Pocket Gadda Encyclopedia
Edited by Federica G. Pedriali
Gioielli
Federico Bertoni
Ci sono ossessioni che percorrono l’opera degli scrittori, e che permettono alla raffinata arguzia dei critici di tracciare mappe tematiche, diagrammi di corrispondenze, e perfino indimostrabili cartelle cliniche. I gioielli, per Gadda, sono una di queste ossessioni, posta alla confluenza tra storia e scienza, tra mondo organico e mondo inorganico, tra il disordine convulso delle vicende umane e il geometrico, cristallino rigore delle formazioni minerali. Si potrebbe intrecciare una rete tassonomica per imbrigliare questa ossessione, intersecare i due assi di una pseudo-griglia cartesiana: un asse naturale, fisico-chimico, su cui disporre le pietre e i minerali plasmati dalla terra (diamante, diaspro, granato, lapislazzulo, opale, smeraldo, topazio); e un asse artificiale, cultural-tecnologico, in cui catalogare i manufatti dell’arte umana (anello, braccialetto, collana, ciondolo, spilla, orecchini).
E tuttavia, di fronte al groviglio del reale, non c’è tassonomia né nomenclatura che tenga. Perfino l’algida, cristallina perfezione delle pietre viene inquinata dalle «ragioni oscure e vivide della vita» (RR I 119), e l’inerte campionario di oggetti diventa un formidabile catalizzatore di gesti, significati, simboli, emozioni. I gioielli, innanzitutto, motivano le azioni e segnano i punti di snodo dell’intreccio, soprattutto nel Pasticciaccio (furti, aggressioni, ritrovamenti, ricostruzioni indiziarie), anche se il loro valore, per Gadda, è certo più simbolico che strettamente economico (e dunque narrativo).
Perché i gioielli sono oggetti che fanno pressione sull’immaginario, che sprigionano un oscuro, ipnotico, irrazionale potere di fascinazione, e che si prestano (appunto) a diventare ossessione, «idea fissa», un po’ come i brillanti della madre di Gonzalo che assumono un esplicito «valore simbolico (salvare la continuità della famiglia)» (Gadda 1987a: 555). Così, vediamo Gonzalo che fissa uno sguardo inquietante e ossessivo sulle «bòccole» della madre, mentre il grido «“I mè brilànt” e la paura-speranza di sentirseli un dì sradicar d’orecchio – con eventuale lacerazione del lobo – da una mano virilmente predatrice, sono una delle più ghiotte, segrete immaginative della gentildonna che risfòlgora in brillanti», fatta oggetto di mordace satira in uno dei disegni dell’Adalgisa (RR I 304).
Di più: i gioielli magnetizzano desideri, invidie, fantasticherie, leggende; sono concupiti, sognati, avvolti in un magico alone da Mille e una notte, come il tesoro della Menegazzi o come il topazio che innesca il rutilante sogno di Pestalozzi; e poi alimentano superstizioni, veicolano soprasensi simbolici, denotano i sintomi di una dilagante psicopatologia; diventano, insomma, altrettante parole di un linguaggio, i segni di un particolarissimo codice psicologico. Liliana, nel suo ambiguo rapporto con Giuliano, costruisce «un complicato sistema di simbolismo erotico» (Amigoni 1995a: 115) basato sul dono dei gioielli: un anello con brillante ereditato dal nonno, e soprattutto un ciondolo d’oro in cui ha fatto sostituire l’«opale azzurro cenere», «pietra sublunare, pietra elegiaca» dalle «sinistre attitudini» (un vero «portascarogna»), con un «bellissimo diaspro rosso» da accompagnare al «diaspro sanguigno» che orna un altro anello di Giuliano (RR II 108).
Del resto, questa sua «manìa di dare, di regalare» (SVP 946) non è certo l’ultimo sintomo, né il più irrilevante, di una pulsione autodistruttiva che la porterà alla morte, a quel brutale, irreversibile ma forse desiderato «rientro nell’indistinto» (RR II 105), se è vero, come spiega Gadda sulla scorta di Freud, che «il folle donare è sintomo clinico delle sindromi schizofreniche»: «La personalità si dissocia nel dolore: e con lei si dissocia, si disperde materialmente, la “sostanza” economica, che entra a far parte della personalità» (SVP 965). In questo senso, anche smarrire gli oggetti preziosi è un sintomo clinico: è un’«azione sintomatica», direbbe Freud, che equivale a un «volontario sacrificare», come se offrissimo un «sacrificio alle oscure potenze del destino, il cui culto non si è spento ancora fra di noi». (1) La Menegazzi allora, forse per appagare desideri che si deve interdire (Amigoni 1995a: 111), dimentica «al cesso» un «anello con un topazzio o topazzo» (RR II 51), colpita da quella stessa «facoltà oblativa» che induce la signora Campanini, nella Gazza ladra, a «smemorarsi del denaro e dei gioielli», a dimenticare «nel “bagno” il collier di perle», o a deporre macchinalmente su un tavolino il «braccialetto che aveva già smarrito e recuperato due volte, in due diversi gabinetti, di due diversi alberghi» (RR II 835 e 837).
C’è un luogo però in cui l’immaginario gaddiano dei gioielli trova la sua piena manifestazione, e in cui il miraggio di ogni più ordinata tassonomia deve per forza svanire, travolto dal disordine entropico del mondo (e della scrittura). Nel nono capitolo del Pasticciaccio, quando Pestalozzi riesce fortunosamente a ritrovare i gioielli della Menegazzi, Gadda si lascia andare a una delle più straordinarie, babeliche, divaganti descrizioni presenti in tutta la sua opera. La descrizione, ci è stato detto, è per sua natura disordinata, anarchica, sovversiva: sostituisce la concatenazione logico-causale dei fatti con un’enumerazione arbitraria, centrifuga, guidata dal divagare casuale di uno sguardo o da un’accumulazione virtualmente infinita di dettagli. Di qui il sospetto che l’ha sempre circondata, la condanna a un ruolo ancillare, e il tentativo intrapreso dai trattati di retorica di imbrigliarla in un codice e in un presunto ordine naturale.
Gadda, da parte sua, restituisce alla descrizione tutto il suo potenziale destrutturante, e sovraccarica gli oggetti descritti con una pluralità di gerghi, codici, registri, connotazioni, punti di vista. Così, lo sguardo di Pestalozzi vaga e cerca di dare un nome, per quanto improprio, a quei favolosi oggetti «d’ogni più color curioso e d’ogni forma»: vede «un bel cilindretto verde nero lustro», «un povero ovolino tra celeste chiaro e bianchiccio», «un grosso anello […] con una caramellozza ovale verde arancio», e così via. (RR II 230). Ma al suo sguardo si sovrappone una visione più ampia, un lessico più perspicuo e colto, quello di un narratore che inquadra ogni oggetto in una precisa, univoca designazione chimico-mineralogica (rubino, smeraldo, corindone, sesquiossido Al2O3), e che soprattutto considera ogni pietra, gemma o monile nient’altro che una parvenza, cioè la manifestazione presente, incompleta e superficiale di una realtà ben altrimenti profonda e segreta. «Memoria, ogni gemma, ed opera individua dentro la memoria lontanissima e dentro la fatica di Dio», «chicca misteriosofica, nelle antiche viscere del mondo celata, alle viscere del mondo carpita, un giorno, geometrizzata a magia» (RR II 230-31).
Così, ogni pietra nasconde un destino, una storia segreta, che si estende nello spazio e nel tempo e che risale ai recessi immemorabili di un «livello minerale, plutonico, di tesori nascosti» (Calvino 1995: I, 255): il «grosso anello a cilindro d’oro fasciante» può avere «cerchiato il pollice all’Enobarbo o l’alluce a Elagàbalo», il «corindone» è «venuto di Ceylon o di Birmania, o dal Siam» (RR II 230-31), come la gemmante «nocciuola» ostentata dalle signore milanesi, nell’Adalgisa, «valicati i millenni, […] era pervenuta a mano dello smerigliatore di Amsterdam: che l’aveva sfaccettata, molata, polita» (RR I 306). Nei gioielli, oltre al presente, convergono insomma anche il passato e il futuro, l’incubazione genetica e un’indefinita e labirintica traiettoria spaziale. «Ogni pietra – scrive Roscioni –, ogni oggetto, ogni fatto è dunque suscettibile di innumerevoli significati. Gli oggetti sono punti da cui partono (o, piuttosto, in cui convergono) raggi infiniti, e non hanno, non possono avere “contorni”» (Roscioni 1969a: 15).
Non basta dire ciò che sono qui e ora, perché ogni gioiello è un groviglio, un nodo nella rete, la punta emersa di un iceberg infinitamente esteso e ramificato (origini, cause, relazioni, storie possibili, metamorfosi). «Il presente – ha scritto Leibniz – è pieno dell’avvenire e carico del passato, […] e nella più piccola sostanza occhi penetranti come quelli di Dio potrebbero leggere tutto lo svolgimento delle cose dell’universo». (2)
Università di BolognaNote
1. S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi (Torino: Bollati Boringhieri, 1978), 73, e Psicopatologia della vita quotidiana (Torino: Bollati Boringhieri, 1971), 220.
2. G.W. Leibniz, Nuovi saggi sull’intelletto umano (Roma: Editori Riuniti, 1993), 49-50.
Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-00-0
© 2002-2024 by Federico Bertoni & EJGS. First published in EJGS (EJGS 2/2002). EJGS Supplement no. 1, first edition (2002).
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