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A proposito del Castello di Udine.
Firenze, «Solaria», 1934
Alfredo Gargiulo
Il «premio Bagutta» conferito al Castello di Udine sancisce un giudizio già abbastanza diffuso: uscito or è un anno, il libro venne subito considerato, dai critici più sottili, come la rivelazione di uno scrittore autentico. Dell’altro volume pubblicato dal Gadda, La Madonna dei Filosofi, si può dir solo che disorientava: alcuni punti erano decisamente belli per la profondità del motivo e una singolare icasticità; ma quasi tutto il resto si presentava sotto la specie di una ironia oziosa o scherzo a vuoto, così da parere, nel complesso, un cincischiato e molto letterario esercizio di penna. Fra l’una cosa e l’altra, nessuna visibile connessione (noi stessi, se è lecito il richiamo, dovemmo limitarci alle due constatazioni isolate).
Ed ora, invece, tutto si chiarisce. In primo luogo quel polemizzare ironico che, applicato lì a qualsiasi oggetto, diventava una generica maniera, qui colpisce nella gran parte dei casi il bersaglio giusto. Lo scrittore realmente se la piglia con ciò che urta, per un verso o l’altro, il suo temperamento risentitissimo; oltreché, e forse in suprema istanza, con sé medesimo, con le proprie difficoltà e complicazioni, inaudite come gli sembrano. Per cui, fra l’acerbo e l’ameno, nel testo e più nelle apposite note, non ha sosta il getto delle autodeplorazioni. Ma diciamo senza scrupoli che alla stregua di questo aspetto, uno ha l’impressione di aver da fare, attraverso la pagina, addirittura col Gadda uomo: presente di persona e così innocuamente irritato.
Chi voglia saper qualcosa di codesta irritabilità, prenda nota innanzitutto della idiosincrasia uditiva, «timpani forse malati»: ecco le variazioni sulla «musica milanese» (i suonatori ambulanti) è il pezzo, del resto già famoso, sul Musagete, «Radio Roma-Napoli….», sotto la finestra del nostro, ne La festa dell’uva a Marino. Altra idiosincrasia, la rigoristico-amministrativa, «da guardia municipale», o il «pignolismo»; e cercate di conciliarla, nello stesso uomo, con l’orrore delle necessità e regole della ordinaria convivenza. Ma Carlo Emilio Gadda è stato un bravo, anzi bravissimo ingegnere (naturalmente potrebbe esserlo ancora): dunque da un tempo in qua i parenti, i vecchi amici hanno avuto qualche ragione, incontrandolo, di domandargli: «Che cosa fai di bello?» Glielo domandano nel tono «degli uomini saldi, che, occupati in ben altri affari, condescendono un attimo a vostra facultate. Il qual tono risulta d’un’accentuata sicurtà in sé medesimi, e di una malcelata commiserazione pel giramondo. Ne’ mesi d’inverno risulta anche di un paltò abbottonato». Quella domanda dovette ottenere ogni volta un bell’effetto! Qui la nota a pag. 56 dice: «In un accesso di brutalità, il Ns. malmena in blocco tutte le ottime persone che hanno la disgrazia di essere suoi congiunti o propinqui, e il solo torto di ammirare in lui la sola cosa ammirevole, cioè l’ingegneria».
Milanese intanto, e trovatosi quindi fra gli «uomini saldi» specialmente di Lombardia, proprio in quelli il Gadda dà di petto: ne fa la quintessenza della “sicurtà” nel paltò abbottonato». Siamo a Marino: «Con addosso una camicia sudata e appiccicaticcia, nel lago torrido e opaco del vento scirocco, eccomi a contemplare le cose della campagna e della festa, esule verso l’uva fuor dal giardino senz’uva dei lombardi aforismi e delle milanesissime moralités»; e in nota: «la ingenua allegrezza della festa paesana riconsola il Ns., un attimo, delle ambasce e della sua desolata miseria. Poi, allude al tono sentenzioso e sicuro di sua gente». Nella «tavoletta diciannovesca» La fidanzata di Elio, la «saggezza casalinga» di Luisa scende «diritta dalla saggezza de’ suoi genitori e degli avi»; la ragazza, fra l’altro, ha raggiunta la libera docenza alla «Scuola superiore delle massaie» in Santa Maria Fulcorina. Sicché Elio, – cui Luisa fa venire in mente «il linòleum il nichelio di cucina, il ferro elettrico e una limonata dei Quattro Cantoni, estremamente calviniana, senza il più piccolo seme, con pochissimo zucchero», – Elio alla fine scappa: «Allegre e bianche nuvole trasvolàvano nel cielo di aprile e saettanti rondini le divanzavano; intanto le perfezioni degli umani cuocevano a bagno-maria, protette da Santa Maria Fulcorina».
E abbiamo messo in evidenza, sino a questo punto, non più che il Gadda umorista, ironico, satirico; mentre, è vero, tanta parte del libro richiama a un Gadda incomparabilmente «maggiore». Tuttavia ciò era necessario; né solo perché il Gadda, quando indovina l’oggetto e con esso le intonazioni, è un umorista di ottima razza, quella dei temperamenti squisitamente scontrosi. Andava considerato prima lo scrittore «orso», anche per la ragione che il Gadda ha dovuto appunto spendere, a conquistarsi lingua e stile, soprattutto la sua scontrosità, vincendo ogni resistenza della tradizione a furia di urti (vedi arcaismo, dialettismo); e peccato davvero che non ci sia dato svolgere questo ricco tema.
Il luogo comune, il convenzionale, la norma passivamente osservata: ognuno intende che l’insofferenza di ogni fattore della «vita comoda» deriva nel Gadda da un’altezza d’animo non ordinaria. Di tale superiorità non si ha peraltro la misura, se non nei cinque articoli di guerra che dànno il titolo al libro. È «un istinto del radicale e del profondo»; un bisogno assoluto di lealtà («Il mito della furberia è un ignobile e turpe mito»); e allora, per forza, un senso della vita come cosciente dedizione, dovere, sacrificio. Come felicità anche, sta bene; ma non occorre dire a quale patto: «in guerra ho passato alcune ore delle migliori di mia vita, di quelle che m’hanno dato oblìo e compiuta immedesimazione del mio essere con la mia idea: questo, anche se trema la terra, si chiama felicità». E il Gadda può precisare: «Ho fatto fuoco e comandato il fuoco con convinzione e con gioia»; ogni cosa più orrenda, «nel mio cuore disumano si trasfigurò in desiderio, diventò viva e profonda poesia, inguaribile amore». Così la lirica di queste pagine è fatta d’un orgoglio e d’una gioia, che si rinnovano nel più amaro rimpianto.
Né, si aggiunga, ha consistenza il dubbio che nella nostalgia rimanga insoluto, senza che lo scrittore l’avverta, qualche motivo troppo personale. Piuttosto vorremmo affermare che lo spirito guerresco del Gadda rispecchia sempre una realtà «obiettiva». «Quello che dicono questi moderni entusiasmo, meglio sarebbe che fosse un fuoco più lungo, di buona legna.... Ci vuole un ceppo di rovere». «Aborrire dal brontolamento anche se c’è ragione di brontolare…. L’uomo pensa od agisce, ama o crepa, sopporta o si spara: non brontola». «I soldati non dovevano essere umili, ma bravi soldati: non fagotti di rassegnazione, ma grumi di volontà…. Con la rassegnazione non si fa la guerra, e tanto meno la si vince». «Il parlare della guerra e della pace come di un mito, o come del terremoto, è cosa ripugnante in un uomo e in un cittadino. Vi è qualcosa di bestiale in una rissa, ma la volontà di ferire è più nobile della bassa stanchezza che conduce a tenersi gli sputi nella faccia. La guerra si deve volere o non volere da uomini: il parlare della guerra e del governo come di un mito non è cosa degna di uomini». Queste verità, nel Gadda, sono limpidi stati d’animo.
D’altra parte, se talvolta il Gadda si dà del «disumano» e perfin del «rètore», è bene sentire come la sua meditazione diventa accorata, quanto più s’innalza: «Oh! quegli uomini non discussero gli ordini, ma adempirono agli ordini. Questo pensiero, come una consolazione inavvertita, mi diceva che la mia speranza doveva vivere, viva era la mia gente, morendo. Mi diceva, chinavo il capo, che chi dà ordini deve dare ordini giusti e utili, e nel comandare il sacrificio deve essere comandato da una legge, paragrafata in alti paragrati: e quasi prendere auspicio dal volo di eterni pensieri». E poco innanzi, prigioniero, in vista del cimitero «sotto il cielo germanico»: «Camminavo e camminavo, la notte stellata era la imagine d’una convergenza strana, come una cascata di esseri momentanei, fiori effimeri, verso mondi di momenti futuri. Pallidi esseri, trovata provvisoria della eternità. Ognuno era un punto luminoso nella oscurità della notte e soltanto sarà stato una luce se avrà serbato per sé onore e dovere: se questo non avrà serbato, vana era la sua opera e la millenaria malizia, il suo mangiare, prima ancora che lo riavesse la tenebra, era come il mangiare dei vermi dentro la morte».
Senonché l’artista che nel Gadda si è venuto maturando attraverso, singolarmente, questi articoli di guerra, va saggiato non solo nelle «confessioni» o momenti lirici in più stretto senso: importa altrettanto la potente facoltà di resa sulla realtà esteriore, che ora lo scrittore ha raggiunta. Il paesaggio: «dal castello di Udine, il luglio, avevo veduto le Alpi di Carnia, vetrate, o il lontano corruccio di Monte Nero: bianchi o rotondi dentro il cobalto, cumuli di nuvole incoronavano il grigiore vetrato dell’Alpe, screziata delle sottili sue vene, come ghiaccio, come cristallo». Indimenticabile lo squallore del paesaggio intorno al campo di prigionia. I movimenti, le azioni: «Il rabido rinculo degli affusti, il pronto ricupero, le vampe laceranti la notte, la sùbita impennata di qualche mulo nevrastenico nello schianto e nel lividore improvviso, i gargarismi lontani e immortali delle autocolonne, fino all’alba! Su su per le spire infinite delle rotabili, dalla tenebra verso i crinali! Spiando l’ambiguità de’ culmini puntuati di fredde stelle». Ecco la fame: «Mi ridussi, come tutti, a un residuo fisiologico: la fame fece dell’anima una morta pietra, l’esofago straziato fu ricondotto alla natura contrattile delle cose primigenie, quando si vedono sullo schermo del cinewma le forme velari, il pulsare solo della vita-valvola, nei regni marini». I prigionieri in quella baracca, quei loro interminabili giorni; la figura fisica e morale di ognuno così stagliata.
E secondo la natura delle composizioni raccolte nel volume, sempre procedendo in certo modo per aggruppamenti, invitiamo infine il lettore a mettere e considerare insieme Chiesa antica, La festa dell’uva a Marino, Crociera mediterranea: come gli scritti in cui il Gadda, dando ancora prova delle qualità ora dette, risponde ad incontri diversissimi; e la capacità di risonanze è ricca sempre egualmente. Sarà la accidia e truculenta della plebe (marinai, facchini, stallieri) fra Ripa Grande e Campitelli, allorché sorge da quella Papa Innocenzo II; un’altra volta sarà la «compostezza latina ed albana» tra la fontana del vino e la porchetta («ch’è un marrone chiaro da non poter dire, tutto lustro, morbido e croccante ad un tempo: e dentro, la polpa, un grigio carne senz’osso, dove il rosmarino ha combinato miracoli»); un’altra ancora il delizioso costeggiare giù da Genova a Siracusa (poi Tripoli, dove, passando i torpedoni rossi, si fanno da parte gli «stradini italiani con il badile d’Italia»). E si noti bene, inoltre, in questi lavori, la profondità, delle modulazioni. Un solo esempio di proposito: «Poi, nella pubblica via, diedi due lire a una sudanese, che aveva, fuor dal baracano color Isabella, delle mammelle nere stupende e uno stupendo marmocchio nudo e nero fra le mammelle: mi ringraziò con due occhi neri come l’Africa e con trentadue denti bianchissimi, magnifìcati a un tratto dal lampo d’un sorriso ferino». Ma il contemperamento, nel Gadda, dell’umore-ironia con una penetrante cordialità, è un altro promettente argomento di studio che dobbiamo tralasciare.
Il tempo dei ragazzi è «senza consumo», «perché ai ragazzi il tempo gli è lungo: son lenti e ricchissimi gli anni»; degli ultimi quindici anni che gli son volati, il Gadda dice, a un punto, «annazzi vigliacchi». La nota a pag. 154 spiega perché egli abbia chiesto, «disperatamente», ogni notizia circa le antichità di Zara al Regio Conservatore: «la brevità dell’ora e dell’attossicata vita non concede al Ns. ch’egli abbia a conoscere tutta la bellezza e tutta la verità». E veramente quest’uomo che arriva all’arte solo nella maturità degli anni, pare che abbia ancora tutto da dire, e l’avidità di un giovanissimo. Mentre poi anche sa, e non deflette, come «le età e le opere di maggior rigore quanto alla invenzione profonda, siano ancora contrassegnate dall’accuratezza della scalpellatura».
Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371- 18-3
© 2007-2025 by Riccardo Stracuzzi & EJGS. Previously published: A. Gargiulo, A proposito del Castello di Udine. Firenze, «Solaria», 1934, in Nuova Antologia 70, no. 1515 (1 May 1935): 149-52; then in Letteratura italiana del Novecento (Florence: Le Monnier, 1940), 573-80. First published as part of EJGS Supplement no. 7, EJGS 6/2007.
The archival research carried out on behalf of EJGS was part of a project funded by the Edinburgh Development Trust, University of Edinburgh. The digitisation and editing of EJGS Supplement no. 7 were made possible thanks to the generous financial support of the School of Languages, Literatures and Cultures, University of Edinburgh.
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