L’Ingegnere in blu di Alberto Arbasino

Giuseppe Papponetti

Alberto Arbasino, L’Ingegnere in blu, Milano, Adelphi, 2008, 186pp., ISBN 978-88-459-2240-4

è apparso da poco in libreria un rimarchevole Arbasino d’antan, quello cioè dei mai troppo auspicati viaggi a Chiasso, di un acume e godibilità saggistica di cui da tempo si lamentava il bisogno nella profluvie dell’attuale pubblicistica d’accatto.

Si tratta questa volta di un aureo libretto che Adelphi propone in veste cilestrina, per dirla con il protagonista dei diversi e diversificati saggi dedicati all’Ingegnere in blu, a quel Carlo Emilio Gadda refrattario alla professione impostagli dalla famiglia madreterna, e che più volte ci è stato dato di veder fotografato appunto con il solito frescolana blu e l’immancabile cravatta gialla a pallettoni su camicia rigorosamente candida.

Ed Arbasino sottolinea, del suo proprio momento romano, le consuete e a volte solo annuali frequentazioni di un Gadda prelevato in Via Blumenstihl, che viaggiava intimorito e teso sul sedile laterale ancora di una spider, con occhi e mani vigili al freno meccanico così come gli era del pari accaduto in precedenza con Goffredo Parise ai tempi della residenza a Monteverde Nuovo, casigliano di quel Pier Paolo Pasolini che, pure lui, s’era da poco «fatta la machina» con i proventi dei primi romanzi con cui, a detta sempre di Gadda, tentava di «mettersi sotto il suo ombrellone» – con chiaro riferimento al Pasticciaccio che aveva aperto la strada all’ingresso in letteratura del dialetto romanesco.

Le diverse partiture del libro, apparse già quasi tutte in sedi disparate che vanno dal fortunato Sessanta posizioni del 1971 fino al recentissimo saggio-documento apparso nei Quaderni dell’ingegnere del 2007 (fatta però eccezione di un ultimo tratto, I nipotini dell’Ingegnere, e il gatto di casa De Feo che risale addirittura alla fine degli anni Cinquanta), e modestamente ritoccate per la nuova occasione editoriale, si aprono a ventaglio in un’architettura solo all’apparenza casuale, e invece ben costruita.

Giustamente, la quarta di copertina parla di ritratto ma pure di autoritratto d’autore, giacché Arbasino trova subito modo, pause ed invitanti interstizi per dare la stura alla sua speciale scrittura di cose ed eventi del momento, di modi di dire iperricorrenti, nonché alla sua particolarissima ed inesauribile logorrea creativa, in fantasmagorica quanto pirotecnica formulazione di cose, nomi, detti, movenze di linguaggio pour cause.

Genius loci, in conclusione di seminari tenuti nell’81 alla Columbia University, parte dalla considerazione dei critici avanti la pubblicazione in volume del Pasticciaccio quale scrittore addirittura umoristico, con giudizi fortemente limitativi di Gargiulo (di cui Gadda fu poi pensionante per interposta signora) e di Jahier, fino all’inizio del riscatto: Citati, Gramigna, Guglielmi, finalmente indirizzati alla ricerca linguistica, a quella delle fonti letterarie e filosofiche, all’ampio raggio degli interessi intellettuali, dando inizio ad una scoperta letteraria che risaliva gradatamente ai grandi scrittori lombardi ben noti e studiati nell’ambito tradizionale delle patrie lettere.

Di seguito il definitivo soggiorno romano, la Rai, la presenza in qualche modo ancora operativa quando cominciavano ad aggiungersi gli epiteti sterili di espressionista, barocco e addirittura macaronico; poi la pubblicazione del romanzo giallo e di quanto, è ben noto, ne conseguì fino alle pressanti e spesso ineluse urgenze dei molteplici e richiestissimi impegni editoriali. Infine l’uscita della Cognizione e la santificazione nella prefazione del vecchio amico e mentore Gianfranco Contini.

La formazione dell’Ingegnere, che si regge in gran parte su dirette e registrate dichiarazioni gaddiane, particolarmente preziose per l’intelligenza del personaggio, ne indaga la nevrosi anche alla luce della psicanalisi, ma ne mette anche in primo piano gli studi storici: Cesare, Tacito e Svetonio, gli storici-letterati come Guicciardini e l’amato Machiavelli, gli storiografi classici di Francia ed Inghilterra. A non dire della fondamentale ed esplicita ammissione dell’importanza della potenza espressiva, dal latino al dialetto.

L’Ingegnere e i poeti chiama in causa soprattutto Manzoni e Carducci, non trascurando l’altrettanto importantissimo Gabriele d’Annunzio. Del primo si apprezza il romanzo, rifiutandone la facile etichetta di moralista cattolico e richiamandosi alla difesa pubblica sostenuta da Gadda con un argomentare di straordinaria efficacia e godibilità contro la lettura fuorviante e marxpopulista di un Moravia ancorpiù bacchettone di sinistra, e dichiarando apertamente il non apprezzamento per il poeta sacro. Ma, divagando fra Manzoni e Parini, non si poteva non arrivare alle esplicite motivazioni di un rifiuto totale del Foscolo istrionico e basettone, quale era stato messo sarcasticamente alla berlina nel Guerriero, l’amazzone. Quanto al pur amato Carducci, si rimanda a come Gadda non trascurò di fare le pulci a tutta una serie di luoghi alla pratica poco credibili di alcuni suoi celebri componimenti, anche se qui non si fa cenno al consueto leit motiv che l’aveva portato a definirlo «Il Copernico di Pian Castagnaio» per un errore di astronomia non troppo evidente ai più in chiusura della Canzone di Legnano, e su cui avrebbe a lungo insistito fino al Primo libro delle Favole. Per altri versi, il giudizio su Pascoli si sottrae quasi pudicamente a definite prese di posizione, mentre per d’Annunzio, pur riconoscendone i limiti finali, si cerca in qualche modo di riscattare un’adesione convinta per molti anni alla qualità della sua scrittura, ridimensionando l’eroe e il combattente che comunque l’aveva fortemente entusiasmato negli anni esuberanti della gioventù.

Una Lombardia fantasma, già uscito nell’ultimo dei Quaderni diretti dal compianto Dante Isella col titolo assunto poi per il presente volume, di cui rappresenta difatti il pezzo forte in ampia e orchestrata sinfonia impossibile da ripercorrere in ogni sua partitura, tanto esse sono dettagliate per gli anni romani sino a risalire infine a quelli milanesi, e ancor più infittite dagli inserimenti espressivo-elencatori dello stesso Arbasino. E qui in effetti il libro si chiude, restandone però non sterili appendici il capitolo delle Cartelle memoriali, che prende in esame alcuni interessanti e illuminanti carteggi quali quelli con Ugo Betti e Bonaventura Tecchi lontani compagni di prigionia, e con l’Ammonia Casale; mentre l’epilogo segnato da I nipotini dell’Ingegnere vale oggi, come già si disse in apertura, per una definizione epigonale ormai consegnata a tutte le storie letterarie.

Va da sé che nella Roma della dolce vita e dei paparazzi, dei salotti snob e fatui così cari alle frequentazioni dell’allor giovane e pimpante Arbasino, il Gaddus sarebbe apparso niente più di un ingombrante pachiderma in una cristalleria, trascinante con la grazia stenta di un sopravvissuto il suo «zampone di Modena». Di qui il ritiro astioso dell’ex «convoluto Eraclito di via S. Simpliciano» presto calatosi nei panni più adatti alla sua perenne nevrosi in solitario di Monte Mario, cui un altro protagonista assoluto di quella Roma decadente e frivola quale Ennio Flaiano o, se si preferisce, Ennius Flaianus guardava con grande rispetto rifiutandosi di volerlo conoscere per non offenderlo: ma con lui condivideva almeno l’amore inattaccabile per i manzoniani Promessi sposi e, da satiro a satiro, gli riconosceva il supremo primato: «Carlo Emilio Gadda, il maggiore di tutti: un uomo che è arrivato a una tale potenza di stile attraverso la filologia, il dolore, l’umanità, la sofferenza».

E va da sé che non poteva in nessun modo appartenergli quel mondo in cui Arbasino sfarfallava perfettamente a suo agio, e che sempre Flaiano, prima ancora delle celebri sceneggiature per i films di Fellini, aveva saputo mirabilmente rappresentare nella concisione elencatoria del suo Scandalo al party:

C’erimo io, Jacovacci e Liliana,
Manuccia, Brigitte e Flora,
la Pittata, la Siciliana,
Fellini, la Ficona e la Mora.
C’era Fischio, la Fata, Candelora,
Romolo, lo Sfrattato, il Rimbambito,
Boccadoro, la Misse, la Mezzora,
la Storta, lo Stagnaro e Succhiadito.
C’era Sorcio, la Vecchia e Pianto-
greco, la Zozza e la Biondona.
La Baronessa, l’Ingegnere, er Santo,
er Verme, er Tacco, er Più, la Capellona.
C’era Patacca, Nino, la Tardona,
Spogliarello, Cacone, il Ripulito.
Chi altro c’era? Maria la Soffiona,
la Smandrappata e Giglio Appassito.
Dottore, c’era pure la Scippona,
Fusto, la Berti e Anito,
Zio Cinquesacchi, la Strabidona,
Toto Galera, Giggi l’Impunito.
C’era Arbasino, Cagnara, il Bandito,
Moravia, Pasolini e Culosfranto.
Verso la fine entrorno senza invito
Er Magnaccia co’ ‘n frocio, e fu lo schianto.

Centro Ovidiano di Studi e Ricerche
Istituto Nazionale di Studi Dannunziani

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859

© 2008-2025 by Giuseppe Papponetti & EJGS Reviews. First published in Oggi e domani 36, nos. 3-4 (March-April 2008): 11-12.
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