubre terra e clima dell’Olona e del Lambro! oh, Sèveso! Oh, pioppi! Oh! plasma germinativo della gente! Dove tu, per quanto minchione te tu sia, o anzi proprio e precisamente per quello, che ci hai nella testa un bel turàcciolo, te tu ti senti tenuto a galla come un papa senza neanche darti pena nuotare: da un clima unto e fraterno, da una pégola vivificatrice. Come una sagace broda: o lardo sfriggente, che si strugga nelle opere, e nella padella de’ civili soccorsi. Come feeders (barre alimentatrici) da cui ogni derivato circuito ripeta il flusso metallopermeante dell’elettrico. […] Oh, vada, vada la nera Olona delle tintorie gallaratesi a intrefolarsi nel fiotto decumano della Vettabbia, cui rugginosi pitali decorano, alle due sponde, d’un fiore: il verde e tenero fiore del basilico. Vada il Sèveso color caffè a scolarsi in trincera, nella fossa buia e profonda del Redefossus, più profonda del riposo dei morti: il ri-scavato, il re-de’-fossi. Vada, deceda lungo il settembre l’elegia lenta del Lambro, con guardia de’ suoi pioppi su specchianti ambagi, verso i pascoli rintronati di Marignano. Qui è il groppo, il nodo, qui è il plasma valido e vitale della gente, come un coàgulo di peccati. (5)

Viti destrogire, sinistrogire

Tutto scorre, e il romanzo, broda sagace, sospinge allineate di corpi verso esiti che chiama decreti divini. Scorrono, cioè, le storie, banalissime. Ma c’è qualcosa di più e di più grave della bischeraggine grassa del mondo. C’è un giudizio, difatti, che riguarda il giudice, lui solo. È, anzi, proprio questo a renderlo giudice severo: un giudizio inappellabile, intollerabile, sulla sua persona.

Al parco, in una sera di maggio dell’Adalgisa, due che ancora non sono amanti, quasi s’incontrano. La passione, non ammessa, dà fiamme, con banale metafora innestata per comando antropologico. Fiamma è lui, Bruno: il giudice ne cova la figura da tempo. Fiamma è lei, nelle definizioni di lui – lei, Elsa, con invariato paradigma di bellezza, nobiltà, eleganza: con occhi dilatati che inseguono lui che giravolta e ripassa, sulla sua bicicletta, come un pensiero inesorabile e fulgido. Sono fiamme, in tale ora di fulgore, anche l’aria della sera, pura, liquida, e le fronde alte dei pioppi. Il tutto si nota appena; è quanto di meglio sopravvive dell’avantesto, il romanzo abbandonato del garzone del macellaio dei primi anni Trenta. (6)

Nel rinato romanzo continua, però, ad osservarli l’agenzia che ostina a pensarsi giudice e dio del proprio minimo mondo, facendo scorrere, attorno ai due, per meglio coglierli, un’intera città-corpo centro-gravitata sul giardino pubblico, luogo deputato dalla specie alle perdizioni della materia. Così il giudice fuori campo si manifesta, prende forma a sua volta, entra nella storia. Sarà il commento salace, il racconto-diversione e romanzo-nel-romanzo che non intende cedere all’incanto, al trionfo della vita, ed ostacola gli amanti, consegna la coppia ai consueti approdi mortiferi per il tramite di un irresistibile memento mori, la scena al Monumentale, la pagina conclusiva dei disegni milanesi: consegna che permette, tra l’altro, di evitare la banalità, davvero ineseguibile, di un’accidentale retribuzione per incendio. (7)

E sarà più ancora il corpo-porcheria privo di parola del reietto, il nero figuro di disgraziato vagolante sulla scena sin dagli abbozzi del Fulmine sul 220 e meglio noto come l’uomo del sacco: intrigante correlativo oggettivo di un’esclusione sancita a partire dal dato fisiologico, e forse, da un dato di destino: risibile emanazione figurale di un’enorme stanchezza, la stanchezza del dover essere stati, troppo a lungo, cattivi. Sul quel corpo gli astanti esercitano, a turno, il proprio rifiuto, rifiutandosi di registrarne l’esistenza, mentre il narratore, parimenti non accolto tra i vivi, si ritaglia per l’occasione un plurale majestatis di marca straordinariamente singolare, autoriale, la classica, per quanto strategicamente dissimulata posizione del soggetto gaddiano:

Il risultato complessivo era, in noi, nell’animo nostro, e in quel declino dell’ora, un disperato sgomento: un male sconosciuto e remoto: presagi, rimpianti: come il ricordo d’una irripetibile gioia del vivere, d’una luce, che giorni crudeli ne avessero allontanata per sempre: poiché tutto, di lei, pareva significare senza nostra speranza, dopo bruni alberi: «son io, sì! Quella che avete veduta e sognata: ancora per un poco, oggi, sono con voi!». (RR I 499; cfr. Gadda 2000b: 138)

Il male esiste, origina dall’esclusione. Suggerisce la cernita malevola dell’Olona e del Lambro delle genti; fa respingere, contraffacendolo, il giudizio, altrettanto inappellabile, di chi è nella pienezza della vita. Provoca domande sulla gestione, sulla costituzione dei corpi. È un problema, quello della meccanica e della differenziazione di ciò che è vivo, su cui Gadda non smette di interrogarsi, specie da quando, e si ritorna sempre al ’28, la riflessione gli ha dato il trattato filosofico, e la prima struttura compiuta di romanzo in un quadro:

Appariva allora la Purissima con il Bambino, sopra un plinto magnifico, che aveva i colori del diaspro e della malachite, del porfido, del lapislàzuli: ed era vista, dagli archi del sontuoso tempietto, sui sereni colli e sfondo dei lor alberi e cielo: ma il demonio subsannante dell’educandato, la Gemma Nuttis, avida, perfida, con i labbri contratti in un ghigno, aveva suggerito a Zoraide, un pensiero diabolico. Così, mentre le monache la facevan segnare e poi ripetere basso il nome del dipintore, Barbarelli Giorgio, Barbarelli Giorgio, gloria di Castelfranco, ella pensava «l’amante»: una misteriosa e torbida felicità, un peccato atroce e meraviglioso, l’amante, l’amante. A destra della Vergine, San Francesco le andava pochissimo a genio: ma a sinistra San Giorgio, un giovanetto biondo e chiuso tutta la persona nell’arme, le piaceva immensamente: seppe che era un ragazzo de’ tempi di allora, morto in una guerra di allora: e il padre, un nobile, non s’era dato più pace; finché il Giorgione glie lo dipinse per i secoli e santificò nella pala. Zoraide lo sognò di notte. (8)

La vicenda è, come al solito, banale. Ma anche la banalità impone domande: domande partite dall’osservazione minuta della tela, dal dato anagrafico-ritmico ribattuto – il Barbarelli Giorgio Barbarelli Giorgio evocato dalle monache –, dalla licenza poetica con cui, prendendo il la dall’effetto di ribattuto, la tentazione incarnata – Gemma Nuttis non a caso – attribuisce a San Giorgio, il più noto, il più primaverile e gaddiano cavaliere dei santi, le spoglie mortali di San Liberale: domande nate dalla banalità, ma che Gadda, da buon meccanico, si intestardisce a ritenere tecniche.

Perché i corpi, quelli del Giorgione inclusi, si assomigliano terribilmente. Perché se le cose stanno così, se l’occhio non s’inganna, c’è davvero da chiedersi com’è che funziona la vita, com’è che opera dal suo plinto magnifico: com’è, sì, che si sceglie il santo, che si dà all’uno e non all’altro. È una questione di mere apparenze? superfici? stagione? San Francesco, chiuso nel saio e nell’autunno della rinuncia alla carne, non può certo competere con l’irresistibile annuncio di primavera e forze vive, in lotta, di una lucida armatura.

O è una questione di sostanza: di minute, impercettibili differenze? Nemmeno alla Ford, dopo tutto, vengono due macchine uguali. Una questione di materia uguale all’origine, nella matrice, ma che poi ha preso, come a dire, due pieghe diverse? distribuendosi, cioè, come accade ai cristalli, in due strutture molecolari simmetriche: ossia metricamente uguali, ma non sovrapponibili? Strutture destrogiri, sinistrogiri, a seconda della piega: ecco il termine che fa al caso, se questo è il caso della vita. Vite destra e vite sinistra, ai piedi del plinto. Ovvero i santi, come i corpi, come le viti? Giorgione non ne fa mistero. Ci si consola così del lungo buio francescano, dei lunghi semestri dell’inesistenza che ci è toccata per vita? (9)

University of Edinburgh

Note

1. Meccanica, RR II 469. E al paragrafo precedente, molto selettivamente in tema di fiumi, echi e spunti da: Giornale, SGF II 729 (schizzo dell’Isonzo); Gadda 1986a: 19 (defluenze imbrifere); Meditazione, SVP 779 (chiamata dell’io categorizzante, chiamata della cateratta); Racconto, SVP 535-42 (fiume che parla, ovvero episodio del Devero); Gadda 1984a: 74 (lettera a Ugo Betti del 26 ottobre 1922, con disegno); Cognizione, RR I 693 (turpe risacca); Meraviglie, SGF I 109 (broda biblica); I viaggi, la morte, SGF I 561-86, in particolare 571 sgg. (battello ebbro e alla deriva tra le parvenze). Vari preannunci comunque già nelle poesie – qui si riporta il più notevole, da O mio buon genio, del ’15: «non voglio neppure che il fiume rabbiosamente mi sommerga e mi circonfonda delle sue prede, | Epperò nuoto e ti chiedo che il mio cuore sia franco, | Che sia duro il polso e il bicipite, e guizzante la mano» (Gadda 1993a: 6).

2. Sul corpo di Liliana, il più osservato, e anche il più isolato dall’atto critico, cfr. Agosti 1995: 247-63; Manganaro 1996a: 211-22; Bertoni 2001: 5-38; Dombroski 2002: 50-80 – con un tentativo di reintegrazione nel testo complessivamente inteso in Pedriali 1999a e 2001b.

3. Come la mano dei versi di O mio buon genio, citati sopra, vivo e guizzante, prima di rendersi disperso per l’eternità, è l’Emilio della Madonna dei Filosofi (RR I 78, 79). Da cui la metafora nel paragrafo.

4. Tra i molti spunti gaddiani liberamente confluiti in questo paragrafo: Gadda 2000b: 72 e Adalgisa, RR I 325 (aequo pede); Al parco, in una sera di maggio, RR I 504 (la lancia del San Giorgio di Cosmè Tura) e 499 (maturazione della passione col maggio, motivo che struttura L’Adalgisa, come dirò più avanti, a partire dall’avantesto, Un fulmine sul 220, e relativo refrain, «la sera più bella!», Gadda 2000b: 191 e SGF I 98, e includendo il brano passato alle Meraviglie d’Italia, Ronda al Castello, SGF I 97-101); Cognizione, RR I 629, 674-77, 575, 740 (rispettivamente: terra vestita d’agosto, uragani punitivi, Addolorata – riguardo alla posa imperdonabile di quest’ultima e al suo utilizzo per fissare il calendario della Cognizione, rimando a Pedriali 1997: 132-58 e 2002b); Passeggiata autunnale, RR II 940 (diavolìo dell’autunno). Sui luoghi e sulle congiunzioni astronomico-liturgiche legate all’equinozio nei due romanzi maggiori, v. Pedriali 2001b e ancora 2002b, con rinvio a Pedriali 2002c per un’estensione del discorso al Gadda minore, e a Pedriali 1997: 132-58 e 2002e per vari accenni all’icona stagionale e biografica del San Giorgio.

5. Rispettivamente, Cognizione, RR I 640 – da cui è tratto pure il sintagma «una Meccanica latrice di prosciutti» (RR I 713) che dà titolo al paragrafo –, e Adalgisa, RR I 306-07.

6. Quasi verbatim, da più punti dei due disegni conclusivi dell’Adalgisa, e prendendo a segnalare, con suggerimenti anche dall’avantesto, i tratti distintivi dei due e della scena del loro incontro: RR I 496 (giravoltare e ripassare di lui, Bruno; suoi capelli a vampata; suo rivolgersi col sorriso nel volto) & 513, 519-20 (suo ripassare lento e preciso, come pensiero inesorabile e fulgido); 489, 493, 496, 499, 500 (occhio allucinato, dilatato, sognante, inseguente di lei, Elsa; capelli sognanti sottoposti alla legge del pettine; viva proposizione femminile e immagine musiva; viva sonnambula sul cui sogno prevarranno tanto la cognata che la categoria di causa); Gadda 2000b: 31, 83, 85 (fiammata, vampa di capelli), 91 («la mia fiamma»); Ronda al Castello, SGF I 101 (aria a guisa di fiamma). Per notizie sul progresso del racconto del garzone del macellaio, v. Gadda Conti 1974: 39, e Donnarumma 2001b. Rinvio inoltre al mio Bruno, sempre il ciclista dell’Adalgisa, e non il più famoso Giordano, cogliendo l’occasione, doppiamente topica, per far presente che un lemma sul «grande Arrostisto» (RR II 1039) manca ancora alla Pocket Gadda Encyclopedia (ma all’argomento accenna Botti 2003 nel numero regolare del Journal). Proposals welcome.

7. Come già per la funzione Ines nel Pasticciaccio (Pedriali 2004c), anche per l’ Adalgisa parlerei (e più avanti parlerò) di verso vivo di recto diabolico. Il romanzo-nel-romanzo, il racconto-gragnuola inarrestabile prodotta da personaggio e narratore, in combutta, arresta difatti, letteralmente, gli amanti, ma non per salvarli; Adalgisa, personaggio e funzione, salva cioè il testo (dinamitandolo: v. Isella 2000a: 292, e successivi commentatori), ma non per portarlo altrove. La morte (e con lei il diavolo) ha davvero l’ultima parola su entrambi i versi: solo che, un po’ come Ines, Adalgisa fa da tramite e schermo, illusionisticamente, strategicamente, con l’altro dei capitoli più vivi in repertorio (cfr. RR II 1146).

8. Meccanica, RR II 491-92. La Madonna col Bambino tra i santi Liberale e Francesco del Giorgione (Castelfranco Veneto) viene da Gadda (de)scritta una seconda volta, in chiusura del Primo libro delle Favole, favola 186, occasione in cui rettifica il nome del santo, non più Giorgio, ma di nuovo e correttamente Liberale. Intriga, con brutto anglismo, la posizione marcata, evidentemente strutturale, che Gadda riserva al quadro non una, due volte, anche per il lapsus animae, in prima battuta, sul nome d’arte d’uno dei rappresentati.

9. Qui ho parafrasato e accorpato varie posizioni dalla Meditazione milanese (tra cui l’esempio Ford, cfr. SVP 655-56, 887-88), per portare all’equivalenza viti-santi che mi veniva suggerita dalla somiglianza fisica delle tre figure nel Giorgione. Gadda dà la definizione tecnica di destrogiro-sinistrogiro, da me ripresa quasi verbatim, in una nota dell’Adalgisa (RR I 439), o meglio, in una nota della Cognizione (RR I 699).

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ISBN 1-904371-00-0

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