La meccanica

capitolo IV

Nel giovinetto Velaschi si palesò una precoce affezione per le trovate migliori della meccanica e dipoi un cotale studio tutto lo prese. Egli congegnava piccole utilità e suonerie da sé solo, e dava riparo ai guasti di certi arnesi o serrature o dell’orologio vecchio di casa, quando vi si rientrava dopo settimane e, costernati, érane spento il solenne tic-tac. La bicicletta, la motocicletta e poi l’auto furono la grammatica, la retorica e la umanità nel di cui soccorso gli venne addestrato lo ingegno e preparato a sostener l’arrembaggio de’ più orrendi marosi. Carpentiere e meccanico dalle mani callose ed unte (e non per il pane) combinò anche seggiole, cornici «artistiche» per i ritratti de’ nonni e de’ zii, un ingranaggio per gelatiera, una piccola mola da smerigliare e affilare, con pedale, un rimando completo per girare film con il motorino della pompa, in villa: oltreché padroneggiava nella maggior sicurezza i campanelli, la luce, il telefono, il montacarichi, lo scaldabagno e fino il termosifone.

Le motociclette vecchie, strapazzate e giù di moda suscitavano in lui quella stessa dolcezza, con inavvertito tranghiottir di saliva, che nel pervicace e paziente amatore desterebbe un Petrarca o del Manuzio o del Giolito scoperto di colpo fra un allineamento di Nick-Carter, sullo zoccolo d’una chiesa dimenticata: dato che una scoperta simile, oggi, fosse ancora pensabile.

All’incontro de’ più ansimanti cilindri, de’ più buggerati copertoni, egli sognava subito riparazioni voronoffiane degli stantuffi e de’ carburatori, sfolgoranti rimesse a nuovo de’ freni stanchi, vulcanizzazioni trascendenti delle camere d’aria, innesti e sintesi in somma di tre macchine in una, con soccorso mutuo nelle distinte ambasce.

Il frugare in una scatola di legno piallato e sudicio, a scomparti, che contenesse viti e madreviti usate, bulloni unti, lamette di rasoio, candele scompagnate, chiodi di scarpe da montagna frusti mescolati con matassine di trecciuola di rame, pezzi di cordoncino isolato o anche malamente scabbioso, qualche bottone di madreperla, qualche fondo vetrato di scatola di fiammiferi, qualche penna di pollo rotta in due, per untare, e qualche spazzolino da denti consunto destinato in vecchiaia alle candele e a’ magneti, il frugare pazientemente in questo repertorio gli dava ore fuggevoli, liete di quella serenità e di quel medesimo oblio, come al giovinetto poeta quando scartabella e fruga fra i vecchi poeti le lor giovani, gemmanti parole, vivida e fresca rugiada che la notte loro depone davanti la sua alba meravigliosa.

Or si presero a mormorare dai pavidi, in forma deprecativa, proposizioni a mezzo concernenti un pericolo pubblico: e da altri proposizioni intere a proclamare a distesa: esorbitavano che la vita è lotta, e in quanto tale soltanto può intendersi, e allora soltanto accettarsi.

Ed altri, come cavalli prima del terremoto, sentivano già nelle ossa il rincaro delle patate e, renitenti a’ disagi, alcuni brontolavano nella poltrona, divenuta a un tratto come un sacco di chiodi. Già vedevano altri andare a remengo gli affari, prendere il crepacuore alla vacca, languir disertata la vecchia, onorevole bottega. I banchieri misero interesse nelle officine meccaniche, di che mai non avrebbero pensato doversi occupare. I politici, pronti sempre a scodellar caldo caldo qualche autorevole sproposito, non si lasciarono sfuggire una sì bella, una sì rara occasione.

I garibaldini vecchî, i quali dopo l’Aspromonte e Mentana avevano accudito a riprodursi secondo un diagramma esponenziale, comunicarono ai garibaldini giovani il bacillo antigiuseppico e questi impararono dai feriti di Mentana quanto dovesse amarsi… la Francia, patria, come ben si imparò di poi, del signor Giorgio Clemenceau.

Altri furono oppressi da attacchi di epilessia ed altri invece di gotta. Alcuni urlavano che sarebbero andati anche loro a scaricare lo schioppo sopra chi di ragione, nonostante i cinquanta sonati. E se non fu che la Gertrude loro li tenne, battipanni alla mano, abbrancatili dal fondello de’ pantaloni, sarebbero stati capaci di arrivar davvero fino… al primo comando di tappa.

L’ex-cardinale Giuseppe Sarto era morto da pochi mesi, in un grande dolore. Monsignor Gerlach godeva invece buona salute: l’aria della città Leonina gli pareva indicatissima contro i reumatismi. Sulla linea pedemontana vagoni passavano e passavano: con su strisce rosse a traverso e leggevasi in nero «Balistite», «balistite», «balistite»; e scomparivano oltre i semafori, rotolando dentro la notte.

Le valigie diplomatiche, incrociata la pedemontana, seguitavano a funzionare con regolarità encomiabile. E dalle spire buie del Gottardo sibilava snodandosi il nero sibilante serpente. Era pieno di «uomini d’affari», di preti tedeschi, e di gente au dessus de la mêlée: con delle gran buste di cuoio.

I pronostici erano verdognoli per i popoli finiti e arridevano invece al diletto di Dio, Imperatore e Re. Che aveva dei celebri baffi, un guardaroba nibelungico, e un braccio corto di pastafrolla. E, come tutti del secolo scorso, era anche lui un profeta.

Agli studenti poi, era svaporata ogni volontà di studiare: non tutti però, ché c’erano anche de’ giovani serî, che non perdettero un giorno, né un esame. (1)

I diversi componenti la famiglia dei nobili Velaschi, genitori, fratelli, sorelle, non addivennero ad alcuna definizione di programma, non tennero consigli di famiglia, non interpellarono persone autorevoli per cavarne verun oroscopo, e nemmeno scambiarono l’un l’altro neanche una sillaba circa le cose dell’Europa. Seguitarono a discorrere a baciarsi e a salutarsi come ogni giorno: «ciao papà, ciao mamma; Teresa, oggi mangio fuori; guarda che a’ miei calzoni va rimessa la fibbia; dillo alla Giovanna.» Si trovarono però tacitamente unanimi in un pensiero, istintivamente concordi in una condotta: così: una cosa naturale, non deliberata di concerto, non predisposta, ma che era quello che si doveva fare, la sola cosa che fosse logico e possibile fare.

Presero cioè a dir male dell’imperatore, di molto male: ma eran due: be’, allora dell’uno e dell’altro. Non ricusavano, d’altronde, di ammettere la provocazione grave. Il tono de’ primi propositi era il pittoresco-popolareggiante: «quel porco» o «quel ludro.» Il tono de’ secondi era il logico-critico: «La Serbia, la Francia, la Russia, la politica di accerchiamento.» La congiunzione d’uso, che segnava bruscamente il passaggio da caldo a freddo, era: «però».

Un buon però, incastonato a dovere nel nostro discorso, può costituire per i nostri ascoltatori una segnalazione preziosa: la carta di tornasole non torna più rapida dal rosa al viola. Difatti gli interlocutori dei nobili Velaschi non tardavano a capire che vento tirasse. Così, messo anzitutto in salvo l’amor di patria – dare del porco all’Imperatore e poi subito dopo niente niente del ludro non significa forse amare la patria? – i Velaschi, nell’ampio e trionfale fugato delle loro sentenze a incastro, introducevano temi nuovi e prolifici circa il dovere e la convenienza di un’assoluta neutralità.

Ma le inesauribili ramificazioni dialettiche de’ loro principali punti di vista non ebbero vaglia a stornare la deprecata catastrofe. Il turbine, o uragano che fosse, era lì bell’e pronto, appena fuor della porta: e mulinava già l’arena e le foglie, dall’aia e dal letamaio.

In simili frangenti s’incontra persino chi, come l’allocco, si proponga la suprema questione: «Quale sarà la mia milizia? Alla mia gente come potrò meglio aiutare?»

Franco Velaschi aveva diciott’anni, sebbene una precoce pubertà gli mettesse in ogni fibra l’empito e il vigore dei venti. Fra due sarebbe arruolato, forse fra uno, forse prima. Sua madre, in quei giorni, pensava con un batticuore atroce quanto sarebbe stato più saggio averlo partorito un po’ zoppo, o almeno coi piedi piatti.

Ma invece le era venuto così.

Appena fuori, subito aveva subito strillato come un’aquila, come tutte le aquile.

E adesso era alto, magro, fortissimo: con caviglie di tendini soli, con gambe dove si disegnavano i fasci del cestatore o del discobolo, con un torace ampio e lineato quasi nell’anelito dell’Adamo, risorgente dall’ombra e dai misteri cupi della Sistina; dove, a ogni volgersi, a ogni distendersi, mordeva sopra le costole dilatate il polipo sagace d’una musculatura implacabile. Che dipartitasi come da un ignoto suo centro, (2) la cervice o la schiena, irraggiò pronta a ogni più rapido moto nella palestra, nella piscina.

Nel viso era magro, le ossa duramente salienti, le labbra turgide: una fiammata di capelli sopra la fronte. Guardava fermo le persone, salvo che i maschi, de’ quali non si curava affatto, neanche in isbaglio. Aveva molti compagni, nessun amico: ed era con loro gioviale, quasi affettuoso, con tocchi rapidi e ruvidi tagliava corto ai racconti e alle delicate istorie, quando si capiva già fin da principio come vanno a finire. «Che villano!» – «Che asino!» – «Che lazzerone!» – «Che porco!» erano allora le controrisposte, fra le risa allegre di tutti. Fino a quei giorni del ’15 la meccanica lo aveva così preso e tenuto, evitandogli in complesso tutti i rovi e le spine di cui è piantato il calvario tetro di certe catastrofiche adolescenze.

Tutt’al più qualche signorina un po’ romantica e fogazzaroide, facile a sospirar de’ tramonti e proclive agli esercizi calligrafici a base di Pascoli e Chiesa di Polenta nell’album rilegato e dorato; o tutt’al più qualche serva superlativa in salute, odorosa di rosmarino e di cipolla, avevano avuto occasione, fra un corridoio e l’altro, d’assaporare qualche suo madrigale un po’ perentorio: mentre dalle sale venivan le voci di tutti, «che in quel momento non ci pensavano»; o in qualche passo di montagna, difficile, che per combinazione eran «rimasti indietro», al ritorno da qualche gita inghirlandata di ciclamini stanchi e di reminiscenze manzoniane leggermente rientrate.

Sulle rupi dei corni di Canzo, in discesa, il biancore delle mutande. Ma ci dormiva sopra tranquillo, senza inconvenienti. Ne’ mattini di primavera eran docce gelate, per isvegliarsi bene, diceva, e studiare. Ma siccome alla doccia ci attaccava subito sei micchette (3) e un caffelatte con l’ovo, si può immaginare cosa ne veniva fuori: sicché usciva fremente nella gloria del sole e, lanciata a corsa pazza la moto, pareva un diavolo che la notte avesse dimenticato sopra la terra e che volesse dannarsi a raggiungere forsennatamente la sua dannata coorte, disparita già nell’abisso. Tremanti le vecchie serve con ceste colme di broccoli e cavoloni lo maledicevano ancora, ch’egli era già vanito lontano, in una nuvola di fumo demònico. «In hoc signo» venne identificato per tutto il quartiere.

Nel maggio del quindici Franco Velaschi aveva dunque diciott’anni che valevano i venti: e sarebbe venuto magari il giorno che sarebbe dovuto andare anche lui.

Sua madre, donna Teresa Velaschi nata dei conti Brocchi, viveva oramai di spaventi e di morenti speranze e d’ambasce, e pregava molto, a ogni occasione, e largiva anche secrete limosine perché la benedizione del Cielo assistesse il suo nato e perché la Beatissima Vergine la inspirasse circa il bàndolo del da farsi, nel momento del pericolo e del (così si esprimeva) sacrificio.

Quel figlio era fra tutti il suo orgoglio splendido, era il suo figlio maggiore, il più saldo, il più intelligente, il più bello, era un lei che continuava fulgidamente nel mondo. Non possiamo renderci garanti se proprio fosse un’inspirazione della Vergine, ma un pensiero consolatore le balenò nel sonno, dopo una notte più agitata dell’altre, verso l’ora proprio che l’anima alle sue visïoni quasi è divina. Questa illuminazione sùbita le irraggiò tutta l’anima e con lacrime dolci la ridestò e allora la sùbita luce prese consistenza immediata in parole: «La passione della meccanica!»

Dapprima quasi nell’anelito dell’incredibile; poi in quello più felicemente stanco della gioia prossima si diede a contrappuntar questo tema: poi infine nella gestazione gioiosa della certezza. E il cuore batteva, batteva, dopo l’angoscia del mal sonno.

«Sì, sì, è vero mio Dio! è vero, grazie! mio buon Gesù, grazie Vergine Santa!; è proprio vero: il mio Franco ha sempre avuto una gran “passione” per la meccanica!»

Poco dopo si riaddormentò e russò per circa una mezzoretta. Un sole pieno e radioso s’era levato frattanto, nel caldo mattino. Nella netta cucina erano tegami di nichelio lucidi, una lastra di marmo tersissima sulla tavola grande, sulla minore una bella tela cerata di fabbricazione svizzera: e su d’un piatto avanzi dell’jeri, su che un moscone verde libravasi con ampie e strepitose volute, come un velivolo alto sopra una conceria di pelli.

Il sole di maggio, traverso i vetri chiusi, faceva una serra della netta cucina.

Donna Teresa aprì energicamente la finestra, discacciò il moscone verde d’oro; ma ne vennero altri due, con musica doppia. Ripose allora il piatto degli avanzi: e alla cuoca che tornava con le provviste e poi subito alla Giovanna impartì ordini opportuni e pieni di buon senso.

Levatasi in sulle punte de’ piedi ispezionò uno dopo l’altro quattro barattoli di lamiera smaltata allineati in batteria sopra una mensola, e sui quali c’era scritto «Zucker», «Kaffee», «Reis» e «Bohnen»: e se ne andò. Si lavò, si pettinò, si vestì e uscì.

Si ricordò dell’ammonimento del parroco: una predica vivace e spigliata, con qualche innocuo lapsus: «Nella gioia e nel dolore, nel sereno e nel nùvolo » (anzi aveva detto nìvolo, ché non era nato a Pontassieve né a San Giovanni Valdarno) «pensate, o diletti, che una Messa di più non fa mai male; e può far molto bene.» E siccome quella mattina era dolore e gioia, un dolore che poteva durare degli anni, per quanti anni invecchierà la tragica vita de’ superstiti; una gioia che poteva dissolversi nel giro di pochi minuti, per quanti vive minuti un fuggente pensiero; così donna Teresa riconobbe che una doppia ragione l’ammoniva d’ascoltare la Messa, benché non fosse di domenica. Intanto suo marito avrebbe finito di farsi la barba e la Giovanna, al caffelatte, ci pensava lei benissimo; e anche a spazzolare i calzoni.

Entrò in chiesa e pregò fervorosamente, rinchiusa tutta nella sua nuova speranza: solo la distrasse una impreveduta fanfara, di fuori, nel di cui empito riconobbe irritata le note dell’Addio: dimessa la dolcezza malinconiosa e romantica propria di quella canzone, gli ottoni vibravano aspri in un ritmo àlacre, quasi violento, come d’un battaglione che sfilasse concitato, al passo di corsa.

E le giunse il rumore de’ battimani, e grida confuse.

Quel motivo che tante volte aveva sentito fischiare a’ ragazzi o pestarlo, cantando, sul pianoforte, tutta compiaciuta nel suo orgoglio di mamma, le pareva ora la fanfara lùgubre d’un funerale al galoppo: il segno d’un qualche cosa di abominevole e di canagliesco, una cambiale falsa, un trucco escogitato contro i nobili Velaschi, una truffarda congiura.

Si rifece il silenzio, nella penombra e fra i tremuli lumi, solo interrotto dai tintinni rituali mediante che i serventi, con sobria fermezza, parevano interrompere le estasi del celebrante e richiamarlo ai più minuti doveri della rigovernatura e de’ tovaglioli da piegar in quattro: secolui per altro congratulandosi, con quel campanino, ripetutamente, dell’ottimo esito delle estasi stesse, fra il sollievo generale e un gran trepestio di sèggiole.

Il marito della signora Velaschi era tutt’altra cosa che un imbecille, sebbene fosse percepito nell’ambiente come un principe consorte, sia perché «la casa era intestata alla moglie», sia perché donna Teresa era nata de’ conti Brocchi, sia perché, pioniere e omai veterano del ciclismo, lo si vedeva spesso a ora perduta rotolar via piano piano, su d’una sua bicicletta opaca e massiccia, dei tempi di Carlo Códega, (4) col ferro superiore del telaio (che in oggi è orizzontale) leggermente inclinato verso il sellino, verso l’addietro: fatto che suscitava le risa de’ giovincelli sportivi e de’ garzoni di salumeria: «Va voei», dicevano sgangherandosi, «che càmola d’ona bicicletta!» Imperterrito egli sosteneva che quella era la vera forma che devono avere le biciclette, e allora durano anche quarant’anni.

Grosso e bell’uomo della persona, pedalava adagio, con un suo fare meticoloso, come se movesse una macchina di precisione, altra volta invece stanco e dinoccolato, da ortolano reduce al nativo suburbio dopo il mercato della città. Ciò che faceva ridere i figli allegri e invece fremere Donna Teresa, la quale, incontrandolo così, gli ricusava il saluto. E lui allora giovenilmente gioviale: «Ciao Teresa, vieni a casa presto!» le gridava da una sponda all’altra dell’aristocratica via, con la sua voce ampia e gioconda: convinto che a un vecchio ginnasta e turista, a un pioniere del ciclismo e della salubrità, quel tono fosse il più proprio, il più naturale del mondo.

Aveva una paglietta ad ali spioventi, in seguito alle numerose traversie incontrate tanto al mare quanto in montagna e rotolata giù per pazzi colpi di vento da chine dirute, mentre era lì sudato e felice in meraviglie vocali di ah! e di oh! per l’aria per il fresco e per il panorama, e spiegava tutti i monti alle ragazze gialle rosse e celesti, compreso il Finsteraarhorn: le quali si riassettavano il golf ed i riccioli e dopo tre minuti li avevano dimenticati in blocco. Una volta, rapitagli da una folata di città, la paglietta schivò per miracolo vero la zampa anteriore destra d’un enorme cavallo della ditta Fratelli Gondrand, che, fermo da tre ore sui quattro piedi, s’era dato a ingannar il tempo con uno scalpito lento, quasi ritmico. Ma siccome questo mastodontico quadrupede, nonostante avesse la bella coda intrecciata, come le trecce d’una educanda di lusso, aveva appena finito di concedersi un certo suo spettacoloso sollievo, la paglietta la si era mezzo infradiciata di dentro e di fuori, che poi gocciolò per un pezzo e bisognò lavarla e sbiancarla e diede gran da fare in casa: e i rimproveri di Donna Teresa non finivano più: Bubù rise tanto che la cosa gli finì a scappellotti a letto, senza le frutta. «Te l’ho detto cento volte di legartela col cordoncino! Ma quando t’impunti sei un testone, un vero testone! Guarda un po’ che roba…» (Difatti l’acido ippurico era stato generoso.)

Allora si avvezzò a legarla davvero: così voleva il destino. E siccome la signora gli mise un cordone proporzionato alla sua corporatura e alla robustezza immortale della bicicletta, pareva la corda del trolley d’un tram d’animo buono che vada adagio adagio.

Dentro, il marocchino era fradicio di vecchio sudore e questa scoperta non era difficile, perché la dimenticava sempre pancia all’aria su qualche seggiola: e l’occhio de’ presenti cadeva allora d’istinto simultaneamente sopra un «London» con corona e leoni rampanti, affievolitisi da sotto il velo del corrosivo untume.

Idolatrava Wagner ed era buon sonatore di pianoforte; ma capiva purtroppo che non avrebbe potuto durar molto ancora, a sceverar i fili tematici dalla trama superba del sinfoniale, ché quei sogni della giovinezza e dell’entusiasmo una sordità dolorosa aveva preso a condensarglieli come in una torpida bruina.

La sua professione di notaio gli procurava annualmente un reddito «imponibile» di trentamila, così quieto quieto, senz’affanno, senza speciali acrobazie giuridiche né letterarie. I suoi istromenti parlavano il comune linguaggio di siffatte composizioni, che resultano d’una decorosa enunciazione delle premesse, d’una esatta discrizione della materia venale o transazionale, d’una soddisfacente e conclusiva illazione dell’actum. La grafia, poi, era quello che i trattori delle città marittime chiamano fritto misto, e intendono fritto di mare: dove gli svolazzi delle maiuscole sono i polipetti e le sepie: e le bocche acute e le pungentissime pinne sono gli esse e gli emme del manoscritto.

Fra coloro che al secolo avevano avuto occasione di provocare copiose erogazioni di prosa dagli appositi organi dello studio Velaschi, figurava in prima linea l’ex-onorevole Emilio Magnoni, industriale meccanico, di cui già fu cenno a pagina <478>.

Fra l’altro, egli aveva comperato due volte uno stesso terreno. Per meglio dire, prima l’aveva acquistato come parte d’un vasto appezzamento, in un angolo del quale eresse certi capannoni da deposito: poi, quella parte, siccome nel frattempo il prezzo base s’era quadruplicato, l’aveva rivenduta a un giovane capomastro che glie la pagò ratealmente, con le doti delle sue cinque sorelle e le economie laboriose de’ cognati.

Dopo essersi impratichito per alcun tempo nelle «speculazioni» più ardite, il giovane ed energico capomastro ebbe occasione di spararsi una pistolettata nel retrobocca e siccome la complessa architettura del disastro aveva una buona piattaforma di cambiali perfettamente in regola, ai coeredi bisognò liquidare più che in fretta.

All’officina occorreva ancora uno spiazzo, tanto più che certi prezzi, «gonfiati dalla speculazione», così sentenziò un mediatore, «si erano sgonfiati come palloni buchi.»

Certo Caradonna, di Bitonto, acquistò dunque il terreno in suo nome, per conto però di Magnoni, che gli impiegò come aiuto-magazziniere un figliolo, un portento incompreso dai professori, bocciato tre volte alla terza tecnica: prima a Bitonto, poi a Bari e finalmente a Milano. Ma, come «aiuto» e dato che era un portento, poteva andare.

Tutti i rogiti necessarî a rogare questi trapassi furono redatti dal notaio Velaschi.

A cui l’on. Magnoni serbava perciò una benevolenza commista non dirò di gratitudine, che sarebbe un tocco falso a proposito d’industriali meccanici o anche semplicemente idroelettrici o chimici, ma di quella cordialità che non costa nulla e che dura fin che dura la sincronìa degli interessi. Questa cordialità di poca spesa non la neghiamo neppure a chi ci aiuta ad issare la nostra valigia sul tram.

La mattina del mercoledì 19 maggio 1915 l’ex-onorevole era ben lontano per altro dal capire a chi potesse diavolo attribuir quella voce, che gli arrivava dalle misteriose profondità telefoniche in concorso d’altre voci, e battibecchi di donne e d’un caparbio gro-gro.

«Ma chi è? Parli chiaro!» urlò imbestialito.

«Precisamente, per un favore che desidero chiederle», sentì rispondersi con un’amabilità straordinaria, che soltanto un sordo poteva ancora serbargli, dopo quell’apostrofe. Allora capì di colpo: era l’amico Velaschi.

Alla telefonata ne seguì un’altra e poi nel primo pomeriggio un convegno in località opportuna; nel quale, dapprima si discusse con ampiezza di vedute, se proprio l’alcool sia strettamente controindicato nei casi di arteriosclerosi lieve, o se possa ammettersi, una volta tanto, un’eccezione alla regola.

Poi, mentre il cameriere cominciava a dondolare nervosamente una gamba e l’attitudine inizialmente cerimoniosa del suo volto si liquefaceva a vista d’occhio, ordinarono due cappuccini. Venuti i cappuccini non si poté a meno di cadere in su quel discorso, su cui dovevano forzatamente cadere due amici, che da tempo non si vedessero, nelle prime ore pomeridiane del 19 maggio 1915: quando l’Italia era lì lì come dicono gli scrittori di polso e i baritoni, «per romper gli indugi.» Parlarono poi delle rispettive signore, dolenti che la sorella della moglie di Magnoni soffrisse di ovarite e la moglie «ne risentisse il contraccolpo»; e poi degli affari, delle industrie, delle borse, dei cambi, dei figli. «A proposito di figli,» disse, quando ci arrivarono, il dottor Velaschi, «felice lei che li ha dimenticati per istrada! Scommetto che è soltanto per questo se i suoi capelli sono così neri!»

«Eh! certo!», fece Magnoni, un po’ risentito per via dei capelli «l’aver messo su figli, a questi lumi di luna, c’è quasi da pentirsene: è stato un cattivo impiego di capitale, caro Velaschi! Sarebbe stato meglio sperperare, sperperare… Anche le spese voluttuarie hanno certe volte il loro senso… Meglio buttare che perdere…»

Si pentì subito di quelle barocche bestialità che con un cinismo così rozzo andava dicendo, trascinato dalla stizza, a un povero padre. Ma il povero padre non parve aver perduta la sua tramontana (quanto ai capelli aveva parlato proprio da innocente, senza sapere).

«Oh! non alludevo a questo!»; disse pronto; «almeno, fossero in età da esser buoni a qualcosa! Gli darei un calcio nel culo» (era lo stile della salubrità e del turismo), «e gli direi: va! fa il tuo dovere, come tutti.

«Per la mamma certo, poveretta, non sarebbe un bel complimento. Ma io sento che non avrei tenerezze: dalla patria, bisogna pur dirlo a voce alta, abbiamo tutto, no? alla patria, in certi momenti, tutto dobbiamo…

«No, no, non dicevo per questo. Per i miei c’è ancor tempo, grazie al Cielo!» (Magnoni trovò che con quel «grazie al Cielo» si contraddiceva) «E sebbene mi pare (5) che vogliano precipitar un po’ troppo le cose, son certo che tutto finirà presto, perché i popoli, in fondo, hanno il loro buon senso anche loro e sono stanchi prima di cominciare… Sono i dirigenti, gli imperatori, tutte le cricche di generali che hanno intorno, è il militarismo prussiano; ma il popolo tedesco, (6) il vero popolo… dia ascolto a me, amico Magnoni, è un gran popolo!

«E poi, forse, forse, anche l’Austria… in fin de’ conti, deve pensarci un po’ su… Scommetto che è ancora in tempo. L’Austria, bisogna riconoscerlo, è qualche cosa in Europa, ha una storia, (7) una tradizione, non le sembra?; non vorrà mica ostinarsi, per quattro sassi, e buttar tutto a mare.

«Certo è che da noi si grida troppo, troppo. Stordiscono. Sono quattro ragazzi scalmanati, da prendersi, a scapaccioni.»

«Ma!», interruppe secco l’industriale, pensando a certe sue macchine, appena ordinate: e fermò così di colpo l’amico, sulla china delle recriminazioni politiche.

Velaschi si impensierì: ripensò alla faccia di sua moglie: rientrò in carreggiata.

«Adesso divagavo. Si parlava per parlare. Volevo dire piuttosto che quel mio Franco, lei lo conosce, vero, il mio primo? bene, non si direbbe, ma è venuto il tempo che comincia a darmi dei grattacapi.»

Magnoni pensò nostalgico ai suoi diciott’anni, quando anche lui diceva alla Ines una bugia verso il tocco, per poterne dir un’altra alla Marietta alle sei.

«È un ragazzo intelligentissimo», proseguiva il dottore, «non dico perché è mio figlio: ma è proprio dotato di una memoria e di un intuito straordinarî. Pensi: l’anno scorso, a luglio, era stato riprovato in matematica. Si sa che in liceo sono già studî… lei li conosce… coi fiocchi; ma era più che altro il puntiglio d’un professore. Bene: crede lei che durante le vacanze abbia aperto mezzo libro di geometria?» Il dottor Velaschi non aveva in mente i libri de’ figli se non in forma frazionaria, tanto erano regolarmente squinternati. «Neanche per sogno! Più che occuparsi dalla mattina alla sera di macchine, di motori, di motociclette… ma d’altro non vuol sapere. Eppure, a ottobre, è passato benissimo…

«Ma adesso, chi sa che gli ha preso!, dice che è stufo: stufo di marcir tutta la vita sui libri. Sente il bisogno, io già lo capisco, perché è un ragazzo, vede?, che va capito, che va studiato, sente il bisogno di fare… ecco: di agire, di concludere. È uomo… ecco» (si morse le labbra) «… cioè… pur essendo un ragazzo. Anche fisicamente: vedesse! ah! ma lei l’ha ben visto!… ma due o tre anni fa… Ma vedesse ora, che ragazzo! C’è la mia signora che gli muore dietro. Delle spalle!» Dilatò e stirò le sue, per riprodurre quelle del figlio.

«Insomma non vuol più saperne di scuola, né di professori. Dice che noi in Italia si studia troppo e diventiamo tanti cretini: difatti non ha torto: gli altri popoli, all’estero, sono molto più pratici, più sbrigativi…

«Ma intanto la mia signora è disperata. Si sa, le mamme. A loro gli pare che un pezzo di carta, dopo la terza liceo o dopo il politecnico, sia chissà che palmizio. E poi si vede bene a che servono i pezzi di carta!» Rise gioviale, tutto lieto dell’allusione, allora di gran moda; sebbene c’entrasse come i cavoli a merenda.

«È certo che la vita pratica insegna molte cose che non insegnano i libri…», concedette il Magnoni, che però alcuni suoi dipendenti chiamavano «signor ingegnere», e di cui pure diceva sua suocera «mio genero, l’ingegnere», quando non poté più dire «mio genero, l’onorevole.»

«È proprio per questo che l’ho incomodata, amico Magnoni», insinuò rapido il dottor Velaschi.

«Mi rincresce di dirglielo cosí tout court, senza preamboli, ma è proprio per questo. Un ragazzo ha bisogno di esser tenuto, anche se pare un uomo. Quando non lo tiene la scuola, bisogna che lo tenga il lavoro

Sfoderò della pedagogia, citò Dante. «I ragazzi fanno presto a perder la strada: e tanto più maligno e silvestro diventa l’albero,» (così citò), «quanto ha più preso del buon vigor della terra.» – «E noi siamo come alberi», gli parve opportuno spiegare. «Il guaio è che quando parliam noi i nostri ragazzi non ci prestan feede…» (canterellò quel feeede); «non ci voglion neppure dare ascoolto…» (canterellò quell’ooolto). Magnoni notò che la condotta del discorso era un po’ incerta. «Dicono che siam vecchî come il cucco, passati di moda. E finiscono col darci del rimbambito. E dire che si fa tutto per il lor bene!»

Altre volte, durante i diporti in bicicletta o nel circolo dei conoscenti di villa, il dottor Velaschi, parlando de’ figli, diceva con un certo giustificato sussiego ed orgoglio: «i miei giovanotti» Ma in quel pomeriggio del 19 maggio 1915 gli pareva che andasse meglio «ragazzi.»

«Per tagliar corto, caro Magnoni, io volevo pregarla, sempre beninteso che le sia possibile, di veder un po’ se le venisse fatto di trovare un posticino al mio Franco, nel suo stabilimento…; così, almeno da far un po’ di pratica, da cominciare a far qualche cosa» e gli mise in sulla spalla una mano gioviale.

«So che “si ingrandisce”, eh?… In fondo, mi dica, è un affare che va…» «Non me ne parli! per l’amor di Dio! Si lavora giusto per non buttare la gente sul marciapiede…» Ci fu un intoppo, che Velaschi superò guardingo, come il turista che la sa lunga al valico d’un ponticello malfido.

«Ma vorrei proprio che fosse in fabbrica, non agli uffici. Perché è lì che si fa pratica. Anche lui, del resto, vuol cimentarsi coi ferri, far proprio l’operaio, cominciare proprio dal primo gradino; e questo, in fondo, mi fa piacere: è una prova di serietà. Insomma vuol rimboccarsi le maniche per davvero. Perché dei libri è stufo, non ne può più. Dice che in tutta la sua vita non prenderà più in mano una penna.

«Allora prendi il martello, dico io, non le sembra? Qualche cosa bisogna pur fare, a sto mondo. Se non ti va la penna, ti andrà l’incudine; o il tornio.»

E quel tornio parve a Magnoni il gorgo umbilicale dove s’ingolfasse tutto lo sconclusionato e pur conclusivo discorso: il punto di convergenza d’un sistema logico formalmente sbagliato ma sostanzialmente nucleato di realtà e di vita: sopratutto di vita; nelle di cui opere lente germinanti dal pensiero e dal tempo, ne’ di cui travagli e nelle di cui opere è polso di battiti fondi ed è operosa corsa d’un sangue fervido, ricco: da non buttare, per i capricci di tre forsennati; da consegnar certo invece e lieto e fecondo al domani.

L’«industria» è una grande scuola, come l’agricultura, come il commercio, come la Chiesa, come tutta la vita: e insegnano, al contadino e all’onorevole, quand’è il suo momento tacere: sorvolare sugli schemi labili dell’apparenza ufficiale. Si sa che si dice carota e si pensa patata.

Magnoni non si curò d’altro, non chiese nemmeno come mai, alla vigilia della licenza liceale, piantassero lì tutto di colpo, libri, liceo, tasse, e calamai e professori ed esami. Non ce n’era bisogno.

Passò un drappello di nove alpini, tozzi, saldi, pesanti, fra battimani: «Viva gli alpini! Viva il quinto! Viva l’Edolo! Viva il battaglione Morbegno!» gridava la gente.

Dimenticati a Milano, eran compagni infatti di quelli che stavano per arrampicarsi sullo Scorluzzo e sull’Ercavallo, di quegli altri del Castellaccio e della Forcella di Montozzo, dei Lago d’Arno, del Monte Sperone. (8) Altri già da Val d’Avio, con distaccamenti fermi di compagnie, talora di plotoni, si preparavano alle fatiche e alle vigilie glaciali del Mandrone e del Pian di Neve, affacciatisi ai valichi altissimi dell’Adamello, ai passi di Brizio e di Garibaldi. Camuni e Valtellinesi e gente delle valli sopra i due laghi, da Dongo e da San Fedele d’Intelvi a Vestone, erano gli alpini del quinto.

Ma il dottor Velaschi volle arrivar fino in fondo: al discorso ufficiale mancava la conclusione ufficiale.

«Lui già ha sempre avuto una gran passione per la meccanica; è per questo che la mia signora, che ne è innamorata, lo sognava ingegnere. Ma io dopo tutto mi rassegno. Bisogna esser pratici, realisti. Meglio un buon capotecnico o un industriale provetto, venuto su a furia di officina e di olio di gomiti, che un ingegnere rimbambito sul calcolo sublime(9)

Siccome la notte stessa Magnoni filava a Roma col Sarzanino, così prima di sera il notaio fu raggiunto da una telefonata gentilissima, della quale non perdé una sillaba, non ostante la sordità: «Mandi… mandi pure il suo Franco… domattina, sì… no, io no, ma c’è il cavalier Ferranti, che fa lo stesso… Come aiuto tornitore, sì, sì…

«Ah! certo… severità e disciplina… Certo, certo: qui dovrà rigar dritto… non sarebbe neanche possibile fare parzialità… I miei ossequi alla Signora… a donna Teresa… Ma prego, che diavolo!»

E il microfono fece sul gancio un trac pieno di puntualità. Quando uno se ne serve a dovere, il telefono è una macchina docile e perfetta. (10)

Così Franco poté dimenticare a suo agio la secchezza curiale, la vividezza imperatoria di Cesare che, direttamente o indirettamente, gli aveva amareggiato otto anni di vita: perocché vanivano le serpentesche disgrazie della oratio obliqua, le cefalèe e il rigurgito empio delle protasi e il catastrofico fugato delle apodosi, e la marea dei piuccheperfetti e de’ futuri anteriori, con lampi lividi de’ gerundivi necessitanti, vanirono le marce le battaglie il sangue, l’orazione imperiale, l’encomio della dècima, la conversione eroica: «Quod si praeterea nemo sequatur, tamen se cum sola decima legione iturum, de qua non dubitaret, sibique eam praetoriam cohortem futuram.»

E dimenticò subito nell’esultante vigore della sua pubertà, i logogrifi di Neper di Carnot e di Briggs e i funambolismi bombati di un certo Ippòcrate, il quale, escogitate certe lùnule, sostenne (e sostengono ancora) equivaler elleno all’area del triangolo retto, di che germinarono.

Invece il figlio della portinaia Dirce Raspagnotti che faceva il ragazzo di bar dopo un anno lo videro in licenza sottotenente e non dimenticò nulla di quanto aveva imparato da bimbetto. Era ancora certissimo che Ventimiglia si scrive col gi, Italia dicono di no. Parlava a voce alta de’ suoi «colleghi»: (un barbiere siciliano e un veneto immilanesito, già venditore ambulante, col fez, di tappeti turchi, di Monza.)

Aveva la maschietta, la mascotte, un libro di Mario Mariani, due portasigarette; e molti ninnoli e catenelle.

Il dì dopo del colloquio Magnoni-dottor Velaschi e cioè il 20 maggio 1915, Don Celeste Carugoni, parroco, scoccate le undici e mezzo, non vide quale difficoltà potesse inibirgli di condiscendere all’istante preghiera che donna Teresa gli rivolgeva: volesse accettare lire cento per una novena da celebrarsi all’altare di San Carlo: e altre cento per i poveri della parrocchia. Volesse inoltre appendere, a lato l’altare del medesimo Carlo, un tenue segno del di lei grato e divoto animo, per grazia ricevuta.

Si trattava di un cuore d’argento bombé che donna Teresa sfoderò da una scatola piatta di cartone bianco, ovattata: e che rivelò subito, agli occhi del buon parroco, le sue dimensioni superbe. Torno torno tutta una magnifica trina d’argento bianco faceva pensare a delle mutande da signora dell’epoca vittoriana: e le lettere T.V. – G.R. incise in oro e sópravi una corona con nove palle, a una principesca bomboniera: o comitale che fosse.

Il provetto pastore pensò che alla Grazia Ricevuta «da Donna Teresa Velaschi» dovessero presto seguire gli auspicati confetti di sua figlia Luisa e d’un giovanotto molto elegante, che vedeva spesso entrar dai Velaschi, amico de’ ragazzi.

Ma gli occhî per quanto sagaci e lungimiranti d’un parroco sono altra cosa che le «viscere di una madre.»

 

1. A questi giovani serî non appartenne certo l’A., che perdette tutti i suoi giorni e tutti i suoi esami.

2. Nel trofismo animale esiste realmente un centro morfologico nucleatore: ma pertiene all’attività nervosa. Io qui immagino un centro plastico.

3. Voce lombarda per panini.

4. Espressione lombarda per dire di cose invecchiate e giù di moda.

5. Vezzo lombardo; in ital. sebbene mi paia.

6. L’autore, per bocca del suo personaggio, offre una scelta di luoghi comuni molto accreditati presso le persone più intelligenti di quel tempo.

7. Per informazioni rivolgersi ai Piolti-de’ Bianchi, ai Scesa, ai Confalonieri, ecc. ecc.

8. In valle di Ledro.

9. È il nome che la stupefatta superstizione ottocentesca dà ancor oggi alla matematica differenziale.

10. Questa battuta aveva un certo sapore rispetto all’epoca del disservizio telefonico. Oggi la pennellata si scolorisce dopo l’instituzione degli automatici.

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ISSN 1476-9859

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