Pontormo painting detail

Pontormo e il suono del pensiero

Salvatore S. Nigro

«Quoy des mains

Sì, Courbet con i suoi boccali di birra alsaziana. E con la poderosa crescenza di una femminona che mostra le schiene: nelle Baigneuses; a Parigi, nel Salon del 1853. Di quel dar di spalle, di quella monumentale insolenza, non fece conto l’imperatrice Eugenia. Che si limitò a constatare che aveva con che seder almeno, la percheronne: fastosa cavalla, e ondulativa, più che prorompente matrona. Non ci si raccapezzò invece Delacroix. E mise nero su bianco, nel proprio Journal, addì 15 d’aprile, che era di venerdì: «…che quadro! che soggetto! La volgarità delle forme non conterebbe; ma la volgarità e l’inutilità dell’idea sono detestabili; e anche, dopo tutto, se almeno quest’idea, così com’è, fosse chiara! Che cosa vogliono dire quelle due figure? Una grossa borghese vista di schiena, e completamente nuda salvo il lembo d’un cencio dipinto alla meglio che copre la parte inferiore delle natiche, esce da un piccolo velo d’acqua che non sembra neppur abbastanza fondo per un pediluvio. Fa un gesto che non vuol dire niente, e un’altra donna. forse la sua serva, è seduta in terra a scalzarsi. Si vedono le calze appena tolte: una di esse, credo, soltanto a mezzo. Fra queste due figure c’è uno scambio di pensieri che non si può capire».

Era soprattutto la cerimoniosità sperticata delle bagnanti che a Delacroix risultava viziosa e in difetto di senso. Al di là delle rotonde opulenze, i contemporanei avvertirono un gioco clandestino tra le due donne: una trattativa di idee, che però riluttava a riverlarsi. Di esplicito c’era solo un moto di stizza. Ed era come se una minima sillaba, un formidabile «no», fosse diventato gesto largo e risoluto: un divieto a toccare e a toccarsi; un Noli me tangere di specie nuova e profana.

Senz’altro ribalde sono le mosse delle due donne di Courbet. E si denunciano blasfeme, per quella traccia e per quel ricalco che le fanno partecipi della sacra scena del Cristo e della Maddalena convocati a ripetere (in pittura) che non si tocca il divino se non con la fede. Le borghesi di Courbet stanno sul «non voglio». Con un predicato gestuale di moralistico manierismo e di critica sociale. Con una sociologia che è mondanizzazione della bestemmia; e sovraformazione, o rimessa in fantasia, di uno scampolo di manierisino fiorentino recuperato (per particolari e dettagli) sulla falsariga del Noli me tangere del Bronzino.

Dentro la macchia vegetale del quadro di Courbet si condensa il bagno di luce verde della tavola del Bronzino, ormai parigina dopo le conquiste artistiche di Napoleone e del direttore generale dei musei francesi Vivant Denon. Mentre nella muta eloquenza delle mani a palmo aperto, nelle contorsioni delle figure e nell’astratta severità della scena si abbrevia tutta una scuola fiorentina: a far capo dal cartone di un Noli me tangere di Michelangelo, tradotto in pittura dal Pontormo; e, attaverso la mediazione del Pontormo, riprodotto da Bronzino; fino alla reinvenzione della tavola francese, fredda e mattinale, e a figure invertite: con il Cristo ortolano che ormai da sinistra apre la scena, così come la femminona di Courbet.

Cosa non si dice con le mani? Se lo chiedeva Montaigne, negli Essais. E spicciolava un alfabeto delle dita e una grammatica dei gesti: una fisiognomica e una sociologica del corporeo. Non ci voleva molto perché si passasse a un galateo per la definizione etica dei silenzio mimico delle mani. E a una sua applicazione più bassamente domestica. È pur sempre un principio stilistico. Come in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Qui Carlo Emilio Gadda ritaglia le mani da un Ritratto del Pontormo e le applica (nobili come sono, e di classe medicea) a una vecchia dogliosa e vizza; a un’anticaglia buona a reggere scaldini: «La vecchia, la Migliorini Veronica, si stava ingobbita sulla sedia, impietrata in una rimemorazione degli evi che s’erano viceversa dissolti nella non-memoria: teneva una mano in una mano, da parer Còsimo pater patriae nel cosiddetto ritratto del Pontormo: pelle secca di lucertola, in viso, e la immobilità rugosa di un fossile. Non c’era, in grembo, ma le ci voleva, lo scaldino di coccio».

Simbolico e dinastico è il ritratto del saggio Cosimo. Che include un broncone: l’alloro con il ramo tagliato, allusivo al rampollo sempre risorgente; e alla continuazione della dinastia, nonostante l’alterna fortuna dei Medici e l’estinzione del loro ramo principale. Nell’impresa dei Medici banchieri, Gadda araldizza la trama romanzesca dei pescecani di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana: con Liliana, predestinata all’infecondità e al taglio dello sgozzamento; e con il cugino Giuliano che porta intera su di sé la responsabilità di una continuità genealogica, seppure per sghembo ramo («Lei non aveva più né padre né madre. Soltanto ’o marite, bah! e Giuliano… un bel pollone dritto dritto, venuto su tutto in un momento dalla medesima ceppaia»).

Ma, nel Ritratto come di pietra del Pontormo, contano soprattutto le vive mani. E le dita: «col difettoso modellato della prima falange dell’indice, caratteristica del maestro», aveva scritto Giovanni Morelli nei saggi di metodologia attributiva raccolti in Die Galerien Borghese und Doria-Panfili in Rom (1890).

Delle dita del grinzoso e secolare Cosimo, alias Migliorini Veronica, non si dà cura palese il Gadda del Pasticciaccio; pur interessato alle «materiali piccolezze» e ai «girigogoli» dell’arte. Eppure di dita finisce per occuparsi, lo scrittore. Di dita di piedi, però. Di alluci: «La storia gloriosa della pittura nostra, di una parte di sua gloria è tributaria agli alluci. La luce, e gli alluci, sono ingredienti primi e ineffabili d’ogni pittura che aspiri a vivere, che voglia dire la sua parola, narrare, suadere, educare: subjugare i nostri sensi, evincere i cuori al Maligno». Il criterio anatomico del «substrato osseo», teorizzato da Morelli come metodo di lettura scientifica dell’opera d’arte, aveva fatto del Manierismo un problema di «attaccatura delle dita al metacarpo».

Ismodando in parodia, Gadda ne fa invece una questione di metatarso e di «pollici pedagni». È, infatti, l’ossificazione dell’«Idea-Pollice» che fa «la maniera» del fantomatico Manieroni, pittore dei santi Pietro e Paolo che a piedi «camminaron l’Appia insino a Babylon»: «No, i santi non possono mancare degli alluci di dotazione: come i fanti delle scatolette di dotazione: e men che meno allora che un pittore italiano del cinque o seicento, o del sette o peggio, si inginocchia davanti a loro e si accinge a ritrarli dal basso, con l’animo di un pedicure». La malizia è nel «peggio». Nell’aggiornamento delle tumidezze dei piedi e delle protuberanze degli alluci, dalla «maniera» storica del pittore dei santissimi pedoni ai novecenteschi Viandanti (forse) di Sironi. Ancora una volta il Manierismo (Pontormo in testa) è adibito e aggiornato a satirica pittura di costume; ora con le trame gialle di un pasticciaccio ambientato a Roma, nei primi mesi del 1927. «Il “creatore” non ce la faceva proprio più… ad astenersi dalla creazione. “Fiat lux!” E gli alluci furono. Plàf, plàf»: con tonfo sordo, nella storia.

Un dito si alza, in diversa trama e in altra storia. Dentro un’eco gaddiana, tuttavia: se, attorno, un «bivacco equatoriale» si raccoglie; mentre Cipolla e il Capogna, di mal ceffo e di peggior garbo, ballano il twist «coi sederi in fuori, sporgenti come quelli dei negri». Simili in questo agli «africani dal didietro a terrazzino» che, in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, fanno subtropicale colore.

Dunque un dito si alza, da dentro la sceneggiatura letteraria del film breve La ricotta (1962) di Pier Paolo Pasolini. Appartiene al giornalista che così si propone alla cortesia del regista Orson Welles perché gli conceda un’intervista sul film che sta girando nella periferia di Roma.

Il regista è fiancuto e carnacciuto. E, gonfio di alterezza, fa sentire la sua voce di comando da una seggiola da spiaggia che lo contiene. Dirige un film sulla passione di Cristo. Da raffinato falsario, che la storia identifica con la sfarzosa ripetizione formale delle storie vere di due pale d’altare: della Deposizione dalla croce del Rosso Fiorentino e del Trasporto di Cristo del Pontormo; non senza filologica accortezza nell’accoppiamento dei capolavori dei Dioscuri fiorentini che costituivano la fronda manieristica uscita fuori dalla bottega di Andrea del Sarto.

Il regista causticamente motteggia e cinicamente matteggia, a petto di un giornalista che istupidisce in angustie sempre più scimunite. A concludere con un irriguardoso girar di spalle da parte dei massiccio regista; e con un disarmato aprir di braccia da parte dello sconfortato giornalista.

Al film di Orson Welles, alla sua estetizzante falsità, si contrappone la Passione autentica di Stracci: del generico chiamato al ruolo di ladrone buono. Matrignato dalla sorte e dall’intollerabile risentirsi alla fame, Stracci è l’«eroe simbolico del terzo mondo». E muore davvero sulla croce, tradendo la finzione scenica del film di Orson Welles. La Passione di Stracci è la verificazione dell’arte di Pontormo; della sua qualità tragica. Adesso è il regista Pasolini ad agire direttamente come «il Pontormo con un operatore/meticoloso…»: a raccogliere la «… malinconia dell’Italia dei Manieristi»; a reinventare del maestro dei Cinquecento gli affreschi della Certosa del Galluzzo; e persino ad adattare al personaggio della Diva quel ritratto con volto in maestà di una dama con cagnolo, che Bronzino contende al Pontormo.

Pasolini nella pala dei Trasporto vedeva un «Cristo profanamente raffigurato». E pensava al «liquido splendore dei colori», che nella descrizione letteraria trascorrono in tonalità vegetali declinate da una definizione di Giuliano Briganti: «colori chiarissimi e acerbi, colori d’erba spremuta e di succhi di fiori primaverili, pervinche, rose, violette, giallo di polline, verde di chiari steli». I colori sono (con lessico di Longhi) un’esplosione di «disperata vitalità». Nel tempo stesso che profanamente e vitalisticamente gli apostoli si infrattano tra fresche frasche, seguiti da «due dei soldati giovanetti del Pontormo»; e non certo per officiare un qualche scorbutico Noli me tangere, stavolta: i mattacchioni.

[…]

Scuola Normale Superiore, Pisa

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859

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