Netwon Cenotaph

Racconto ed esperienza umana del tempo

Lucio Lugnani

Potremmo muovere da una citazione di Ricœur:

[…] esiste tra l’attività di raccontare una storia e il carattere temporale dell’esperienza umana una correlazione che non è puramente accidentale, ma presenta una forma di necessità transculturale. O, in altri termini, […] il tempo diviene tempo umano nella misura in cui viene espresso secondo un modulo narrativo, e […] il racconto raggiunge la sua piena significazione quando diventa una condizione dell’esistenza temporale. (1)

Si tratta di una congettura di grandissima suggestione che, se si frequenta la letteratura narrativa, è difficile non essere tentati di far propria. E tuttavia, se si desidera riaffrontare l’indagine della temporalità in letteratura, e in particolare nella discorsività narrativa, è necessario tenere da parte la teoria (e tanto più le grandi fabbriche teoriche) e metter piede sul terreno più proprio all’indagine letteraria, quello della lettura-interpretazione.

I testi ripropongono infatti quella complessa problematica da angolature e con rifrazioni infinite, e non credo che una tipologia paradigmatica, per quanto accurata, possa mai rendere conto dell’attualizzazione dell’esperienza umana del tempo attinta nei singoli testi con curvature espressive di volta in volta proprie e specifiche. Al più, si può tentare di rilevare e additare cautamente qualche minimo denominatore comune nella dinamica discorsiva adibita ad esprimere il senso vivo del tempo nella sua dimensione umana. E si può, probabilmente, anche mettere utilmente a confronto i modi differenti con cui la letteratura liberamente imita, per un verso, la più naturale espressione dell’esperienza temporale, quella soggettiva, e per l’altro verso riesce a distanziare, oggettivandola, l’espressione della medesima esperienza.

Scelgo di procedere per piccoli passi, e per exempla. E riconvoco Gadda, scrittore grandissimo che ha, tra gli altri, il pregio di deludere i lettori di romanzi.

Nel racconto eponimo ed ultimo dell’Adalgisa siamo condotti al Teatro Fossati a sentire Traviata. Nel ruolo di Violetta, l’oggetto del desiderio di tutti i giovani ascoltatori: Adalgisa Borella. Il narratore s’è da poco, e con un vero colpo di mano, appropriato — come direbbe Benveniste — di io. Se n’è stato a lungo in disparte, limitandosi a mostrare di occupare una postazione appartata ma molto prossima al proscenio sul quale agiscono i protagonisti. Ha fatto insomma il narratore, anche se alla maniera imposta da Gadda, cioè con una loquacità tale che le vicende raccontate si rifrangono e moltiplicano negli specchietti sfaccettati della discorsività narrante. A un certo punto, però, lascia intendere di dover proprio cedere la parola alla protagonista e la nomina anzi narratrice in proprio:

Disincagliato dai coleotteri, dai geotrùpidi, — acciaccata inoltre la testa della vipera, — fu allora che il consumato romanzo della vedova Biandronni guadagnò finalmente il suo vento, e lo insaccò a piene vele. Dopo alcune battute d’apertura, il discorso lingueggiò rapido, simile a fiamma in pagliaio, dato, poi, che Elsa era la quarantesima volta che lo ascoltava: e i riferimenti base li aveva oramai a memoria.
Gli occhi della narratrice non mollavano un istante i due ragazzi, che s’erano finalmente distratti, dietro l’omino dei palloni, stavolta… Era la storia del suo primo amore: (locuzione di cui si estasiava: e ne usava con parsimonia, e sempre e comunque a palpebre arrossate): del suo unico amore, correggeva poi subito, ogni volta… oh! non come tante, che dicono, dicono… ma poi… basta voltar via la testa mezzo minuto… che tràcchete… Questo qui era stato unico… unico «propi de bon»…
L’Adalgisa aveva cominciato da stiratrice, anzi da «piscinina…». Ma, data la voce, e la passione, gli zii avevano finito per accedere all’idea della signora Cova, di farle prendere, cioè, delle lezioni di canto. Ci vollero dei bei denari, poveri zii. Ma ne avevano, col negozio. Gli anni passarono, la maestra «si ritirò», il maestro morì: ce ne furono altri due: gli zii l’aiutarono sempre: quelli del negozio, della drogheria sul cantone del Nerino. (RR I 528-29)

Ed è invece proprio a questo punto, quando Adalgisa s’è tuffata nel suo récit (o nel quarantesimo daccapo della sua grande aria) e non pare arrestabile, che d’un tratto il narratore balza sulla scena e prende a raccontare lui, al suo posto, la storia di lei: doveva essere Adalgisa a raccontarla ad Elsa (come le primedonne del melodramma alle dame confidenti), ma la trasposizione di persona è di breve durata: al di là d’un bianco tipografico che bruscamente zittisce la narratrice, la voce del nostalgico maestro rammentatore si sostituisce senz’altro a quella della vedova Biandronni, ed è lui, in prima persona e dal proprio punto di vista, a rievocarne la storia.

Si deve supporre che, simultaneamente (sebbene simultanar significar per verba non si poria), Adalgisa persista a raccontarla ad Elsa, ma noi avremo più oltre, della sua versione, solo gli estremi frammenti: la storia di Adalgisa giovane e diva noi l’abbiamo soltanto attraverso la parola, altrimenti commossa, del narratore. La sottolineatura di questo cambio di registro narrazionale non è né digressiva né gratuita: avverte invece che la successiva tranche della storia di Adalgisa noi non la ascolteremo né dalle labbra di lei né da quelle del narratore di prima, ma da un narratore-personaggio partecipe e coinvolto che ce la racconta alla prima persona:

Era allora una bella e vivace ragazza del nostro popolo, se lo dico potete credermi, per quanto certi sussurroni mi accusino di incompetenza… La conoscevo di vista, la incontravo per via… Non alta, ma di buone proporzioni… Ardita, provocatrice: d’occhi, e di… Un po’ troppo soda, forse, come certe tedesche quando fanno la ginnastica svedese: e davanti, poi, e sulla periferia… un po’… un po’ troppo… non saprei come dire… Era già il tempo che i gusti, anche da noi, principiavano a ingentilirsi… Alcuni della nostra combriccola, ch’erano ammiratori e recitatori del poeta, e avevano però più in promptu i suoi tipi, i suoi modi, e io stesso che lo amavo e lo amo, prendemmo — non ricordo bene chi fosse il primo a cominciare — cominciammo a chiamarla portianamente la Tettón, nel parlar fra noi, beninteso: o anche, talvolta, più sgangherati, la Tetàscia. Era una sgangheratura affettuosa, sinceramente ammirativa, e direi fraterna… cioè, un po’ più che fraterna… una cosa tutta diversa, anzi: tipica, comunque, del nostro tono trivialone ed allegro e delle nostre sane risate, in quegli anni. (RR I 529)

Sulla scorta di questi non superflui chiarimenti, eccoci dunque al finale di Traviata:

Nel morir tisica, poi, era inarrivabile. Fosse che qualche volta eravamo magari mezzo storditi, bevuti non direi, poveracci, non ricordo bene,… ora,… certo è che il mal sottile tra la nuvolaglia de’ veli, sottintendeva in lei un seno, un davanti… già… di povera creatura consumata dalla cloròsi… oh! quest’è certo… ma una cloròsi da secondo impero, date retta…, che ne avanzava pur sempre qualche cosa di potabile… ve lo garantisco io…
Il tragico estinguersi di quella vita era a momenti più vero e immediato del nostro ardore. «Oh Dio! compermèss che me ven fastidi», sospirava Remigio come svenendo: e tutti gli facevano largo dassenno, qualcuno zittiva, furibondo: e, allora un bieco muggire di proteste a catena, di minacce. Che poi ci lasciò la pelle per davvero, sul Podgora. (RR I 531-32)

Il narratore rimemora nostalgicamente Adalgisa nel suo fulgore di cantatrice e nella prorompente procacità della sua sana giovinezza popolana. Ma, nella sua memoria di raccontatore, alla finta morte da lei melodrammaticamente recitata nei panni della Violetta verdiana, e al finto mancamento recitato dal burlone Remigio dinanzi allo spettacolo di quella troppo seducente moribonda, sussegue repentina l’evocazione della vera morte del soldato Remigio, ossia l’evocazione, sul serio più immediata dell’ardore nostalgico del raccontare, dell’estinguersi veramente tragico di quella giovane vita. Inarrivabile era Adalgisa-Violetta nel morir tisica secondo libretto e spartito, e inarrivabile anche Remigio che «sospirava […] come svenendo» nel suo dialettale improvvisato siparietto; mentre non c’è nulla di inarrivabile e nulla di spettacolare nel lasciarci «la pelle per davvero, sul Podgora». Al «tragico estinguersi di quella vita» e all’«Oh Dio! compermèss che me ven fastidi», fittizî entrambi ed entrambi linguisticamente coloriti di scherzosa ironia, succede il basso e risentito idiomatismo della realtà bruta, del lasciarci la pelle in guerra.

In termini di anacronia narrativa, la morte di Remigio è solo una fulminea, parentetica prolessi. Ma, sul piano del discorso narrativo e dal punto di vista della commossa soggettività narrante, si tratta invece di una sorta di lancinante analessi non complanare e, per così dire, extradiegetica ed esclusivamente memoriale. Ed è da questo cortocircuito temporale che sprigiona, dolorosissima, l’esperienza umana del tempo: dato che scaturisce non dalla fusione, ma da una sorta di fissione di narrato e di narrazione.

Il narratore è impegnato a narrare la storia di Adalgisa, non quella di Remigio e non la propria; ma dal loquace e teatrale finto svenimento dell’amico, da quel fargli largo dassenno degli spettatori turbati e poi dal furore, dai muggiti biechi di protesta, dalle minacce degli altri, disturbati, la sua memoria è tratta a trascorrere immediatamente, e irresistibilmente, con un nesso semplificato al massimo e più proprio al parlato che non alla sua discorsività letteraria («Che poi»), a ben altre minacce, a più biechi muggiti, ad un altro furore, al decesso muto di Remigio e al suo lasciarci la pelle per davvero, sul teatro del Podgora. Ossia all’exitus di un’altra storia, che non è narranda e non sarà narrata. Non un fattore narratologico (la prolessi) e non la temporalità del racconto contano, ma la dolorosa, rabbiosa esperienza umana del tempo, che il soggetto narrante esprime quasi suo malgrado. È da quest’ultima che riaffiora, come quello d’un affogato, il cadavere di Remigio, il quale, da morto, non appartiene propriamente a quest’ultimo disegno milanese dedicato ad Adalgisa, ma piuttosto al più vasto e folto cartone della memoria del personaggio-narratore.

Il quale cartone restituisce poco oltre una replica variata del medesimo evento:

Rideva, rideva, mi porgeva quell’altro piatto, dei fondants, parlando con cinque o sei alla volta: c’erano la signora Binda, la signora Carugati, la ragazza Dumenil, e un altro paio di ragazze: dette allora, da noi, «signorine». Mi porgeva un bicchierone di limonata in ghiaccio, rimestandolo con un cucchiarino lungo, dal gambo anzi infinito, adeguato alla profondità di quel pozzo: togliendone all’ultimo un mezzo seme, verdolino, con gran cura, come fosse per un malato di stomaco: o certe granite! e poi di nuovo le caramelle, i petits fours, i cioccolatini, e l’alzata dei sandwichs per quanto già mezzo vuota e sguernita dopo il saccheggio, di quegli altri masnadieri.
«Caramelle in ghiaccio!», urlava Remigio con le sue labbra rosse bagnate di sugo di cocomero, con un’ombra appena sui labbri e con due enormi baffi color cocomero traverso le gote fino agli occhi. Andava attorno fra le ragazze e le seggiole col residuo emisfero di quel pallone verde cupo: dandone, con le nocche, un rimbombo sciocco, di zucca: pareva fosse interessato nell’azienda, voleva a tutti i costi ne prendessimo, non c’era verso: urlava allegro, rovesciava la testa all’indietro ridendo a crepapancia, non si sapeva mai di chi o di che cosa, sbavava come un bimbo, riempiva di baccano la sala; metteva all’asta le fette tricolori di cui nessuno più aveva voglia, sventolando una quarta o quinta fetta sopra le teste, seminando semini neri per tutto, imbrodolandoci tutti: «Io sono l’imperatore!», urlava: «e l’ingüria l’è mia!». E rideva, rideva, povero ragazzo, come rise poi sempre, anche in faccia ai tognini e alla Margniffa, quando lo beccò sul Podgora, sta troja!
L’Adalgisa, come ho detto, mi porgeva la limonata: con dentro quella interminabile festuca del cucchiarino speciale, che pareva lo stelo d’un garofano: con il piattino sotto: «stia attento, mi raccomando il mio bicchiere…, perché lei, certe volte, mi pare un po’ un salame…»: e non mollava né bicchierone né piattino finché non fosse ben certa che li avevo presi a mia volta, con tutt’e due le mani. Potete ben capire che cos’era, da lei, una limonata… dico una vera e propria «spremuta di limone»! Altro che sorbetti! avevo altro in testa, arrossendo, con l’animo ai tegoli (in apparenza) e ai suoni di fuori, dietro al saettare nero dei voli, allo stridìo gioioso delle rondini. (RR I 538-39)

Stavolta il teatro è l’ospitale appartamentino di Adalgisa al quarto piano, dove signorine e amici sono convitati. I capoversi esterni valgono a mostrare come anche questa scena intima e privata sia dominata dal fascino dell’officiante e offerente Adalgisa, e come parentetico sia, anche stavolta, il giocoso interludio di Remigio. E come, infine, la seconda rimemorazione della sua morte non sia, in prima istanza e in termini di pura sintassi narrativa, se non una parentesi nella parentesi. È proprio da questa parenteticità discorsiva che sprigiona l’energia esplosiva e rabbiosamente antifrastica della rievocazione, la quale deflagra in mezzo alla festa e all’allegria.

Ride e ride Adalgisa, ride a crepapancia Remigio strillone e venditore d’angurie; e lieve, sorridente è il registro discorsivo dell’incantato narratore. Ma già nel dire: «E rideva, rideva, povero ragazzo», il sorriso del raccontatore appassisce, e se Remigio seppe poi ridere sempre, anche in faccia agli austriaci e alla Morte, impreca senza più ombra di sorriso la voce narrante nel rievocarne un’altra volta la fine. È un po’ come se la gioiosa e giocosa vitalità di Remigio non potesse più essere rammentata separatamente dalla sua morte; come se appunto l’esperienza umana del tempo consistesse precisamente in questo: nel non poter più separare, nella memoria e nella rimemorante discorsività narrativa, quei due tempi discronici e, nella cronicità degli eventi, separati. Il ridente Remigio vive nella memoria, e nel racconto, a condizione di morire ogni volta, e nella misura in cui ridendo è vissuto ed è morto ridendo.

Anche qui, un semplice «poi» apre alla subitanea prolessi ma, mentre la narrazione racconta prima e dopo quel «poi», lo scarto del registro discorsivo non potrebbe essere più brusco e secco di così. È quasi come se la parola narrativa prendesse di colpo a parlare un’altra lingua: non più quella che è servita a raccontare la gaiezza e la giocondità della vita civile in tempo di pace, ma quella militaresca, interiettiva, figurata e triviale, buona per motteggiare il nemico e per esorcizzare e spregiare, insultandola, la morte in guerra. L’arco d’una breve prolessi separa, nel tempo cronico e nell’anacronia narrativa, la funebre rapina della guerra dagli spensierati incontri della vigilia, ma un vero e proprio abisso linguistico interviene a contrapporli: il linguaggio separa i due mondi e, mentre le rievoca in strettissima contiguità, divarica le storie dell’uno e dell’altro.

E non è tutto. Con uno straordinario contraccolpo semantico retrospettivo, l’ombra lunga di quella troia della Margniffa che becca Remigio sul Podgora si proietta su tutta una serie di segni del ridente capoverso: in primo luogo sulle «labbra rosse bagnate di sugo di cocomero», su quell’«ombra appena sui labbri» e sui «due enormi baffi color cocomero traverso le gote fino agli occhi», come se tutto quel succo di cocomero diventasse d’un tratto sangue; e poi sul tetro «residuo emisfero di quel pallone verde cupo» che Remigio va portando intorno, come fosse la sua testa livida e straziata di morto e fosse quest’ultima a dare un «rimbombo sciocco, di zucca»; e, s’intende, su quelle «fette tricolori di cui nessuno più aveva voglia» che egli mette «all’asta» e che va «sventolando».

Persino le innocue «caramelle in ghiaccio» dell’attacco e i «semini neri» e l’imbrodolare finiscono per suonare minacciosi e lugubri, come fossero proiettili traditori e tutti venissero lordati di sangue. Come se, insomma, per un istante apparisse un ben macabro e cruento banchetto quello che ha luogo nell’ospitale casa dell’Adalgisa. Per un istante una tutt’altra storia rifluisce sui ricordi di giovinezza. Poi la parentesi si richiude, l’esperienza orrorosa del tempo umano si scioglie, e la ridente Adalgisa è di nuovo intenta a porgere una limonata.

Non è avvenuto per caso che la sua memoria abbia per così dire preso il sopravvento sulle annunciate memorie di Adalgisa, nelle quali questi ed altri episodi non avrebbero certamente trovato posto: l’atto di parola del narratore, ristrettosi all’ottica discorsiva più perentoriamente soggettiva («se lo dico potete credermi»), piega anche la narrazione alla sua forma più personale: la rievocazione. Il presente esplicito del discorso è dichiaratamente la specola temporale dalla quale la memoria risale all’indietro i tempi, spalancando la prospettiva che permette di connotarli come fuggiti e trascorsi, come passato. E in un punto che non è più, visto all’indietro, stanno quella serata al Fossati e quel pomeriggio in casa di Adalgisa.

Ma la memoria (e così anche la finta memoria d’un personaggio letterario) è uno strumento mobilissimo, e solo nella lingua trova un veicolo adeguato alla sua incontrollabile mobilità e ai chiaroscuri delle sue emozioni. In quei luoghi del tempo la memoria incontra la Adalgisa-Violetta, eroina e cantante, e la Adalgisa-Ebe, ospite e coppiera. Ma vi incontra anche Remigio. Ed ecco che lascia, inarrestabile, quei teatri domestici per correre in avanti e raggiungere in un istante un altro luogo del tempo e un teatro tragico e luttuoso. Solo la memoria è capace di queste soste e di queste rincorse fulminee su e giù per i tempi; e solo il linguaggio, pur ancorato al presente degli atti di parola, che è un tempo altro e separato, è capace di tenerle dietro.

Una prima congettura è che l’esperienza umana del tempo si esprima attraverso questi raccostamenti repentini e folgoranti e questi urti, anche violenti, fra tempi ed eventi tra loro separati e, nel contempo, attraverso la relazione che il discorso, con il suo presente, instaura tra quei tempi non più presenti e la propria separatezza di asse che genera quei tempi senza appartenervi.

Ma, come s’è visto, il linguaggio non è soltanto capace di tener dietro ai moti della memoria rievocante e narrante; è anche capace di aderire ai colori delle sue scene e al suo trascolorare emotivo. Va da sé che il testo raccosta, insieme e indissolubilmente, gli scherzi di Remigio e la sua morte (ossia un prima e un dopo nel tempo) e i registri discorsivi contrapposti che predicano questa e quelli. Né c’è ragione alcuna per sciogliere ciò che la testualità ha legato. Penso però che meritino una particolare sottolineatura gli effetti lancinanti che la soggettività linguistica è capace di cavare, dinanzi ai quali bisogna ben riconoscere che aveva ragione Benveniste quando diceva che «allorché il pronome io appare in un enunciato […], un’esperienza umana s’instaura ex novo». È un’unica e medesima voce quella che scherza rammentando il «morir tisica» e il «tragico estinguersi» di Violetta-Adalgisa nonché la finta, sospirosa svenevolezza meneghina di Remigio, e quella che di colpo, dimesso ogni scherzo e smarrito ogni piacere per i giochi del linguaggio, rievoca smorta e scolorita il decesso di Remigio su quella maledetta collina. (2) Nella lingua scritta non possono sussistere tratti soprasegmentali né cambi di dinamica vocale e d’intonazione.

E tuttavia, con un effetto di parlato sorprendente, quella voce medesima, contraffatta dalla commozione, appare quasi irriconoscibile. Il fatto è, appunto, che quella voce, proveniente dal presente della sua stabile istanza di discorso, predica quasi simultaneamente tempi e fatti reciprocamente repulsivi, che al contatto bruciano come filamenti percorsi da una extracorrente. E la replica in casa di Adalgisa amplifica ed enfatizza ulteriormente il fenomeno: è ancora un’unica voce a parlare, ma l’istanza narrante letteralmente si sdoppia per un effetto di lingua, come se al giovanotto timido tutto preso nel fascino di Adalgisa e delle limonate (quelle gentilmente porte e quelle impensabili ed interdette) (3) d’un tratto si sostituisse il commilitone dei tanti caduti in guerra, e quest’ultimo non potesse non riparlare d’un tratto una lingua altra e inconciliabile, la lingua d’un altro tempo. Sarà di Adalgisa rimemorante la propria vita che il narratore più avanti dirà: «La sua povera memoria andava andava: verso il tempo, e le immagini che non ritornano. Vi ritrovava, disperatamente, la ragione e il senso del suo sopravvivere. Ogni anima tende a motivare il suo essere: quando il motivo è nell’irrepetibile tempo, ogni anima vive nella memoria» (RR I 548). Ma, almeno nei due esemplari luoghi testuali che abbiamo chiamati a testimoni della soggettiva esperienza umana del tempo, potrebbe dirlo di sé.


Omologo per argomento, e tuttavia totalmente ed istruttivamente diverso, il caso di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Nel romanzo il narratore non si concede (o non gli viene concesso dall’autore, come si preferisce) di venire allo scoperto con una petizione di soggettività linguistica così evidente e personale: il narratore del Pasticciaccio non è mai, neppure di passata, un personaggio che abbia commercio con gli altri personaggi. È un narratore del quale, come sempre in Gadda, è avvertibile la loquela, oltreché la narrazione, ma che tiene il comportamento tipico dei delegati a narrare esterni al mondo che narrano. Le vicende e le esperienze che egli racconta sono esperienze e peripezie altrui. Sono in primo luogo le esperienze investigative e conoscitive del protagonista, il dottor Francesco Ingravallo, «comandato alla mobile: uno dei più giovani e, non si sa perché, invidiati funzionari della sezione investigativa: ubiquo ai casi, onnipresente su gli affari tenebrosi» (RR II 16).

E tocca dunque a don Ciccio rifare l’esperienza fatta dal narratore-personaggio dell’Adalgisa e, sebbene tocchi anche stavolta all’istanza narrante esprimerla, tutto, venuto meno il canale diretto della soggettività, avviene altrimenti. Tocca dunque al commissario recarsi al 219 di via Merulana per un primo sopraluogo e far fronte allo spettacolo crudo di Liliana Balducci assassinata. Egli ha conosciuto, ammirato e vagheggiato quella bella signora elegante e gentile, ma deve ora esaminarne il corpo straziato e immobile nella scompostezza della mala morte.

Il corpo della povera signora giaceva in una posizione infame, supino, con la gonna di lana grigia e una sottogonna bianca buttate all’indietro, fin quasi al petto: come se alcuno avesse voluto scoprire il candore affascinante di quel dessous, o indagarne lo stato di nettezza. Aveva mutande bianche, di maglia a punto gentile, sottilissimo, che terminavano a metà coscia in una delicata orlatura. Tra l’orlatura e le calze, ch’erano in una lieve luce di seta, denudò se stessa la bianchezza estrema della carne, d’un pallore da clorosi: quelle due cosce un po’ aperte, che i due elastici — in un tono di lilla — parevano distinguere in grado, avevano perduto il loro tepido senso, già si adeguavano al gelo: al gelo del sarcofago, e delle taciturne dimore. L’esatto officiare del punto a maglia, per lo sguardo di quei frequentatori di domestiche, modellò inutilmente le stanche proposte d’una voluttà il cui ardore, il cui fremito, pareva essersi appena esalato dalla dolce mollezza del monte, da quella riga, il segno carnale del mistero… quella che Michelangelo (don Ciccio ne rivide la fatica, a San Lorenzo) aveva creduto opportuno di dover omettere. Pignolerie! Lassa perde!
Le giarrettiere tese, ondulate appena agli orli, d’una ondulazione chiara di lattuga: l’elastico di seta lilla, in quel tono che pareva dare un profumo, significava a momenti la frale gentilezza e della donna e del ceto, l’eleganza spenta degli indumenti, degli atti, il secreto modo della sommissione, tramutata ora nella immobilità di un oggetto, o come d’uno sfigurato manichino. Tese, le calze, in una eleganza bionda quasi una nuova pelle, dàtale (sopra il tepore creato) dalla fiaba degli anni nuovi, delle magliatrici blasfeme: le calze incorticavano di quel velo di lor luce il modellato delle gambe, dei meravigliosi ginocchi: delle gambe un po’ divaricate, come ad un invito orribile. Oh, gli occhi! dove, chi guardavano? Il volto!… Oh, era sgraffiata, poverina! Fin sotto un occhio, sur naso!… Oh, quel viso! Com’era stanco, stanco, povera Liliana, quel capo, nel nimbo, che l’avvolgeva, dei capelli, fili tuttavia operosi della carità. Affilato nel pallore, il volto: sfinito, emaciato dalla suzione atroce della Morte.
Un profondo, un terribile taglio rosso le apriva la gola, ferocemente. Aveva preso metà il collo, dal davanti verso destra, cioè verso sinistra, per lei, destra per loro che guardavano: sfrangiato ai due margini come da un reiterarsi dei colpi, lama o punta: un orrore! da nun potesse vede. Palesava come delle filacce rosse, all’interno, tra quella spumiccia nera der sangue, già raggrumato, a momenti; un pasticcio! con delle bollicine rimaste a mezzo. Curiose forme, agli agenti: parevano buchi, al novizio, come dei maccheroncini color rosso, o rosa. «La trachea,» mormorò Ingravallo chinandosi, «la carotide! la iugulare… Dio!»
Er sangue aveva impiastrato tutto er collo, er davanti de la camicetta, una manica: la mano: una spaventevole colatura d’un rosso nero, da Faiti o da Cengio (don Ciccio rammemorò subito, con un lontano pianto nell’anima, povera mamma!). (RR II 58-59)

La lunga citazione sarebbe pleonastica se non servisse a certificare la distanza abissale che divide l’esame autoptico, scrupoloso e professionale ancorché angosciato, che deve esercitarsi sulla presente e cosale corporeità d’un cadavere, e la notazione comparativa che esso sommuove e il muto gemito rammemorativo che da quest’ultima scaturisce. Solo l’ultimo brevissimo capoverso è infatti pertinente al tema che ci occupa. Ingravallo aveva già notato, nella gola squarciata di Liliana, la «spumiccia nera der sangue, già raggrumato, a momenti»; poi il suo sguardo meticoloso segue la traccia di tutto quel sangue che è colato sul collo, sulla camicetta, sulla manica, sulla mano e, più mobile dello sguardo, la sua mente e la sua memoria, altrimenti ed autonomamente investiganti, lo riconoscono e lo rivedono in un altro punto dello spazio e del tempo: non è il sugo di cocomero sul viso di Remigio, ma «una spaventevole colatura d’un rosso nero, da Faiti o da Cengio».

Luoghi d’un tempo che nel Pasticciaccio non esiste altro che nelle ricordanze insospettate e recondite di Ciccio Ingravallo. E la cosa non è finita. È un discorso tanto parentetico che la sua spiegazione, posposta (come se l’agnizione folgorante di Ingravallo sopravanzasse d’un istante il moto stesso della memoria), è racchiusa tra parentesi e la parentesi contiene un ricordo tacito concluso dal singhiozzo d’una interiettiva di due parole, anch’esse solamente pensate. «Povero ragazzo», aveva detto di Remigio il narratore parlante nell’Adalgisa un attimo prima di commemorarne la morte sul Podgora. Qui, Ingravallo non nomina il Faiti e il Cengio: li pensa come luoghi antonomastici di battaglia e carneficina; Ingravallo non dice «povera mamma!»: l’esclamazione muta è un groppo di pensiero in forma di parole. È il narratore a raccontare, non lui a parlare.

Eppure, guardata all’indietro rispetto al presente del racconto rappresentato dall’ispezione in casa e sul corpo di Liliana, è una storia lontana che si rifà repentinamente presente. Perché il rosso nero del sangue sui monti e perché, soprattutto, «povera mamma»? Quale mamma rammemora e compiange Ingravallo? In questo momento, non quella che, «moglie e sposa del papà», gli si era rivelata «dunque» come «la mamma», ancorché malinconicamente virtuale e putativa, e che ora giaceva sgozzata, assassinata. Più probabilmente, e quasi certamente, nel chiuso «dell’anima» e della parentesi, la mamma sua, del figlio e fante don Ciccio e forse di fratelli di lui morti in guerra, ombra riaffiorante dal passato incognito del personaggio(4)

Mimando S. Agostino, potremmo non indebitamente chiederci (e già l’abbiamo fatto) dove si trovi quel «rosso nero, da Faiti o da Cengio», ossia quell’impressione incisa e precisa. E la risposta è univoca: nella fittizia memoria di Ingravallo. (5) Di là risale «come per acqua cupa cosa grave», spinta a riaffiorare da un’energia che le fa varcare il tempo, e di là la ricava la parola onnisciente del narratore. È un inciampo che per un istante annebbia l’ottica investigativa del commissario, ed è un grumo, una sorta di embolo nel filo del racconto impegnato a seguire l’intrigo imperniato sul pasticcio di via Merulana. La narrazione, per registrarlo puntualmente, è costretta a raccostare bruscamente e a tenere nel contempo distinte la «spaventevole colatura», oggettiva e cosale, che lorda Liliana, e quell’impressione, tutta soggettiva e memoriale, che lega quel rosso nero orribile al Faiti e al Cengio: «da» è il nesso linguistico minimo per mezzo del quale la parola narrante traduce in discorso un nesso mentale tacito e fulmineo. Il narratore non è qui un personaggio e non partecipa alla scena ma, mentre può descrivere il cadavere di Liliana come se lo guardasse con Ingravallo, può solo vedere, ma non condividere, il moto assimilante che si produce nella mente del protagonista, e deve oggettivarlo («don Ciccio rammemorò subito») affinché il suo discorso ce lo consegni rinchiuso nello scrigno dell’intimità soggettiva.

Tutto sommato, è nel solco della meditazione agostiniana che l’esperienza del tempo si svolge, ossia nel ritorno del passato, nel suo tornare e farsi presente attraverso le immagini di esso rimaste impresse nell’animo e nella memoria: il riso di Remigio legava in esperienza del tempo la sua vita e la sua morte; il rosso nero del sangue rappreso impiastra in esperienza del tempo l’immagine presente della mamma senza figli, assassinata, e quella lontana della mamma assassinata dalla perdita dei figli caduti nel loro sangue, in battaglia.

è una ben dolorosa e impreveduta esperienza quella che Ingravallo si trova a fare dinanzi alla salma sanguinosa e avvilita di Liliana. La differenza, rispetto all’Adalgisa, consiste nel fatto che là quell’esperienza veniva discorsivamente espressa, con tutta la bruschezza d’una prima persona risentita e quasi rabbiosa, da colui che, nell’atto stesso di narrare una storia, quell’esperienza viveva o riviveva; qui, invece, a viverla è un personaggio e a predicarla è un narratore, una persona terza. Là, in presenza d’una istanza soggettiva di parola, non era stata necessaria alcuna intermediazione: due semplici «poi» erano sufficienti a costituire il relais che, fermo restando il pernio temporale dell’implicito presente linguistico, faceva scoccare l’arco voltaico dall’esperienza fra tempi non-presenti e discosti. Qui il «da» è un segnale di narrazione che oggettiva la soggettività e, ad ottenere il medesimo risultato, concorrono prima indizi vistosi di focalizzazione interna e poi il segnale proposizionale «don Ciccio rammemorò subito, con un lontano pianto nell’anima».

Non si tratta di supporti né fortuiti né lussuosamente opzionali. Non esiste esperienza oggettiva del tempo e, quando un racconto ad impianto discorsivo oggettivante si propone di esprimere quell’esperienza umana squisitamente soggettiva, ha bisogno di mediatori di soggettività come questi, i quali surroghino la soggettività discorsiva. Uno degli strumenti a disposizione del narratore estraneo è quello di ridare, per così dire, la parola al personaggio per mezzo del discorso diretto riportato (ma questo strumento sarebbe stato disadatto alla specifica situazione narrativa del Pasticciaccio), un altro quello di ricorrere appunto a veicoli semantici di soggettività come il ricordare, il rammemorare, il ripensare, il rivedere con gli occhi della mente. Nella pagina scritta, le differenze linguistico-formali sono palpabili e vistose, ma l’umanizzazione del tempo e l’esperienza intensa e drammatica che ne scaturisce sono, nella fattispecie, identiche presso l’anonimo narratore-personaggio dell’Adalgisa e presso l’ombroso Ingravallo: sono tutt’al più altrimenti bilanciate: il risentimento rabbioso dell’uno è mosso dalla rievocazione del fraterno amico-commilitone caduto, il lontano pianto dell’altro dalla compassionevole immagine materna.

In termini narratologici genettiani, il ricordo del tempo di guerra che si riaffaccia alla mente di Ingravallo si configura come una analessi e, più propriamente come una analessi esterna, in quanto riporta ad un antecedente interamente estraneo al periodo di tempo coperto dal racconto del Pasticciaccio romano. Ma ciò che più conta, di quest’anacronia, è la funzione. Certo, essa ricuce tempi diversi e spalanca una finestra su un puntuale passato, ma, sebbene rievochi un trascorso senza il quale l’evento rammemorativo non potrebbe aver luogo, non è adibita a sanare lacune ricostruendo degli antefatti, né a fornire antecedenti necessari alla comprensione piena della storia principale, e tutto sommato neppure (se non in piccola misura, e per ricaduta) ad arricchire la caratterizzazione d’un personaggio protagonista: essa è invece finalizzata proprio e precisamente a rendere possibile l’espressione di quell’esperienza specifica e tutta umana che è l’esperienza del tempo. La quale è per sua natura anacronica.

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Note

1. P. Ricœur, Tempo e racconto, trad. di G. Grampa (Milano: Jaca Books, 1986), I, 91.

2. Per misurare la desolata atonia di questa rimembranza sulla tastiera stessa dei differenti registri locutorî gaddiani, si tenga presente che in uno scritto del 1929, confluito poi ne I viaggi la morte, Gadda aveva scritto: «Capisco anch’io che è difficile mettere in musica da mandolino gli assalti del Cengio e del Podgora» (Le belle lettere, SGF I 484); e che più tardi, in Eros e Priapo, scherzerà amaro e sarcastico (e tuttavia scherzerà) nei termini seguenti sui non troppo rimpianti fidanzati partiti per la guerra: «e te tu vedi famiglie bone e regazze madonne lasciar che si parta al su’ destino il tanto pazientemente uccellato Tumistufi, come quel che hodie c’è, la dimane e’ non c’è, che se l’è sorbettato in Podgora la Gran Megera» (SGF II 293).

3. Alludo, s’intende, ad una delle note a piè di pagina di Claudio disimpara a vivere, che contiene un rinvio proprio a questo racconto: «Intendi: limonate eventuali, limonate probabili: presagite nell’anima. È limonata mistura del succo d’uno o di più limoni spremuti, con acqua diaccia e zuccaro, da cavarti l’arsura. Vedi altresì più avanti, al racconto n. 10, le limonate dell’Adalgisa, “dette oggi spremute di limone”. Guai a te daddovero, dioneguardi, parlar limonate oggi (1943) con signora in salotto! perocché il vieta l’eleganza del giorno. / E aggiungi che in accezione gergale e volgaruccia milanese e lombarda limonata è flirt, limonare è flirtare, detto de’ duo sessi» (Adalgisa, RRI 352).

4. Un certo tipo di gaddisti decritterebbe altrimenti l’improvviso soprassalto di Ingravallo. Sollecitati anche dal fatto che nel fittizio 1927 del Pasticciaccio Ingravallo ha precisamente l’età che Gadda aveva nel 1927, correrebbero col pensiero, a loro volta attraversando in un attimo spazio e tempo e separate circostanze, al marchesino Gonzalo Pirobutirro e alla povera signora, come se il molisano Ingravallo fosse un don Francisco che, pervenuto a Lukones da una sua lontana Patagonia, fosse stato, incognito, fra gli astanti inorriditi dinanzi alla straziata señora; come se, infuturandosi la sua memoria prospettiva in una rammemorazione dell’avvenire, antivedesse quella che sarebbe stata colpita a morte, più che settantenne, nella villa maradagalese. E di qui trapasserebbero alla mamma del fante Carlo Emilio e del bell’aviatore morto, il quale non era caduto né sul Faiti né sul Cengio, e neppure, come Remigio, sul Podgora, ma si chiamava Enrico e di Remigio era dunque un fratello per isovocalismo. Correrebbero ad ombre che ritornano da un passato già scritto, e però incompiuto, il quale incombe dal futuro d’un romanzo a venire. Se vogliono per questa via sostenere che attraverso tutti questi travestimenti e queste cifrature passa l’umanissima esperienza del tempo di Carlo Emilio Gadda, nessuna obiezione. Ma è questa che vogliamo studiare, da biografi e per tracce, oppure, da lettori di testi, quella compiutamente espressa nella scrittura letteraria? Perché, piaccia o no, sono due cose diverse.

5. Si veda, per chiarimento, Ricœur 1986: I, 26-27.

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-02-7

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