Il duca di Sant’Aquila
Gian Carlo Roscioni
La villa appena costruita a Longone e le vacanze che i Gadda ogni estate vi trascorrevano avevano rivelato a Carlo nuovi orizzonti. Il paesaggio dell’infanzia non sarebbe più stato solo quello, urbano e grigio, di Milano, perché ad esso se ne sarebbe per sempre affiancato un altro, montuoso e verdeazzurro, con cui fino allora aveva avuto rari, occasionali contatti. Erano legati, questi nuovi orizzonti, alle memorie familiari e, al tempo stesso, alle testimonianze della più celebrata letteratura lombarda: quanto bastava perché ad essi venisse assegnato, da uno spirito fantasioso come il suo, un ruolo privilegiato. Certo è che a questo paesaggio, «con Resegone sullo sfondo e odor di Lucia Mondella nelle vicinanze» (Gadda Conti 1974: 48-49), egli votò un sentimento contraddittorio, tessuto di devozione e di dispetto: «è strano come i giorni dell’infanzia, della adolescenza – scriverà nel 1915 –, ritornano a torturarmi con visioni di felicità perduta, specie con il viso de’ miei cari: e come penso con insistenza alla Brianza, più che a Milano» (Giornale, SGF II 471).
Queste parole provano come Carlo, lontano per la prima volta dalla famiglia, rimpiangesse soprattutto i luoghi dove, bambino, aveva vissuto le emozioni più intense e immaginato le avventure più esaltanti della sua ancora breve esistenza. «Il 24 di giugno terminava l’anno scolastico, e gli scolari esenti da esami di licenza sciamavano in vacanza, e noi tre in particolare partivamo con gioia per Longone e per oltre tre mesi (luglio agosto e settembre) godevamo ampia libertà», ricordava Clara. (1) Di questa libertà i piccoli Gadda approfittavano soprattutto per giocare «fraternamente uniti [...] nel loro frutteto». (2) Ma sappiamo di altri svaghi che li portavano lontano dal frutteto e dalla villa: in una composizione del primo ginnasio Carlo racconta come spesso lasciasse la sua «bianca casetta», (3) situata «tra monti e laghi, tra campi e giardini», per intraprendere ardimentose escursioni («e io con gran gioia ascesi già il Pallanzone, il Cornicciolo [sic], il S. Primo, il Bollettone; fui all’Alpe di Cressa ed al Pian Rancio»), che sono certamente all’origine della sua venerazione per i monti, le vette.
Chi rammenti il livore con cui parlerà più tardi di Longone – definendolo un «reclusorio», anzi ribattezzandolo Portolongone (4) –, può essere indotto a vedere nella «felicità» e nella «gioia» di queste dichiarazioni gli stati d’animo originari di un’infanzia spensierata, che solo più tarde, risentite esperienze avrebbero rappresentato sotto altri colori. Ed è possibile che le cose siano andate, almeno in parte, così. Ma qualche indizio ci fa pensare che il piccolo Carlo non sia stato testimone indifferente di fatti contro cui, in seguito, sarebbe insorto con veemenza.
I lettori della Cognizione conoscono bene la storia, ripetutamente deplorata nel romanzo, dei cinquecento pesos con cui i genitori di Gonzalo hanno contribuito all’acquisto delle nuove campane di Lukones (travestimento sudamericano di Longone), «per cui ho patito la fame, da bimbo, la fame!, [...]... con la maglia rattoppata... i geloni ai diti... i piedi bagnati nelle scarpe... i castighi!» (Cognizione, RR I 636-37). Dell’evento, datato 1903 nel racconto, leggiamo anche nella cronaca di un parroco di Longone, Don Vittorio Farina, che registra con soddisfazione come sul campanile della chiesa di S. Fedele «nel 1904 furono inalzate cinque belle campane in mi bemolle, opera della ditta Barigozzi di Milano». (5) Questa delle campane era una vecchia fissazione di Adele Gadda, che in uno dei suoi «thèmes» di collegio aveva immaginato un «monsieur Pierre» il cui più vivo desiderio era proprio «mettre les cloches au clocher de sa paroisse»: ... «et moi aussi je trouve qu’il avait raison». Le pareva impossibile resistere alla suggestione della «douce voix» delle campane, che risuona lontano come quella «d’une mère qui dit à ses enfants d’employer les premières heures du matin qui rapportent l’or». (6)
Non importa attestare l’autenticità – di per sé irrilevante – dell’episodio, quanto stabilire l’indispettita partecipazione – biograficamente significativa – del piccolo Carlo all’evento: essa è suggerita da dettagli del racconto che paiono frutto più della memoria d’un testimone oculare che dell’immaginazione di un romanziere (i «tre villani e un assessore […] venuti col registro, una domenica», il bicchiere di vino rifiutato e poi accettato, ecc.). (7) Tutto lascia credere, insomma, che l’inestinguibile rancore per il contributo versato sia, piuttosto che l’esito di riflessioni e risentimenti successivi, l’eco di un’emozione, di una rabbia esplosa il giorno stesso dell’oblazione.
Come il suono delle campane, questa rabbia era destinata a effondersi su tutto il paesaggio circostante, investendo uomini e cose, associando in una universale deplorazione flora e fauna, proprietari e fittavoli, costumi, lingua, e persino i nomi dei paesi, i «cari nomi lombardi, in ago e in ate»: (8) perché, «di tutte le terre della terra, la Lombardia ha il primato del buon gusto e dell’eufonia toponomastica. Saronno, Usmate, Inverigo, Lurago, Pizzighettone, Incasate, Buccinigo, Capriago, Busto Arsizio, Busto Garolfo». Fosse per dileggio o semplicemente per gioco, Carlo, fin da bambino, aveva pensato di rimediare a quella che gli pareva l’intrinseca goffaggine di questi toponimi sostituendoli con altri di suo conio. (9) è così che, insieme al nipote Emilio Fornasini e al cugino Enrico Ronchetti, aveva ribattezzato Fogaron (Fornasini, Gadda, Ronchetti) il monte Cornizzolo, una delle mete favorite delle sue escursioni. Ma la passione per una toponomastica di fantasia è documentata soprattutto dal gioco del ducato di Sant’Aquila, al quale vale la pena dedicare un po’ di attenzione.
Siamo nell’estate del 1906. Carlo, seguìto il corso preparatorio delle Suore del Cenacolo, aveva da poco – il 3 maggio – ricevuto nella Chiesa di S. Simpliciano la prima Comunione. Che prendesse allora «sul serio l’idea del peccato, i rimorsi, le confessioni» (Gadda 1993b: 160), come sosterrà più tardi, sembra probabile, vista l’inclinazione di tutta la vita a fare ogni cosa sul serio. Ma che l’educazione cattolica abbia «influito molto» su di lui non si direbbe proprio, tanto più che i genitori, per quanto credenti e praticanti, non erano troppo devoti: «Né mio padre né mia madre erano eccessivamente osservanti – dice nella medesima occasione –. Avevano il rispetto per le forme». C’è poi da aggiungere che la sua vita interiore era più sensibile a suggestioni d’ordine etico o fantastico che religioso. Era da un intreccio di virtuosi princìpi e di accese, talvolta bizzarre immaginazioni che traevano ispirazione i pensieri, i sogni, gli svaghi di quegli anni.
Tra questi si distingue il gioco appena menzionato. Insieme ai fratelli e ad alcuni piccoli amici Carlo ridisegnò la mappa del frutteto attiguo alla villa, attribuendosi, all’interno della medesima, un immaginario ducato di Sant’Aquila. Il fatto è noto ai lettori dei quaderni di guerra perché nelle loro pagine questo titolo accompagna più d’una volta il nome del cronista, come se le esperienze della vita militare fossero in qualche modo collegabili a quella chimera infantile. Su questa siamo oggi in grado di fornire qualche dettaglio grazie a curiosi documenti – conservati nel «Ducale Archivio di Stato di Sant’Aquila» – che ci lasciano intravedere natura e scenari del gioco. «Io sono un archiviòmane» (Giornale, SGF II 585), scriverà Gadda una diecina d’anni più tardi: ed è grazie a questa attitudine e ossessione che possiamo oggi esplorare la più antica delle sue costruzioni fantastiche.
Prenderemo le mosse dal «Trattato di Portagos» del 6 agosto 1906, che inizia con una per noi opportunissima divagazione storica: «Anticamente due grandissimi imperi, Targhìnos [il nome allude a un certo Tarchini, un proprietario vicino] e Gaddàlis, dominavano parte l’uno e parte l’altro la Landomagna e avevano per capitale: il primo Sebroko, il secondo Portagos. Sorse indi il triunvirato di Pilippi con capitale a Filippi, (l’antica Karbakien,) comprendendo tutta l’immensa regione; da ultimo questa, in seguito a lunghe guerre, col trattato di Portagos (6 agosto 1906,) si divise così: Ducato di S. Aquila, Contea di S. Freccia, Regno di Portagos, Stato di Filippi (retto da un Governatore eletto dal Duca di S. Aquila), Principato dei Colli Azzurri, Stato dipendente di Eremitànosel (governato da dieci membri, scelti ogni anno dal Conte di S. Freccia)». Le firme dei «Membri del Trattato» ci rivelano la loro identità: se Carlo è il duca di Sant’Aquila, il fratello Enrico è il conte di Santa Freccia e la sorella Clara la principessa dei Colli Azzurri. Niente ci dicono i nomi degli altri firmatari.
Inutile ridisegnare qui la mappa e i confini dei sei stati, minuziosamente descritti in un documento del 7 agosto, dedicato alle «Divisioni del Terreno»: basti dire che il ducato di Sant’Aquila abbraccia «Tutta la parte in alto, (di dietro, a Ov. e a Est), della Casa; tutta la parte a Sinistra del nostro terreno attuale a mezzogiorno», fino a una linea che «dal cancello in alto (compreso)», giunge «al primo palo di ferro della rete metallica verso il campo del Molteni». Più interessante, in un terzo documento, l’elenco delle numerosissime «Civitates (Capoluoghi di Provincia della Landomagna)»: solo nel ducato di Sant’Aquila ce ne sono 23, con nomi per lo più esotici come Arannez, Arbar, Vernost e Vetermons – per non citare che i primi e gli ultimi dell’elenco –, il cui significato o etimo solo in qualche caso è decifrabile. Finali «spiegazioni» (Gadda 1993b: 88) consentono di identificare i luoghi: veniamo così a sapere che Arannez è la «Buca spazzatura», e che Sant’Aquila, capitale del ducato omonimo, è il «Ciliegio sull’angolo tra il piazzale e il sentiero che va nell’orto» (come, in verità, già avevamo appreso da un’intervista del 1963).
Perché mai questo albero ha avuto il privilegio di assurgere a centro e simbolo del mondo fantastico di Gadda? E come si articolava, in concreto, il gioco che intorno a esso si svolgeva? C’è da dire, anzitutto, che all’epoca del trattato di Portagos il gioco era forse una nuova versione di altri precedenti: in tal caso, la divagazione storica citata avrebbe un suo fondamento oggettivo. Lo lasciano immaginare i «nomi antichi» che affiancano talvolta i moderni nell’elenco delle «civitates»: Arannez, cioè la buca della spazzatura, si chiamava prima Corcontendos (probabile indizio, questo, della scarsa considerazione che in casa Gadda godeva l’unico locale pubblico di Longone, l’«Osteria del Cuor Contento» – dell’«Alegre corazón» nella Cognizione del dolore – RR I 594 599); ed è un fatto che la città di Cermend, nella Contea di Santa Freccia, coincideva – come si legge nelle «Spiegazioni» – con il «Ciliegio, (o mareno [sic]), che formava prima il castello dei due Enrichi» (Enrico Gadda e Enrico Ronchetti). Ma non è impossibile che quello dei «nomi antichi» sia un gioco nel gioco, suggerito dalla consultazione di dizionari o enciclopedie in cui le voci di città talvolta cominciavano con la formula «X, l’antica Y»...
Per tornare alla forma concreta del gioco, esso prevedeva sicuramente degli spostamenti: nello Stato di Filippi c’era un «Gelso dove andiamo a villeggiare», e in quello di Sant’Aquila addirittura una «ferrovia» che da Garanfant (stazione dei bambini?) portava a Domenicio, cioè al «Fico nostro in fondo al campo di Sud». Ma è probabile che, almeno per Carlo, l’aspetto più impegnativo e divertente del passatempo stesse nel disegno della mappa dei sei Stati con le loro città e dipendenze, nei travestimenti e bisticci onomastici che una così articolata topografia comportava, e nella meditata stesura dei documenti da raccogliere nel Ducale Archivio di Stato.
Che l’invenzione non sia stata frutto d’una circostanza o d’una stagione lo conferma, tra le carte dell’Archivio, il testo del «Trattato di Eremitànosel» (come non pensare al tema degli «eremi», caro al Gadda lirico di qualche anno più tardi?) del 21 aprile 1907, debitamente autenticato dal «Timbro di Stato» del ducato di Sant’Aquila. Esso documenta un radicale sconvolgimento della carta politica della Landomagna. Il duca di Sant’Aquila, che apprendiamo essere il terzo del suo nome, governa ormai direttamente anche lo Stato di Filippi – si firma infatti «Carlo Emilio III, Duca di S. Aquila e Signor di Filippi» –, ma ha ceduto una parte non indifferente dei propri territori a un nuovo Stato, il ducato di Sant’Elsa; e questo non disinteressatamente, ma «dietro una ricompensa di due migliardi». L’esigenza di ridisegnare i confini degli Stati della Landomagna scaturisce dall’avvicendarsi dei bambini che prendono parte al gioco: con Carlo e Enrico Gadda questa volta figura infatti il nipote Emilio Fornasini – il duca di Sant’Elsa –, assente l’anno precedente, mentre s’è persa ogni traccia di Clara e, con lei, del principato dei Colli Azzurri.
Da segnalare, in queste carte, le prime manifestazioni di quel bisogno di precisione, di autenticazione, di reiterazione della propria identità, che caratterizzerà tanti manoscritti del Gadda adulto. Nel «Trattato di Eremitànosel» la firma di Carlo Emilio III è ripetuta tre volte, e cinque la data della stesura dell’atto. Per chi poi nutrisse ancora dubbi in proposito c’è una dichiarazione conclusiva: «Si assicura che il Trattato di Eremitànosel, da cui è ricavato questo documento, è stato fatto il giorno 21 d’aprile dell’anno 1907 di Cristo».
Due parole bisogna dire dello stemma dei duchi di Sant’Aquila, anch’esso conservato nell’Archivio. Sotto il motto «Justitiam sequamur, nos sequetur victoria!» è raffigurata un’aquila coronata che nel becco stringe un libro e negli artigli un pugnale. Se quest’ultimo allude alla combattivitàdel re dei volatili , il libro – destinato ad aggiungersi ad altri poggiati sulla vetta di un monte verso cui l’aquila è diretta – simboleggia il contributo che s’intende apportare al sapere. A fondamento della raffigurazione è la stessa esigenza di elevazione spirituale che traspare nel culto della montagna, dell’ascensione, della torre, dell’eremo, presente negli scritti del giovane Gadda («Alla montagna salire, | Pietra su pietra | Una torre | Sulla montagna volevo levare» – Gadda 1993a: 13). La mappa della Landomagna tutto era, infatti, tranne che una nuova Carte du Tendre:spiriti virtuosi ed eroici presiedevano al gioco, come conferma il motto che chiude l’elenco delle «civitates», «Arma nobiliora quam pecunia». Sebbene questa seriosità, per fortuna dei bambini e nostra, lasciasse qua e la spazio a giochi onomastici, a beffarde allusioni, determinante restava nella concezione del ducato un’ispirazione «ideale» e cavalleresca. Lo provano le tracce che di questa avventura resteranno non solo nei quaderni di guerra e nelle poesie giovanili, ma in testi molto posteriori. Quando Gadda, tanti anni dopo, intitolerà un libro a un altro «ducato», purtroppo «in fiamme», sullo sfondo sarà ancora possibile intravedere il gioco prediletto dell’infanzia: egli sentirà infatti il bisogno di contrapporre a quello, tragicamente meschino, del «duce» e del titolo del libro, il «ducato della mia immaginativa un po’ fantasiosa, del mio sogno» (Gadda 1993b: 28). Non aveva forse le sue radici, questo «ideal ducato de’ miei sogni» (SGF I 1121), questa «civitas solis del mio complicato campanellismo», nel gioco di mezzo secolo prima?
Sembra proprio che di Landomagna e di Sant’Aquila nel 1908, l’anno successivo, a Longone non si sia più parlato. Non soltanto le carte dell’Archivio ducale tacciono in proposito, ma noi sappiamo che nella vita di Carlo molte cose, poco compatibili con quella fantasia, erano nel frattempo accadute. La seconda lettera di auguri per l’onomastico di Francesco Gadda, del settembre 1908, prova che egli aveva ora ben altro per il capo. «Presto avrò il mio lavoro e lavorerò, – scriveva in quella circostanza – ma fin da oggi comincio le battaglie, poiché non mi basta volere, come volli sempre; bisogna che combatta e sopra tutto che vinca!» L’impressione è che Adele, constatata la poca o nessuna disposizione del marito a «vincere», avesse istillato nel figlio maggiore l’idea che toccasse a lui supplire il più presto possibile alle carenze paterne. Ma Carlo aveva quattordici anni, doveva completare gli studi, e un discorso del genere era, di necessità, velleitario e astratto.
A renderlo, se non più concreto, certamente più pertinente contribuì, l’anno dopo, la morte inattesa di Francesco Gadda, spirato a Longone «con tutti i conforti religiosi» la notte tra il 19 e il 20 agosto del 1909. (10) I funerali furono, come aveva chiesto nel testamento, «da povero senza fiori». (11) Ignoriamo quante delle ottomila lire destinate nel 1901 ai figli viventi della seconda moglie siano state da questi realmente ereditate. Sta il fatto che Luisa Gadda, moglie del senatore, stimò opportuno venire in aiuto dei tre nipoti rimasti orfani intestando a ciascuno un libretto di 200 lire: ma pare che il gesto non sia stato affatto apprezzato da Adele che, indispettita da quell’elemosina, avrebbe lacerato i libretti, successivamente ricomposti, d’accordo con la zia, dal mortificatissimo Carlo. (12)
«Ricordo che, inginocchiato al letto di mio padre morto, esclamai nel pianto: “Ho appena quindici anni!”. intendendo di dire: “Solo per questo breve periodo ti sono stato vicino, o babbo”. Questa frase fu invece interpretata, e forse ragionevolmente, nel senso egoistico: “O babbo, mi lasci in età nella quale il tuo aiuto m’era necessario”. Bisogna riconoscere che questo era il pensiero rispondente all’espressione, e che l’espressione non rispondeva invece al mio pensiero» (Giornale, SGF II 789). A interpretare quelle parole «nel senso egoistico» era stata probabilmente Adele, la quale, ora più che mai, molto si aspettava da Carlo; quanto a lui, immagino che il suo inconscio abbia dato voce, in quella circostanza, a preoccupazioni che il suo «pensiero» rifiutava di ammettere. Di quali responsabilità la madre lo avrebbe adesso gravato? E la morte del padre avrebbe eliminato le tensioni familiari che avevano avvelenato la sua infanzia, o le avrebbe invece esasperate? Le apprensioni di Carlo dovevano rivelarsi giustificate: non solo Adele volle assommare in sé l’autorità materna e la paterna, ma pretese che i figli si associassero al culto da lei votato a Francesco – culto forse riparatorio della non grande considerazione in cui fino allora aveva tenuto il marito –, e su questa strada Carlo non era affatto propenso a seguirla.
Note sono le pagine della Cognizione che evocano due diverse occasioni in cui Gonzalo, in un accesso d’ira, calpesta il ritratto del padre. Ad attestare il fondamento biografico degli episodi ci sono esplicite ammissioni dell’autore a Silvio Guarnieri e non soltanto a lui. (13) Non sappiamo quando questi atroci scontri con la madre abbiano avuto luogo: ma le loro radici affondano di sicuro nel clima creatosi in famiglia con la morte di Francesco, quando Adele, a giudizio di Carlo quasi uscita di senno («Era una donna di temperamento un po’ nervoso, diciamo così per carità filiale» – Gadda 1993b: 195), avrebbe assunto nei confronti dei figli atteggiamenti sempre più vessatori. Di qui le ripetute, sarcastiche divagazioni «sulla incapacità della donna a educare oltre una certa età» (14) e sulle crisi isteriche delle vedove. L’allusione alla propria esperienza familiare è appena velata nei Luigi di Francia: «In caso di minorità del successore, il governo del Regno spettava alla Regina, salvo che risultasse pazza, come risultano, a un’analisi un tantino approfondita, certe vedove, in certi casi, d’altronde rarissimi» (SGF II 139). Ma non mancano occasioni in cui il discorso è in prima persona, e Adele direttamente chiamata in causa: «Caduto preda, ahi!, delle donne-educatrici, poca voce di baritono d’attorno la mia puerile indigenza. La mia timidezza di viola mammola le eccitava a salive, dementi bassaridi, e alle vivisezioni crudeli. La loro psiche imitativa la bisognava d’un modello, non meno di quanto la loro… femminilità… bisognasse d’un… ragionevole conforto, ossia d’una… guida: che non c’era» (Come lavoro, SGF I 438).
La denuncia, come si vede, può rasentare la trivialità. Ma il livore di Gadda non deve trarci in inganno: dietro accenti così aspri c’è il bisogno inappagato della «mamma adorata» (Giornale, SGF II 686), ci sono una passione e un’attesa deluse. Quanto al mancato conforto d’una voce di baritono, il tema sarà sottilmente discusso in quell’accorato racconto pedagogico – quasi un émile post-freudiano – che è Eros e Priapo (a torto considerato da alcuni solo un brillante libello politico). Ecco come i princìpi della «disciplina narcissica» in esso enunciati ci suggeriscono di interpretare la vicenda personale dell’autore.
Muovendo dall’assunto che è necessario a ogni bambino «assimilare un modello, del suo medesimo sesso» (Eros, SGF II 332), Gadda osserva che questo «può essere ed è talora il padre, giovine, fiero, buono» (334). Non era certamente il suo caso. Che Francesco Gadda fosse «buono» è possibile, ma di che mai poteva essere «fiero»? Della «giovinezza», poi, meglio non parlare. Negli anni dell’adolescenza di Carlo, Francesco era comunque scomparso di scena, mentre Adele, come persona d’altro sesso, non poteva fungere da modello: «De Madrigal – Alì Oco de Madrigal è un anagramma di Carlo Emilio Gadda – amò intensamente sua madre, ma non poteva chiedere a Dio di eguagliare nella forma sua madre» (332). Ora Adele, incapace di soddisfare lo smisurato bisogno d’affetto di Carlo, vedeva – se non nella propria forma – nella propria austera condotta il modello cui i figli, in primo luogo il maggiore, avrebbero dovuto adeguarsi.
«I durissimi anni in cui sola contro le asperità volle raccoglierci intorno a sé, quasi a preservarci dai suggerimenti (per lo più saggi e umanissimi) di coloro ch’ella chiamava “gli altri”. la videro infaticabile custode di principî e di petizioni di principio da cui ormai non potevo che dissentire». (15) Nessuna meraviglia che tra i «principî» materni primeggino, come sempre, quelli attinenti alla gestione economica della famiglia: «Una minore fermezza forse, il salutare dubbio di chi dubita (illuminato da Dio) dei decreti della propria infallibilità avrebbe reso più accetto alle giovani e doloranti anime l’inserimento in una società dentro la quale bisognava pur vivere, e alla cui compagine mi sentivo già estraneo. La “saeva paupertas”. la crudele povertà che al dire del poeta formò di sé i padri e i fondatori della patria distrusse in me viceversa ogni attitudine a sopravvivere. [...] Mia madre credette a quel potere sovrumano di sopportazione ch’io non ebbi, salvo che in guerra, e non ho e non voglio avere».
La citazione oraziana (Carmina, I, 12, 43) dà luogo, in un’altra redazione del passo, a un’interessante precisazione:… «la sua e nostra paupertas non era la mancanza di riserva liquida onde le banche agricole sovvengono il colono, il coltivatore alla stagione di necessità [...]. La sua e nostra paupertas fu la disperazione urbana». Che cosa intendesse con questa formula, Gadda lo spiega in un’altra occasione: «la povertà mi ha umiliato di fronte al ceto civile borghese al quale la mia famiglia apparteneva, almeno nominalmente» (Gadda 1993b: 156). Si trattava dunque d’una povertà forse relativa, ma esposta a continui, spiacevoli confronti. Il lamento sugli abiti sportivi negati, il rammarico per la propria «adolescenza di ragazzo mal vestito», (16) l’insistenza in Eros e Priapo sull’opportunità di «vestir bene» (SGF II 331) i bambini dicono che questo dell’apparenza fu un problema reale, sofferto. Anche se, com’era nel suo temperamento, della propria povertà Carlo non mancò talvolta, già nell’adolescenza, di sorridere: sul bastone che usava nelle gite in montagna aveva inciso «Cantabis mecum coram latrone viator» (deformazione, forse involontaria e forse no, del «Cantabis vacuus coram latrone viator» di Giovenale). (17)
Ma, a proposito di gite in montagna, bisogna dire che il regime di «saeva paupertas» imposto da Adele ai figlioli non impediva a Carlo di concedersi ogni tanto qualche svago. Certo, fare un’escursione sul Pallanzone o traversare a nuoto il lago del Segrino non costava nulla; ma le lezioni di ballo della signora Caprotti (Gadda 1993b: 226), il pattinaggio sul ghiaccio, gli spettacoli cui ricorderà in seguito di aver assistito, ragazzo, alla Scala o al Manzoni qualcuno li avrà pur pagati. La «paupertas» c’era, ma forse non era così «saeva». Di veramente «saevus» nella vita di Carlo c’era, piuttosto, un altro male cui tante volte egli accenna nelle sue pagine. Ed è con questo misterioso aspetto della sua esperienza che dobbiamo ora confrontarci.
Gadda, abbiamo visto, ha identificato nella morte del padre un momento cruciale della propria esistenza. L’evento, in sé, aveva rappresentato uno choc da cui non si sarebbe mai del tutto ripreso. Prigioniero a Rastatt, nel novembre 1917 annotava: «Mie condizioni spirituali terribili, come nei peggiori momenti della mia vita, come alla morte del povero papà e peggio» (Giornale, SGF II 671). Aveva provato, quel fatidico 20 agosto 1909, sentimenti anche molto diversi l’uno dall’altro, ma tutti negativi: rimorso per le precedenti insubordinazioni, preoccupazione per le responsabilità che venivano a pesare sulle sue spalle anche nei confronti dei fratelli («Io, che dovevo precederli, – rimprovererà, sempre in prigionia, a se stesso – sono ora scomparso dal mondo; io che dovevo aiutarli e soccorrerli, scòrgerli avanzando nella terribile vita, imploro dalla lor pietà di fratelli il pane di che sostentarmi», 686), disappunto per la mancata intesa con la madre di fronte a tante difficoltà. Ma il peggio doveva ancora venire: «La mia memoria rievoca nitidamente quel giorno e quelle circostanze, – aveva scritto, in trincea, nel settimo anniversario della scomparsa del padre – ma il mio animo non può rappresentarsi senza sgomento tutte le tempestose e terribili circostanze della mia vita intima e privata in questi 7 anni. Voglia la mia fortuna che un periodo migliore succeda a questo, oppure che la morte utile e bella mi impedisca di continuare una vita di inutili sofferenze» (593).
Evidentemente i conflitti con il padre documentati dalle lettere infantili erano stati poca cosa in confronto a quelli che sarebbero scoppiati in seguito con la madre. Alla luce, anzi, di esperienze più recenti, quei tempi lontani potevano sembrare felici: «Dopo gli anni luminosi dell’infanzia, neri dolori, invincibili mali mi hanno selvaggiamente ferito» (Racconto, SVP 391). Quali dolori? quali mali? Anche sulle «tempestose e terribili circostanze» che hanno sconvolto la sua vita «intima e privata» vorremmo sapere di più: se all’eventuale protrarsi di quelle sofferenze Gadda dice di preferire la morte, come associarle alle ristrettezze economiche, al disagio borghese d’una povertà che bisogna a ogni costo nascondere? Allusioni posteriori allo stesso tema non sono molto più perspicue: «La mia adolescenza è stata l’assurdo morale: troppo ho sofferto»; ... «ero un ragazzo abbandonato (sic non ostante tutte le apparenze e i bollettini ufficiali) e rinchiuso. Il reclusorio di Longone». (18)
Purtroppo noi pure abbiamo a che fare, in questa storia, con poco più che delle «apparenze»: quelle che racconti e testimonianze ci mettono sotto gli occhi. Su quanto dietro di esse si nasconde possiamo, come altre volte accade nelle nostre pagine, soltanto fare delle ipotesi. La più fondata sembra quella che insegue, che spia, in questa stagione della vita di Carlo, gli effetti (o le cause?) del mito della cicatrice di nascita. Punto di partenza è il rancore che, al di là dei dissensi sulla gestione della vita familiare, egli nutriva verso la madre per un altro, più profondo motivo. Con il passare degli anni era maturata in lui la convinzione che Adele non guardasse tutti i figli allo stesso modo: la predilezione della mamma per il terzo, Enrico, più prestante, più vivace, più brillante dei fratelli maggiori, era così marcata, così manífesta, che Carlo e Clara potevano scambiarla per una tacita, iniqua avversione nei loro confronti.
Una situazione del genere non si verificava certamente solo in casa Gadda. Carlo ne era così consapevole che l’avrebbe analizzata anche in termini molto generali, prescindendo, almeno apparentemente, dal proprio «caso» familiare. Se da giovane annoverava tra i «nefandi errori nel conoscere e nell’eleggere» l’«amare il suo figlio e non la sua figlia» (Apologia manzoniana, SGF I 685), in Eros e Priapo si sarebbe diffuso sulle «predilezioni ingiustificate» (Eros, SGF II 337) che portano a anteporre i «belli, aggressivi, prepotentelli [...] ai timidi, ai bruttini, ai debolucci»: «Le stesse vacche madri – avrebbe constatato – ripudiano e talora uccidono o si rifiutano d’allattare un vitellino che loro non piaccia». L’insistenza su questo tema è però rivelatrice: tanto più che a considerazioni del genere sarebbe facile affiancare un vero e proprio cahier de doléances fatto di accuse esplicite, dirette.
Che non si tratti solo di vittimismo, che almeno una parte di verità ci sia in questo discorso sembra confermato dal fatto che Gadda associa spesso a sé, nella disgrazia, la sorella. Tra le «sciagure a catena che hanno perseguitato fin dall’infanzia lei e me» (Gadda 1983c: 77) c’è infatti, a suo parere, la scarsa considerazione in cui la madre li ha entrambi tenuti. Le denunce più gravi concernono anzi l’atteggiamento di Adele verso la figlia: «vedo ch’ella non ama Clara, – scrive nell’ultimo dei quaderni di guerra – il che, del resto, è cosa vecchia» (Giornale, SGF II 863). Una «cosa vecchia» che s’era aggravata, anche quella, con la morte del padre, il quale, a sentir lui, aveva lasciato la bambina «nella miseria longonese e nelle grinfie di un’assassina». (19)
La temperatura elevatissima che, anche a distanza di tempo, potevano raggiungere certi sfoghi ha qualcosa di patologico. E, di fatto, il modo in cui egli vive il conflitto ricorda i casi clinici menzionati nei libri di psicologia o di psichiatria di un secolo fa. Nelle Maladies de la volonté di Théodule Ribot, libro frequentato da Proust e posseduto da Gadda, leggiamo per esempio la storia di un certo Glénadel che, avendo perso precocemente il padre, era stato cresciuto e educato dalla madre. A sedici anni costui, sino allora docile e mite, era divenuto cupo e taciturno, finché, incalzato dalla madre, aveva confessato: «Ti devo tutto, ti voglio bene con tutta l’anima; ma da qualche giorno sono assillato dall’idea di ucciderti». (20)
Ma patologica era anche la severità con cui talvolta Gadda tendeva a giudicare se stesso. Se con l’adolescenza si era fatto spesso, come Glénadel, cupo e taciturno, la cosa non era imputabile solo alla madre: ripercorrendo con la memoria, a Rastatt, gli «anni tormentosi» (Giornale, SGF II 755) dell’adolescenza, ammetteva che sofferenze e fallimenti non erano tutti riconducibili alle condizioni «esterne» della propria vita («povertà, dispiaceri di famiglia, preoccupazioni, ecc.»), perché ad essi avevano contribuito anche i suoi propri «sostanziali difetti».
Chi si aspettasse, a questo punto, chissà quali ammissioni e rivelazioni andrebbe incontro a una delusione, visto che i peccati confessati sono decisamente veniali. Come annoverare tra le cause di quella che egli definisce una «torbida vita» (Giornale, SGF II 867) un’eccessiva sensibilità o timidezza («timidezza che giunge al punto da impedirmi di risolvere un problema se un altro sta guardandomi; da impedirmi di esprimere un concetto in me chiaro e determinato, se un altro mi contraddice verbosamente», 755)? Più significativo quanto leggiamo subito dopo: «Ma la più grave causa della mia tortura fu la scarsa forza di volontà, sempre in tutto. Solo nello studio ho volontà forte, credo di poter dire formidabile».
Questo tema che ripetutamente s’affaccia negli scritti giovanili – ma servirà anche a caratterizzare la figura di Gonzalo («A certe ore pareva malato nel volere» – Cognizione, RR I 691) – ci riporta a Ribot e a Proust: a un’epoca, cioè, in cui «volere è potere», prima ancora che il titolo di un fortunato libro di Michele Lessona, era stato il motto, l’insegna, di un sistema educativo imperante in tutta Europa. Carlo ne aveva assorbito la variante lombarda, che non era priva d’una sua originalità: se anch’essa s’ispirava a quel Vangelo o, meglio, a quel Plutarco della pedagogia vittoriana che era il Self-help di Samuel Smiles, c’era chi aveva provveduto, nel paese dei Verri e di Beccaria, a elaborare, d’una così fortunata dottrina, una versione consona allo spirito e all’etbos del luogo. Polemizzando con gli zuccherosi messaggi del Cuore, Andrea Perugini, maestro di Gadda alla Scuola Maggiore di via Palermo, ci ricorda come il lombardo Paolo Mantegazza avesse affiancato al best-seller di De Amicis un libro che s’intitolava, provocatoriamente, Testa. (21) Le parole che leggiamo nel frontespizio di Perugini, L’influenza dei libri nella formazione del carattere, se documentano la persistente suggestione di Smiles, autore di un non meno famoso Character, provano al tempo stesso come il maestro di Gadda anteponesse ai sentimenti, specie se di maniera, i libri, le conoscenze, le ragioni. Di un simile discorso il diletto allievo della Scuola Maggiore, fattosi adulto, avrebbe aborrito i fini e approvato i metodi.
Scartata con irritazione qualsiasi ipotesi di «formazione del carattere» («La forza sistematrice del carattere... questa gloriosa lampada a petrolio che ci fuma di dentro,... e fa il filo, e ci fa neri di bugìe, di dentro,... di bugìe meritorie, grasse, bugiardosissime ... » – Cognizione, RR I 632), Gadda avrebbe fatto proprio lo spirito razionale, concreto, di un’educazione fondata sulla riflessione, sulla «testa». Se Smiles credeva che valesse «più il carattere che l’ingegno, più il cuore che il cervello», (22) egli era convinto del contrario: la «Hemeropolis» da lui vagheggiata, «città del giorno, della chiarezza gnostica e etica» (SGF II 1044), sarebbe stata il regno di una «pedagogia intelligente» (‘Psicanalisi e letteratura’, SGF I 473), analoga a quella che credeva di ravvisare in qualche pagina della Recherche. Essa sarebbe stata improntata alla stessa pragmatica lucidità con cui pensava si dovesse affrontare ogni specie di fenomeni: «Insegnare alcunché alla vita è compito che non possiamo e non ameremmo addossarci: ma desumere da premesse note gli sviluppi probabili denominati “conseguenze” è già una cosa più ragionevole». (23) Purtroppo il destino aveva fatto di lui il cittadino, non di Hemeropolis, ma di un paese come l’Italia, la cui cultura mancava di un «sottofondo logico e riflessivo», appoggiata com’era non «all’esperienza, ma al cuore» (Gadda 1983b: 83).
Queste, però, sono posizioni che matureranno lentamente nello spirito di Gadda: perché negli anni di cui discorriamo la pedagogia dominante fuori e dentro le pareti domestiche gli imponeva proprio di sviluppare, a qualsiasi prezzo, la «forza sistematrice del carattere», di credere che «volere è potere». Se nell’infanzia aveva, sia pure non senza resistenze, assorbito, forse fatto propria questa dottrina, nell’adolescenza, dopo la morte del padre, il modo in cui essa veniva propugnata e, prima ancora, vissuta dal radicalismo etico-volontaristico di Adele destava in lui una forte repulsione, provocava un non sappiamo quanto fermo e costante rifiuto. Nello stesso testo in cui parla dell’inizio del suo dissenso dai «principî» materni, Gadda scrive: «La sua volontà eroica seguitò a volere, immemore forse che al di sopra di ogni mito dell’orgoglio egocentrico e d’ogni romantica iperbole circa la volontà del volitivo, del singolo, sta quel motto vivo e bonario di nostra gente: “l’uomo propone, Dio dispone”. Volle, come la ruota che trae la mola dove frumento non scende». (24)
Gadda bambino e adolescente ha certamente molto sofferto. Sarebbe però un errore vedere in lui solo la vittima, il martire di un’educazione e di una cultura. Non si coglie bene il senso della sua esperienza se si dimentica che, su questioni anche cruciali e durante tutto il corso della sua vita, egli ha spesso inclinato a essere «un po’ del parere dei propri contraddittori». Applicare a lui questo giudizio, che un altro scrittore – mi pare fosse Renan – dava di se stesso, giova a intendere non solo oscillazioni e incoerenze ma, più ancora, la lacerante introiezione di tanti conflitti: introiezione che portava a identificare come «interno» il nemico fino a un momento prima considerato «esterno». L’accenno ai propri «sostanziali difetti» va letto in questa chiave, che ci permette anche di accostare il tema, importante, della sua congenita «malattia». «Il mio sistema nervoso è malato per origine, per la crisi dell’adolescenza, (Dio sa che cosa è stata la mia adolescenza!)». (25) Eloquente è soprattutto un interrogativo formulato nel Racconto italiano dove i motivi della malattia e del nemico interno appaiono significativamente intrecciati: «Se un ragazzo crescesse malato? Se la sua anima non accogliesse i germini del bene e non riconoscesse il viso dei genitori?» (Racconto, SVP 578). Gadda allude ai versi finali della quarta egloga virgiliana, all’invito, rivolto dal poeta al bambino, «risu cognoscere matrem»: (26) solo che, a differenza di quanto fa altrove, li interpreta qui come se indegno della mensa di un dio e del letto di una dea fosse chi ai genitori non ha saputo o potuto sorridere.
Abbiamo parlato, seguendo l’esempio dello stesso Gadda, di malattia, di patologia. Abbiamo anche detto che all’enfasi, all’esasperazione con cui egli denuncia i misfatti, reali o presunti, dei genitori, oppure le sue proprie colpe, vere o immaginarie, fanno riscontro solo rari elementi di prova. Essenziale è aggiungere che quell’esasperazione, come questa indeterminatezza, sono estremamente funzionali sul piano dell’arte. Proprio perché «invisibili», perché «oscuri», i mali di cui ci parla assomigliano a quelli che affliggono molti di noi: né ci sentiremmo così coinvolti se avessimo sotto gli occhi una più chiara, inequivoca sintomatologia. Visto sotto questo profilo, essere «dimenticati dallo sguardo di Dio» (Come lavoro, SGF I 439) – come Gadda, sempre suggestionato da Baudelaire, ribadisce – è il male per eccellenza, quello che ogni istante tutti ci minaccia.
Anche l’esasperazione, l’enfasi, contribuiscono a renderlo contagioso. È un effetto calcolato, proprio dell’arte: in virtù del quale, udito il lamento del prigioniero o del malato, ci sentiamo tutti infermi, tutti reclusi. Nel 1925 Gadda deplorava: «L’impeto “poetico”. veramente “poetico”. della mia adolescenza, che, se fosse stata sana avrebbe prodotto “ogni virtù”. si è attenuato». (27) Non saprei dire che cosa avrebbe prodotto l’adolescenza, la vita tutta di Gadda, «se fosse stata sana». Forse non molto, sarei indotto a credere dall’idea un po’ romantica e ingenua che talvolta mi faccio della letteratura. Ma chi sa se il luogo comune è così romantico e così ingenuo come si pensa: lo scrittore – qualcuno aveva detto molti secoli prima dell’età romantica – «è come l’ostrica, che solo se malata genera la perla». (28)
Note
1. Lettera di Clara Ambrosi Gadda del 27 giugno 1972 a me diretta.
2. Lettera di Clara Ambrosi Gadda del 5 agosto 1971 a me diretta.
3. Il tema è «Il mio divertimento preferito».
4. Appunti autobiografici manoscritti, 5 gennaio 1925, f. 4r. Questi Appunti figurano ai ff. 2r-7v del quaderno senza intestazione che in Gadda 1974: 421, ho classificato come il III Cahier d’études; ma cfr. in proposito la convincente obiezione di Isella in Gadda 1983a:vi, n. 3. Qui chiamerò convenzionalmente questo quaderno ‘Appunti autobiografici’ anche quando farò riferimento a altri scritti in esso contenuti. A proposito di questo passo, cfr. Gadda Conti 1974: 22.
5. V. Farina, Ricordo di Longone al Segrino (Milano: Tipografia Editoriale Colombo, s.d. [1956?]), p. 9.
6. Le parole si leggono in un quaderno di Thèmes del 1880, la cui intestazione va interpretata nel senso dell’italiano «temi» (composizioni scolastiche) più che in quello francese «thèmes» (esercizi di traduzione in lingua straniera). Il quaderno contiene, di fatto, minute di «dissertations» redatte da Adele al collegio Uccellis. Cfr. pp. 40-41.
7. Cfr. Gadda 1987a: 134-35: vedi in particolare la redazione citata nella nota di p. 134.
8. Villa in Brianza,Quaderno Almirante Botafogos, f. 16r.
9. Devo l’informazione alla cortesia di Emanuele Ronchetti, nipote di Enrico.
10. La formula nel necrologio del Corriere della sera del 21 agosto 1909.
11.Le parole si leggono nella modificazione, del gennaio 1901, del testamento del 3 giugno 1894 (Archivio Notarile di Milano, Notaio Giuseppe Casati, n. 9025).
12. L’episodio è riferito da G. Podestà, La sorella Clara e la cugina Luisa, in Lo scrittore Carlo Emilio Gadda moralista lombardo, Atti del Convegno 9-11 ottobre 1993 (Oggiono: Edizioni del CE.I.S.L.O., 1993), pp. 32-33 e, in una versione un po’ diversa, in Cattaneo 1991: 130.
13. S. Guarnieri, L’ultimo testimone (Milano: Mondadori, 1989), p. 92.
14. Cito da un progetto di Lavoro dialogato avente per tema il malumore di un feroce misogino, Fondo Garzanti, Quaderno TDL, p.9.
15. Ricordo di mia madre [1963?], dichiarazione manoscritta a Giovanni Di Giovanni, per Oggi, ma apparentemente non pubblicata.
16. Prima redazione manoscritta di Dal Castello di Udine verso i monti.
17. Giovenale, X, 22. Gadda, in una redazione manoscritta di Tendo al mio fine, attribuisce erroneamente il verso a Orazio.
18. Appunti autobiografici, f. 3v.
19. Lettera a Emilio Fornasini del 15 settembre 1959, Como, Fondo Roncoroni.
20. Th. Ribot, Les maladies de la volonté, Paris 1883, p. 78; e cfr. Proust, Pastiches et mélanges (Paris: Gallimard, 1971), p. 179; per Gadda cfr. RR II 1304.
21. Cfr. A. Perugini, L’influenza dei libri nella formazione del carattere, Milano 1903, p. 32.
22. S. Smiles, Il Carattere, Napoli s. d., p. 40.
23. Prima redazione manoscritta de I metalli leggeri nel futuro prossimo.
24. Ricordo di mia madre; vedi sopra, nota a p. 15.
25. Appunti autobiografici, ff. 2v-3r.
26. Vedi Cui non risere parentes in Gadda 1987a: 525 sgg. (con la nota introduttiva di E. Manzotti).
27. Appunti autobiografici, ff. 3v-4r.
28. è del VI secolo d.C. il Wen Xin Diao Long di Liu Xie, il maggior trattato cinese di poetica, ora leggibile anche in italiano nella traduzione di A. Lavagnino, Il Tesoro delle lettere (Milano:Luni, 1995), p. 306.
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