Molteplicità
Italo Calvino
Cominciamo con una citazione:
Nella sua saggezza e nella sua povertà molisana, il dottor Ingravallo, che pareva vivere di silenzio e di sonno sotto la giungla nera di quella parrucca, lucida come pece e riccioluta come agnello d’Astrakan, nella sua saggezza interrompeva talora codesto sonno e silenzio per enunciare qualche teoretica idea (idea generale s’intende) sui casi degli uomini: e delle donne. A prima vista, cioè al primo udirle, sembravano banalità. Non erano banalità. Con quei rapidi enunciati, che facevano sulla sua bocca il crepitio improvviso d’uno zolfanello illuminatore, rivivevano poi nei timpani della gente a distanza di ore, o di mesi, dalla enunciazione: come dopo un misterioso tempo incubatorio. «Già!» riconosceva l’interessato: «il dottor Ingravallo me l’aveva pur detto.» Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico «le causali, la causale» gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia. L’opinione che bisognasse «riformare in noi il senso della categoria di causa» quale avevamo dai filosofi, da Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause era in lui una opinione centrale e persistente: una fissazione, quasi: che gli evaporava dalle labbra carnose, ma piuttosto bianche, dove un mozzicone di sigaretta spenta pareva, pencolando da un angolo, accompagnare la sonnolenza dello sguardo e il quasi-ghigno, tra amaro e scettico, a cui per «vecchia» abitudine soleva atteggiare la metà inferiore della faccia, sotto quel sonno della fronte e delle palpebre e quel nero pìceo della parrucca. Così, proprio così, avveniva dei «suoi» delitti. «Quanno me chiammeno!… Già. Si me chiammeno a me… può stà ssicure ch’è nu guaio: quacche gliuommero… de sberretà…» diceva, contaminando napolitano, molisano, e italiano.
La causale apparente, la causale principe, era sì, una. Ma il fattaccio era l’effetto di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate addosso a molinello (come i sedici venti della rosa dei venti quando s’avviluppano a tromba in una depressione ciclonica) e avevano finito per strizzare nel vortice del delitto la debilitata «ragione del mondo». Come si storce il collo a un pollo. E poi soleva dire, ma questo un po’ stancamente, «ch’i femmene se retroveno addó n’i vuò truvà». Una tarda riedizione italica del vieto «cerchez la femme». E poi pareva pentirsi, come d’aver calunniato ’e femmene, e voler mutare idea. Ma allora si sarebbe andati nel difficile. Sicché taceva pensieroso, come temendo d’aver detto troppo. Voleva significare che un certo movente affettivo, un tanto o, direste oggi, un quanto di affettività, un certo «quanto di erotia», si mescolava anche ai «casi d’interesse», ai delitti apparentemente più lontani dalle tempeste d’amore. Qualche collega un tantino invidioso delle sue trovate, qualche prete più edotto dei molti danni del secolo, alcuni subalterni, certi uscieri, i superiori, sostenevano che leggesse dei libri strani: da cui cavava tutte quelle parole che non vogliono dir nulla, o quasi nulla, ma servono come non altre ad accileccare gli sprovveduti, gli ignari. Erano questioni un po’ da manicomio: una terminologia da medici dei matti. Per la pratica ci vuol altro! I fumi e le filosoficherie son da lasciare ai trattatisti: la pratica dei commissariati e della squadra mobile è tutt’un altro affare: ci vuole della gran pazienza, della gran carità: uno stomaco pur anche a posto: e, quando non traballi tutta la baracca dei taliani, senso di responsabilità e decisione sicura, moderazione civile; già: già: e polso fermo. Di queste obiezioni così giuste lui, don Ciccio, non se ne dava per inteso: seguitava a dormire in piedi, a filosofare a stomaco vuoto, e a fingere di fumare la sua mezza sigheretta, regolarmente spenta.
Il passo che avete ascoltato figura all’inizio del romanzo Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda. Ho voluto cominciare con questa citazione perchè mi pare che si presti molto bene a introdurre il tema della mia conferenza, che è il romanzo contemporaneo come enciclopedia, come metodo di conoscenza, e soprattutto come rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo.
Avrei potuto scegliere altri autori per esemplificare questa vocazione del romanzo del nostro secolo. Ho scelto Gadda non solo perché si tratta d’uno scrittore della mia lingua, relativamente poco conosciuto tra voi (anche per la sua particolare complessità stilistica, difficile anche in italiano), ma soprattutto perche la sua filosofia si presta molto bene al mio discorso, in quanto egli vede il mondo come un «sistema di sistemi», in cui ogni sistema singolo condiziona gli altri e ne è condizionato.
Carlo Emilio Gadda cercò per tutta la sua vita di rappresentare il mondo come un garbuglio, o groviglio, o gomitolo, di rappresentarlo senza attenuarne affatto l’inestricabile complessità, o per meglio dire la presenza simultanea degli elementi più eterogenei che concorrono a determinare ogni evento.
A questa visione Gadda era condotto dalla sua formazione intellettuale, dal suo temperamento di scrittore, e dalla sua nevrosi. Come formazione intellettuale Gadda era un ingegnere, nutrito di cultura scientifica, di competenze tecniche e di una vera passione filosofica. Quest’ultima egli la tenne – si può dire – segreta: è solo nelle sue carte postume che fu scoperto l’abbozzo d’un sistema filosofico che si rifà a Spinoza e a Leibniz. Come scrittore, Gadda – considerato come una sorta d’equivalente italiano di Joyce – ha elaborato uno stile che corrisponde alla sua complessa epistemologia, in quanto sovrapposizione dei vari livelli linguistici alti e bassi e dei più vari lessici. Come nevrotico, Gadda getta tutto se stesso nella pagina che scrive, con tutte le sue angosce e ossessioni, cosicché spesso il disegno si perde, i dettagli crescono fino a coprire tutto il quadro. Quello che doveva essere un romanzo poliziesco resta senza soluzione; si può dire che tutti i suoi romanzi siano rimasti allo stato d’opere incompiute o di frammenti, come rovine d’ambiziosi progetti, che conservano i segni dello sfarzo e della cura meticolosa con cui furono concepite.
Per valutare come l’enciclopedismo di Gadda può comporsi in una costruzione compiuta, bisogna rivolgersi ai testi più brevi, come per esempio una ricetta per il «risotto alla milanese», che è un capolavoro di prosa italiana e di sapienza pratica, per il modo in cui egli descrive i chicchi di riso in parte rivestiti ancora del loro involucro («pericarpo»), le casseruole più adatte, lo zafferano, le varie fasi della cottura. Un altro testo consimile è dedicato alla tecnologia edilizia che dopo l’adozione del cemento armato e dei mattoni vuoti non preserva più le case dal calore né dal rumore; ne segue una grottesca descrizione della sua vita in un edificio moderno e della sua ossessione per tutti i rumori dei vicini che gli arrivano agli orecchi.
Nei testi brevi come in ogni episodio dei romanzi di Gadda, ogni minimo oggetto è visto come il centro d’una rete di relazioni che lo scrittore non sa trattenersi dal seguire, moltiplicando i dettagli in modo che le sue descrizioni e divagazioni diventano infinite. Da qualsiasi punto di partenza il discorso s’allarga a comprendere orizzonti sempre più vasti, e se potesse continuare a svilupparsi in ogni direzione arriverebbe ad abbracciare l’intero universo.
L’esempio migliore di questa rete che si propaga a partire da ogni oggetto è l’episodio del ritrovamento dei gioielli rubati al capitolo 9 di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Relazioni di ogni pietra preziosa con la storia geologica, con la sua composizione chimica, con i riferimenti storici e artistici e anche con tutte le destinazioni possibili, e con le associazioni d’immagini che esse suscitano. Il saggio critico fondamentale sulla epistemologia implicita nella scrittura di Gadda (Gian Carlo Roscioni, La disarmonia prestabilita, Einaudi, Torino 1969) si apre con un’analisi di quelle cinque pagine sui gioielli. Partendo di lì Roscioni spiega come per Gadda questa conoscenza delle cose in quanto «infinite relazioni, passate e future, reali o possibili, che in esse convergono» esige che tutto sia esattamente nominato, descritto, ubicato nello spazio e nel tempo. Ciò avviene mediante lo sfruttamento del potenziale semantico delle parole, di tutta la varietà di forme verbali e sintattiche con le loro connotazioni e coloriture e gli effetti il più delle volte comici che il loro accostamento comporta.
Una comicità grottesca con punte di disperazione smaniosa caratterizza la visione di Gadda. Prima ancora che la scienza avesse ufficialmente riconosciuto il principio che l’osservazione interviene a modificare in qualche modo il fenomeno osservato, Gadda sapeva che «conoscere e inserire alcunché nel reale; è, quindi, deformare il reale». Da ciò il suo tipico modo di rappresentare sempre deformante, e la tensione che sempre egli stabilisce tra sé e le cose rappresentate, di modo che quanto più il mondo si deforma sotto i suoi occhi, tanto più il self dell’autore viene coinvolto da questo processo, deformato, sconvolto esso stesso.
La passione conoscitiva riporta dunque Gadda dall’oggettività del mondo alla sua propria soggettività esasperata e questo per un uomo che non ama se stesso, anzi si detesta, è una spaventosa tortura, com’è abbondantemente rappresentato nel suo romanzo La cognizione del dolore. In questo libro Gadda scoppia in un’invettiva furiosa contro il pronome io, anzi contro tutti i pronomi, parassiti del pensiero: «… l’io, io!… il più lurido di tutti i pronomi!… I pronomi! Sono i pidocchi del pensiero. Quando il pensiero ha i pidocchi, si gratta come tutti quelli che hanno i pidocchi… e nelle unghie, allora… ci ritrova i pronomi: i pronomi di persona».
Se la scrittura di Gadda è definita da questa tensione tra esattezza razionale e deformazione frenetica come componenti fondamentali d’ogni processo conoscitivo, negli stessi anni un altro scrittore di formazione tecnico-scientifica e filosofica, anche lui ingegnere, Robert Musil, esprimeva la tensione tra esattezza matematica e approssimazione degli eventi umani, mediante una scrittura completamente diversa: scorrevole e ironica e controllata. Una matematica delle soluzioni singole: questo era il sogno di Musil […]
Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
– previously published in Lezioni Americane (Milan: Garzanti, 1988), 101-06
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