Gadda milanese

Giorgio Cavallini

1. A parlare di Gadda milanese si rischia di incorrere, da una parte, in una tautologia, perfino troppo ovvia, e, dall’altra, in una sorta di involontaria deminutio.

Quanto alla prima, si sa che la milanesità è connaturata in Gadda innanzi tutto perché egli nacque a Milano il 14 novembre 1893, da famiglia borghese e lombarda, e ivi, dopo aver ricevuto un’ottima «educazione elementare» nelle scuole del Comune come testimonia egli stesso, conseguì nel 1912 la maturità classica al Parini e nel 1920, con l’intervallo della guerra 1915-1918 alla quale partecipò, la laurea in ingegneria industriale, sezione elettrotecnica, all’Istituto Tecnico Superiore, l’odierno Politecnico. E sempre a Milano, dopo il «lavoro ingegneresco in società elettriche (termo e idro)» (SGF II 874) in Sardegna, in Lombardia e in Argentina, insegnò nel 1924-1925 matematica al Liceo Parini e frequentò il corso di filosofia teoretica di Piero Martinetti. Ma, a parte il legame di vita con Milano, (1) la sua milanesità è manifesta nell’uso che egli fa, in molte opere, del dialetto meneghino, una delle componenti e varianti dialettali prima assorbite e poi mescolate nell’impasto o «calderone» linguistico caratteristico della sua scrittura composita.

Quanto alla deminutio, è altrettanto noto che nel plurilinguismo, con cui Gadda esprime la totalità della propria visione del reale – di qui la sua esuberante ricchezza inventiva –, sono convocati e adoperati altri dialetti: dal fiorentino nel Primo libro delle Favole (1952) al romanesco, largamente diffuso da solo o in alternanza con altre parlate più meridionali, nel Pasticciaccio (1957). Senza contare, inoltre, la continua escursione tra lingua e dialetto, (2) tra lingua colta e lingua parlata, tra lingua letteraria e lingua dell’uso, nonché la tendenza all’enumerazione, all’accumulo, all’invenzione (con variazioni, deformazioni onomatopeiche, neoformazioni) (Roscioni 1969a: 94) di sinonimi di qualsivoglia vocabolo o espressione, sulla base dell’esigenza di poter liberamente cacciare in ogni zona linguistico-espressiva (cfr. SGF I 493). Segno, dunque, di un’arte non già del levare bensì dell’aggiungere (cfr. SGF I 490).


2. Prima di compiere una veloce perlustrazione attraverso alcune opere gaddiane, specialmente L’Adalgisa e La cognizione del dolore, non escluso qualche racconto, al fine di verificare l’uso del dialetto milanese fatto dall’autore, è opportuno citare, come necessaria base o premessa, il Post scriptum di una sua lettera a Gianfranco Contini, datata 24 aprile 1946. In esso, infatti, emerge con evidenza e chiarezza la molla che spinge uno scrittore come Gadda, molto sensibile al problema della lingua in generale, (3) a cercare di impadronirsi dei dialetti:

Volevo ora, cogliendo a volo il bicerott, chiederti se dette insinuazioni dialettali nel testo, (a rilettura), disturbino molto. Un giudizio al riguardo mi sarebbe indicazione preziosa per il futuro lavoro. Temo che fuori luogo (Milano) e fuori tempo la mia prosa debba essere dégoutante.
Tu mi risponderai che nulla meglio della pietra di paragone della traduzione vale o varrà a rispondere (e credo duramente) alla mia angoscia. L’insinuazione del dialetto è la mia forma di accostamento al pòppolo, è il mio modo di partecipazione al suo giro mentale e al suo essere e alla sua espressione, che talvolta raggiunge un’icastica di alto valore. Senza ricadere in estetiche romantiche, la «questione della lingua» è però sempre aperta in ognuno che scrive, è il problema essenziale della «materia» nostra, come i tubetti di colore per i pittori. Io non posso gocciolare ovverosia sbrodare d’amore come certi populisti un po’ gratuiti (l’amore è il refrain odierno) da Eluard a Elio e a Féfé per carenza di adeguate riserve di broda: il mio modo di amare è quello di partecipare alla espressione comune, che in Italia si appoggia largamente ai dialetti: se avessi fiato (cioè gioventù e denaro) vorrei viaggiare tutt’Italia, impadronirmi dei dialetti: fare un pasticcione con interlocutori nei varî dialetti […]. (Gadda 1998: 35-37)

Come rileva il curatore, che cita in nota il passo del racconto L’incendio di via Keplero in cui il termine dialettale «biceròtt» (= bicchierotto) ricorre più volte (RR II 710), Gadda «temeva che l’uso», frequente in tale racconto, «di parole in dialetto milanese fosse di ostacolo alla traduzione in francese del testo ed era quindi disposto a eliminarle». (4)

Propiziato dal «bicerott», il Post scriptum mette in evidenza le due motivazioni fondamentali che sono alla base del rapporto dell’autore con i dialetti. Il fervente desiderio di impadronirsene non solo corrisponde all’intento di accostarsi al popolo, partecipando «al suo giro mentale e al suo essere e alla sua espressione», ma soprattutto denota, come si è visto a proposito dei «doppioni» e «triploni» e «quadruploni», quell’aspirazione alla totalità che caratterizza la visione gaddiana del reale e la volontà dello scrittore, in quanto tale, di non lasciarsi sfuggire niente di essa: il che sottende un’intuizione della vita e del mondo che, a sua volta, vuole trovare costante espressione nella totalità (5) della rappresentazione artistica.


3. Nei disegni milanesi dell’Adalgisa i modi mentali e idiomatici di personaggi calati nel loro ambiente naturale acquistano spesso evidenza grazie all’uso del dialetto, ora più effuso ora limitato a una singola espressione, a una frase caratteristica. Difatti esso, per la sua aderenza diretta alla realtà rappresentata, si sottrae alla convenzione linguistica che, invece, si adatta meglio ad esprimere l’apparire o il sembrare anziché l’essere, ovverosia le meschine velleità e ipocrisie proprie della borghesia locale. Perciò, in genere, Gadda fa ricorso a un italiano ricercato, una sorta di milanese toscanizzato, e anche, talvolta, a vocaboli e locuzioni attinti liberamente da lingue straniere per riprendere il tono di certa conversazione medio-colta o pseudo-colta, banalmente piatta e pretenziosa.

Gli effetti parodici, ottenuti alternando e mescolando dialetto, frasi fatte ed eloquio improntato ad affettazione, vale a dire immediatezza, ovvietà ed artificiosità, risaltano – come afferma lo scrittore stesso – «non soltanto nel dialogato, ma nella didascalia e nel contesto in genere, quasicché a propria volta l’autore si tuffi nella bagnarola e nell’acqua medesime ove poco prima erano a diguazzare i suoi colombi» (RR I 374-75). (6) Si veda, come esempio, il personaggio dell’Adalgisa:

Tutta la sua «mentalitàa», come dicevano allora a Milano, cioè la sua «psicologia» (come sosteneva Remigio, ridendo, imbrogliando i suoni) di donna di popolo, di cantante, e di stiratrice in proprio, fu rivolta invece – con una coerenza d’atti e di contegno ammirevole, con una tenacia e razionalità che ebbero, secondo me, del sublime – a evolversi, a trasfondersi in una borghese perfetta, in una «signora» al cento per cento. Con due domestiche, cuoca e cameriera, con un marito in piena regola, con un ottavino di palco alla Scala, a sentir cantare gli altri, no a cantar lei: con un «breloque» «tempestato di diamanti» sull’avvallamento centrale del seno: che era un seno piuttosto ragionativo. (RR I 536)

Nel passo si può cogliere la tendenza gaddiana ad avvalersi, con la massima libertà, di parole linguisticamente dissimili, accostate e inserite a bella posta nella scrittura: due termini in lingua madre virgolettati, quasi a sottolinearne la seriosità rispetto al contesto («psicologia», «signora»); il sostantivo francese «breloque» (da femminile divenuto maschile in meneghino), accompagnato dalla locuzione «tempestato di diamanti» nella quale si avverte l’eco compiaciuta della ricercatezza borghese; due inflessioni dialettali legate a precisi riferimenti ambientali. Queste, che qui interessano, sono mentalitàa (con la glossa: «come dicevano allora a Milano») e un ottavino, cioè un ottavo dell’abbonamento intero a un palco della Scala. La prima in grande evidenza, ad apertura del brano; la seconda quasi dissimulata, ma importante perché collocata in grazioso contrasto con la rivalsa istintiva (legata, quindi, circolarmente alla mentalitàa) dell’espressione seguente: «a sentir cantare gli altri, no a cantar lei».

Nonostante il matrimonio borghese e le sue pretese di innalzamento sociale, l’Adalgisa rimane una donna del popolo. Orfana, aveva cominciato da stiratrice, anzi da «piscinina» (RR I 528), «bimba o giovinetta […] che impara il mestiere di sarta o modista o camiciaia o stiratrice» (RR I 561); poi gli zii le avevano fatto studiare canto ed era diventata una Violetta e una Gilda di quinto ordine, popolare e ammirata – detta portianamente la «Tettón» o, con «sgangheratura affettuosa», la «Tetàscia» (RR I 529) –, prima di sposare il ragionier Biandronni, «el me Carlo» o «il povero Carlo» (RR I 539), come diceva solitamente dopo essere rimasta vedova. Donna di popolo «sana e buona e con la lingua spiccia, e piuttosto prepotentella» (RR I 535): specie quando, come nel caso di un violento battibecco domestico, dà sfogo all’impertinente villania che le ribolle per tutte le vene, e sul viso accalorato:

«E poeu ten bèe a ment che chì sèmm in cà mia, e minga in cà toa!…. E in cà mia gh’è l’inciòster che me fa còmod a mì…., cara el me bel ragionàtt!». «Tì…. se te voeuret fà i cünt de la Vercelina col tò inciòster, va foeura de cà mia…. Va a cà toa!…. che tant e tant i to cünt….», alzò le spalle, «…. per quel che me renden a mì….»
Poi, dal sarcasmo al furore: «E on’altra volta tira minga a man de mètess in lett ai quatr’ôr de sira…. col sòfegh che fa…. Perché te fo côr a sciavatàt giò per i scàal….».
Si fermò di botto. Sardonica, girata di tre quarti: davanti l’uscio: le mani sui fianchi. Ebbe un ghigno: atteggiando i labbri, il volto, a un incontenibile dispregio. «…. Bei cünt!…. Ha!…. E per quel che me renden!....» (RR I 542) (7)

In questa violenta requisitoria, come si constata, il dialetto la fa da padrone e ben caratterizza lo scatto umorale e popolaresco della donna, pronta poi, di fronte alla mansuetudine del futuro marito, a fare la pace e a blandirlo, «accostando il suo nasino» a quello di lui e «strusciandoglielo su, sulle guance, come si fa col gatto quando siamo in vena di tenerezze: (e lui non graffia)» (RR I 543).

Insomma, si può dire con Gadda che l’Adalgisa è «una di quelle meravigliose donne lombarde che il proprio vigor di cervello manifestano in pragma (le idee per loro sono atti), cioè in una prescienza vittoriosa d’ogni obiezione: col postulare dovunque, davanti a chiunque, la certezza della propria infallibilità. […] La lingua ce l’hanno, il “carattere” anche» (RR I 500). Tra i molti altri esempi dei suoi modi espressivi, che si potrebbero fare, ci si limita ad alcuni connotati dal dialetto o da inflessioni dialettali: «Soltanto…. Sceglilo bene…. Càtel foeura cont i occ avert….» (RR I 513); «Del resto, non bisogna credere che pensasse domà a gòdere» (RR I 515 e 553, n. 6: «soltanto a godére: in un italiano raggiunto partendo dal dialetto: gòt si tramuta in gòdere. Così talvolta il romano ha sédere per sedére; da séde»); «“Grazie tante”, diceva, “ma gh’ô de ndà ankamò in de la zia….” E infilava i guanti» (RR I 536); «tutte le volte che ci convitò “al me quart pian, se vorìi vegnì sü a mangià l’ingüria”. Era questa la formula rituale dell’invito. “A pacià e bêf e lavà la facia”, aggiungeva ridendo, secondo un’antica e divertentissima spiritosaggine di mia gente» (RR I 537); «“Marmognón, d’on marmògna!” lo blandì la donna» (RR I 543) (cioè «brontolone», RR I 563 n. 45); «“Dopo tütt, l’è on òmm anca lü, cont i so barbìs….” Un uomo. Oh! Di questo era certa» (RR I 544); «“Se non fossero state quelle cagne, che anni felici” sospirava, “e anche non ostante tutti i disastri, e il fallimento del poer Vanni!” Le cagne, chi non lo immagini già da sé, erano le parenti acquisite nella nuova parentela» (RR I 545); «“Non sono mai stata abituata (bitüvàda) a dormire in piedi!….”, diceva. “Non posso stare senza far niente, neanche al Monumentale….”» (RR I 550).

Nella parlata dell’Adalgisa il dialetto nativo, carico d’irruenza e di trionfante vitalità, si alterna e mescola talvolta con il linguaggio d’accatto, acquisito, che essa sfoggia per finezza, nell’intento di darsi un tono, oppure per una sorta di ritegno borghese. Di esempio è il passo seguente, in cui alla leziosaggine di certi termini incolori in italiano («verginella», «porcello») fanno contrasto il ricorso al «mì» e l’«andamento ossitono cioè sincopato» (SGF I 518) delle frasi in dialetto, pronunciate con foga («come quel stupid kì, […] che l’è passàa domà adèss»):

E la maggiore di età finì per assumere un tono stizzito, seccamente enunciativo, grandinativo: dirupò nell’autobiografia, «mì, mì, mì», come le capitava sovente, ormai. «Oh…. Ero anch’io come te…. fo minga per dì,…. Ma si voltavano tutti…. Come quel stupid kì, vàrdel,…. che l’è passàa domà adèss:…. ma perché non li guardi?…. Non potevo venir fuori del portone che subito ci avevo due o tre scemi dietro…. ogni volta…. E signorina di qui…. e vorrei darle un bel bacione di là…. e bella biondona a sinistra…. e bella verginella a destra…. Se troeuvom!…. Oeuh, già!…. E mi guardi solo un momento…. e se lei vuole le posso insegnar io a far l’amore…. Si sa, gli uomini…. sono uno più porcello dell’altro…. (Elsa orripilò del vocabolo). (RR I 501)

A prescindere dall’intento parodico, nei disegni dell’Adalgisa si registrano anche rapide allusioni in dialetto, intese a suggerire mimeticamente il colore locale. E a evocarlo basta, talvolta, un soprannome appioppato in maniera scherzosa o confidenziale: «el Lingéra» (= teppista, bullo); «el Baûscia» (= bavone, cioè moccioso); «el Pistòla» (= ragazzotto); «el Gainàtt» (= bevaccione); «el Scirésa» (= ciliegia) («gergale: equivale a “el Pistòla”, ma senza le sue (meno bonarie) sfumature»); «el Casciavìt» (= buono a nulla). Oppure è una peripezia domestica che fa scattare la voce dell’attaccamento muliebre per una cianfrusaglia, ricordo del lontano viaggio di nozze: «oh poera mì, i òstrik del mè viàcc de nòzz» (RR I 327). Oppure è una esclamazione che, pronunciata dapprima in lingua, viene ribadita in dialetto con il risultato di far prorompere con maggior forza ed efficacia un moto o uno slancio: «Vi ringrazio, mio Dio!…. Ve ringrazzi propi de coeur!» (RR I 371). Oppure, ancora, è una imprecazione in dialetto che illumina gli altri particolari ambientali sparsi, come nella sequenza della mela, che schizza dal piatto fra le scarpe dei camerieri, durante la scena, memorabilmente grottesca, del pasto consumato nel pubblico restaurant dai borghesi arrivati, seduti a tavola e intenti a mangiare gli ossibuchi:

Oh rabbia! mentre tutti, invece, seguitavano a masticare, a bofonchiare addosso agli ossi scarnificati, a intingolarsi la lingua, i baffi. Con un sorriso appena, oh, un’ombra, una prurigine d’ironia, la coppia estrema ed elegantissima, lui, lei, lontan lontano, avevan l’aria di seguitar a percepire quella mela, finalmente immobile nel mezzo la corsìa: lustra, e verde, come l’avesse pitturata il De Chirico. Nella quale, bestemmiando sottovoce, alla bolognese, ci intoppavano ogni volta le successive ondate dei fracs-ossibuchi, per altro con lesti calci in discesa, e quasi in rimando, l’uno all’altro: alla Meazza, alla Boffi. Erano degli stramaledìsa buccinati via come sputi di vipera, non tanto sottovoce però da non arrivare a capir cosa fossero […] (RR I 435; RR I 699-700).

La serie di imprecazioni violente, condensate nell’unica parola in dialetto del brano («stramaledìsa»), suggerisce immediatamente, con efficacia mimetica, l’ambientazione alla quale, per altro, concorrono anche l’accenno ai calciatori Meazza e Boffi, entrambi militanti nelle due maggiori squadre milanesi degli anni Trenta e Quaranta (rispettivamente, l’Ambrosiana Inter e il Milan), e, nel capoverso precedente, il gioco di parole tra marchese e Marchionn, noto personaggio creato dal Porta. (8) Senza contare l’ossobuco con risotto, piatto gastronomico tipico della cucina milanese, (9) che è uno dei motivi di fondo della scena sviluppata in un vero e proprio crescendo: «ordinavano loro con perfetta serietà “un ossobuco con risotto”»; «E il cameriere accorreva trafelato, con altri ossibuchi»; «le successive ondate dei fracs-ossibuchi»; «improvvise trombe marine di risotti»; sino a che i signori attavolati si trasformano alla fine, con fantastica deformazione e simbiosi, («mentre che lo stomaco era tutto messo in giulebbe, e andava dietro come un disperato ameboide a mantrugiare e a peptonizzare l’ossobuco»), cioè appunto durante la «digestione (del buco e osso)», in esseri mostruosi dalla «faccia di manichini ossibuchivori» (RR I 434-37).


4. Se, «tra gli ingredienti della mescidazione gaddiana, il milanese […] è […] la presenza più vistosa nelle pagine dell’Adalgisa» (Isella 1988: 775), questa invece, anche se ispirata da fini analoghi, è poco appariscente nella Cognizione del dolore. Si tratta per lo più di singoli vocaboli o di semplici cadenze, tendenzialmente ossitone, «nel dialetto del Serruchón» (RR I 614), che riescono però a conferire «un aroma indelebilmente lombardo» (Contini 1963a: 15) non solo alla sintassi e perciò stesso all’andamento della prosa, ma anche alla situazione e all’ambiente descritti o rappresentati.

Vari sono gli esempi più noti: «desoravìa del cifone» = sopra il comodino (RR I 597); «destacagiò» = distaccato (RR I 614); «takasü» = appeso; «pestalgiò» = pestarlo; ecc. Ben riconoscibili anche i riferimenti a nomi propri: «il Santo […] come da noi l’Ambrogio» e «il nostro buon Parini» (RR I 663), oppure di luoghi: dalla «Brianza» (RR I 571 e 710) a «Porta Tosa» (RR I 578), al «manzoniano Resegone» (RR I 575), al «Brusuglio» (RR I 697), ecc.

Inoltre si registrano nella Cognizione alcuni isolati lombardismi altrettanto deliberati, (10) benché consistenti in termini e inflessioni dialettali che – per dirla alla Gadda – non arrivano quasi mai a radicarsi nella totalitaria armonia di una frase: «la Pina, detta anche Pinina del Goeupp» (RR I 580); «Di ville, di ville!; di villette otto locali doppi servissi» (RR I 584); «gli allevava di scondone un qualche pollo immalinconito e pieno di pidocchi» (RR I 589); «“La ghe voreva anca questa!”, esclamò il vecchio Bertoloni» (RR I 592); «pensò, invece della villa, di affittare la portineria, “almànk quella!”» (RR I 592); «e la malinconia del tramonto non gli vietava di liquidare certe sleppe giù per lo stomaco, di manzo fagiano, che te le raccomando vai, vai!» (RR I 600); «e tornava in cucina a nettare la macchinetta del caffè, cont il fischio» (RR I 611); «che lo ha appena usmato» («annusato», glossa Gadda) (RR I 612); «e portargli il caffè…. e fare scale su scale…. Perché la mattina lo vuole in letto, cont i giornali….» (RR I 613); «Come si aprivano quegli occhi sudamericani della ragazza, nella stupenda sera! Parevano gli zaffiri della notte. E crodàvano via gratis» (RR I 661) (da «crodà» = crollare, cadere); «indefettibile amico degli Incas aborigeni: i generosi Incassi, come li chiama il nostro buon Parini» (RR I 663); «Dalla terrazza, nelle sere d’estate, ella scorgeva all’orizzonte lontano i fumi delle ville, che immaginava popolate, ognuna, della reggiora, col marito alla stalla, e dei figli» (RR I 679); (11) «ed era per le corse, alle mosse, cioè alla partènsa, con l’esse, che di quando in quando la chiamavano però anche starting» (RR I 433; RR I 697).

Suggestivo è, sotto questo profilo, il nome della località sudamericana in cui è ambientato il romanzo: Lukones. (12) Esso sembra derivare dal milanese «lókk», che Gadda in una nota dell’Adalgisa spiega nel modo seguente: «balordo, stordito, avventato: poi anche bravaccio: e oggi teppista e, più, malvivente. […] Probabile derivazione dallo spagnolo “loco”= pazzo, e anche sventato» (RR I 331). In tal caso, come è stato osservato, «il toponimo Lukones veicola un duplice giudizio del narratore (rafforzato per di più dal suffisso accrescitivo […]) sulla buona gente [detto per antifrasi] che popola il reale Longone e la sua replica letteraria»: pertanto la parola, caricata di significati e di giudizi, «diventa un microcosmo che riflette il mondo della finzione narrativa dal punto di vista del personaggio principale e del narratore» (Manzotti 1987a: xxii-xxiii).

Anche nei racconti è dato cogliere l’uso saltuario, per lo più isolato, di qualche breve frase o espressione in dialetto milanese: gli effetti sono analoghi a quelli già visti. Per esempio, in San Giorgio in casa Brocchi (13) l’autore descrive puntigliosamente con gusto ironico-paradossale l’«eccezione», per di più «ricorrente», fatta a una dieta vegetariana:

salvo la eccezione ricorrente di una qualche bistecca alla Bismarck, o di un cappone lesso di Brugnasco o Molnate ingrassatogli dai sò paisàn con quella devozione e quel buonumore che può di leggieri immaginare chi n’abbia voglia, e reso meno pernicioso, e comunque appressato al regno vegetale, dal variopinto contorno di un due o tre pezzi di «mostarda» di Cremona. (RR II 649)

Qui l’espressione dialettale «dai sò paisàn», preparata dai toponimi «Brugnasco» e «Molnate», riesce tanto più efficace quanto seguìta, a breve distanza, da un’espressione culta, e perciò linguisticamente antitetica, come «di leggieri» (cfr. Dante, Purg. XI, 19). Altre battute in milanese presenti nel racconto, sia in discorso diretto: «Ch’el disa la veritàa… l’óo consigliàa ben sì o no?» (RR II 660), «Non vorrete mica alle volte, vorarii minga di volt…» (RR II 683), «“Ma femm el piesè!…” Ma fatemi un po’ il piacere!» (RR II 683); sia in discoro indiretto (ma riconducibile al parlato, come dimostra l’ultima espressione virgolettata nel testo): « […] tuttavia… poer diàol!… era un tipo abbastanza allegro… e…, in fondo, abbastanza simpatico» (RR II 660), «[…] i suoi clienti di provincia, che si rivolgevano tremebondi “al scior avocatt”» (RR II 671).

Per un ultimo esempio si convoca il racconto L’incendio di via Keplero, già citato nel paragrafo 2. In esso è narrata una vicenda di per sé banale (un casuale incendio), la quale per contro eccita, grazie alla sua materia davvero incandescente, la fantasia di Gadda. Con un procedimento totalitario e totalizzante di enumerazione egli parte dalla «puntuale esattezza» (SGF I 492) della cronaca-referto e della cronaca-catalogo per costruirvi sopra, come «un Bosch di periferia» (Ferrero 1972: 91), una sorta di cataclisma senza scampo o addirittura una fine del mondo ambientata in una via meneghina del suo tempo (per una più particolareggiata analisi del racconto, mi permetto di rinviare a Cavallini 1977: 87-91). Vi sono sparse, con parsimonia, parole e frasi in dialetto: «o invece se lo incitavano “Voèi, Loreto, canta!… desèdes… canta Viva l’Italia!…, Voèi, baüscion d’on Loreto!”, allora appena sentire quel “canta” lui rimbeccava con un dolce gorgoglio “Kanta-tì”, questa volta invece, povera creatura, altro che Kanta-tì!» (RR II 703); «Sofèghi! Sofèghi; ahi ahi la mia gamba, salvatemi! Per caritàa del Signor! […] sofèghi! sofèghi!» (RR II 708); «Se ved ch’el foeugh el gh’à dàa la movüda» (RR II 712).

Ma forse, per la loro funzione mimetica, spiccano ancor di più alcuni soprannomi di uso comune, pronunciati lamentosamente da uno degli sfortunati abitanti del civico 14 di via Keplero durante il «pandemonio» suscitato dal fuoco. Il primo, «Oh, Gioànn! oh, Gioànn!» (il «garzone o aiuto» dei «muratori lombardi», detto anche «gioannìn») (RR II 709 e n. 1), è rivolto a un ragazzo rimasto sul tetto, designato anche come «el magütt, el mè magütt» («in designazione ufficiale, è ancora il garzone muratore») (RR II 709 e n. 1); il secondo è riferito a «el Gildo, el magütt, el Balòss de Cinisèll», un altro ragazzo che si trova forse ancora su in solaio. Al colore locale, inoltre, concorrono: formaggi come il «gorgonzola» e il «luganeghino» (RR II 710); il «biceròtt» già ricordato; il «panerone rosso» (accrescitivo da “pànera” (= panna), significa «panna assai densa») (RR II 711 e n. 2), cioè il vino corposo attinto da «un fiascone di Barletta, “la mia medesìna”, come lo chiamava» il vecchio Zavattari (RR II 710), e da lui bevuto durante il suo dormiveglia caratterizzato dalla «slóngia» («fiacca, stanchezza, voglia di far nulla») (RR II 711 n. 3).


5. In conclusione, alla fine di questa esplorazione necessariamente episodica e sommaria, si può dire che tra le funzioni dell’uso gaddiano del dialetto milanese prevalgano la funzione parodistico-satirica e quella mimetico-espressiva. Minore sembra la funzione puramente inventiva (o di invenzione soggettiva e fantastica), che pure talvolta affiora qua e là nelle opere considerate.

Si è visto, infatti, come l’autore rifaccia spesso il verso, specialmente nelle pagine dell’Adalgisa, a certa borghesia milanese che tende a servirsi di un italiano ricercato (milanese toscanizzato) e che, invece, attraverso il dialetto nativo, rivela la propria natura e i propri impulsi. E si è visto anche come Gadda, con il ricorso al dialetto, rappresenti con immediatezza la realtà oppure faccia emergere dal subconscio un modo istintivo di sentire le cose nella molteplicità dei loro aspetti oppure, ancora, riesca a rendere il «grottesco» che alberga nelle cose stesse. Il che vale, naturalmente anche per l’uso degli altri dialetti, i quali, presi tutti insieme, non sono altro che una delle molteplici componenti della sua scrittura composita, «di per se stessa, una confutazione di ogni convenzionale, semplificante immagine della realtà» (Roscioni 1969a: 152).

Nel suo insieme, dunque, il linguaggio di Gadda, da un lato, pone in evidenza quella che è stata definita «l’esaltante buccia delle cose» (Contini 1963a: 12), ovvero a dire un mondo puramente fenomenico tutto rivolto all’esterno o al contingente, e, dall’altro lato, fa emergere il disordine e il caos di una realtà in continua ebollizione, che coincide con la società a lui contemporanea in tutti i suoi aspetti. Al primo côté pertiene, per lo più, l’uso del dialetto milanese fatto dallo scrittore. Ma, a questo proposito e anche riguardo le funzioni sopra citate, si deve evitare ogni schematizzazione e semplificazione di fronte alla complessità imprevedibile e multiforme di «una scrittura magmatica e straripante» (Cavallini 1977: 7) come quella gaddiana. Degna cifra di essa è lo stile, contrassegnato da costante mescolanza tra il piano della lingua (a sua volta oscillante tra alto e basso, tra lingua letteraria e lingua dell’uso) e il piano del dialetto, con trapassi di alternanza o coesistenza o amalgama o accostamento o contrapposizione sempre vari e mutevoli a seconda delle ragioni espressive oppure, se si preferisce, espressivistiche. E con ciò il circolo si chiude, e si ritorna là da dove si era partiti.

Università di Genova

Note

1. Come è noto, Gadda si trasferì nel 1940 a Firenze e nel 1950 a Roma, dove morì il 21 maggio 1973.

2. In materia meritano di essere citate alcune riflessioni dell’autore: « […] poiché il dialetto, non meno di certo dialogo di Dante, è prima parlato o vissuto che non ponzato o scritto. […] Così il dialetto può raggiungere più decisi, più concreti resultati che molte volte una lingua piovutane in penna da una tradizione stenta, da una scuola uggiosa: e, per certi disgraziati, nemmen da quelle» (Arte del Belli, SGF I 560).

3. «Insisto sul concetto di lavoro collettivo e di sviluppo storico in che esso si manifesta: lo scrittore ha davanti a sé delle realtà storiche, esterne, come il cavatore ha dei cubi di granito da rimuovere. […] Certo è che le mille direzioni della esperienza esterna chiamano, per così dire, provocano lo scrittore a una fatica di adeguazione al dato linguistico preesistente e poi rielaborazione (meglio “coordinazione”) che solo taluni ottimisti possono ritenere “il fatto più naturale del mondo” – e che è invece continuo e arduo dibattito fra l’impulso coordinatore-espressore proprio e originale d’ogni singolo e la necessità di adoperare, per la comunicazione, un materiale espressivo già definito in termini, già concreto in figurazioni comuni. Da poi che accade con questo verbo “coordinare” ciò che con tutti i transitivi: non si può coordinare se non… un qualche cosa. E ogni scrittore è un predicato verbale (coordina) che manovra un complemento oggetto (il dato linguistico). E questo complemento oggetto relutta, come un serpentesco dragone, al dominio e alli artigli del predicato» (Le belle lettere e i contributi espressivi delle tecniche, SGF I 475-76).

4. Gadda 1998: 70, n. E ciò forse, come osserva sempre il curatore, nell’ipotesi che il racconto fosse accolto – cosa che non fu – nell’antologia Italie magique, a cura di Contini, pubblicata in Francia nel 1946. Nella lettera, infatti, Gadda, parlando di sé, dice: «lietissimo e onoratissimo di essere incluso nella Antologia da te curata: mollo tutti i bicerott che vuoi» (Gadda 1998: 34).

5. «La lingua, specchio del totale essere, e del totale pensiero, viene da una cospirazione di forze, intellettive o spontanee, razionali o istintive, che promanano da tutta la universa vita della società, e dai generali e talora urgenti e angosciosi moti e interessi della società» (Lingua letteraria e lingua dell’uso, SGF I 490).

6. Citazione tratta da una premessa programmatica con cui sono introdotte le Note di questo disegno milanese, Quattro figlie ebbe e ciascuna regina: vi si accenna alla funzione, attribuita al dialetto, mimetica dello «zefiro parlativo», cioè dell’impeto «ricco» e «nativo» che promana direttamente dal cosiddetto clima ambientale.

7. Ed ecco, di seguito e in discorso indiretto, il commento alla scenata: «Aveva spifferato tutta quella requisitoria di cà mia e va a cà toa con la secca, inaudita velocità d’una mitragliatrice, in quella parlata vertiginosa e crepitante che non dà tempo alle repliche, come la gragnola non dà modo ai ripari. In un tono irruente, latrante, sporgendo la faccia nel galoppo dei buccinatorii e dei labbri: o, per attimi, attenuato e cupo, quasi a lasciar presagire un più spaventoso castigo. Quel tono che fa così stupende e temibili le Erinni di buona razza in Verziere: o ne’ ballatoi e “terrazzini” de’ più popolari casamenti: della “metropoli lombarda”».

8. Si tratta degli «ormoni marchionici del committente» (RR I 434). Come annota, l’autore immagina che gli ormoni del cliente, «deliziato dall’ossequio» fatto al suo ordine dal cameriere («dal reverente frac»), «si arricchiscano di nuove meravigliose combinazioni chimiche» (RR I 439, n. 11). In effetti, però, il grido d’ossequio: «Un taglio limone-seltz per il signore, sissignore! Taglio limone-seltz al signore!», poi, «pervenuto alla dispensa», diventa: «un taglio limone-seltz per quel belinone d’un 128!» (RR I 434).

9. Della ricetta gaddiana di un altro famoso piatto di questa cucina, il risotto alla milanese (Risotto patrio, rècipe, SGF I 369-71), dà un giudizio molto positivo Italo Calvino, che ritiene il breve testo «un capolavoro di prosa italiana e di sapienza pratica»: a dimostrazione che l’«enciclopedismo» dell’autore, non a caso inserito da lui nel capitolo dedicato alla Molteplicità, «può comporsi in una costruzione compiuta» (Calvino 1995: I, 715-21).

10. Essi formano una delle principali componenti del calderone linguistico proprio dello scrittore: in quanto tali non potrebbero certo mancare in un’opera il cui protagonista Gonzalo è tormentato da ossessioni che sono anche quelle dell’autore.

11. «Reggiora» («resgiôra» in Porta) è reggitora, ovvero amministratrice di casa, moglie del capoccia o del pater familias, detto appunto «resgiô» in dialetto milanese.

12. Ispanizzazione di Longone al Segrino, tra Como e Lecco, dove la famiglia Gadda possedeva una villa, descritta fedelmente nel romanzo.

13. Vi sono ricordati il Parini e il Porta («l’autore della “Caduta” e quello della “Nomina del Cappellan”») come prove del «mecenatismo», alla rovescia, della «generosa città»: nient’affatto tale, a giudizio dell’autore, nei loro confronti.

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-08-6

© 2003-2024 by Giorgio Cavallini & EJGS. First published in EJGS (EJGS 3/2003).
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framed image: re-elaboration of a photograph by Zani of the Galleria Vittorio Emanuele, in Lombardia, vol. II of the series Attraverso l’Italia, Illustrazione delle regioni italiane, published in 1931 by the Touring Club Italiano, part I, p. 33).

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