La cognizione del dolore

Parte prima – I

[…]

Al decimo giorno, il 28 d’agosto, verso le undici della mattina, di ritorno appena dal suo primo giro di visite in bicicletta, toltisi i ferma-calzoni e scossa un poco la polvere, il buon dottore stava proprio per non trovar motivo a rimandare ulteriormente una buona saponata, sviluppabile in vittorioso crescendo tra il mento e le orecchie, cui avrebbero fatto seguito, a opera finita, alcune ragionevoli striature color sangue disposte un po’ in tutti i sensi in tutta la regione virile delle gote; e anche sotto il mento: e queste però tali da far pensare alla battaglia del Metauro. Stava proprio per soccombere all’evidenza, davanti lo specchio del lavabo, allorché il José (il Giuseppe della Villa Pirobutirro) gli venne a dire che il figlio della Padrona, con suo comodo, lo avrebbe desiderato per una visita. «Che cos’ha?», gli chiese. Il peone alzò le spalle: «No me enteré», disse.

Il dottore, lieto di potersi esimere da quella rogna d’una barba, prese a lavarsi allegramente le mani.

Era tutto rasserenato. «Anda, anda» – rispose – «pero ligero, otra vez acabo yo de llegar antes…. E digli che vengo subito….». «Bene, io ci dico buongiorno….», fece il contadino: ed uscì. Non s’era neppur tolto il cappello, né le mani di tasca.

«Ci siamo!», pensò il buon medico: la chiamata lo aveva messo in un leggero orgasmo.

Il figlio della Signora lo attendeva! Probabilmente per un nulla, per una delle solite ubbìe: come poteva essere la fifa di morire…. Ma se stava da papa!…. (ridacchiò). Termometro e stetoscopio li aveva in tasca: tolse dalla bicicletta i ferma-calzoni, ma poi mutò idea, e pensò invece d’andar a piedi: ripose le due molle sul ferro del telaio, dove stanno a cavalcioni: prese invece un bastoncello, uscì.

E pensava, andando, quale cattiva stampa circondasse quel figlio, così appartato, e così lontano da tutti, a Lukones, che lo si sarebbe detto un misantropo, o, peggio, un nemico del popolo; se non addirittura un vigilato della gendarmeria.

D’altronde egli era coniugato con prole, il buon medico; prole che l’Ufficio Leva del Prado aveva sistematicamente negletto, essendo femmine, cinque: una più signorina dell’altra. E il figlio della Signora, per quanto misantropo, poteva darsi che non fosse però misogino. Celibe era di certo, come Beethoven, e anche più se fosse stato possibile immaginarlo: ma di quella paura della moglie pareva ancora in tempo a potersi emendare, per poco che osasse: e sapesse padroneggiarsi. Ovvia! Un cucchiaino di coraggio, ¡por Dios!, pensò il dottore nel fare strada.

Un uomo…. come quello! d’una ottantina di chili perlomeno!…. Un uomo….

Sul conto di lui, anche a Pastrufazio, correvano le voci più straordinarie. A Lukones però lo conoscevano meglio, avendolo veduto qualche volta ad imbucare una lettera, o ad acquistar francobolli davanti lo sportello del correo, dove aveva suscitato la curiosità della signorina. Un nemico del popolo?…. Che egli non compatisse agli umili lo si intuiva dall’andatura, dal portamento….: non altezzoso, questo, ma sembrava escludere dallo sguardo, e forse dallo sguardo dell’anima, la miseria e il giallore della poveraglia.

José, il peone, sosteneva ch’egli avesse dentro, tutti e sette, nel ventre, i sette peccati capitali, chiusi dentro nel ventre, come sette serpenti: che lo rimordevano e divoravano dal di dentro, dalla mattina alla sera: e perfin di notte, nel sonno. Dormiva, la mattina, fino alle otto, e anche otto e mezza: e si faceva portare al letto il caffè, dalla Signora, che non finiva più di far scale per quel figlio, povera vecchia! e anche i giornali; per poi leggerli e beverlo fuori a poco a poco, sia il caffè che i giornali, allungato in letto come una vacca: (così diceva il peone): e teneva anche qualche libro desoravìa del cifone, per leggere di tanto in tanto anche quello, come non gli bastasse i giornali, ma in letto. Mentre i contadini, alle otto, son già dietro da tre ore a sudare, e bisogna rifilare il filo alla falce. Così diceva, e ripeteva poi, la gente. Il dottore, in ragione del suo pietoso ministero, aveva avuto occasione d’ascoltar un po’ tutti: e anche la Battistina, la cugina del Batta, domestica alla Villa Pirobutirro: giornaliera e avventizia per la stagione estiva e per le primissime ore del giorno, che hanno l’oro in bocca; e affetta da gozzo.

E poi non aveva mai voluto prender moglie, per esser più libero, questo era positivo, di fare tutto quello che gli frullasse in capo. Della quale indegnità, per altro, il buon dottore e buon padre non arrivava a sdegnarsi con quella virulenza che il caso richiedeva. «Lo stato attuale occlude un potenziale mutamento», argomentò, «e potenza ed atto son madre e figlio, nel nostro aristotelico mondo». E ne aveva una tal voglia, di non prender moglie, che si era affrettato a rifilare alla Peppa il vestito nero di sposo, per il fratello della Peppa, il Peppino: che il vestito glie lo avevano legato come un suo sacro ricordo, morendo, i suoi zii Giuseppe e Nepomuceno, di quei tempi là, che erano stati ambasciatori al Portogallo. Altri però mitigavano l’accusa: egli non s’era affrettato un corno: e anzi lo aveva serbato religiosamente nella naftalina, per quarant’anni: dai cinque ai quarantacinque: mandando anche a casa dei vaglia, quand’era più frusto a sérpere sopra alla pietra, e la sua maledetta pelle non valeva un centavo, dei vaglia perché provvedessero la naftalina al vestito di sposo, e soprattutto il pepe, il pepe! così necessario alla conservazione di qualunque tessuto. Il buon dottore, camminando, sentì di dover condividere questa seconda opinione.

Recentemente s’erano sparse altre voci, tutte assai tristi: o addirittura disgustose. Che fosse iracondo, oltreché uno scioperato, lo si sapeva da un pezzo. Adesso circolava la diceria che, iracondo, in accessi bestiali di rabbia usasse maltrattamenti alla vecchia madre: smentiti per altro dalla Peppa, la lavandaia, ch’era particolarmente dimestica della Signora, e ne riceveva le più dolci ed umane confidenze….: e quindi anche quella reiterata denegazione, della carità e dell’amor materno. Povera Signora!…. Arrivava inatteso. Partiva quando tutti lo credevano a leggere. Dicevano che fosse vorace, e avido di cibo e di vino; e crudele: questo già fin da ragazzo: con le lucertole, che bacchettava perfidamente, coi polli del Giuseppe (il primo Giuseppe, il predecessore dell’attuale), che inseguiva ferocemente con una sua pazza frusta, arrivando perfino, certe volte, tanto era lo spavento, a farli sollevar da terra e quasi volare, pensate! pensate! volare! come fossero falconi, i polli!

Avendogli un dottore ebreo, nel legger matematiche a Pastrufazio, e col sussidio del calcolo, dimostrato come pervenga il gatto (di qualunque doccia cadendo) ad arrivar sanissimo al suolo in sulle quattro zampe, che è una meravigliosa applicazione ginnica del teorema dell’impulso, egli precipitò più volte un bel gatto dal secondo piano della villa, fatto curioso di sperimentare il teorema. E la povera bestiola, atterrando, gli diè difatti la desiderata conferma, ogni volta, ogni volta! come un pensiero che, traverso fortune, non intermetta dall’essere eterno; ma, in quanto gatto, poco dopo morì, con occhi velati d’una irrevocabile tristezza, immalinconito da quell’oltraggio. Poiché ogni oltraggio è morte.

Vorace, e avido di cibo e di vino: crudele: e avarissimo: tanto da recarsi a piedi alla stazione del Prado; mentre tutti i signori veri ci andavano in carrozza, dal Batta o da Miguel Chico, o con automobile propria: o almeno con la corriera. E per avarizia voleva licenziare le donne, lavandaie, domestiche e altre, che assistevano la vecchia signora nel governo di casa, spilluzzicandone qualche soldino o qualche boccon di pane, cioè dagli avanzi delle sue imbandigioni crapulose.

José, il peone, all’osteria del Alegre Corazón, confermava specificamente questo vizio dell’avarizia, uno de’ più brutti e che la chiesa più severamente condanna; e lamentava il poco vino prodotto e il molto che doveva continuamente erogare nel bottiglione dei proprietari, spillando di botte. D’altronde la Peppa, la Battistina, il trattore Manoel Torre, e il suo garzone e messaggero Pepito distributor dei fiaschi, attestavano concordi come i signori Pirobutirro, Madre e figlio, non consumassero se non vini bianchi del Résqueta o de la Sierra Encantadora, che il Torre stesso forniva loro puntualmente, e di qualità, come pure ai frati dell’Eremo, da dir la Messa: o tutt’al più di quelli chiari e leggieri del Nevado o dello Zanamuño. Gli altri feudatari e salumai della plaga erano lodevolmente astemi, pensò il dottore mentre seguitava ad andare, sferzandosi il polpaccio destro (che aveva pieno e robusto, e ciclistico) con quel suo bastoncello di ciliegio. Tutto ciò poteva spiegare la evidente indulgenza, e anzi parzialità, del briccone di Manoel Torre nei confronti del Pirobutirro figlio: si sa, gli osti, per loro uno che non beve vino è da mandarlo in galera…. Qualcuno poi finì per osservare, con dimolta umanità e con una certa gloria, che a Lukones c’è un’aria particolarmente sottile, affamatrice: o almeno stimolatrice d’un sano appetito, per chi arriva su smorto da Pastrufazio, intossicato d’urbanità e d’urbanesimo, e da quella raziocinante piattitudine che ne costituisce il clima.

E il figlio, nelle sue rapide apparizioni, doveva arrivare con fame: e forse l’aspetto della serenità, a lui inconsueto ma nativo a quei colli, in essi così diffuso e dolce, e nelle tremanti stille della campagna, lo invitava a una celebrazione dionisìaca: e il sopore che in elisia clemenza ne solesse vaporare, appiè le altissime nevi. Coronavano cime, gelido diadema dell’eternità. Forse egli chiedeva un oblìo efimero al calice e un tenue stimolo per il gastrico…. ancora…. da dover eludere il giorno, il giorno pastrufaziano! e raggiungere, come potesse, la stella vesperale dell’oceano.

Ma i più soggiungevano che eran fisime, coteste dell’aria buona: fisime belle e buone: che anche la povera gente allora, dopo aver faticato il suo giorno, avrebbe a dover cenare con lo stufato, se la è l’aria buona quella che comanda. No, no. Lui era bianco e rosso: e la malinconia del tramonto non gli vietava di liquidare certe sleppe giù per lo stomaco, di manzo fagiano, che te le raccomando vai, vai! con le cipolline in agrodolce.

Il medico ridacchiò: gli parve, pensandoci, che il figlio Pirobutirro stesse per troppo a rimuginar malanni, chiuso in sé: malanni ormai rugginosi nel tempo: e i pensieri gli attossicavano l’anima, come una spazzatura irrancidita. Certo che intorno a quel suo cliente, così fuori da ogni standard, s’erano andate formando a Lukones le opinioni più strane e correvano, da assai tempo, dicerie di ogni genere. La sua cupidigia di cibo, ad esempio, era divenuta favola. Esecravano unanimi, i poveri, i denutriti, i mendichi, quel vizio della gola, che è così turpe in un uomo, e quel barbaro costume, poi, dopo aver mangiato, di berci anche sopra del Nevado, per giunta, o del Cerro; quasiché fosse, il vorace, a banchetto con le ombre de’ suoi Vichinghi. Nessuno dei feudatari della plaga, per lo più astemi, e taluni anche vegetariani, poteva pensare a un fatto simile senza essere preso da disgusto. «Si mangia troppo!», sentenziò il dottore tra sé e sé. «Una mezza mela, una fetta di pane integrato, ch’è così saporito sulla lingua e contiene tutte le vitamine, dalla A alla H, nessuna esclusa…. ecco il pasto ideale dell’uomo giusto!…. che dico…. dell’uomo normale…. Il di più non è se non un gravame, per lo stomaco. E per l’organismo. Un nemico introdotto abusivamente nell’organismo, come i Danai nell’arce di Troja….» (così proprio pensò) «…. che il gastrentèrico è poi condannato a maciullare, gramolare, espellere….La peptonizzazione degli albuminoidi!….E il fegato!….E il pancreas!….l’amidificazione dei grassi!….la saccarificazione degli amidi e dei glucosi!….una parola!….Vorrei vederli loro!….Tutt’al più, nelle stagioni critiche, si può concedere la giunta d’un po’ di legumi di stagione….crudi, o cotti….baccelli….piselli….raquo;.

Andava, preso da queste considerazioni….«E poi non vuole che corran favole! come nel ’28!….». Alludeva al figlio Pirobutirro.

Nel 1928 si era detto dalla gente, e i signori di Pastrufazio, per primi, che egli fosse stato per morire, a Babylon, in seguito alla ingestione d’un riccio, altri sostenevano un granchio, una specie di scorpione marino ma di colore, anziché nero, scarlatto, e con quattro baffi, scarlatti pure essi, e lunghissimi, come quattro spilloni da signora, due per parte, oltre alle mandibole, in forma di zanche, e assai pericolose loro pure; qualcuno favoleggiava addirittura di un pesce-spada o pescespilla; eh, già! piccolo, appena nato; ch’egli avrebbe deglutito intero (bollitolo appena quanto quanto, ma altri dicevano crudo), dalla parte della testa, ossia della spada: o spilla. Che la coda poi gli scodinzolò a lungo fuor dalla bocca, come una seconda lingua che non riuscisse più a ritirare, che quasi quasi lo soffocava.

Le persone colte si rifiutarono di prestar fede a simili barocche fandonie: escluso senz’altro sia l’ittide che l’echinoderma, ritennero di dover identificare l’orroroso crostaceo in una aragosta del Fuerte del Rey, stazione atlantica assai nota in tutto il paese per l’allevamento appunto delle aragoste. Por suerte qualche notizia della sistematica d’Aristotele era loro arrivata ad orecchio. La quasi ferale aragosta raggiungeva le dimensioni di un neonato umano: ed egli, con lo schiaccianoci, ed appoggiando forte, più forte!, i due gomiti in sulla tavola, ne aveva ferocemente stritolato le branche, color corallo com’erano, e toltone fuora il meglio, con occhi stralucidi dalla concupiscenza, e poi di più in più sempre più strabici in dentro, inquantoché puntati sulla preda, a cui accostava, papillando bramosamente dalle narici, la ventosa oscena di quella bocca!, viscere immondo che aveva anticipatamente estroflesso a properare incontro l’agognata voluttà. Un animale compagno, a Babylon, stando alla leggenda, non lo avevano ancora veduto. E aveva anche avuto cuore, il sin vergüenza, d’intingerli in salsa tartara, uno a uno: cioè quei ghiotti e innocentissimi tréfoli, o lacèrtoli (d’un color bianco o madreperla rosato come d’aurora marina), ch’era venuto a mano a mano faticosamente eripiendo, e con le unghie, dalla vacuità interna delle due branche, infrante!….scheggiate!….E, usatosi financo delle mani, e dei diti, se li era condotti alle labbra unte e peccaminose con una avidità straordinaria.

Poi, satollo, dimesso lo schiaccianoci, aveva trincato.

Del grifo e del naturale porcino di lui, altresì adduceva la favola, in aggiunta di quel di sopra, come nel corso di tutta una interminabile estate egli non avesse cibato se non aragoste in salsa tartara, merlani in bianco con fiotti di majonese, o due o tre volte il peje-rey; e piccioni arrostiti in casseruola con i rosmarini e le patatine novelle, dolci, ma non troppo, e piccolette, ma di già un po’ sfatte, inficiate, queste, nel sugo stesso venutone da quegli stessi piccioni: farciti alla lor volta, secondo una ricetta andalusa, con l’origano, la salvia, il basilico, il timo, il rosmarino, il mentastro, e pimiento, zibibbo, lardo di scrofa, cervelli di pollo, zenzero, pepe rosso, chiodi di garofano, ed altre patate ancora, di dentro, quasiché non bastassero quelle altre messe a contorno, cioè di fuori del deretano del piccione; che erano quasi divenute una seconda polpa anche loro, tanto vi si erano incorporate, nel deretano: come se l’uccello, una volta arrostito, avesse acquistato dei visceri più confacenti alla sua nuova situazione di pollo arrosto, ma più piccolo e grasso, del pollo, perché era invece un piccione.

Ed erano, anche queste patate di dentro, come del resto quelle di fuori, estremamente farinose in un primo tatto della sua lingua, dove però non appena ve le cucchiarasse, dacché il cucchiaio vi doveva adibire, il lurco, le si sdilinquivano subito in un’unica pasta tutt’insieme con il loro involto carnoso, cioè l’evacuato e rinfarcito animale, d’un sapore generale di rosmarino, o, a farci caso, di basilico, che dava però il passo ben presto, e poi del tutto partita vinta, a quel fuoco dannato del pepe rosso. Poiché maciullava tutto in una volta, cioè piccioni e patate e cervelli e lardelli e pepe e chiodi (di garofano), il porco, innaffiandoli poi, che non erano neanche arrivati in fondo, coi vini prelibati della regione preandina, e i pesci invece, e la ragusta, ammappelo!, quelli coi bianchi secchi, limpidissimi, da ventidue e fino ventotto centavos, del Nevado, o del Cerro Pequeño.

E voleva, tra i labbri, d’un diaccio calice il labbro sottile e molato, la vitreità destituita di spessore, la purità frigida ed incorporea, netto cristallo. E in quei momenti di spregio aborriva con ira i bicchierazzi sul tappeto verde, tozzi e isbilenchi come da Manoel Torre, sfaccettati alla peggio insino alla metà e grami di bolle d’aria e d’incrini. Ma in mancanza di meglio non li avrebbe respinti…. neppur quelli! Oh! non era il tipo, così la favola, del «transeat a me!».

Basti dire che queste vassallate dello schiaccianoci e del pepe d’Affrica le usava egli, alla propria ingorda capienza, dentro uno stambugio tenebrosissimo del Riachuelo, dove frequentavano cingani e altre genti di strapazzo e guitarra, e gatti e gatte d’amor libero tra le scarpe de’ pasturanti, in contenzione continova sopra gli ossi di pollo e le resche per quanto iscarnite, che quei superni vanno gittando loro, dopo ogni loro ciminale perpetrato spolpamento, nel suolo gattesco. E dopo questo po’ po’ di lappa lappa aveva anche la faccia, il sin vergüenza, di cercar briga ogni volta al trattore, col dire che quello gli conteggiava simili portate troppo più che una ordinaria somministrazione di puchero. Il trattore, benché avesse a mano il grembiule e non il coltello, – (se ne detergeva usualmente, con quel zinale color sciacquatura dei piatti, il sudato del collo, torno torno tutta la grascia), – lo mandò un bel giorno a far friggere, esortandolo cercar altrove il mangiare, dove potesse intasarsi meglio, e per nulla; e lui allora, el hidalgo, invece di rompergli una salsiera in testa, a quel turpe, si fece mignolo mignolo dalla vergüenza rimpetto a tutti i rimanenti attavolati che pasturellavano e brucavano con tanto decorosa benignità, e taluno glugolando alcun gotto; indiché non appena gli venne meglio sgattaiolò per la porticina di strada: poiché ben vedeva pure lui, per quanto hidalgo fosse, che da nessun altro porcile in tutta la terra avrebbe potuto pascere tozzi d’aragoste con cucchiarate di majonese a quel modo, e a così basso mercato. Qualche volta anche un marchese della Néa Keltiké riesce a capire qualche cosa.

A quella stagione di crostacei e di rosmarini, inaffiatissima, – (e anche pel rovente solare, che comportò, dopo le magre inusitate de’ maggiori fiumi, una estuosa disseccazione delle terre), – vollero le Potestà Ultrici del Cielo che gli seguisse, per il loro giusto intervento, un lungo e costosissimo male. E fu questo a vietargli, una volta per tutte, che seguitasse addoppiar lo stomaco di patatine disfatte impoltonate nei vini del Pequeño: ché lo astrinse a digiuni sempiterni, e lo ridusse incipriare la mucosa del gastrico di caolino a polvere, o magistero di bismuto (sottonitrato di bismuto), come volesse. Che i più onesti tra gli speziali di Pastrufazio glie lo cedevano, il bismuto, a venti volte il costo, col pretesto che arrivava dall’Europa, e precisamente da Darmstadt.

Ridacchiò, il buon dottore, nel figurarsi quella pazza avarizia, mescolata di tal goffaggine che avrebbe voluto ritenere i farmacisti a un profitto del cento per cento.

Egli, il figlio, asseriva d’aver tradotto in bismuto le economie di dieci anni di lavoro, cioè in verità di dieci anni di tirchieria. Nel mito e nel folklore locale, e nonostante le ripetute smentite degli uomini di scienza, fra cui primo lui stesso, il dottore, e subito dopo l’agente delle imposte, terzo il bibliotecario capo dell’associazione fra i coltivatori di pere, e via via quarto quinto e sesto molt’altri, si seguitò a credere e a sostenere, a Lukones, fosse stata la spada del pescespada a perforargli la parete del duodeno, all’incontro d’una svolta pericolosissima, che i notomisti la gabellano, come sogliono, per ansa duodenale o lobo duodenale del gastrico, o collo anseàtico del perigurdio, questo nella terminologia più recente.

«Povero viscerame degli umani!», pensò il buon dottore frustandosi col bastoncello il polpaccio. «E anche quello dei marchesi, che hanno l’arme sulla bertesca». Di arme in arme, di viscere in viscere: di trippa in trippa! E, parallelamente, di pensiero in pensiero, e, forse, di anima in anima. Ma non c’è magistero per le anime sbagliate: le loro piaghe non conoscono cipria. – Tentava, il buon medico, i primi ciottoli della postrema sassonia: una stradaccia affossata nei due muri y por suerte nelle ombre delle robinie e d’alcuni olmi, per l’ultima pazienza de’ suoi piedi eroici.

Oh!, lungo il cammino delle generazioni, la luce!…. che recede, recede…. opaca…. dell’immutato divenire. Ma nei giorni, nelle anime, quale elaborante speranza!…. e l’astratta fede, la pertinace carità. Ogni prassi è un’immagine,…. zendado, impresa, nel vento bandiera…. La luce, la luce recedeva…. e l’impresa chiamava avanti, avanti, i suoi quartati: a voler raggiungere il fuggitivo occidente…. E dolorava il respiro delle generazioni, de semine in semen, di arme in arme. Fino allo incredibile approdo.

Nella sua villa senza parafulmine, circondato di peri, e conseguentemente di pere, l’ultimo hidalgo leggeva il fondamento della metafisica dei costumi.

Ha! Ha!

Egli discendeva in linea maschile diretta da Gonzalo Pirobutirro d’Eltino, stato già governatore spagnolo della Néa Keltiké e resosi anche troppo noto, alle istorie, per la sua sete di giustizia, la levatura altissima, la magrezza del volto, l’animo punitivo, l’inesorabile e predace governo. Nel riscuoter le gabelle ai traghetti, dove bagnavasi il confine del possedimento, o alle porte, dove s’aprivano le munizioni della città, aveva inosservato ogni mitigante cautela, ogni istanza moderatrice o contraria, d’umane o di politiche sceverazioni. «¡Buscador de plata!», lo avevano salutato le genti. Che gracchiano le genti? Non si smagliasse, nella rete dell’idea, lo strappo piscivùlvulo del condono. Ma non soffrì torto a persona un capello, né tolto un centesimo, mai!, che ciò non avvenisse in esecuzione d’un decreto di Don Felipe, el Rey Católico (e poi Don Fernando), o, in difetto, suo proprio; e il centavo non fosse reintegrato per vela nel glorioso erario della Corona di Castilla, in virtú del decreto medesimo, reale o suyo. Per sé non aveva lucrato un peso, né delimato un doblón; non tosato un merino, né fiutata una presa di tabacco. Era morto povero, senza un orecchio, e guercio: per aver lasciato anche un occhio in guerra. «¡A los Reyes salud! ¡Y levántenos a los cansados, Dios caballero, en Su luz!.... con los demás caballeros….raquo;.

Espirate queste parole aveva cessato di vivere, stecchito, da tutti odiatissimo, il 14 aprile 1695. Il Regno dove il sole non arrivava all’occiduo lo aveva elevato alla dignità d’uno stipendio, gli aveva espedito alcuni brevetti, pieni di ceralacca e di congratulazioni reali, conferito il titolo trasmissibile di Marchese d’Eltino, molti nastri, y algunas brazas de tierra sotto i bastioni nuovi di Pastrufazío (allora denominata San Juan), da distendervi l’ossa; ch’erano, non ostante tutto, le più lunghe del Regno. Circa l’onore e il dovere, quali fossero, come adempirvi, pur seguitando a coltivar le unghie, non aveva mai esitato, mai tremato, mai disperato: dacché, alto sul flutto, nel piegare la ruota del timone, soltanto e sempre aveva affisato sua stella. Onta, per lui, e rammarico immedicabile in tutto il siderale corso degli anni, non essere arrivato a tempo a far impiccare sulla forca pubblica certo Filarenzo Calzamaglia o, come dicevan tutti, Enzo, sfuggito di mano della sua giusta giustizia; che gli aveva messo i manichini attorno i polsi durante certi tumulti di San Juan, del novembre ’88. Costui, da un incendio all’altro, e dopo aver ascoltato a cicalare alcuni cretini, aveva fatto il fesso a sua volta, al di là di ogni pensabile provvidenza d’indulto del Governatore, o benignazione della Soprana Clemenza.

Si riteneva da taluni, specie da un dotto genealogista di Pastrufazio, a cui altri, però, davano del visionario, e altri di impostore e di venduto, e fabbricante di duchi senza duchea, che i Pirobutirro avessero poi a dover ripetere nobiltà e sangue dai Borgia, e che in onore di San Francisco Borgia e di Don Pedro Ribera, detto lo Spagnoletto, ricevessero non di rado, al Fonte, i nomi baptesimali di Pedro, o di Francisco. Il bibliotecario capo dell’associazione fra i coltivatori di pere (con sede a Pastrufazio) che, manco a dirlo avea villa e peri in quel di Lukones, nel numero di novembre 1930 del periodico dell’associazione, intitolato «La pera», sviluppò anzi una sua curiosa tesi filologica, in onore non si sa bene se dei Pirobutirro o delle pere butirro, e cioè che «hacer una pera», nell’idioma di Castilla la Vieja, significasse compiere una grande azione.

La cicala, sull’olmo senz’ombre, friniva a tutto vapore verso il mezzogiorno, dilatava la immensità chiara dell’estate. Il buon medico, consumati i peggio dei sassi, era per arrivare al cancello: nella sua mente viva, piena di curiosità e di memoria, questi memorabili della illustre casata si sdipanarono con la prestezza del sogno: l’immagine del suo cliente gli ritornò, dopo quella dell’avo, in una luce assurda.

Per parte materna il suo cliente veniva di sangue barbaro, germanico e unno, oltreché langobardo; ma l’ungaricità e il germanesimo non gli erano andati a finire nelle calze bianche, suole doppie, e nemmeno nei ginocchi, che ricordavano pochissimo quelli di Sigfrido; e anche nel ruolo di leone magiaro che si risveglia aveva l’aria di valere piuttosto poco. Per quanto….per quanto….non si sa mai….

Germanico era in certe manìe d’ordine e di silenzio, e nell’odio della carta unta, dei gusci d’ovo, e dell’indugiare sulla porta coi convenevoli. In certo rovello interno a voler risalire il deflusso delle significazioni e delle cause, in certo disdegno della superficie-vernice, in certa lentezza e opacità del giudizio, che in lui appariva essere inalazione prima che sternuto, e torbida e tarda sintesi, e non mai lampo-raggio color oro-pappagallo. Germanica, soprattutto, certa pedanteria più tenace del verme solitario, e per lui disastrosa, tanto dal barbiere che dallo stampatore. «Bisogna arrabattarsi!», gli dicevano. «Tirare a campare», soggiungevano. Non aveva nessun genio per l’arrabattarsi e il tirare a campare, nel di cui uso si trovava più impacciato che una foca a frigger tortelli. Attediato dai clamori della radio, avrebbe voluto una investitura da Dio, non a gestire la Néa Keltíké per gli stipendi di Don Felipe el Rey Católico, bensì a scrivere una postilla al Timeo, nel silenzio, per gli stipendi di nessuno.

E c’era, per lui, il problema del male: la favola della malattia, la strana favola propalata dai conquistadores, cui fu dato raccogliere le moribonde parole dello Incas. Secondo cui la morte arriva per nulla, circonfusa di silenzio, come una tacita, ultima combinazione del pensiero.

è il «male invisibile», di cui narra Saverio López, nel capitolo estremo de’ suoi Mirabilia Maragdagali. (1)

 

1. «I Mirabilia di questo buon Padre López, viaggiando e conoscendo quelli strani costumi, paion voler accreditare una sorta di moralità, o etica, per quanto discosto dalla consueta e perenne controversia de’ filosafi circa la predestinazione e l’arbitrio libero: e discrivono il macchinismo interiore e propio della vita d’ognuno. L’ultimo suo capitolo, in sul sopravvenir della morte, argomenta la è una discongiuntura o spegnimento d’ogni accozzo di possibilità compatite: tantoché la ti vien tacita, e come la ti camminassi dietro le stiene» (Bandinelli).

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859

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