Pocket Gadda Encyclopedia
Edited by Federica G. Pedriali
Carnevale
Niva Lorenzini
Si potrebbe risalire alla Scapigliatura, specie a quella lombarda, con appendici nel Demetrio Pianelli del De Marchi, ad esempio, per monitorare la frequenza di un tema abbastanza diffuso presso la narrativa tardo ottocentesca: quella che utilizza il carnevale, appunto, momento topico della convivenza degli opposti e dello scoronamento, per verificarne gli effetti in ambiente piccolo borghese, tra le tristezze di un vivere da travèt.
Niente ostacola l’instaurarsi di un confronto: e però si avverte subito, in Gadda, uno scarto profondo rispetto a quella tradizione. Il suo carnevale assume, infatti, nei luoghi più significativi del suo manifestarsi (segnatamente nell’Adalgisa e nella Cognizione), connotazioni perfettamente ascrivibili al sistema strutturale, semantico, stilistico gaddiano. Si tratta sovente di situazioni tematiche tra loro direttamente collegate, di opera in opera, secondo i modi di una riscrittura che, attraverso un complesso procedere variantistico, si conferma caratteristica peculiare del sistema compositivo di Gadda.
Nell’Adalgisa è il disegno milanese intitolato Quando il Girolamo ha smesso… ad accogliere all’interno del tragicomico resoconto del fallimento di un’impresa di pulizie e lucidatura di pavimenti – la Confidenza dei fratelli gemelli Pietro e Luigi Borlotti, «el Pèder» e «el Lüìs» (RR I 309) – un accenno del tutto imprevedibile al carnevale ambrosiano. Elegia, si è detto, di quel racconto di abitudini dismesse (la «Milano che dispare», RR I 326), e insieme risentito affondo caricaturale contro la borghesia milanese – l’elegia, per il Contini della Nota che accompagna l’edizione einaudiana del ’63, vi trovava anzi direttamente «la sua garanzia nella caricatura» (Contini 1989: 12). In quel contesto, il carnevale irrompe d’improvviso, argomento del tutto anomalo, frammento narrativo che sollecita l’affioramento istantaneo degli «esagitati umori» e del «fondo di totale irrazionalità» cui accennava ancora il Contini.
è che il carnevale gaddiano introduce disordine nel sistema, e deformazione, sconcezza: anticipato dai «nasi brodosi» dell’Adalgisa (RR I 309), che paiono sul momento non appartenere a quell’orizzonte diegetico, così come, di lì a poco, i «nasi brodosissimi», complice il raffreddore da fieno, dei gemelli Borlotti (mentre si rivelano, invece, del carnevale gaddiano, precisi indizi, segnali peculiari, confermati più tardi dalla ripresa nella Cognizione – «Ma allora dalla giostra, gli pareva la musica del cenciume, del naso brodoso […]») (RR I 734), esso assume subito i toni di una smodata rappresentazione dell’eccesso, dello sconveniente. Eccesso lessicale, sintattico, in primo luogo, che l’enumerazione a elenco veicola a meraviglia, tra paronomasie e slittamenti metonimici:
Il carnovale impazzava per le vie, come suole, ed era una mucillaginosa mattina di febbraio: piena di influenze, di grippes, di agrippine, di tossi, di catarri, di pasticche, di broncopolmoniti, di sputi, di sternuti, di nasi rossi, e di interminabili ed estremamente redditizie soffiate di naso […]. (Adalgisa, RR I 310)
Eccesso semantico, anche, a sfida del decoro e dell’ordine. Si respira già aria di oltraggio, mentre il « Carnevalone» (RR I 315) impazza, nelle forme di climax ascendente, trasformando i «nasi rossi» sopracitati in «nasoni» infiammati e sugosi, e «starnutando trombate di coriandoli in viso alle genti». Toccherà alla Cognizione (dopo un veloce accenno nelle Meraviglie d’Italia: «il trombettìo d’un paventato carnevale […] i coriandoli sive confetti» della Nota bibliografica che correda l’edizione Einaudi ’64 – Gadda 1964a: 274) confermare l’idiosincrasia da coriandolo (la «nuvolaglia triviale dei coriandoli», che collaborerà a provocare «disagio» e «onta», tra i «soprusi della folla», RR I 734), oltre che avvalorare l’esperienza della violazione, dell’affronto («Manate di farina di gesso negli occhi») e di una ebete rappresentazione dell’insensatezza (sarà di nuovo un «naso rosso» a significarla: «Il pagliaccio non lo faceva ridere, neanche per sogno, col naso rosso, col viso sciocco, infarinato, pieno di miseria», RR I 735).
Il contesto sarà mutato, nonostante le riprese lessicali che, una volta rimescolate nel calderone linguistico, si predispongono a utilizzi plurimi: valga per tutte la «mucillaginosa mattina di febbraio» dell’Adalgisa (RR I 310), che proietta la sua vischiosa connotazione sulla nauseabonda resa gastronomica, da intruglio repellente, della Cognizione: «Il poema sperato con una fanciulla rosa in cima al trapezio […] gli naufragava nell’odore dei mandorlati scadenti, nella chiara d’ova mucillaginosa» (RR I 734). Dalla trivialità intesa come esplosione ribalda, ma a suo modo vitale – da «combriccola della lingera», braveria da ragazzotti di manzoniana memoria (RR I 316) – di una sregolatezza fastidiosa eppure sotterraneamente divertita e foneticamente fertile («coriandoli, coriandoli: e spari di castagnole, e raganelle, e trombette! e trombettate granite, come vi desse vento Malacoda», RR I 315), si approderà cioè a una messinscena iraconda e biliare della deformazione.
Sarà l’«infanzia malata» di Gonzalo (RR I 735) – e «frustrata, soffocata» – a misurarsi, in quel caso, con la dismisura del carnevale: e non si tratterà certo di elegia. La materia dell’Adalgisa si torce nella Cognizione, e si contorce, sino ad esiti espressionistici grandiosi, di rabelaisiana potenza, nel trionfo di un lessico escrementizio e infernale, a celebrare lo scoronamento di ogni illusa e illusoria fiducia nell’Ordine, di fronte al rivelarsi del Male (quello invisibile, che nasce dentro, nelle profondità dell’inconscio). Di fronte al trauma del bimbo Gonzalo «impaurito al collasso» (RR I 734), che «implorava da Dio la fine dell’allegrezza», si porrà la sfida al rialzo di una scrittura che si misura col mostruoso, il deforme, il diabolico, in un accanimento linguistico condotto sino al delirio concitato e forsennato, nella sua allucinata torsione fonica.
Il carnevale triviale diviene così efficace ipotiposi dell’oltraggio: una resa figurativa di frustrazioni reali o immaginarie tradotte in saga infernale, tra sbracate, oscene cavalcatrici e «rimbambiti cavalli» (RR I 734). E la materia fecale, linguisticamente degradata, cresce su di sé in tumefatta progressione («Quella, che il bimbo pativa, non era la festa di una gente, ma il berciare d’una muta di diavoli, pazzi, sozzi, in una inutile, bestiale diavolerìa», RR I 735), per poi tacere d’improvviso, nella rassegnata e composta autoanalisi di un trauma precocemente sperimentato, una cognizione del dolore che si sconta come iniziazione al vivere («Si trattava certamente, pensò adesso di sé il figlio, di una infanzia malata»).
In rapporto a quel trauma, il carnevale gaddiano si spinge dunque ben oltre il bachtiniano scoronamento, divenendo pretesto per la rappresentazione della dismisura, metafora dell’onta non risarcibile.
Università di BolognaPublished by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-00-0
© 2002-2024 by Niva Lorenzini & EJGS. First published in EJGS (EJGS 2/2002). EJGS Supplement no. 1, first edition (2002).
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