Fase C – Rielaborazione dell’incendio
La Fase C dell’Incendio di via Keplero si trova in un terzo quaderno di grande formato (1) che ospita pure, dopo 17 pagine strappate, «materiali riferibili alla sezione Polemiche e pace nel direttissimo del Castello di Udine». (2) Ancipite la datazione che il quaderno reca in copertina: 1931 e 1933. Ancora una volta è difficile stabilire con precisione il momento della stesura. C’è da credere, comunque, che la prima data si riferisca proprio alle pagine dell’Incendio che aprono il quaderno, mentre la seconda sia da attribuire alla presenza di pagine che confluiranno poi, l’anno dopo, nella sezione conclusiva del Castello di Udine. (3)
Di fatto, in questa terza fase, Gadda riprende solamente la descrizione dell’incendio (B1) e la sottopone ad una rielaborazione, dilatando gli episodi già esistenti ed aggiungendo nuovi paragrafi. Se si esclude l’episodio del proustiano Anacleto Baistrocchi, B1 era costituita da cinque paragrafi che non coincidevano con altrettante unità narrative. In questa seconda riscrittura, invece, comincia a delinearsi una struttura in cui partitura logica e partitura narrativa coincidono. I paragrafi, sempre escludendo l’episodio poi espunto, sono ora dieci. (4)
Il primo paragrafo, che in B1 comprendeva sia l’introduzione sia l’episodio della bambina e del pappagallo salvati dal Besozzi, è deputato in Fase C ad accogliere la sola introduzione, che comincia ad assumere la costruzione a catalogo dell’edizione definitiva. (5) Sul finire del paragrafo viene ad aggiungersi la notazione drammatica sul «nuovo terrore delle scarmigliate», dove si può notare la ricerca dell’espressione di conio letterario più adatta a far da contrappunto ironico alla ben poco letteraria paura di vedersi andare a fuoco persino i propri capelli: da un originario «diventar una fiaccola», Gadda prova successivamente «teda», «torcia», poi ancora «teda», fino a giungere a quella che sarà la iperletteraria lezione definitiva «avvampare in un’orrida, vivente face», (6) che in C è compresa in una chiusa di paragrafo dalla cadenza quasi metrica.
Gli interventi, in questo primo paragrafo, si muovono pressoché unitariamente verso la coloritura drammatica della rappresentazione: ai «diversi maschî» di B1 si aggiungono «alcune signore povere e malandati signori»; le «grida e [i] richiami d’ogni genere» diventano «persistenti angosce e simultanate lacrime, di grida, e di strazianti richiami, come un interno e pauroso pensiero»; i «tortiglioni neri» sono preceduti da «sinistri barbagli»; a cui si sommerà, quale aggiunta in senso drammatico, la nuova fine di paragrafo di cui si è appena detto.
Del tutto nuovo il secondo paragrafo, che si suddividerà ulteriormente nell’Incendio in due paragrafi distinti (§§ 2-3). Vi si trovano le due notazioni esterne al casamento: vengono allarmati i pompieri, che si precipitano in via Keplero bloccando nella loro paurosa corsa il consueto traffico cittadino. Da considerare parte integrante dell’introduzione, anche questo secondo paragrafo si muove nella direzione della drammaticità, anche se non mancano tocchi comici, quali l’accenno ai reumatizzati solitamente falcidiati dai guidatori d’automobili e ai cavalli «col carro contro il culo» e «l’occhio imbiancato all’angolo da un ignoto terrore».
Il terzo paragrafo ospita ora l’episodio che in B1 era ancora compreso nel primo paragrafo. L’episodio della bambina e del pappagallo salvati dal Besozzi è forse quello che subisce, nel passaggio da B1 a C (e poi a Incendio), il più spettacolare sviluppo:
[riga 1] Gli effetti, lì per lì, furono terrificanti. Una bimba di tre anni, rimastaa sola in casa con un pappagallo, chiamava [riga 2] disperatamente la mamma e grosse lacrime, come disperate perle, le gocciavano sul bavaglino fradicio e dentro [riga 3] la polta papposa d’un caffelatte: nel mentre il variopinto uccello col suo becco-naso-di-gentildonna, che per vero dire [riga 4] aveva già percepito un certo sentore di bruciaticcio, se pur senza troppo inquietarsene, quando vide però i petali ardenti [riga 5] di quella così brutta magia traversargli la finestra, aperta, prese a svolazzare paurosamente con impeti sùbiti verso la [riga 6] bimba, mozzati dalla perfidia inesorabile della catenina, che lo legava al paletto. Aveva appartenuto in gioventù, [riga 7] una gioventù riposata e serena, dopo un oceano brodosissimo e dopo il guazzabuglio contorto della foresta, dove [riga 8] l’intrico della liana finiva col muoversi ed era il terrore del serpente, al compianto Nob. Emmanuele Greppi, il venerato [riga 9] sindaco della nostra cara Milano, quando però non era più così giovane: campano i pappagalli, si sa, persino [riga 10] dugent’anni, tanto da battere in longevità i patrizî milanesi basta non dargli a mangiar prezzemolo, o edera. E adesso [riga 11] prese paurosamente e <…> <a> egutturare a sua volta, che son bestie che si fanno sentire, con quanto grammofono [riga 12] aveva in gozzo: pareva impazzito. «Viva l’Italia, viva l’Italia» strideva come fuori di sé, sparnazzando l’ali debi<li>tate [riga 13] in una meteora di penne nella speranza di propiziarsi la sorte, mentre la bimba piangeva e gridava mamma mamma ed [riga 14] urlava terrorizzata nel pianto. Finché il pregiudicato Achille Besozzi, vigilato speciale della Regia Questura<,> | per [riga 15] fortuna, e misericordia di Dio! è il caso proprio di dirlo, che dormiva di giorno e lavorava di notte e abitava al piano di [riga 16] sopra, in una «ottomana in famiglia» si fece coraggio, tra il fumo e la paura e le grida, sfondò l’uscio e salvò la creatura [riga 17] e l’uccello: «Daghen on tai de sbragià» gli disse tremendo. Aveva udito le grida e sapeva che la bimba era sola, perché [riga 18] verso le sei pomeridiane soleva sbarcare dall’ottomana sulla banchina della risvegliata coscienza, lavarsi il viso sotto la [riga 19] tromba, pettinarsi con un suo mezzo pettine tascabile e bazzicar su e giù lemme lemme il buio delle scale nella speranza [riga 20] d’un buon incontro: quel giorno aveva incontrato la madreb. E così la salvò. «L’incendio», dissero tutti<,> «è una delle [riga 21] cose più terribili che sia. (7)
Abbiamo riportato tutto l’episodio (e l’apparato critico relativo) per mostrare tanto la straordinaria dilatazione subita dall’episodio quanto la massiccia elaborazione a cui è sottoposta la pagina gaddiana al momento stesso della scrittura (anche se, a dire il vero, il più delle volte è impossibile distinguere gli interventi immediati dagli intervenuti in fase di rilettura). Come abbiamo già notato nel commento all’episodio in B1, i pedali calcati durante la rielaborazione sono sostanzialmente due: da una parte viene intensificato il registro comico, dall’altra quello drammatico (dove comunque la drammaticità si mette al servizio, in ultima istanza, della stessa rappresentazione comica).
In senso comico si muovono, nella rappresentazione della bimba e del pappagallo, l’indugio sull’itinerario delle lacrime della bimba che (da «le cadevano nel caffelatte» di B1) si circostanzia in «le gocciavano sul bavaglino fradicio e dentro la polpa papposa d’un caffelatte» (rr. 2-3), l’aggiunta del particolare del «becco-naso-di-gentildonna» (r. 3) per il pappagallo, la nuova digressione sulla pericolosità della sua vita nella foresta prima di trovarsi in serena cattività dal Greppi (rr. 7-8), la sua maggior longevità rispetto ai pur longevi patrizi lombardi (r. 10), la parentetica nota sulla sue grida – «che son bestie che si fan sentire» (r. 11) – e la nuova metafora del grammofono a designarne le egutturazioni disperate (rr. 11-12); il Besozzi diventa «vigilato speciale della Regia Questura» (r. 14) e veniamo informati del suo singolare orario di lavoro (r. 15) e delle sue abitudini domestiche (rr. 17-19) con una massiccia aggiunta in variante alternativa, poi integrata nel testo in Incendio.
Oltre all’intento comico-realistico, è evidente anche la funzione ritardante di queste nuove inserzioni e digressioni: molto significativo, in questo senso, è il «bazzicar su e giù lemme lemme il buio delle scale» (r. 19), che è lezione derivata da «uscir nelle scale buie»; dove si noterà inoltre che, nella variante alternativa, «delicatamente ad uno ad uno» (r. 4) è lezione derivata da «scendeva e»: il che significa che Gadda posticipa l’uscita sulle scale per poter insistere maggiormente nulla descrizione dei vizi domestici del Besozzi (rr. 4-5). Nelle aggiunte che toccano il Besozzi si noterà pure la prima apparizione nel racconto del dialetto (r. 17), che più sotto (IVK 4), coinvolgerà anche il capomastro nell’episodio della Maldifassi salvata dall’Ermenegildo Balossi («ma si el Gildo, el magütt»).
Calcano invece sul registro drammatico l’inserzione dell’avverbio «paurosamente» (r. 11), le aggiunte che da «la bimba urlava terrorizzata» (B1) portano a «la bimba piangeva e gridava mamma mamma ed urlava terrorizzata nel pianto» (rr. 13-14), e «le grida» che vengono ad unirsi al fumo e alla paura, velocizzando nello stesso tempo il ritmo della lettura (r. 16). Si muovono nel senso del dramma anche i giudizi della comunità fabulante riportati, sia integrati nel discorso del narratore («per fortuna e misericordia di Dio! è il caso proprio di dirlo», rr. 14-15) sia in discorso diretto («“L’incendio”, dissero tutti <,> “è una delle cose più terribili che sia”», rr. 20-21). Come già detto, il pathos drammatico fa comunque da spalla alla comicità, assoluta protagonista nella descrizione dell’incendio, tanto che molte delle notazione che potrebbero essere definite drammatiche – come le due nuove notazioni sul pappagallo, che prima passa dal sentore di bruciaticcio all’inquietante vista dei «petali ardenti» (rr. 3-5: «che per vero dire […] finestra, aperta») e poi sparnazza «l’ali in una meteora di penne» (rr. 12-13) – perdono la loro valenza per il solo fatto che l’attenzione è focalizzata proprio sul pappagallo piuttosto che sulla bambina.
Si noterà infine lo spostamento del blocco tematico che riguarda la longevità del pappagallo, in ironica analogia con la longevità dei patrizi lombardi e in particolare del Greppi. Se in B1 era inserito (in subordinata relativa) tra le lacrime della bimba e gli svolazzamenti paurosi del pappagallo, in C viene posposto e dà luogo ad un periodo a sé stante (rr. 6-10). Interventi di questo tipo sono molto rari nell’iter elaborativo dell’Incendio: di solito sulla pagina vengono ad innestarsi nuove digressioni e nuove notazioni, che creano talora nuovi paragrafi a volte dotati di un’autonomia da sottoepisodi, ma l’orditura rimane però sostanzialmente invariata.
L’episodio della donna incinta salvata dal facchino Zampironi, che in B1 occupava il secondo paragrafo, non gode, nel passaggio a Fase C, di importanti cambiamenti o aggiunte. Se non che viene suddiviso in due brevi paragrafi (corrispondenti al quarto e al quinto di C): nel primo si accenna al soccorso prestato alla donna incinta (che ora, con ironia esplicita, è metaforicamente indicata come «un baule così», ciò che rende comicamente provvidenziale l’intervento di un facchino), nel secondo alla «robusta galanteria» da cui era reduce il facchino e che gli aveva procurato un’ottimale disposizione di spirito nell’imminente ripresa del lavoro alla Stazione Centrale. Comincia ad intravedersi quella che sarà l’iperbolica caricatura drammatica dell’episodio in Incendio, con il salvataggio che per il momento viene però solo definito un «altro caso pietosissimo».
Il sesto paragrafo di C è tutto dedicato all’episodio della signora Arpalice Maldifassi salvata dal garzone muratore (e ora pure avanguardista) Ermenegildo Balossi, che in B1 coabitava all’interno del terzo paragrafo con l’episodio successivo del vecchio Zavattari. Oltre ad aggiunte per lo più ironiche (l’accenno al «famosissimo baritono Maldifassi», cugino della signora ululante, e alla difficile salvazione dei gioielli di quest’ultima, occultati in un cassetto di cui, nella concitazione del momento, non trovava nemmeno più le chiavi), viene aggiunta una più circostanziata descrizione del salvataggio della signora ad opera del Balossi, con i due che appaiono, lui dietro che la sorregge per le ascelle facendogli con la gamba «come un seggiolino sotto il sedere magro», al capomastro preoccupato per il suo «magütt», che lo chiamava dal «fondo pauroso delle scale». L’appartenenza del giovane all’opera nazionale Balilla farà sì che il suo eroismo si materializzerà poi in una «medaglia di bronzo al valore civile» nel giorno dello Statuto.
All’episodio del vecchio Zavattari, che nel passaggio a Incendio si arricchirà notevolmente, viene consacrato il settimo paragrafo. Le aggiunte sono per il momento molto esigue e, di fatto, si limitano alla consociazione dello Zavattari alla «ditta Fratelli Gìboli, […] negozietto di ostriche di Taranto e di frutti di mare», consociazione che innesca il paragone tra la produzione bronchiale del vecchio e quella del Golfo di Taranto (in B1 «pareva la chiara d’ova d’un sabaglione per dodici», in C «tanta di quella buona roba che credo che mai tra tutto il Golfo di Taranto non ne pescheranno fuori di compagne»). Molto frettolosa, come in B1, la conclusione dell’episodio, che non prevede niente di più che il salvataggio dello Zavattari da parte di tre non meglio precisati volonterosi.
Il caso dell’ex-garibaldino Carlo Garbagnati (ora introdotto come «penosissimo […] e, purtroppo, ferale») si dispiega in C su due paragrafi (l’ottavo e il nono), mentre in B1 si concentrava nel solo paragrafo quarto. A parte questo, pochi sono i cambiamenti o le aggiunte che vengono a mutare o ad arricchire la fisionomia dell’episodio, se non l’assunzione al servizio del Garbagnati di una domestica, che retroattivamente si rifrange sul paragrafo iniziale, (8) e l’accenno alla meta obitoriale dell’autolettiga, che in Incendio fornirà lo spunto per la conclusione. Come già in B1, l’episodio si chiude sul destino delle medaglie e delle divise dell’ex-garibaldino, lasciate in eredità ai fratelli ottantenni e da loro portate nelle occasioni di gala (cosicché i «garibaldini, come corpo, non ci perdettero nulla»).
Dopo la narrazione dell’episodio di Anacleto Baistrocchi, che occupa i paragrafi da dieci a tredici, il racconto si conclude, come già era stato in B1, con una sorta di ricapitolazione (§ 14) in cui si tirano le somme del drammatico evento. In questo ultimo paragrafo, che arriva quasi immutato a Fase C, vengono ricordati i due casi più dolorosi, quello dell’ex-garibaldino («uno proprio dei mille di Marsala e dei cinquantamila del cinquantenario di Marsala», come già era ricordato in B1, dove la singolare prolificità dei garibaldini fa il paio con i cimeli lasciati ai fratelli con gran beneficio del corpo) e quello del tormentato scrittore proustiano. La stesura si chiude poi in C sulla nuova e rassicurante notizia: «La donna incinta non abortì».
Occupiamoci ora dello strano caso del proustiano Anacleto Baistrocchi. L’episodio che lo riguarda era già il più esteso in B1: sesto ed ultimo episodio contemplato nella descrizione dell’incendio, si dispiegava su quattro paragrafi (§§ 5-8), occupando altresì gran parte dell’ultimo ricapitolativo paragrafo (§ 9), venendo a rappresentare, quantitativamente, quasi la metà dell’intero abbozzo.
Nel passaggio da B1 a C, l’episodio viene ulteriormente ampliato: immutata la sua posizione, immutata la suddivisione in quattro paragrafi (che ora, in seguito alla dilatazione appena descritta degli altri episodi, sono i §§ 10-13 più quasi tutto il conclusivo § 14), l’episodio, conformemente alla tendenza generale, raddoppia la sua mole, rimanendo così di gran lunga il più esteso di tutti. Ma non è tanto questo che ci interessa; quel che ci preme è piuttosto tentare di capire chi si cela dietro Anacleto Baistrocchi e per quale motivo l’episodio è poi stato espunto dal racconto. Consideriamo prima di tutto la rappresentazione che lo concerne.
Tappatosi in casa per sfuggire alla calura del giorno e ai rumori molesti della città, il Baistrocchi «aveva deciso di perdere il suo tempo, quanto bastasse almeno, per poter andare alla ricerca del tempo perduto. E per perderlo nel modo più sicuro s’era messo <a> scrivere una novella». Sennonché, «sul più bello della sua più bella novella», si era addormentato. L’incendio lo coglie così, sognante «il lauro proustiano nel vecchio prato de’ papaveri italici», e muta improvvisamente corso alla sua novella «che pure aveva preso così felice inizio da ben 79 complicazioni introspettive, motivate la maggior parte dai disegni della tappezzeria alcune poche da uno specchio a gobbe, che gli faceva due occhi di bue morti dentro il muso della giraffa; e l’ottantaquattresima da un paio di pantaloni vecchî con via i bottoni, dimenticati in casa dell’uomo dei parquets». Manco a dirlo il magistero non viene meno e la novella – «quella che i critici, ancor oggi, trovano ch’è la sua cosa migliore. (Sebbene il Baistrocchi sia un maschio ventunenne)» – «disfociò in una cornucopia di psicologia analitica, dove furono bisturizzate le intime perplessità de’ pompieri».
Il tormento del già di per sé tormentato Baistrocchi è poi esacerbato dalla perdita della valigia contenente i suoi più preziosi manoscritti, tanto che diventa «uno dei più tormentati e tormentosi scrittori della penisola». Si innesta qui una breve digressione sul tormento che a sua volta il Baistrocchi («benché proustiano») procura a Chiaretta e ad Alice, due giovani estimatrici che se lo contendono vicendevolmente. Tormento che avrà esito drammatico, poiché una delle due ragazze finirà «per tracannare un litro di sennamanna».
Il paragrafo conclusivo (§ 14) ridimensiona ironicamente la perdita del Baistrocchi, stimando la sua perdita a poco meno di una trentina di lire: dodici per la valigia di pegamoide finta e quindici per il tormento analitico contenutovi (cioè il valore di «dieci chili di roba […] per consegna in cartiera»). Viene poi a rincarare la dose l’accenno, in variante alternativa, della causa intentata al Baistrocchi dalla casa Merk di Darmstadt, produttrice del potentissimo sonnifero «Trimorfal», che lo accusa di concorrenza sleale. (9)
Come spesso accade, nei più disparati personaggi gaddiani possiamo ritrovare aspetti che pertengono alla personalità dell’autore stesso. Così è anche nella rappresentazione del Baistrocchi: l’autobiografismo pervasivo di Gadda non risparmia neppure lui. È il caso del fastidio per i rumori esterni che non lo lasciano lavorare in pace: questo fastidio, che ha radici profonde, (10) troverà sfogo nelle Bizze del capitano in congedo in una ragionata invettiva contro i musicanti di strada, per colpa dei quali «il suo lavoro gli aveva preso il coàgulo» (RR II 971). Nello stesso senso possiamo interpretare la lezione «Sughero» sottoscritta a «Baistrocchi» in B1. (11) Il nome rinvia ad un episodio della vita di Proust che nel 1906, trasferendosi nell’appartamento di boulevard Haussmann, fece applicare alle pareti della stanza un rivestimento di sughero per proteggersi da ogni rumore. (12) Altro elemento ben gaddiano è «il paio di pantaloni vecchî con via i bottoni, dimenticati in casa dall’uomo dei parquets», che non può non far pensare ai lucidatori della Confidenza in Quando il Girolamo ha smesso… (RR I 303).
Una volta rilevati quegli elementi che sono tipicamente gaddiani, e dunque non imputabili al personaggio descritto, possiamo procedere all’identificazione. Non ha nessun dubbio in proposito Italia, che parla di «allusione […] trasparente al fiorentino direttore di Solaria, Alessandro Bonsanti» (Gadda 1995: 237), nonché di «trasparente onomastica… (Anacleto Baistrocchi / Alessandro Bonsanti: un identico settenario con accenti di terza e di sesta)» (Italia 1994: 282), e spiega in questo modo l’espunzione dell’episodio dalla redazione finale: «Anacleto Baistrocchi con il suo lauro proustiano era davvero troppo pericoloso per chi aveva in Solaria il principale referente di una difficile affermazione letteraria, e la penna dell’esordiente lo neutralizza – nella redazione del Tesoretto – nell’innocuo “Anacarsi Rotunno, il poeta italo-americano”».
Se queste sole sono le motivazioni dell’identificazione, non mi sembra che siano soddisfacenti. Altri, oltre a Bonsanti, avevano seguito in quegli anni, nell’orbita di Solaria, la tangente proustiana, e anche in modo più plateale. (13) Non da ultimo Alberto Carocci (il fondatore della rivista). E se proprio si vuole giocare con l’onomastica, si noterà che l’anagramma meno imperfetto che si può derivare da ANACLETO BAISTROCCHI risulta essere proprio ALBERTO CArOCCI (e non ALESsANdRO BonsAnTI), cosicché non se ne caverebbe nulla se la partita dovesse giocarsi esclusivamente sul terreno della metrica o dell’anagramma. Ma così non è, e lo scandaglio dei testi dei due autori, nonché la considerazione dei rapporti tra Gadda e Solaria a cavallo fra il ’20 e il ’30, permettono di risolvere con assoluta certezza la questione.
Se ci rivolgiamo agli scritti di Bonsanti, (14) poco numerosi e poco consistenti sono i punti di contatto che, di fatto, si limitano a due coincidenze fisionomiche con il Baistrocchi, di cui si dice che ha «riccioli d’oro» e «rosse e turgide labbra». Pierino, alter ego dell’autore protagonista di Una partenza contrastata, ha infatti «riccioli biondi» (p. 84) e le rosse e turgide labbra del Baistrocchi sono una caratteristica descrittiva costante dei personaggi di Bonsanti («labbra rosse e polpose come fragole», (p. 17) di Rosa in Briganti in Maremma; «rossore sanguigno delle grosse labbra semiaperte e cascanti» (p. 38) dello Storno in Viaggio; il «roseo tepore della bocca» (p. 74) dell’Adriana nell’omonimo racconto). A voler proprio trovare altri parallelismi, si dirà che l’amore di Chiaretta e di Alice potrebbe parodiare, salvo per l’epilogo drammatico, quello di Ida la popolana e la cugina Anna per Pierino in Un matrimonio combinato, e che, d’altra parte, l’ambiguità di tale situazione viene assunta dal Baistrocchi senza troppi problemi, conformemente all’epifonema su cui si chiude Briganti in Maremma: «una donna vale l’altra». Ma, come si può ben vedere, si tratta di ben poca cosa, e non di certo sufficiente per concluderne alcunché.
Molto più proficua la lettura degli scritti di Carocci. (15) Intanto, è molto più scoperto il magistero proustiano. Tanto scoperto ed esibito da risultare, oserei dire, perfino irritante. Il personaggio delle novelle di Carocci (il più delle volte l’io-narrante) è un personaggio che vive di ricordi e per i ricordi (quei ricordi che sono «la forma del mio vivere più consapevole e più intenso», dirà in Ritorno alla villa di un tempo, p. 57). Sconsolato dalla realtà quotidiana, tenta costantemente di riannodare il filo con quel passato che solo la memoria può restituire. Alla ricerca del paradiso perduto dell’adolescenza, (16) la realtà par quasi che si giustifichi unicamente per la potenza evocatrice che può esercitare sui sensi, disperatamente tesi alla ricerca di un oggetto, un odore, un rumore, un sapore o un’impressione tattile che permetta di accedere e di attingere al «giacimento della memoria»: (17) ogni occasione è buona perché il flusso della memoria riporti più vividi del reale le immagini e i ricordi del passato.
Ma al di là di questa osservazione di fondo, che comunque non può applicarsi a Bonsanti, i punti di contatto con la rappresentazione del Baistrocchi sono ben consistenti. In Un giovane, ad esempio, è dall’immagine verdastra che lo specchio rotto rimanda a Lorenzo che nasce il ricordo di una donna che aveva amato (pp. 31-32). In Ritorno alla villa di un tempo, troviamo una frase che fa il paio con quella che introduce il proposito del Baistrocchi di scrivere una novella: «E qui avrei voluto inginocchiarmi, per ritrovarle meglio le ore del tempo perduto» (p. 46). Se poi ci rivolgiamo a Memorie del tempo perduto (titolo di per sé significativo), abbiamo forse trovato da dove viene la rappresentazione del Baistrocchi.
La novella è incentrata sul ricordo di Gigetta, una ragazza amata morta giovanissima. A lei lo riporta una sensazione tattile: sfregando «polpastrello a polpastrello», una spiacevole sensazione gli fa ricordare della macchia d’umido che aveva toccato sul muro della casa di lei, quella macchia minuziosamente descritta (pp. 19-21) e rievocata per tutto il racconto (pp. 22, 25 e 28), che ora capisce essere presagio di morte. Alle pp. 21-22 troviamo il protagonista (l’io-narrante) che si rivede al tempo in cui viveva nella pensione del padre di Gigetta: nella sua camera è seduto al tavolo e ripensa «a donne lasciate nella consumata giovinezza», i gomiti appoggiati sul tavolo e il viso appoggiato sulle mani; si sorprende così a ripensare alla macchia del muro, ad osservare la stoffa dipinta ai piedi del letto, i fiori dipinti del soffitto, mentre da fuori vengono i fastidiosi rumori della strada.
Per quanto riguarda le due ammiratrici del Baistrocchi, Chiaretta ed Alice, si noterà che in Carocci, «natura sensuale e triste», (18) il ricordo del passato è quasi sempre legato alla figura di una donna. (19) Abbiamo già detto della donna di Lorenzo e di Gigetta; ad esse andranno aggiunte la sconosciuta di Avventura sentimentale con Madame Bovary, Sòlima di Pellegrinaggi, una non meglio precisata zia di Roma ne Il giardino, la calda Giovanna («la prima donna che lo aveva fatto godere […] e soffrire», p. 47) nel Ritorno alla villa di un tempo, e infine la focosa Francesca di Cose. Insomma, il giacimento della memoria di Carocci, benché proustiano, è un inesauribile serbatoio di donne per lo più sensuali e procaci che alla prima occasioni spuntan fuori, rievocazioni di un’adolescenza felice e nello stesso tempo pungolata dai morsi della carne.
Questi sono gli elementi letterari che militano a favore di Carocci. Un’ulteriore conferma viene dai rapporti che Gadda intrattenne con Solaria, la rivista fondata da Carocci nel 1926 e da lui diretta ininterrottamente fino alla chiusura, nel 1936. (20) Ben poco, a dire il vero, ci viene dalla letture delle Lettere a Solaria che ospitano lo scambio epistolare tra Gadda e il giovane direttore della rivista. Queste lettere testimoniano l’evolversi di un rapporto che con il passare del tempo capovolge i ruoli.
In un primo momento abbiamo un Gadda che offre insistentemente la sua collaborazione con scritti sia letterari sia critici, ma i buoni intenti non sembrano essere raccolti da Carocci. Quando finalmente Gadda ha guadagnato la stima di Solaria, che decide, già nel ’29, di stampare in volume i racconti poi raccolti nella Madonna dei Filosofi, sembra di poter intuire la nascita di qualche screzio tra il sollecito e premuroso direttore e l’impenitente ritardatario Gadda, (21) che non cessa di scusarsi per i lunghi silenzi adducendo motivi di lavoro e varie indisposizioni fisiche. Col passare del tempo, soprattutto dopo la pubblicazione del volume, ci troviamo con un Gadda sempre meno disponibile e un Carocci invece che sempre più lo invita a collaborare e lo pungola affinché consegni i pezzi promessi. Carocci, insomma, riveste il ruolo che sarà negli anni successivi di Bonsanti, «tiranno» e «negriero» (Gadda 1983d: 165) a cui si deve la pubblicazione di parecchi scritti gaddiani.
Molto più significativo il ricorso al carteggio con Bonaventura Tecchi, sia perché Gadda si esprime senza troppe reticenze (perlomeno su Solaria), sia perché si inoltra, seppur di poco, più indietro nel tempo. Fu Tecchi a far conoscere a Gadda la rivista di Carocci, e per il tramite dello stesso Tecchi Gadda contava di poter pubblicare su Solaria. Ma il primo tentativo non ebbe buon esito, e un suo frammento, probabilmente Manovre di artiglieria da campagna, fu rifiutato dalla direzione. Nelle lettere che preannunciano e poi accompagnano l’invio del pezzo c’è tutta l’ansia e la preoccupazione dell’esordiente scrittore: «Per me la pubblicazione di qualche cosa non è che una prova, per cui altri possa brutalmente dirmi “vai o non vai”», scrive all’amico il 6 marzo 1926, pregandolo di «indorare la pillola» della sua grama prosa (di contro al «nitore di Solaria») presso il direttore della rivista (Gadda 1984b: 44).
Nella lettera successiva lo prega di insistere per una pubblicazione integrale del frammento, promettendo in contropartita di trovare nuovi abbonati e di comprare più numeri della rivista in caso di pubblicazione (Gadda 1984b: 45 – lettera del 15 marzo 1926). La settimana dopo sollecita ancora una volta Tecchi, confessandogli la sua impazienza: «La mia impazienza deriva dal fatto che il tempo passa (troppo ne ho perso) e devo lavorare: devo cercare, se voglio dedicarmi ai nostri studî preferiti, di farmi anche un po’ conoscere. Questo non si può ottenere che per gradi. C’è una carriera, una routine anche in ciò» (Gadda 1984b: 46 – lettera del 22 marzo 1926).
Il frammento, come abbiamo già detto, venne rifiutato, e Gadda ci riprovò, nel maggio dello stesso anno, con altri sette frammenti, i futuri Studi imperfetti, ma Solaria ne accettò solo quattro (L’ortolano di Rapallo, Certezze, La morte di Puk e Sogno ligure), rifiutando pure di pubblicare le note accompagnatorie (Gadda 1984b: 48). Quando l’anno dopo Gadda proporrà il saggio I viaggi e la morte, scriverà a Tecchi: «Ho lavorato al capolavoro per Solaria, che ho inviato a Carocci. M’è costato molta fatica, soprattutto materiale: (le idee le ho buttate giù perché le ruminavo da un po’): sarebbe per me un grave colpo se Carocci mi dicesse che non può pubblicarlo. Tu conosci la mia natura debole, eretistica come dice il mio medico, cioè facile a drizzamenti e abbattimenti eccessivi, psicopatica, chiromantica, demografica. Scherzi a parte, passerò qualche giorno di nervosismo, finché non avrò la risposta di Carocci». (22)
Insomma, da queste lettere appare chiaro che ad Alberto Carocci era sospeso il tenue filo dell’affermazione letteraria e la speranza di Gadda di «farsi conoscere» nell’ambiente letterario, presupposto necessario per poter eventualmente un giorno abbandonare la corvée ingegneristica. (23)
Non è allora difficile capire per quale motivo Gadda se la prenda con il ventunenne e già affermato scrittore proustiano Anacleto Baistrocchi. Mentre Gadda, vessato da mille impegni, non era ancora riuscito ad imboccare la via delle lettere e stentava a farsi pubblicare i suoi pezzi, il giovanissimo Alberto Carocci, da cui dipendevano le sue speranze, aveva già fondato una rivista e vi pubblicava regolarmente le sue novelle. (24)
A questo si aggiunga l’avversione di Gadda per i proustiani. (25) Come poteva Gadda condividere la poetica della memoria, quando la sua infanzia non era stata che «una tenebrosa tempesta» (RR I 119)? Significativamente i suoi diari di guerra sono definiti «diari del tempo perduto» (SVP 746). E per la giovinezza come tempo perduto, ma irrimediabilmente perduto, si veda quanto dice nella favola 26: «L’autore non può rimpiangere la sua inesistita giovinezza», che vien di seguito alla favola in cui aveva parodiato, banalizzandolo, il rimpianto dei begli anni di giovinezza, comune agli uomini e ai «ciriegi» (SGF II 18). Ciò non significa che Gadda non apprezzasse Proust come scrittore, che anzi è più volte lodato; (26) quel che è certo è che non poteva condividerne la poetica e che non sopportava quelli che ne rifacevano maldestramente il verso.
A questo complesso sistema di risentimenti (anche se non va mai dimenticata, come da più parti osservato, la componente giocosa degli sfoghi gaddiani), va poi ancora aggiunto, come osserva Italia, «il risentimento dell’escluso: giraffa o canguro di quel bel giardino di letterati» (Italia 1994: 282; Gadda 1984b: 43-44) che si era formato attorno a Solaria. Ad esso ci rimanda, per cortocircuito lessicale, una delle ottantaquattro complicazioni introspettive del Baistrocchi, e precisamente quella motivata dallo specchio gibbuto «che gli faceva due occhi di bue morti dentro il muso della giraffa».
Per quanto riguarda i motivi dell’espunzione dell’episodio, mi trovo ancora una volta in disaccordo con Italia. Non tanto per la diversa identificazione del Baistrocchi con Carocci, che in linea di massima non toglie nulla all’argomento e che anzi lo rende più plausibile, quanto piuttosto per lo sfasamento cronologico dell’argomento. È pur vero che Gadda, negli anni del suo noviziato letterario, avesse nella rivista fiorentina «il principale referente di una difficile affermazione letteraria», ma questo non è più vero nel 1940, anno in cui fu pubblicato il racconto. La ben nota prudenza gaddiana non va infatti riferita al momento della stesura (ché finché si scrive per sé non si disturba nessuno), ma piuttosto all’anno effettivo di pubblicazione. Allora si potrebbe dire che, in quell’anno non certo felice della storia italiana e per Gadda stesso, sarebbe stata una mossa alquanto inopportuna, o perlomeno imprudente, uscirsene con un racconto in cui si ironizzava pesantemente sulle doti letterarie del direttore della rivista che lo aveva per così dire scoperto: quanto bastava per giocarsi delle possibili collaborazioni.
Credo tuttavia che all’espunzione soggiacciano anche delle ragioni stilistiche e che l’episodio sia stato cassato per soverchia misura ed eterogeneità rispetto agli altri episodi. Non solo l’episodio si differenzia dagli altri per la maggiore attenzione di cui è oggetto (sia in B1 che in C l’episodio occupa da solo quasi la metà del frammento), ma anche per lo scarto rappresentativo rispetto agli altri cinque episodi. Mentre gli altri episodi narrati si sviluppavano secondo una dialettica salvatori-salvati, questa articolazione è del tutto assente dall’episodio in cui è coinvolto il Baistrocchi. Non da ultimo, non va dimenticato che, venendo a cadere tutti i quadri polemici che originariamente avrebbero dovuto far parte del racconto, la sola puntata contro il Baistrocchi nella descrizione dell’incendio si sarebbe ritrovata quasi irrelata. Non stupisce allora che Gadda, nel momento in cui vede naufragare il progetto di stampare il disegno originario, perso per perso, tolga anche l’episodio del Baistrocchi, concentrandosi piuttosto sulla dinamica rappresentazione dell’incendio.
Difficile, se non impossibile, determinare con certezza quando questo sia avvenuto. Sappiamo però che quando Gadda rielaborerà ulteriormente la descrizione dell’incendio l’episodio del Baistrocchi non sarà già più compreso. Infatti, a p. 5 di IVK (Fase C) troviamo, prima dell’episodio, una linea divisoria in rosso sopra la quale si legge «Rifatto fin qui» (IVK 5; Gadda 1995: 287), il che significa che Gadda, nel rielaborare ulteriormente la descrizione dell’incendio che arriverà poi alla vulgata, aveva davanti agli occhi IVK e si era fermato al caso ferale dell’ex-garibaldino, escludendo così l’ultimo ingombrante episodio. Esclusione momentanea o definitiva? Mancando la stesura che presiede alla vulgata, è impossibile dirlo. E nemmeno il 1935 quale data limite per la composizione dell’Incendio (data segnalata solo molti anni dopo) può fornirci un’indicazione circa le intenzioni di Gadda a quell’altezza cronologica.
Comunque sia, anche in ragione della presenza dell’episodio del Baistrocchi in C, non credo sia lecito sostenere, come invece fa Italia, che la Fase C rappresenti «il momento di elaborazione del racconto in cui Gadda, abbandonato il progetto iniziale di maggior articolazione narrativa e riconosciuta la sostanziale debolezza della struttura di B, decide di svilupparne la sola prima parte [B1], ovvero la descrizione dell’incendio e delle conseguenze sui diversi inquilini del condominio di via Keplero, cassando quindi definitivamente gli episodi a flash-back già sviluppati («La lingera» [B2a], «La chiromante» [B2b] e «La visita di Gadda alla poetessa» [B2c])» (Italia 1994: 279).
Il ritrovare la descrizione dell’incendio rielaborata singolarmente non è sufficiente a giustificare questa conclusione. A parte il fatto che un giorno potrebbero venire alla luce dei quaderni contenenti ulteriori rielaborazioni degli altri quadri (chissà cosa contenevano quelle diciassette pagine strappate di IVK?), se si valuta quello che sarà il risultato definitivo e nello stesso tempo la descrizione di B1, ci si accorge che la descrizione di C è molto più prossima a quella di B1. Inoltre, in una nota del 14 settembre 1933 contenuta in un quaderno che ospita Un fulmine sul 220, Gadda afferma: «accarezzai sempre la speranza e il desiderio di finire questa novella [il Fulmine], per poi stamparla in volume con il San Giorgio in casa Brocchi (novella pubblicata in Solaria nel giugno 1931), e con L’incendio di via Keplero, in gestazione» (Gadda 1995: 296, nota al testo). Non credo proprio che se l’Incendio si fosse già ridotto alle poche pagine della vulgata Gadda lo avrebbe trovato degno di accompagnare in volume quei due giganti in continua espansione.
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Note
1. «Il quaderno misura mm. 280 x 220, ha la copertina in cartoncino color azzurro carta da zucchero, con la costola telata color marrone; consta di un solo foglio di risguardo anteriore e 98 pagine quadrettate e numerate modernamente a matita sul solo recto (le prime 9, quelle occupate dalla stesura dell’Incendio, risultano anche numerate a penna dall’Autore, che numera anche da p. 60 (1bis) a 71 (11) a penna e matita viola)» (Italia 1994: 269, n. 5). Questo quaderno, proprio per essere aperto dall’Incendio, è stato chiamato IVK.
2. Così ci informa, senza ulteriori precisazioni, Italia 1994: 279.
3. Ma già pubblicate in rivista proprio nel 1933: La chiesa antica, Il fontanone a Montorio e Sibili dentro le valli apparvero ne L’Italia letteraria rispettivamente nei numeri 33 (13 agosto), 34 (20 agosto) e 35 (27 agosto).
4. Quantitativamente, il materiale della Fase C (escluso l’episodio del Baistrocchi) rappresenta meno di un terzo di quello dell’Incendio. Nel passaggio da Fase C a Incendio vi sarà dunque un incremento complessivo del 240 %; mentre l’incremento da B1 a C è stato di circa il 110 %.
5. Schematicamente, il fuoco disprigiona: le donne con la loro prole, poi diversi maschi, poi le sue spaventose faville (in B1); le donne con la loro prole, poi diversi maschi, poi alcune signore povere e malandati signori, poi Anacleto Baistrocchi, poi la domestica del garibaldino, poi le sue spaventose faville (in C); le donne con la loro prole, poi alcune signore povere, poi alcuni signori rattoppati, poi Anacarsi Rotunno, poi l’Achille con la bambina, poi il Balossi con in braccio la Maldifassi, poi le sue spaventose faville (in Incendio).
6. Cfr. Gadda 1995: 287 (apparato critico relativo alla p. 1 di IVK).
7. IVK 2-3, Gadda 1995: 281-82. Apparato critico (Gadda 1995: 287-88): (2) sul bavaglino fradicio e] ins. (3) la polta papposa d’un] spscr. a il • col suo becco-naso-di-gentildonna] ins. (4) però] ins. e su altro • petali] segue strani e • ardenti] segue davanti (5) così brutta] ins. • magia] segue ne< > • traversargli] con -gli su -e • la finestra] da la finestra da l’aperta finestra (6) mozzati] segue in modo (ins.) inesorabile da inesorabilmente (inesorabile ins.) (7), una gioventù riposata e serena, dopo un oceano brodosissimo] ins. nell’interl. sup. e inf. (7-8) e dopo il guazzabuglio contorto della foresta, dove l’intrico della liana finiva col muoversi ed era il terrore del serpente] ins. con segno di rimando, nel marg. sup. della pagina a fronte (contorto ins. nell’ins.; intrico della da la; liana segue e il serpente) (8) venerato] spscr. a quale fu (9) della nostra cara Milano] da di Milano (nostra prima città) • però] ins. • giovane] segue perché (preceduto da due punti non cass.) • campano] ins. • pappagalli] segue sono longevi come i patr<izî> spscr. a campano anche • si sa] ins. • persino] ins. (10) tanto da battere in longevità i patrizî milanesi] ins. nell’interl. inf. (i segue ins. nella seconda interl. sup. p< > e in interl. più) • prezzemolo] prima il • edera] prima l’ • adesso] segue il pappagallo (11) prese] segue a • paurosamente e <…> <a> egutturare] da gridare • che son bestie che si fanno sentire] da (che son (spscr. a sono) bestie che ci riescono), >abbastanza bene< • quanto] con o su a (12) pareva] segue ins. a sua • come] ins. (12-13) sparnazzando l’ali debi<li>tate in una meteora di penne] ins. (l’ali debi<li>tate ins. nell’ins. e prima stanch<e>; in una meteora di penne da un vortice di penne meteoriche) (13) gridava] spscr. a diceva (14) Besozzi] segue che >soleva< (spscr. a dormiva segue ins. vestito) segue abitava su di una (spscr. a in un’) «ottomana in (spscr. a di) famiglia» al piano di sopra, e • vigilato speciale della Regia Questura] ins. nella seconda interl. sup.; nel marg. inf. si legge la frase a lapis impeti subiti della caten<ina> | (15) è il caso] spscr. a bisogna • di] ins. • e] segue che (16) e le grida] ins. • salvò] segue l’uccello e (17) l’uccello:] da l’uccello. • «Daghèn on tai de sbragià» gli disse tremendo.] ins. a lapis nella terza interl. sup. (con on da un) (18) sbarcare dall’ottomana] ins. segue verso la piena coscienza • sulle banchine della risvegliata coscienza] ins. nella seconda interl. sup., da ai lidi della conoscenza • lavarsi] con la prima a su altro (19) con un mezzo pettine tascabile] ins. • bazzicar su e giù lemme lemme il buio delle scale] da uscir nelle scale buie • nella] stscr. a con la (20) E così la salvò] ins. • tutti] ins. (21) che sia.»] ins. nell’interl. inf. con ci prima di sia e segue ins. Ed è vero.
a var. altern. lasciata b di seguito si legge la var. altern.: perché verso le quattro pomeridiane era l’ora appunto che soleva sbarcare dall’ottomana sulle banchine della risvegliata coscienza, tutte ingombre delle solite rogne <e> fastidi con la questura. Che si fregava gli occhi, metteva la testa sotto il rubinetto, e poi con un suo mezzo pettine tascabile si pettinava e levati i capelli residui dal pettine, delicatamente uno ad uno li contava e li confidava religiosamente all’acquaio ingombro de’ piatti e tegami ancora della vigilia; usciva poi sul pianerottolo e bazzicava su e giù, svogliato e ancor molle di ottomana il buio tanfo delle scale, nella speranza d’un qualche buon incontro. E quel giorno aveva incontrato la madre della creatura. Apparato critico della var. altern. b: quattro] spscr. a sei • tutte ingombre delle solite rogne <e> fastidi con la questura] ins., con delle da dei, solite rogne ins. nella seconda interl. sup. • testa] prima zucca • poi] ins. • residui] ins. • delicatamente ad uno ad uno e li] sprscr. a scendeva e, con ad uno ad uno ins. • confidava] con -va su -tili • religiosamente] ins. • ingombro] spscr. a pieno • de’] da dei • ancora] ins. • della] con di su altro • poi] ins. • svogliato e ancora molle d’ottomana] spscr. a pian piano con di da della • tanfo] ins. • d’un qualche] da d’un.
8. La lezione «poi la domestica del garibaldino» è ricavata da «poi un garibaldino», con la domestica del soprascritto a un (IVK 1; Gadda 1995: 287).
9. Si noti la prossimità con uno dei titoli, «Il sonnifero di Darmstadt (consiglio dei ministri)», della già citata nota in cui si elencavano i possibili racconti da destinare al Resto del Carlino, ciò che potrebbe anche indurre a credere che pure l’episodio del Baistrocchi fosse idealmente destinato a quella sede.
10. La sorella Clara ricordava come Carlo Emilio, ai tempi del liceo, fosse particolarmente irritato dai rumori che non gli permettevano di attendere in pace ai suoi studi: «… allora diventava un pochino irascibile, non voleva sentire rumori, per esempio, voleva silenzio intorno a sé, si appartava un poco e qualche volta aveva qualche scatto d’ira» (Gadda 1995: 186).
11. Cfr. Gadda 1995: 266 (apparato critico relativo alla p. 23 di TDL).
12. Vicenda ricordata incidentalmente da Gadda stesso in SGF I 397.
13. Cfr. Gilbert Bosetti, Bonsanti e il proustismo, in AA.VV., Alessandro Bonsanti scrittore e organizzatore di cultura. Atti del convegno di Firenze, 5-6 maggio 1989 (Firenze: Festina Lente, 1993), 57-70.
14. Prima del 1931 Bonsanti ha pubblicato solo alcuni racconti che sono stati raccolti ne La serva amorosa (Firenze: Edizioni di Solaria, 1929 – poi ristampato, sempre per le Edizioni di Solaria, nel 1934, da cui si cita).
15. Non avendo trovato il volume che raccoglie le novelle, Il paradiso perduto (Firenze: Edizioni di Solaria, 1929), i rinvii si riferiscono direttamente alla rivista Solaria. Questo l’elenco dei racconti pubblicati: Un giovane, a. I, n. 1 (gennaio 1926): 29-37; Soldati, a. I, n. 2 (febbraio 1926): 24-28; Tre sorelle, a. I, n. 3 (marzo 1926): 25-32; Luglio, a. I, n. 4 (aprile 1926): 27-32; Cose, a. I, n. 5 (maggio 1926): 27-28; Avventura sentimentale con Madame Bovary, a. I, n. 6 (giugno 1926): 12-22; Pellegrinaggi, a. I, n. 7-8 (luglio-agosto 1926): 20-2; Memorie del tempo perduto, a. I, n. 9-10 (settembre-ottobre 1926): 19-28; Il giardino, a. I, n. 12 (dicembre 1926): 26-34; Ritorno alla villa di un tempo, a. II, n. 11 (novembre 1927): 41-59; Cose, a. III, n. 12 (dicembre 1928): 3-21.
16. Non a caso Il paradiso perduto sarà il titolo del volume in cui saranno raccolte queste novelle. L’espressione «paradiso perduto dell’infanzia» era già ne Il giardino, p. 26.
17. La metafora della memoria quale giacimento appare in ben tre occasioni: ne Il giardino, p. 31; in Ritorno alla villa di un tempo, p. 41; in Cose, p. 8.
18. Così si autodefinisce in Cose, p. 9.
19. E, se il protagonista è una donna, il ricordo riguarderà l’amato: cfr. Tre sorelle, p. 26.
20. La direzione fu condivisa nel 1930 con Giansiro Ferrata, cui subentrò nel biennio successivo Alessandro Bonsanti.
21. Probabilmente incalzato da Carocci a consegnare le novelle per il progettato libro, Gadda così risponde: «ti scrissi che sto scrivendo. Dimmi come va la stampa» (Gadda 1979a: 248 – cartolina del 27 luglio 1930).
22. Gadda 1995: 52 (lettera dell’8 marzo 1927). L’esito fu questa volta positivo, e il saggio apparve nel numero di aprile dello stesso anno.
23. «Di farsi conoscere» si badi bene, poiché Solaria non remunerava gli scritti pubblicati. Non è un caso che dopo la pubblicazione della Madonna dei Filosofi gli interventi di Gadda, in barba agli appelli di Carocci, si diradino, preferendo altre sedi più generose. Si veda allora quanto Gadda dice ne La casa (1935-36) di Solaria, trattata alla stregua di tutti gli altri parassiti che tentano di attingere alla ricchezza del neo-milionario: «Una rivista di Firenze mi perseguita con la seguente tabella: Abbonamento ordinario L. 30 – Abbonamento speciale L. 60 – Abbonamento sostenitore L. 200 – Abbonamento di solidarietà L. 500 – Abbonamento sostenitore speciale L. 1000 – Abbonamento sostenitore speciale di solidarietà L. 10000. “Ciàpen on alter”, dissi quella volta alla solidarietà servendomi di un’espressione del pelabrocchi. E ordinai 10 abbonamenti ordinarî che feci distribuire per vendetta ai disturbatori telefonici» (RR II 1127-128).
24. Nel primo anno di vita della rivista, fatta eccezione per il numero di novembre, Carocci pubblicò un racconto in ogni numero. Va ricordato che Carocci fondò la rivista proprio a ventun anni (l’età del Baistrocchi): coetaneo di Bonsanti, entrambi nati nel 1904, esordì dunque prima dell’amico, che pubblicò il suo primo racconto (Briganti in Maremma) nel 1926 nella Fiera Letteraria e solo due anni dopo cominciò a collaborare con Solaria (il primo racconto pubblicato fu Il viaggio, nel numero di novembre del 1928).
25. Si consideri quanto Gadda dice nella Meditazione breve circa il dire e il fare: «Devo notare che parole vane sono ancora quelle, per quanto brutte, di chi si crede scansarle con lo scrivere male e con maltrattare l’idioma. E quelle di chi non ha nulla da dire: e fabbrica pagine e pagine sopra i disegni della tappezzeria, dandosi a credere di aver importato il Toltoewski e magari il Prott in Italia: o lucubrando sistemi falansterici nei quali invesca, dopo che se stesso, altri facitori e venditori di parole» (SGF I 449). Tenendo conto che il saggio era apparso su Letteratura (a. I, n. 1, gennaio-marzo 1937), cioè la rivista di Bonsanti, non è credibile che Gadda avesse nel mirino proprio lui. I disegni della tappezzeria ci riportano inequivocabilmente al Baistrocchi e lo stesso accenno a Dostoevskij si può ricollegare alla prima novella di Carocci (Un giovane) che effettivamente pencola tra il Proust e il Dostoevskij. Inoltre Carocci si era servito del metodo proustiano per rievocare esperienze di fatto mai esistite, inventando dunque un paradiso perduto (abitato da una miriade di figure femminili, a ventun anni!) che mai era stato trovato. Da qui il rimprovero di facitore di parole vane: accusa che va naturalmente estesa ad altri maldestri epigoni nostrani dello scrittore francese.
26. Proust, di cui si elogia la Recherche, è citato con grande ammirazione fra I grandi uomini (SGF I 978-79). Fa poi notare Gorni che «il procedimento proustiano di recherche [è] effettivamente adottato in più punti dell’opera» di Gadda, citando Dalle specchiere dei laghi (SGF I 225-29). Cfr. Gorni 1984: 303.
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