Quer pasticciaccio brutto de via Merulana
from chapter I
[…]
Quando i due agenti gli dissero: «Se so’ sparati a via Merulana: ar ducentodicinnove: su le scale: ner palazzo de li pescicani…», un fiotto di sangue incuriosito, forse angosciato, gli inondò il ventricolo di destra. «Ducentodiciannove?» non poté a meno di chiedere: pure, in tono distratto. E ricadde subito in quella tale specie di sonnolenza lontana, ch’era, in lui, la maschera del senso d’ufficio. Intanto gli entrò nella stanza il capo della investigativa. Aveva il Messaggero ancora indelibato e un petalo, un solo petalo bianco all’occhiello. «Sciure ’e màndurlo,» pensò Ingravallo interrogando il superiore con gli occhi. «Il primo della stagione. Mo ce pàveno pure ll’ammennole.» «Ci andate voi, Ingravallo, a via Merulana? Vedete nu poco. Na fesseria, m’hanno detto. E stamattina, con chell’ata storia della marchesa di viale Liegi… e poi ’o pasticcio ccà vicino, alle Botteghe Oscure: e poi chillo buchè ’e violette: ’e ddoje cugnate e ttre nepote: e poi avimmo de pelà la coda dell’affare nuosto: e poi, e poi,» si portò una mano alla fronte, «mo ce vo, chella scocciatura d’ ’o sottosegretario. Fin a ’ncoppa a ’a capa, ve dico. Sicché faciteme ’o favore, jàtece vuje.»
«Jàmmoce,» disse Ingravallo, e poi borbottò: «Jamecenne», e prese giù, dal piolo, il cappello. Il male infitto cavicchio si disincastrò e cadde al suolo, come ogni volta, indi rotolò per un pezzetto; lui lo raccolse, rificcò la radichetta mencia dentro al buco: e con la manica dell’avambraccio, quasi fosse una spazzola, diede una lisciatina al cappello nero, così, lungo il nastro. I due agenti gli andaron dietro, quasi per un tacito ordine del commissario-capo: erano Gaudenzio, noto alla malavita come er Biondone, e Pompeo, detto invece lo Sgranfia.
Saliti sul PV e discesi appunto al Viminale, presero il tram di San Giovanni. Sicché in una ventina di minuti raggiunsero il civico ducentodicinnove.
Il palazzo dell’Oro, o dei pescicani che fusse, era là: cinque piani, più il mezzanino. Intignazzato e grigio. A giudicare da quel tetro alloggio, e dalla coorte delle finestre, gli squali dovevano essere una miriade: pescacanucoli di stomaco ardente, quest’è certo, ma di facile contentatura estetica. Vivendo sott’acqua d’appetito e di sensazioni fagiche in genere, il grigiore o certa opalescenza superna del giorno era luce, per loro: quel po’ di luce di cui avevano necessità. Quanto all’oro, be’, sì, poteva darsi benissimo ciavesse l’oro e l’argento. Una di quelle grandi case dei primi del secolo che t’infondono, solo a vederle, un senso d’uggia e di canarizzata contrizione: be’, il contrapposto netto del color di Roma, del cielo e del fulgido sole di Roma. Ingravallo, si può dire, la conosceva col cuore: e difatti un lieve batticuore lo prese, ad avvicinare coi due agenti la ben nota architettura, investito di tanta e tanto risolutiva autorità.
Davanti al casermone color pidocchio, una folla: circonfusa d’una rete protettiva di biciclette. Donne, sporte, e sedani: qualche esercente d’un negozio di là, col grembiule bianco: un «uomo di fatica» e questo col grembiule rigato, e col naso in veste e in colore d’un meraviglioso peperone: portinaie, domestiche, ragazzine delle portinaie che strillavano «a Peppì!», maschietti col cerchio, un attendente saturo d’arance, prese in una sua gran rete, con in cima i ciuffetti di due finocchi, e di pacchi: due o tre funzionari grossi, che in quell’ora matura agli alti gradi avevano appena disciolto le vele: diretti, ciascuno, al suo ministero: e un dodici o quindici tra perdigiorno e vagabondi vari, diretti in nessun luogo. Un portalettere in istato di estrema gravidanza, più curioso di tutti, dava, della sua borsa colma, in culo a tutti: che borbottavano mannaggia, e poi ancora mannaggia, mannaggia, uno dopo l’altro, man mano che la borsa perveniva ad urtarli nel didietro. Un monello, con serietà tiberina, disse: «Sto palazzo, drento c’è più oro che monnezza.» Tutt’attorno, la fascia delle ruote delle biciclette, come un derma sui generis, pareva rendere impenetrabile quella polpa collettiva.
Aiutato e quasi preceduto dai due agenti, Ingravallo si fece largo. «’A polizzia,» disse qualcuno. «Fa’ passà lo Sgranfia, a maschié... Addio, Pompè! Che, l’hai agguantato, er ladro?… Mo c’è er bionno…» Il portone socchiuso era guardato da un brigadiere di pubblica sicurezza del commissariato di San Giovanni. La portinaia, vistolo «transitare», lo aveva chiamato al soccorso: poco dopo il fatto, e poco avanti il sopravvenire dei due della mobile, cioè Gaudenzio e Pompeo: lo conosceva da un pezzetto, per via delle denunce di locazione e del registro degli inquilini. Il fattaccio era occorso un’ora prima, ch’era poco dopo le dieci: a un’ora incredibbile! Nell’andito e in portineria un’altra piccola folla, inquilini dello stabile: il cicaleccio delle donne. Ingravallo, seguito dalla portinaia e dai due, e dai commenti di tutti, «’a polizzia, ’a polizzia», salì al terzo piano, scala A, dove abitava la derubata. Giù seguitò la gran ciarla: le voci spiegate o addirittura canore delle femmine, emulate da qualche trombone maschio, a quando a quando ne venivano addirittura sopraffatte: come le cervici chine delle vacche dalle gran corna del toro: la ragione della folla raccoglieva i trefoli delle testimonianze iniziali, dei «giuro che l’ho visto»: principiava a intortigliarli in un epos. Si trattava di un furto, più precisamente di una rapina a domicilio, manu armata.
Una cosa piuttosto grave, per vero. La signora Menegazzi, poco dopo lo spavento, era anche svenuta. La signora Liliana si era «sentita male» a sua volta, appena uscita dal bagno. Don Ciccio raccolse e verbalizzò sui due piedi quanto poté raccogliere, del fiotto irrompente, da quel primo testimoniale: principiò dalla portinaia, concedendo alla Menegazzi il tempo di pettinarsi e agghindarsi un poco: in suo onore, si sarebbe detto. Aveva carta e stilografica, omise i: «Gesù, Gesù mio bello! Sor commissario mio!» e altre interiezioni-invocazioni di cui la «signora» Manuela Pettacchioni non tralasciava d’inzeppare il suo referto: un drammatico racconto. Il portiere coniuge, fattorino alla «Centrolatte Fontanelli», sarebbe rincasato alle sedici.
«Gesummaria! Prima aveva sonato alla sora Liliana…» «Chi?» «Ma l’assassino…» «Ma qua’ assassine si nun ce sta ’o muorto?» La sora Liliana (Ingravallo trepidò), sola in casa, non aveva aperto. «Era nel bagno… sì… stava facendo il bagno.» Don Ciccio, senza volerlo, si passò una mano sugli occhi, quasi a schermirsi d’un fulgore troppo vivo. La donna di servizio, l’Assunta, era partita due giorni prima per casa sua: aveva il padre malato come hanno spesso le donne di servizio, «tanto più a questi lumi di luna». La Gina era a scuola tutto il giorno: ar Sacro Core, da le moniche: dove ci faceva colazione e anche merenda, alle volte. Allora, «si vede», come nessuno rispondeva, «è chiaro… certo», il malvivente aveva sonato alla Menegazzi: sì, lì, proprio lì, sulle stesso piano, dirimpetto a quello dei Balducci: l’uscio di faccia. Oh! don Ciccio conosceva bene quel piano, e quell’altro uscio!
La Menegazzi, ravviati i capelli, entrò di nuovo in scena, tossendo leggermente. Un gran foulard lilla attorno al collo, che sul davanti appariva scarno e appassito: un tono languido di tutta la traumatizzata persona. Un négligé un po’ imprevisto, tra giapponese e madrileno, tra la mantiglia e il chimono. Un baffo bleu sul volto piuttosto vizzo, la pelle pallida, come d’un geco infarinato, le labbra fatte di due cuori congiunti smaltate in un rosso fragola dei più procaci, le conferivano l’aspetto e il prestigio formale momentaneo d’una tenutaria od ex-frequentatrice d’una qualche casa d’appuntamenti un po’ scaduta di rango: non fosse stato invece quel tanto di neovirginale e di rasciutto, e la tipica sollecitudine-devozione delle indelibate, a collocarla senza preventivo sospetto nel romantico elenco delle disponibili, oltreché donne per bene. Era vedova. La mantiglia-vestaglia si sovrapponeva al foulard, ai foulards anzi, non uno ma due, incipriati loro pure e vagamente modulati nei toni, che sfumavano il primo nel secondo e il secondo nei tenui pètali, o forse farfalle, di quel chimono un tantino castigliano. Accavallò il suo referto a quello della portinaia, dirizzando, precisando. Interloquiva con un tremito nella voce, nella povera voce, con una speranza negli occhi. Non forse la speranza di riavere i suoi ori, ma la certezza… di usufruire della protezione della legge, così validamente impersonata da Ingravallo. Al sentir sonare, la Menegazzi aveva emesso il solito «chi è?»: rifece il verso, tra preoccupato e lamentoso, che faceva ogni volta al primo trillare del campanello. Poi aveva aperto. L’assassino era un giovane alto col berretto, in tuta grigia da meccanico, almeno le parve, scuro in viso, con una sciarpa di lana verde-bruno. Un bel giovane, sì, un toso franco. Ma un tipo che incuteva subito una impressione di paura. «Com’era il berretto?» chiese don Ciccio seguitando a scrivere. «Gera… Veramente, gnornò, gnornò, no me ricordo ben come gera, no savaria dirghe» «E voi?» fece alla portinaia: «Quando è scappato, che v’è corso via sotto agli occhi? non l’avete visto, voi? non mi potete dire com’era, sto berretto?…»
«Ma, sor commissario mio… un’emozzione così! Chi ce pensa, ar berretto, in queli momenti? Che ve pare? Diteme voi, quando che spareno tutti sti córpi, si ve pare che una signora po pensà ar berretto…»
«Era solo?» «Solo, solo,» fecero le due donne all’unisono. «Ah! signor commissario,» implorò la Menegazzi, «ci aiuti lei: lu ch’el pol giutarne. Ci aiuti lei, per carità. Mària Vergine. Una vedova! Sola in casa, Mària Vergine! Che brutto mondo ch’el xe questo! Questi no i xe manco òmini, questi i xe diavoli! anime de bruti diavoli che i ne torna indrìo da l’inferno…»
La Menegazzi, come tutte le donne sole in casa, trascorreva le ore in uno stato di angustia o per lo meno di dubitosa e tormentata aspettativa. Da un po’ di tempo quel suo perenne pavore nei confronti del trillo del campanello s’era intellettualizzato in un complesso di immagini e di figurazioni ossedenti: uomini mascherati, in primo piano, e con le suole di feltro ai piedi; repentine per quanto tacite irruzioni in anticamera; martellate in capo o strangolamento a mano, o mediante appropriata cordicella, eventualmente preceduto da «servizzie»: idea o parola, questa, che la riempiva di un orgasmo indicibile. Angosce e fantasie miste: con il commento, magari, d’un batticuore improvviso, per un improvviso crac, nel buio, di un qualche armadio più stagionato degli altri: comunque, anticipate cupidamente all’evento. Il quale, dài e dài, non poté a meno, alfine, di arrivare davvero anche lui. La lunga attesa dell’aggressione a domicilio, pensò Ingravallo, era divenuta coazione: non tanto a lei e a’ suoi atti e pensieri, di vittima già ipotecata, quanto coazione al destino, al «campo di forze» del destino. La prefigurazione d’ ’o fattacce s’era dovuta evolvere a predisposizione storica: aveva agito: non pure sulla psiche della derubanda-iugulanda-sevizianda, quando anche sul «campo» ambiente, sul campo delle tensioni psichiche esterne. Perché Ingravallo, similmente a certi nostri filosofi, attribuiva un’anima, anzi un’animaccia porca, a quel sistema di forze e di probabilità che circonda ogni creatura umana, e che si suol chiamare destino. In parole povere, la gran paura le aveva portato scarogna, alla Menegazzi. Il pensiero dominante, a ogni trillo, soleva coagularsi in quel «chi è?», belato o raglio abituale d’ogni reclusa che i mesti lari non arrivino a proteggere. In lei era una gemebonda antifona al trillo, alle più casalinghe istanze del campanello.
Risultò che il giovanotto, appena la signora Teresina si risolvette a sganciare la catenella ed aprì, si disse incaricato, dall’amministrazione dello stabile, di una visita ai termosifoni: che doveva ispezionare a uno a uno. C’era stata difatti, giorni prima, una questione dei termosifoni, che alla fine ufficiale dell’inverno con riscaldamento erano ancora più tiepidi (verso il freddo) della voglia di spendere degli inquilini.
La fiamma d’ogni eventuale impianto termico, a Roma, si estingueva a marzo alle idi, ma talora invece a le none o addirittura alle calende. Negli inverni doppi ad epilogo protratto, come fu quello del ventisette, la si alimentò per tutto il mese e la si lasciò smorire d’un prolungato languore non senza accademia e diatriba fra i casigliani opinanti, roboanti in proporzione dell’evento: fra i volenti e i nolenti, gli squattrinati e i quattrinosi, i migragnosi e i mingenti in gloria e in letizia. Quanto alle camere dei piani alti del ducentodiciannove, esse figuravano senza dubbio tra le più romanamente assolate di Roma: ragion per cui, siccome a quella prima primavera stava nevicando-piovendo, ci si bubbolava dal freddo.
Il meccanico non aveva con sé né borsa né involto: i ferri del caso pel momento non gli occorrevano. Si trattava di una semplice ispezione. Aggiunse la signora Teresina, ma questo don Ciccio non lo verbalizzò, che lei era sicura che quel giovane… sì, insomma, l’assassino, il meccanico… era certa, e avrebbe potuto giurarlo anche in tribunale, era sicura che quel toso l’aveva ipnotizzata (don Ciccio stette a sentire a bocca aperta, con un fare da addormentato) perché a un certo punto, ancora in anticamera, l’aveva guardata fisso. «Fisso!» ripeté quasi declamando, entusiasta della dirittura e della fissità di quello sguardo: «gera uno sguardo implacabile, du oci fermi», di sotto al berretto, «come un serpente». E lei, allora, s’era sentita mancare le forze. Disse anzi che in quel momento, qualunque cosa il giovane le avesse chiesto od imposto, in quel punto lei lo avrebbe fatto, gli avrebbe senz’altro ubbidito: «come un autòma». (Così disse).
«Mària Vergine! El me gaveva ipnotisà…» Don Ciccio, dentro di sé, non poté a meno di verbalizzare: «Chesti femmene!»
Così era avvenuto che quello, ’o meccaneche, potesse fare il giro dell’appartamento. In camera da letto, adocchiati alcuni ori sul cassettone, sul marmo, ne aveva fatto una manata sola, allargandoci sotto con l’altra mano, come una secchia, la gran tasca di cui disponeva sul fianco, del pantalone della tuta.
«Cosa che falo?» gli aveva garrito la Menegazzi, non totalmente impedita dallo stato ipnotico. Lui, rivòltosi, le aveva puntato una pistola sulla faccia: «Azzittete, befana, sinnò te brucio.» Misurato il di lei terrore, aveva aperto il cassetto, quello in alto, dove ce stava la chiave… E aveva indovinato. C’era tutto l’oro, e le gioie: in un cofano di pelle. C’era il denaro. «Quanto?» chiese Ingravallo. «No savaria zusto. Quatromila setesiento, me par.» Il denaro in un vecchio portafoglio secco, da uomo: del suo povero marito. (Gli occhi le si inumidirono.) Quello, neanche un baleno, aveva già involtato il cofano dentro una sorta di suo fazzolettaccio sudicio, o forse un cencio, fu fu fu, con la febbre alle dita: il portafoglio se l’era bell’e mandato a scivolare in tasca, con una lestezza! Mària Vergine. «In tasca qua…»: e la signora si batté la mano sulla coscia.
«I xe diavoli, mi no so come che i fasa, i xe diavoli! Diavoli.»
«Zitta, mo,» le aveva detto il giovane in un tono cupo di minaccia, guatandola ancora, andandole quasi col viso sotto il viso. Parevano d’una tigre, ora, quegli occhi: l’anima deteneva la sua preda: l’avrebbe difesa a qualunque patto. Se l’era svignata senza alcun intoppo, com’ombra. «Zitta!», la terribile intesa. Ma lei, invece, appena lo ebbe visto uscire, s’era buttata subito alla finestra, sì quella lì, proprio, che dava sul cortile, apertala aveva gridato, gridato, i casigliani dicevano anzi strillato disperatamente: «Al ladro! Al ladro! Aiuto! Al ladro!»… Poi avrebbe voluto seguirne subito i passi: ma si era sentita male, più male ancora di prima. Era caduta o si era buttata sul «suo» letto: lì. E lo additò.
Il ducentodiciannove, cinque piani a strada più l’attico e le due scale A e B, con alcuni uffici sulla B, al mezzanino, era un porto di mare. Le scale, agiate tutte e due, l’una più buia dell’altra. La A più tranquilla della consorella: tutti signori autentici da quella parte, du côté de chez madame.
Dai congiunti e accavvallati referti della portinaia e d’altre inquiline delle più precipiti a favola, che Ingravallo interrogò di fuori senza scrivere, indi nell’atrio da basso, dietro al portone e al portello piantonati dal brigadiere, poi da un agente, si poté alfine ricostruire l’accaduto. E appurare un’altra circostanza, e alquanto curiosa, per vero. Il delinquente era stato audacemente rincorso. «Ah!» fece Ingravallo. «Sì»: troppo audacemente, forse. Perché a rincorrerlo, o a fingere di rincorrerlo giù per le scale e nell’andito, prima ancora del Bottafavi der quarto piano che poi l’aveva inseguito anche lui, col revolver, primo di tutti era stato un giovane, «sì, un giovanotto», «no, un giovanotto: un maschietto…», «che maschietto! tanto alto, era» pareva il garzone d’un pizzicarolo, co la parannanza tutta intorcinata intorno a la vita, ciaveva li carzoni sportivi però, coi calzettoni verdi. «Che verdi!» Era saettato fuori attraverso l’androne poco dopo che s’erano sentiti i due colpi, le due revolverate sulla scala. E nessuno l’aveva visto più. «Io sì! sul marciapiede! Venivo da Santa Maria Maggiore! Lui è scappato via…» Il patema testimoniale, appiccato il foco alle anime, deflagrava ad epos. Parlavano tutte in una volta. Era una confusione di voci e di aspetti: serve, padrone, broccoli: enormi foglie di un broccolo uscivano da una sporta rigonfia, tumefatta. Vocine acri o infantili aggiungevano dinieghi o conferme. Torno torno, un barboncino bianco scodinzolava eccitato e de tanto in tanto abbaiava puro lui: il più autorevolmente possibile.
Ingravallo si sentiva soffocare, stritolato dalle relatrici e dalla relazione.
Dopo le grida della signora Menegazzi, i due Bottafavi di sopra, marito e moglie, erano usciti sulle scale in ciabatte gridando pure loro, un bel duetto nuziale baritono-soprano: «Al ladro! Al ladro!» Esigevano ora adeguato riconoscimento del loro coraggio, della loro prontezza di spirito. Il Bottafavi, anzi, con un grosso pistolone a revolver: che volle esibire al commissario, quindi agli astanti: le donne si fecero un po’ indietro: «Mbè, adesso nun ce spari a noi»: i ragazzini allungarono il collo, ammiratissimi. Ne ebbero, da quel momento in poi, una grande opinione, der sor Botta e Fava, come dicevano. Lui seguitò a recitare, col revolver in mano, scarico però: canna in aria. Rievocò i fatti con una grande precisione. Là per là, per quanto avesse tentato, non gli era riuscito di spararlo. Perché c’era il fermo, un’asticciuola nel settimo buco del tamburo. E lui, in tanti anni di assoluta inazione di quella macchina, s’era scordato che i veri revolver, com’era appunto il suo, hanno quel diavolo d’un fermo! che quando c’è giù lui, li impedisce di sparare. Sicché, sul più bello, il ladro se l’era svignata a tutta gamba. «Ma le due revulverate l’avite sparate vuje?» fece Ingravallo. «Che le pare, sor commissario! che so’ un regazzino?… da sparà così a casaccio?» «Ma avevate tentato.» «Tentato: tentato è una parola. Er revòrvere mio nun è come quello de li delinquenti… che spareno sur serio. Questo, sor commissario, è er revòrvere d’un galantuomo. Io… so’ stato guardia giurata, da giovinotto: e me pare che l’arme le so trattà mejo de tanti artri. Io… io so’ padrone de li nervi mia…» Il ladro aveva tagliato la corda. Per un pelo: «Ma un’artra vorta nun ce la fa.»
[…]
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Framed image: after an aerial view of Rome.
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