Pasolini on Gadda
Le novelle dal Ducato in fiamme
Il Pasticciaccio
Le novelle dal Ducato in fiamme
Non ci sembra sproporzionato tener presente dietro il primo piano di questo grandissimo scrittore ch’è Gadda, l’intero paesaggio storico della prosa italiana. I problemi che la sua lingua propone sulla pagina non vi si esauriscono: tendono a divenire generali. Non si può pensare a Gadda senza pensare a tutto il Novecento letterario italiano, né a questo senza il particolare Ottocento che lo contiene in potenza. Già molti critici si sono deliziati al gran banchetto gaddiano: e l’hanno manifestato come si doveva: tanto che le principali osservazioni stilistiche che si potevano fare son già state fatte: né c’è alcuna bibliografia (se si eccettui forse quella d’un Cecchi) che ne vanti di più sottili ed espanse. Perciò il lettore non si scandalizzi se cerchiamo piuttosto di collocare che di analizzare questo poderoso corpus di racconti, Novelle dal Ducato in fiamme (pubblicate da Vallecchi, e premiate a Viareggio): con secchezza di schema, purtroppo; con poco maggiore respiro che se si trattasse d’una scheda. Schiaffini e Contini, se a loro non spiace, faventibus.
Gadda al tempo stesso appartiene pienamente e appartiene poco al nostro Novecento: forse il suo curriculum potrebbe fornirne le spiegazioni psicologiche e le determinanti circostanze: ma è un fatto che ci sono delle differenze sostanziali tra la sua «prosa d’arte» e quella dei suoi contemporanei. Non c’è in lui intanto alcun sapore di dannunzianesimo, se proprio vogliamo riferirci all’origine del secolo, nel crepuscolo in cui si mischiava con l’altro: e quindi non c’è il barocco nell’accezione corrente che la parola ha riacquisito dopo D’Annunzio.
Il barocco di Gadda è un barocco realistico: categoria di stile anteriore (anzi!) al Seicento: si trova nella costante della letteratura italiana che il Contini definisce plurilinguismo, in antitesi all’unilinguismo petrarchesco, cioè quella lingua assoluta, e quasi astorica nella sua suprema purezza, che si è sempre posta come modulo della letteratura italiana-fiorentina. E dire che la letteratura italiana (non fiorentina) era cominciata proprio sotto il segno del pastiche. Il pastiche gaddiano, proprio: letterario di origine, com’è in Gadda, non metafisico (quello del gran modulo realistico ch’è la Divina Commedia).
Dai rimatori italo-provenzali, franco-veneti, siciliani, al Trecento realistico, al Quattrocento macaronico, al Cinquecento sensuale ecc. fino al Romanticismo, compresi i poemetti scientifici (tipici per il nostro caso) del Settecento… Il lettore non si atterrisca alla congerie: e si aggrappi tranquillamente allo schema. E vedrà come, giunti alle soglie della nostra epoca, la grande costante petrarchesca appaia incrinata ed esausta: come il mondo sociale e politico in cui aveva potuto esistere. Mentre l’altra corrente, la dantesca, appare potenzialmente vivificata e possibilitata a nuovi sviluppi. Mentre il petrarchismo linguistico si perpetuava nelle scuole, nelle accademie, privilegio delle classi conservatrici e dominanti, il dantismo linguistico lussureggiava nella vita letteraria militante, s’imbeveva di risorgimento, di liberalismo, di socialismo… Forse per il suo immanente democraticismo comunale, per il suo continuamente violento senso religioso e moralistico… Il ritorno teorico del Manzoni al centro fiorentino, è, appunto, teorico: in effetti il Manzoni resta lombardo, periferico e moralista. Proprio come Verga (con adattamento, si intende, degli attributi alla diversa latitudine): e col Verga il realismo linguistico da interessi religiosi o morali, si articola da una parte al realismo di origine scientifica, dall’altra trova ragione di essere in un profondo sommovimento lirico: nella «scoperta del monologo interiore», come dice il Contini. Ed è da notarsi ancora – su un piano più basso, strumentale – come tale realismo contribuisca alla creazione di una koiné letterario-giornalistica, in cui l’Italia fine-Ottocento principio-Novecento esprime la sua unità politica e, ancora dimessamente, culturale.
Ora tutta questa massa d’esperienza come giunge al nostro Novecento letterario, e, nella specie, a Gadda? Ma – sempre angolando su Gadda – sceveriamo, schematizziamo ancora: del patrimonio ottocentesco possono eminentemente valere per Gadda, a determinarlo dall’esterno, i seguenti dati: 1) Una componente manzoniana, originantesi dal Manzoni non teorico, ma (come dice lo Schiaffini) «romantico in quanto il sistema romantico racchiudeva in sé una tendenza cristiana e democratica»: il Manzoni lombardo, insomma, tra i due poli del campanile e della nazione. 2) Una componente dialettale, in cui giganteggiano il Porta e il Belli, ironici, non umoristi, espressionisti, non cromatici. 3) Una componente «scapigliata», la cui «funzione Gadda» è stata stupendamente indicata dal Contini nella sua recente antologia della scapigliatura piemontese. 4) Una componente veristica (a fondo lirico) di procedenza verghiana.
La presenza di tali componenti resta accertata, oltre che dalla loro felice tonificazione, anche da una patina leggermente putrida che esse lasciano sulla pagina: della prima si deposita in Gadda un certo conformismo sia in senso provinciale che nazionale (sembrerebbe assurdo: ma non lo è, se si pensa all’enorme timidezza di questo grosso anarchico buono come un ragazzo) e ne restano tracce, per esempio, nella figura del capitano (autobiografica) del racconto Socer generque. Della seconda, dialettale, un certo sapore, anche se spesso esilarante, di chiusura municipale. Della terza, scapigliata, un eccesso di psicologismo patologico, clinico. Della quarta, veristica, una non celata crudezza di compiacimenti per il linguaggio e l’atteggiamento scientifico: uno spudorato odore di laboratorio.
Ora tutte queste componenti esterne (Gadda è nato sessant’anni fa) raggiungono Gadda nel cuore del Novecento: passano cioè attraverso un filtro che ne trasforma la sostanza. C’è di mezzo il decadimento di tutti i miti ottocenteschi e moderni, e la crisi della nostra epoca, ossia della grande borghesia che di quei miti è stata la produttrice. Quelle componenti stilistiche arrivano quindi in Gadda svuotate di contenuto. Non resta che la loro forza, la loro violenza espressiva: a sé, essendosi annichilite in essa le ragioni dell’espressione. Non c’è più fede in nulla se non un superstite attaccamento a un’indifferenziata e pur sempre operante passione dell’individuo, una specie di superuomo senza volontà di potenza. E si badi che in fondo le ragioni polemiche anti-borghesi (quelle vociane) in Gadda si sono smontate: e così il gusto rondiano della letteratura, come estrema ed elegante salvezza. Gadda si trova ciecamente solo di fronte a un mondo ciecamente solo: spinti l’uno contro l’altro, a urtarsi, con ripercussioni di dolore nevrotico, cosmico, da puri impulsi empirico-irrazionali.
Ma è chiaro che la potenza espressiva di Gadda serve a ricreare un mondo destituito di possibilità di razionalizzazione, se l’idealismo e Croce, per Gadda, non sono esistiti; se ogni finalismo, sia religioso che sociale, può essere pura constatazione, fenomeno del mondo circostante, non misura interiore del mondo: trovano cioè in questo scrittore una sorta di pausa terribile, quasi come in un membro staccato dalla storia, o vivente la storia di una parte dell’umanità (la nostra, la borghese) in via di superamento.
Collocata dunque in un corso storico – nella specie la storia della prosa italiana – questa scrittura, a cui tendevano insieme la scapigliatura e il verismo ottocentesco come prodotti di una comune violenza linguistica, potrebbe definirsi nella formula «espressionismo». E un esame interno della prosa gaddiana, porterebbe alla stessa soluzione critica.
Riducendola allo schema ecco, di questa prosa, le componenti essenziali. In ordine psicologico: 1) Una fissazione narcissica implicante, oltre la naturale deformazione del rapporto gnoseologico con la realtà, una nostalgia (non crepuscolare) per l’epoca in cui tale fissazione s’è avuta e una incoercibile simpatia per le figure dei «ventenni» (sia appena dirozzate, come gli spesso ritornanti «alpini», sia vividissime, come il protagonista giovane di San Giorgio in casa Brocchi). 2) Una reazione patologica ai contatti col mondo esterno: il «tono» espressivo di Gadda essendo un misto di rabbia e di pietà, di mitezza e di livore, con cui si adatta come in un calvario alla società della quale, insieme, è reietto e transfuga volontario, quasi non sapesse distinguere nel suo cieco sentimento verso di essa, furia polemica e rimpianto, rancore e generosa sfottitura. Il suo stesso antifascismo (in Socer generque e passim) si direbbe dovuto al fatto che i fascisti urtavano particolarmente i nervi: e insomma l’unico contenuto della sua violenza espressiva è un indifferenziato stato di sommovimento psicologico e quindi lirico, ma in un senso straboccante del termine, il lirismo della «commedia»…
In ordine stilistico: 1) La contaminatio di linguaggi (su cui non conta insistere, tante sono le osservazioni ormai fatte al proposito, e volgarizzate). 2) La furia analitica, con continuo, irruente apporto di excursus (mirabilissimi).
In merito al primo di questi dati vorremmo però sottolineare quelli che sono i termini fondamentali e più drammatici del «pasticciaccio» gaddiano: ossia il linguaggio letterario, strabocchevole di terminologie colte (che è la massa più imponente di questa scrittura), e il linguaggio veristico, vivente soprattutto nel dialogo, assai scarso e quasi sempre «citato», con implicita colorazione dialettale.
Mentre dunque in Verga era idealmente il dialogo (ossia la vita oggettivamente vista e ascoltata nella sua realtà) a produrre la complicazione stupenda del testo narrativo, vibrandovi e sommovendolo liricamente col contrasto lingua parlata-lingua letteraria, in Gadda è invece il testo narrativo che produce il dialogo, come un corollario, un massimo di violenza linguistica, un supremo sberleffo: un estremo sguardo alla vita nella sua beata, irraggiungibile realtà. Sì che ci sarebbe da scrivere un intero, grosso capitolo di storia della lingua letteraria, partendo dall’interiezione verghiana, già a lungo studiata dal Russo, «Santo diavolone!», per giungere al gaddiano «Vacca miseria!» gridato dal cascarino che s’imbatte contro il formidabile seno della Jole.
Nella storia della nostra prosa, in un periodo in cui questa, dopo essere stata per secoli diacronica alla poesia – quasi per reazione alla propria strumentalità, trovata nella pratica dell’unità nazionale borghese –, si mescola alla poesia nella «prosa d’arte», Gadda non poteva sottrarsi all’influsso di tale operazione: ma, come abbiamo visto, la compie in un modo sostanzialmente diverso dai suoi contemporanei. Pur rovesciando il rapporto per definizione realistico, egli corona nel Novecento il realismo verghiano; dà respiro «nazionale» al libellismo filologico e scapigliato, prodotto un po’ provinciale del romanticismo; e attua in concreto, per mezzo del suo portentoso macchinario linguistico, la sua «ipertassi» (se possiamo, per simpatia, coniare questo nuovo vocabolo), le teorie dell’Ascoli in polemica col Manzoni teorico. Visto così, un po’ forestiero al giro linguistico del suo tempo, in una più assoluta gerarchia storica, Gadda può dunque apparire un autentico «classico»: tanto che di certi suoi pezzi da antologia si potrebbe dire, proprio con una frase – che lo Schiaffini citandola chiama stupenda – inventata dall’Ascoli per il Manzoni, che sono stati scritti «con l’infinita potenza di una mano che non pare avere nervi».
1954
Il Pasticciaccio
Per nessun libro come per questo di Gadda (Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Garzanti, 1957), appare lecita una analisi ispirata al metodo stilistico spitzeriano: sembrerebbe, anzi, questo libro, prestarsi per un critico stilistico a orge d’analisi, da perdercisi come un topo nel formaggio. Lo Spitzer chiama «clic» – con parola onomatopeico-vivace – il momento della lettura in cui, in presenza di un particolare stilistico anche minimo, avviene qualcosa dentro il lettore per cui, quel particolare, assume intuitivamente un valore paradigmatico, riassume in sè tutta l’opera. Sicché l’analisi di quel particolare porta alla comprensione generale dell’opera, dell’autore, o addirittura della cultura dell’autore e quindi del suo tempo.
Senonché, leggendo il Pasticciaccio, di clic il lettore se ne sente scoppiettare dentro una intera serie, e, in una stessa pagina, su piani diversi: una sparatoria di clic che, contraddicendosi rischiano di fare tutti cilecca.
Prendiamo ad esempio la serie di clic che esplodono dentro lungo la componente dialettale che è la più appariscente. Troveremo:
1) Una serie di tipi d’uso dialettale di specie verghiana: implicanti cioè una regressione dell’autore nell’ambiente descritto, fino ad assumerne il più intimo spirito linguistico (siciliano nei Malavoglia, romanesco qui), mimetizzandolo incessantemente, fino a fare di questa seconda natura linguistica una natura primaria, con la conseguente contaminazione. (Ma, notiamolo subito, tale operazione era in Verga in funzione oggettiva. Qui lo è allo stesso modo?)
2) Una serie di tipi d’uso dialettale di specie belliana: implicanti cioè la regressione dell’autore in un suo personaggio, parlante in natura, e quindi interamente dialettale, con una contaminazione della sua natura vernacola-particolaristica, ascendente dal basso, con quella, convenzionalmente fiorentina, dell’autore. Alcuni pezzi potrebbero benissimo venir tradotti in una serie di sonetti belliani: ma i nove decimi e più del romanzo ne resterebbero fuori.
3) Una serie di tipi d’uso dialettale implicanti quell’operazione che si chiama «discorso libero indiretto», quasi che il narratore non fosse lui, il colto Gadda, ma un suo rozzo personaggio, monologante, attraverso la registrazione gaddiana. In tal caso, però, chi sarebbe tale narratore? L’Ingravallo? Non è possibile, poiché a questo contraddicono le contemporanee serie di tipi di lingua coltissima, tecnica, lirica: per non parlare degli inserti in milanese!
4) Una serie di tipi d’uso dialettale puramente letterario, esornativo, di gusto tra baroccheggiante e macaronico: in tal caso le battute dialettali si fanno puro estro, ghirigoro, sberleffo: con valore lirico, inserendosi così in un’altra serie stilistica, e conservando, della serie dialettale, una funzione minore che potremmo definire del «rifare il verso al parlante», quasi per inerzia, o capriccio, o rabbia.
Come si vede, questi quattro diversi modi di usare il dialetto si contraddicono fra di loro, e uno «stilema» preso da uno di essi non potrebbe mai rappresentare, in sintesi, per fulgurazione, l’opera intera.
Lo stesso accade (e qui dobbiamo per forza maggiore riassumerci, concedendo al lettore ogni beneficio d’inventario) se anzichè seguire la linea dialettale, seguiamo la linea sintattica, anch’essa, del resto, assai appariscente. Sarebbe infatti difficile stabilire se la sintassi di Gadda sia ipotattica (cioè complessa, rotonda) o paratattica, (cioe semplice, breve): vi si trovano ambedue i tipi. Spesso un periodone enorme (mai però simmetrico!) è seguito da un periodetto cortissimo, come dopo una bordata di cannoni, una schioppettata. Occorrerebbe istituire un nuovo termine, per Gadda, per la sua perciò mostruosa macchina sintattica: e chiamiamola pure ipertassi (come altrove abbiamo proposto): ma il clic a che punto scatta di questo coacervo – rigorosissimo – di contraddizioni?
Bisognerà dunque rassegnarsi ad abbandonare l’analisi stilistica nel suo momento più tipico e valido, cioè l’analisi del particolare: e vedere se lo scatto conoscitivo avviene in noi davanti a un brano intero dell’opera: davanti a un gruppo di pagine, cioè, anzichè davanti a uno stilema o a un sintagma. Questo richiede una certa astrazione, una certa genericità, specie in una nota come questa. Ma il lettore pensi per esempio alla pagina del romanzo in cui il prete parla delle varie figliocce dell’assassinata: o alla pagina in cui i due tutori dell’ordine si recano dalla Zamira: ne avrà chiara in testa un’idea di quello che è il modo di raccontare di Gadda.
Per chiarire tale idea, potremmo, motu proprio, porci davanti agli occhi un modello ideale, un paradigma del modo di raccontare in assoluto: e prendere come esempio l’episodio manzoniano, al nostro fine perfetto, della fuga di Renzo fino all’Adda.
Il lettore ricorderà come in tutto questo episodio il tempo narrativo e la scelta logica – realistica, ma non naturalistica, degli avvenimenti e dei particolari – coincidano sempre perfettamente: naturalmente la sede dove tale coincidenza avviene è la sintassi, e, per eccellenza la serie dei predicati verbali: che è una serie di perfetti storici e di perfetti logici (Renzo s’incamminò… vide… ecc. ecc.), in cui la voce del narrante si spiega in tutta la sua luce, certa di cogliere, nella sua costituzione grammaticale, e quindi nella sua ideologia borghese-democratica e nella sua pietà cristiana, il reale.
La rappresentazione dell’accadere degli avvenimenti, ossia il ritmo narrativo, di Gadda, non si regge mai su un simile seguito di pilastri di perfetti storici e di perfetti logici.
L’avvenimento viene descritto nel suo accadere: 1) o in una sorta di ideale presente storico, che è un po’ la maniaca ricostruzione proustiana, lo sprofondamento ossessionato nel particolare, elaborato in mille superfici, seguito in mille canaletti secondari, capillari: per definizione, dunque, interrotto, tenuto sotto osservazione, narcotizzato, sezionato (si veda l’interrogatorio della Ines); 2) o in una specie di sintesi enunciativa à rebours – alla fine di un complicato excursus, magari estraneo all’avvenimento stesso – che lo sbrighi rapidamente e lo levi d’attorno, concedendo all’autore di passare ad altro excursus, ad altra fuga; 3) 0, infine, in quella che è la più tipica operazione narrativa gaddiana: basata tutta sul tempo piucherfetto. Ossia: quasi sempre, per fuggire all’impegno dei tempi logici e storici, il Gadda finge di dare il suo referto in un momento (che potremmo chiamare presente relativo), quando già le conseguenze dell’azione sono avvenute, e non c’è più nulla da fare, e, da questo punto di vista a suo modo tranquillizzante, egli ripassa in scorcio tutti gli avvenimenti particolari che hanno contribuito al risultato finale, quasi membri staccati di una unità perduta perché affondata nel tempo, e nel tempo affiorante. Questi scorci narrativi introdotti da un piucheperfetto tendono dunque a livellare le circostanze marginali e le circostanze essenziali, ponendo tutto su uno stesso piano, in cui ciò che conta è la loro evidenza o violenza fisica nel riaffiorare nel tempo (si veda l’episodio dei due fratelli Branca a casa della Zamira e poi al casello).
La prima cosa che dunque risulta dall’esame del Pasticciaccio è che di immediata e primaria importanza sono la sua lingua, la sua tecnica, il suo stile: in altre parole, ciò che anzitutto e soprattutto importa nel Pasticciaccio è la figura del narratore.
Questa figura – per eccellenza contemplante e oggettivante – è qui invece altamente drammatica. È vero, egli non pronucia mai la parola io, quasi secondo una sopravvivenza di norma naturalistica e di buon comportamento sociale: questo io non detto e narrante, non è mai il protagonista di una vicenda di compiacimento aprioristicamente lirico, «anima bella»; ma al contrario è protagonista di una vicenda di dolore, di furore, di sfiducia in se stesso.
La drammaticità di tale narratore – concomitante ma infine prevalente su quella dei personaggi, quale si configura dall’analisi stilistica che abbiamo qui accennato – consiste nell’urto violentissimo tra una realtà oggettiva (non si può immaginare nulla di più oggettivo di un romanzo poliziesco d’ambiente, com’è questo nello schema) e una realtà soggettiva (il narratore) incompatibili ideologicamente e stilisticamente tra loro.
Tale urto dell’io contro il mondo avviene intanto, concretamente, contro mille dati particolari: dall’esame stilistico della componente dialettale ci risulta infatti come l’Italia, e nella fattispecie Roma, si presentino a Gadda come una Babele, un coacervo di tre strati linguistici, che rappresentano tre culture a diversi livelli: il linguaggio letterario (cultura europea della poesia d’avanguardia), la koinè (cultura della piccola borghesia prima fascista, poi democristiana), dialetto (cultura delle classi operaie, che qui sono meridionali, e quindi di tipo sottoproletario).
Ma a parte questi urti, diciamo, particolari, c’è un urto totale, assoluto, che risulta, come abbiamo visto, dalla incapacità tecnica di Gadda a fare (se non per «allusione») un racconto diretto, logico e storico.
Quindi: in Gadda sussiste la certezza di una realtà oggettiva che può essere mimetizzata e rappresentata (secondo la formula, per intenderci, verghiana): ma è una certezza sopravvivente dalla cultura positivistica e laica al cui lembo estremo Gadda (ch’è ingegnere) si è formato: a questa certezza si sovrappone una effettiva incertezza, il senso lirico della vanità e del nulla, di tipo religioso e stoico che appartiene alla cultura in cui Gadda per coazione e per reazione è vissuto e ha operato.
Oppure, in altri termini: in Gadda esiste una accettazione della realtà sociale italiana come è stata codificata e istituita dalla borghesia post-risorgimentale, accettazione ch’è addirittura reazionaria, perché pare non approfondire alcuni dati sentimentali quali il patriottismo, il rispetto all’ordine, il lealismo monarchico ecc.: ma con questa accettazione coesiste, a contraddirla e a stravolgerla, la coscienza – diremmo quasi nervosa – dell’effettiva negatività delle strutture di quella realtà sociale.
Gadda dunque ci si presenta nel Pasticciaccio come esagitato e schiacciato tra due errori: il sopravvivente positivismo naturalistico di un liberale prefascista di destra, e il coatto lirismo deformante di un antifascista limato e disgregato dall’impari lotta con lo stato.
La sua angoscia – che è angoscia sociale – è dunque senza rimedio, e il suo stile sarà sempre uno stile tragicamente misto, ossessionato, poiché egli, accettando le istituzioni che crede buone, è costretto a infuriarsi senza requie contro gli istituti effettualmente cattivi.
Del resto egli si è formato e appartiene a un tempo in cui non era possibile vedere tutto questo mondo – magma di disordine, corruzione, ipocrisia, stupidità, ingiustizia – sotto l’angolo visuale della speranza. La sua funzione non è critica: il suo realismo non può essere prospettivistico. Attraverso Gadda succede che una parte del nostro mondo (il periodo storico tra le due guerre) si esprima quasi da sé, allo stato puro – fascismo e antifascismo, reazione e democrazia – nella sua contraddizione oggettiva che si fa angoscia e nevrosi nel soggetto testimone. Sicché, se per caso questo libro fosse rimasto nel cassetto dell’autore e fosse uscito fra trenta o quarant’anni, la sua attualità sarebbe stata identica, proprio perché in questo momento esso è un po’ inattuale, ma si presenta già come un valore assoluto – prodotto di un grandissimo cervello e di un cuore grandissimo – oggetto non già, idealmente, di critica militante, ma ormai di esame storiografico o di venerazione.
1958
Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
© 2000-2024 by Garzanti Editore & EJGS. Previously published in Passione e ideologia (Milan: Garzanti,1994), 344-56.
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