Gadda postmoderno

Alessio Ceccherelli

Paradossalmente, Gadda sembra giungere al post- del postmoderno in maniera temporale, evolutiva, a dispetto di quanto si dice – anche giustamente – sulla inadeguatezza di questo prefisso a spiegare il rapporto tra la postmodernità e ciò che la precede. La dialettica vecchio/nuovo, la logica lineare e progressiva (connotati della modernità) non sembrano avere più valore conoscitivo né programmatico: la nuova sensibilità postmoderna tende alla compresenza, alla sovrapponibilità delle epoche storiche, e a una conseguente pluralità linguistica e stilistica. Gadda rivive in sé lo svolgersi di questa crisi, fino a raggiungere posizioni che a volte coincidono, ma più spesso somigliano soltanto a quelle tipiche della postmodernità. Le sue motivazioni intime rimangono moderne: restano cioè impensabili senza il pensiero filosofico moderno.

Certamente, in Gadda, la cifra linguistica e stilistica è precisamente quella della pluralità, della differenziazione (si pensi, tra le tante, alle rivendicazioni antipuriste de La battaglia dei topi e delle rane, SGF I 1162-175). La convivenza di registri linguistici, di dialetti, di espressioni gergali e di espressioni auliche; il contaminarsi continuo del lirismo col grottesco: sono i primi elementi che saltano all’occhio nel leggere i suoi romanzi. Per non parlare del citazionismo (altro termine chiave del postmoderno). Ma c’è una differenza enorme tra i tecnicismi e le citazioni dell’ingegnere e quelle – mettiamo caso – di Umberto Eco nel Nome della rosa, romanzo da molti considerato esemplare della postmodernità. Non appare così leggero e ironico il rapporto che Gadda stabilisce col passato e con la tradizione, neanche nel Pasticciaccio, dove la socraticità di Ingravallo svela un processo doloroso di acquisizione dell’atteggiamento ironico. Gadda non rivisita gli stili del passato, ma li fa propri. Così, la contaminazione di «napolitano, molisano, e italiano» (RR II 17), e poi di veneto, greco e – ovviamente – romanesco che troviamo nel romanzo non sta a significare un puro gioco di idiomi, libero dalla razionalità filologica del moderno, ma un’ennesima manifestazione della complessità e irrappresentabilità del reale. Jameson attribuisce anche al postmoderno quest’ultima caratteristica, ma la lega a concetti quali l’annullamento della distanza critica, la superficialità, la frammentarietà, lo schizofrenismo, termini che (eccezion fatta, in parte, per la frammentarietà) non si addicono certo a un lucidissimo «indagatore dei fatti, o delle anime» (RR II 65) come Gadda.

Un discorso analogo, di somiglianza cioè definitoria e descrittiva e insieme di distanza nelle motivazioni, vale anche per le altre parole d’ordine del postmoderno. Termini come molteplicità, contraddittorietà, ambivalenza e, come detto, frammentarietà sono senza dubbio adattabili all’opera e alla visione gaddiana del mondo: non dimentichiamo che Calvino apre la sua lezione americana sulla Molteplicità proprio citando il Pasticciaccio. Ma essi non significano per Gadda, come spesso nella postmodernità, la liberazione dalla razionalità irriducibile del pensiero moderno; essi sono, ancora una volta, acquisizione dolorosa di una percezione per niente semplice delle cose.

Del resto, da parte di Calvino – sebbene non sia questo il luogo per un raffronto più analitico – Gadda è stato fatto oggetto di un’acquisizione in un certo senso posticcia, o quanto meno epidermica; acquisizione, in questo, precisamente postmoderna, poiché decontestualizza per rifunzionalizzare e per risignificare secondo i propri argomenti. La famosa citazione gaddiana in apertura della quinta lezione americana dà il via a una riflessione che punta sull’enciclopedismo e sulla proliferazione digressiva dei dettagli, caratteri senz’altro appartenenti alla scrittura e alla filosofia dell’ingegnere, ma che ne toccano solo la superficie senza cercarne i motivi. Stilisticamente, è indubbio che ci si trova di fronte a qualcosa di apparentabile alla tendenza postmoderna; ma, invertendo un giudizio che Ceserani dà di Calvino in Raccontare il postmoderno, si potrebbe tutt’al più dire che Gadda «è postmoderno nello stile e moderno nei temi e nei procedimenti utilizzati».

La riflessione sulla postmodernità gaddiana diventa molto interessante, e problematica, se si passa a discutere del tipo di logica, compositiva e filosofica, adottata da Gadda. Certo non si tratta di logica lineare. In una pagina memorabile egli ci parla di «una molteplicità di causali convergenti» (RR II 16), avversando la «categoria di causa» tipica del pensiero moderno. Anche qui, sembra quasi di leggere un’anticipazione della rivalutazione che McLuhan farà delle altre tre cause aristoteliche (formale, materiale e finale) oltre a quella efficiente, preponderante – a detta dello studioso canadese – nel metodo scientifico moderno, da Galileo in avanti. Le quattro cause vengono poi messe in relazione con le quattro domande relative all’introduzione di un nuovo medium: cosa estende? cosa diminuisce? cosa recupera? cosa rende obsoleto? In questo, l’impostazione filosofica mcluhaniana rivendica – oltre a una forma di evoluzionismo che sfiora il determinismo – una maggiore complessità di analisi, che non si limita alla linearità della causa-effetto, ma che amplia il suo raggio d’azione senza negare le discontinuità. Lo scrittore lombardo, che può essere accostato a questa impostazione, addita però come esempi della «categoria di causa» moderna, oltre a Kant, proprio Aristotele; e così, la sua, sembra una riconsiderazione anzitutto quantitativa, sebbene non sia da escludere che egli tenesse conto già a priori di tutte e quattro le cause. Anche sul piano compositivo, poi, la sua è una linearità che deflagra e si complica su più piani narrativi e in più ambiti: tanta è la stratificazione linguistica, stilistica e tanti sono i rimandi culturali e i richiami delle sue opere, da dare l’impressione dell’ipertestualità e dell’iperromanzo. In questo senso, per lo scrivere gaddiano, che si avvolge continuamente su se stesso senza poter trovare la fine, si può parlare di struttura labirintica, ma non di quella logica combinatoria o spiraliforme tipica della concezione postmoderna della temporalità, né lineare né progressiva. In Gadda, l’impossibilità del finale ha altre ragioni, assolutamente non metaletterarie come sembrano già essere in parte quelle di Borges e di Calvino (e come sono quelle dei loro epigoni): il legame col reale resta in lui ancora saldo ed è nel reale che la sua arte cerca e trova una giustificazione, sebbene fallisca nell’impresa di ordinare, spiegare, porre la parola fine.

Oltre a quella del labirinto, comunque, anche altre immagini tipicamente postmoderne sembrano adattarsi all’opera dell’ingegnere: una è quella del rizoma, lanciata da Deleuze e Guattari, ovvero di un fascio di ramificazioni, radici, innesti privi di unità e di gerarchia; l’altra è quella della rete senza centro. Entrambe le figurazioni si prestano a spiegare abbastanza bene la pulsione digressiva di Gadda, e rappresentano, in maniera apparentemente esatta, la fisicità, ad esempio, della Roma del Pasticciaccio, che può anche leggersi come un irrefrenabile, lacerante decentramento (altra parola chiave) verso la campagna romana. Non si può negare che la struttura dei testi gaddiani sia in generale rizomatica: l’albero dei suoi romanzi e racconti si sviluppa ben poco in altezza, se raffrontato con la loro estensione orizzontale, la lunghezza e il numero, e l’importanza, dei loro rami e delle loro radici. E il discorso vale anche per il rapporto esistente tra i singoli testi. L’opus gaddiano è, in questo, un vero e proprio ipertesto, una rete vasta, fitta di maglie e legami che non iniziano e non finiscono in nessun luogo preciso. Un esempio fra tanti: la Meditazione milanese si pone sin dal principio come trattato filosofico, ma si perde ben presto nei mille rivoli delle idiosincrasie gaddiane, e finisce col riversarsi nella presentazione filosofica di Ingravallo, proprio nelle prime pagine del Pasticciaccio; il quale, a sua volta, deve molte delle sue immagini più acrimoniose al contemporaneo libello antimussoliniano Eros e Priapo, saggio psicanalitico che di psicanalitico ha soltanto l’impostazione e non certo l’esposizione, gonfia e debordante come e più del romanzo, e come tutto ciò che è esattamente gaddiano. Proprio per questo motivo, sebbene adeguate, le immagini del rizoma e della rete senza centro rischiano di ridursi a semplici ridefinizioni di qualcosa che era già stato definito.

Nel testo, poi, e nella narrazione, un centro resiste. La casa della Cognizione è il centro, aggredito e oltraggiato, da cui don Gonzalo osserva la campagna circostante. Il palazzo dei pescecani è il centro, spaziale e simbolico, oltre che narrativo, del romanzo, nonostante si tratti di un centro ormai morto, arido, dilacerato anch’esso dalla vitalità di ciò che sta fuori. E un centro, soprattutto, si trova nella vita di Gadda, cosa da non trascurare per uno scrittore così ostinatamente autobiografico: la madre, e la morte del fratello, sono il sole oscuro del suo universo narrativo.

Del resto, in Gadda, non c’è alcuna rinuncia al principio di identità: per lui, e per i suoi personaggi, non si tratta di una soggettività debole (e non si può davvero parlare neanche di pensiero debole, per dirla alla Vattimo). Sebbene vituperato, sebbene ormai impossibile da dire, l’io gaddiano non è ancora annegato nel flusso del postmoderno, non si è ancora del tutto frantumato e disperso. Certo, non ha più speranze di controllo del reale, ma resta un io dall’identità tutto sommato forte, centrale, con un passato, una tradizione, una sofferenza ben definite; un’identità rassegnata, ironicamente e dolorosamente, al caos: parola che non spiega il postmoderno, né il moderno, ma la realtà tout court.

Gadda, insomma, dimostra di avere molte cose in comune con le categorie concettuali ed estetiche della postmodernità, ma raggiunge quelle posizioni direttamente dalla crisi epistemologica e paradigmatica del moderno: non come contrapposizione o rivolta, ma per un faticosissimo adeguamento al reale.

Università di Urbino

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-08-6

© 2003-2024 by Alessio Ceccherelli & EJGS. First published in EJGS (EJGS 3/2003).
artwork © 2003-2024 by G. & F. Pedriali.
framed image: after a detail from Henry Fuseli, The Artist in Despair over the Magnitude of Antique Ruins, 1778-80, Kunsthaus, Zürich.

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