Pericoli Drawing

Scribi del caos:
Carlo Emilio Gadda, Samuel Beckett

Nicoletta Pireddu

Tra la stesura de La Cognizione del dolore e l’intreccio di vicende che caratterizzano la sua fortuna editoriale si situa Molloy, (1) il romanzo che – seguito da Malone meurt e da L’Innommable – inaugura la Trilogia di Beckett. Dalla prima versione del 1936, il testo gaddiano si modifica e si espande, giungendo alla definitiva edizione del 1970 arricchito delle appendici e delle note costruttive redatte dall’autore per le numerose revisioni. La Cognizione del dolore diviene quindi coeva al romanzo di Beckett, con cui divide sorprendentemente temi e immagini.

Di fronte alle innegabili affinità tra le due opere sorprende peraltro il silenzio della critica, che pare non essersi mai occupata dei loro possibili punti di contatto. Forse ancora non sufficientemente popolare a livello internazionale, Gadda non si annovera tra gli echi della scrittura beckettiana. Al contempo, la maggior parte dei riferimenti letterari esplicitamente riconosciuti nei testi gaddiani appartengono all’ambito italiano, ad eccezione di qualche fonte straniera canonica come Rabelais, Shakespeare e Balzac. (2) L’ipotesi di un rapporto documentabile tra Gadda e Beckett sembra addirittura complicarsi – ma non per questo perdere di plausibilità – qualora la si voglia verificare da un punto di vista cronologico: considerando l’eterogeneità degli elementi che convergono nel disegno finale de La cognizione del dolore e soprattutto i diversi periodi cui risalgono, risulta difficile mettere in relazione i due scrittori secondo la dinamica bloomiana precursore-epigono nella più stretta accezione diacronica. (3) Tuttavia, la mancanza di elementi a favore di una contaminazione consapevole tra La cognizione del dolore e Molloy non annulla l’evidenza intertestuale: trasposto sull’asse sintagmatico, il clinamen bloomiano può funzionare in termini di adstrato, ovvero considerare l’influenza reciproca tra gli autori pur ignorando la questione della priorità. In tal modo, Gadda e Beckett possono essere avvicinati per il medesimo atteggiamento verso la scrittura: essi non sanno riconoscersi in alcun progetto, e, con il rifiuto del finito che accomuna le loro opere, esprimono appunto il disagio nei confronti del genere letterario che, loro malgrado, continuano ad occupare. Nel paradossale esilio all’interno della categoria stessa che li definisce, Gadda e Beckett non sono semplicemente afflitti dall’angoscia dell’influenza di un ben identificato modello – Manzoni nel caso de La cognizione del dolore e il romanzo esistenzialista in Molloy. (4) Più in generale, come emerge da questi due testi, essi problematizzano l’autorità della letteratura quale attività sistematrice, e la loro deviazione dalla legge del genere denuncia l’innaturale ordine che le tassonomie impongono alla realtà.

Né abbastanza forti per demolire il passato, né sufficientemente deboli per assimilarlo in modo indolore, Gadda e Beckett si appropriano dell’eredità dei precursori per espropriarla tramite la parodia. Gli echi della tradizione letteraria che confluiscono nelle pagine di Gadda danno vita a un ibrido, a un pastiche – tecnica ricorrente in vari punti dell’attività gaddiana, ed evocata, tra l’altro, nel titolo del Pasticciaccio e nell’ironica etimologia di Pastrufazio, toponimo sotto cui ci cela la città di Milano in La cognizione del dolore. Allo stesso modo, Dante, Joyce, Camus e Sartre rivivono in Molloy ma non immuni dalla dissacrante rivisitazione tipica di Beckett. La disobbedienza ai precursori, pertanto, non fa del testo una tabula rasa: i padri e i canoni letterari che vincolano i nostri scrittori ritornano – sfigurati, è vero, dallo stravolgimento parodico, eppure sempre presenti e ancora in possesso di un’autorità parentale contro cui Gadda e Beckett devono reagire.

è significativo che il conflitto generazionale che emerge dalla poetica dei due autori si riproponga sul piano narrativo nelle trame dei rispettivi romanzi, in cui i protagonisti, sebbene orfani, (5) non sono peraltro liberi da condizionamenti. L’atteggiamento iconoclasta di Gonzalo ne La cognizione del dolore non dissolve il ricordo ossessivo dell’immagine paterna: onnipotente come il capostipite della freudiana orda primitiva, il defunto genitore si fa sentire nel suono delle campane da lui donate alla città di Lukones e si reincarna nella figura della madre, al contempo rifugio uterino e capro espiatorio su cui Gonzalo scarica il represso desiderio di vendetta per il disagio del vivere. Anche su Molloy incombe il peso di ruoli autoritari che, supplendo all’assenza di paternità, impongono norme narrative e regole di comportamento: è soltanto con il controllo periodico e con l’approvazione di un non identificato editore che Molloy può dedicarsi alla scrittura; il commissario di polizia non accetta l’improvviso vuoto di memoria che impedisce a Molloy di pronunciare il suo cognome, ed insiste per inserirlo in una genealogia; Moran, impegnato nell’«affaire Molloy» (M, 133), si mette sulle tracce del protagonista per strapparlo ad un intollerabile vagabondaggio e ricondurlo all’ordine e alla vita civile. Come nel testo gaddiano, inoltre, compare una madre che suscita reazioni ambivalenti: il riparo confortante nella stanza materna e il viaggio intrapreso da Molloy per raggiungerla si oppongono al grottesco ritratto della donna – ridotta a un manichino, incapace di controllare le proprie funzioni corporali né tantomeno di comunicare con il figlio, se non mediante un sistema di colpetti sul capo.

La cognizione del dolore e Molloy sono appunto espressione di questo scomodo debito con il passato, che la narrazione traduce in rivalità familiari. Per uno scrittore incapace di sfuggire alla condanna della propria condizione epigonica, l’opera può realizzarsi soltanto come palinsesto, come revisione di un’eredità che viene parzialmente raschiata per lasciare spazio alla parola dell’efebo, ma rimanendo ugualmente leggibile. Contro l’ambizione del nuovo, Beckett ricorda, tramite Molloy, che «[on] n’invente rien,… on ne fait que balbutier sa leçon» (M, 41), e Gadda smaschera il mito della «purità primigenia» (Come lavoro, SGF I 436) rivelando che la «parola convocata sotto penna non è vergine mai». Lungi dal garantire punti di riferimento sicuri, l’impiego di «parole di tutti, pubblicatissime», tratte da un linguaggio che è «colluttorio comune», produce l’effetto perturbante del déjà-lu. Riconoscere equivale a disconoscere: così come l’ammissione delle norme del genere letterario non si distingue dalla loro evasione, la Bildung che caratterizza il progressivo, armonico sviluppo del protagonista tradizionale si tramuta in un itinerario accidentato fatto di discontinuità e di graduale disgregazione.

«… tutto un caos od un cosmo»

Combattuti tra desiderio e disincanto, Gonzalo e Molloy sono entrambi impegnati in una affannosa indagine conoscitiva, in una quest che, se ne La cognizione del dolore si svolge nella sola dimensione dell’interiorità, si arricchisce peraltro di un’effettiva evoluzione spaziale nel testo di Beckett. Nel materno «amplesso della villa» (Cognizione, RR I 624), il «Pirobutirro figlio» (599) cerca riparo da una realtà che non ammette eccezioni: il muro di cinta fornisce a Gonzalo un illusorio senso di protezione dalle favole bizzarre con cui il paese ha mitizzato la sua diversità, e la dimora nel suo insieme si erige quindi a fortificazione del privato e dell’anomalo contro un mondo di «creature dello Standard» (608). Chiuso al contatto umano, «l’ultimo hidalgo» (605) si rifugia nella lettura: la socialità non vissuta si fa testo e riemerge nelle pagine kantiane sul «fondamento della metafisica dei costumi», dove alla concretezza dell’esperienza interpersonale si sostituisce una teoria etica. Sono appunto i quesiti filosofici ad accompagnare Gonzalo lungo tutta la narrazione: la conoscenza derivante dal continuo interrogarsi della ragione si offre come possibile fonte di organizzazione del reale, e, in modo particolare, del microcosmo della soggettività. Per il tormentato personaggio gaddiano, infatti, l’Io, lungi dal costituire un solido supporto per la creazione di un modello epistemologico, rappresenta il problematico nucleo su cui si riversano riflessioni sconnesse e dubbi amletici. Il ripiegamento su se stesso, inizialmente inteso come difesa dalle minacce esterne, non garantisce ma anzi snatura la familiarità apparentemente raggiunta: l’introspezione nel «buio di quell’anima» (690) porta alla luce gli spasmi di una coscienza afflitta da un «male oscuro» – una coscienza intermittente, in cui il senso di frammentazione e di aleatorietà dell’essere si alterna a momenti di autoesaltazione.

La soggettività di Gonzalo si esprime e si nega nel «più lurido di tutti i pronomi» (RR I 635): se l’aggressività narcisistica con cui il protagonista cerca di preservare la propria identità è ancora tesa a rivendicare la centralità della persona, le sue speculazioni riducono l’Io a un «pidocchio del pensiero» (636), e scindono in tal modo il binomio cartesiano cogito-sum. Al postulato razionale di una mente in controllo della propria attività, al platonico «mondo delle idee» (635) depositario di categorie immutabili, subentra un delirio di cui Gonzalo non può «aver ragione» (690). «I think; già: but I’m ill of thinking…» (636): il pensiero malato ed esausto contempla la difficile esperienza del vivere e si perde nei suoi stessi meandri. Tuttavia, la risposta del dottor Higueróa all’assurda complessità del paziente è una mal repressa risata. La medicina compensa la mancata diagnosi con superficiale ilarità; l’«aforisma» di Gonzalo rimane pertanto indecifrabile, così come la natura della stanchezza e della «perturbazione dolorosa» (690) che devastano la sua psiche. La lucida sostituzione della cura al sintomo con cui la scienza risolve il caso clinico nulla può di fronte alla logica metonimica del sogno, che rivela e al contempo occulta il tormento del soggetto. Riemerso dal «fiume profondo» (632) delle visioni oniriche, Gonzalo cerca di comunicare a Higueróa lo spaventoso baratro del rimorso che lo perseguita, ma la criptica sintassi dell’inconscio non trova una traduzione nel linguaggio della razionalità, e lo scenario interiore si disgrega in affannosi frammenti verbali. Lo «strazio» (690) non si redime in alcuna «confessione». In La cognizione del dolore, quindi, il «non essere del sogno» (I viaggi, la morte, SGF I 561) sottrae il protagonista «alle riprove categoriche della realtà». Il viaggio nei meccanismi segreti della psiche muta la risoluzione del progetto conoscitivo di Gonzalo in dissoluzione, nello smarrimento «di un io centrale coordinatore» (562) dei molteplici dati dell’esistenza.

Con il testo di Beckett, lo spostamento (6) che caratterizza il processo inconscio diviene dislocazione geografica: come le diverse rappresentazioni nella visuale onirica del personaggio gaddiano, i luoghi della quest di Molloy si associano per contiguità nella topografia allucinatoria del romanzo, ma il travagliato percorso del protagonista non conduce ad alcuna scoperta, ad alcun traguardo, ad alcuna verità. Il male oscuro che logora l’animo del figlio Pirobutirro intacca il fisico di Molloy e lo sottopone a un grottesco smembramento, tuttavia non arresta la necessità del suo vagare. Alla volontaria auto-segregazione di un misantropo nella villa di Lukones si oppongono gli irrazionali slanci altruistici del clown beckettiano, stimolati da un effimero desiderio di socialità. Molloy sembra infatti porre fine al suo isolamento nell’incontro casuale con uno sconosciuto: «je le regardai s’éloigner, aux prises (moi) avec la tentation de... le suivre, de le rejoindre même peut-être un jour, afin de mieux le connaître, afin d’être… moins seul» (M, 13). È appunto il bisogno di conoscere – e quindi di classificare per orientarsi nella realtà umana – che giustifica la sua curiosità per il passante. Ma la specificità dell’individuo sfuma alla sua memoria e si rende presto indistinguibile da un altro «promeneur», ormai ridotto a generico punto in uno spazio geometrico: «A ou B, je ne me rappelle plus». L’attenzione di Molloy è attratta e distratta da sempre nuove percezioni, che la mente registra e accumula «sans méthode et affolée», incapace di organizzarle in una tassonomia.

Eppure, anche il pensiero di Molloy – come quello di Gonzalo – «ha i pidocchi» (Cognizione, RR I 636) e quando si gratta si ritrova tra le unghie lo scomodo pronome di prima persona che non cessa di riaprire l’irrisolta questione esistenziale. Diffidente dell’antropologia e di qualsiasi costrutto teorico che nella sua astrattezza si ostini a «définir l’homme… en termes de ce qu’il n’est pas» (M, 51-52), Molloy affida alla pagina scritta le sue meditazioni sulla natura dell’Io, ma non può che riconoscerne il carattere confuso: al pari delle anime nel sogno del personaggio gaddiano, gli uomini rimangono per lui «come frantumi di mondi» (Cognizione, RR I 633), entità lontane e discrete, inutili riferimenti per comprendere «ce que cela veut dire, être» (M, 52). Così, mentre l’azione menomatrice del tempo sfigura e mutila il vagabondo, il dubbio e l’oblio ne corrodono irreparabilmente il già precario senso di identità. Alienato da se stesso nel suo peregrinare sotto un cielo «sans mémoire de matin ni espoir de soir» (52-53), Molloy si guarda evolvere «à la manière d’un étranger» (55) e trae un’illusoria stabilità soltanto dal possesso dei suoi oggetti-feticci: la bicicletta, (7) il cappello, le tasche con i sassolini da succhiare – così come la provvisoria soggettività di Gonzalo cerca invano di reificarsi nella proprietà della casa (cfr. Roscioni 1975: 127-40).

Tuttavia, da occasione di conforto, il regno della materialità sa trasformarsi in fonte di estraniazione. Tra le cose che Molloy sottrae a Lousse – la donna che lo accoglie nella propria dimora senza convincerlo a rimanere definitivamente – spicca una sagoma che sfugge al riconoscimento: la meticolosa descrizione offerta dal protagonista coglie i dettagli di un «étrange instrument» (M, 85) ma, lungi dal condurre all’identificazione, non pone fine agli ansiosi interrogativi. Sulle orme del Roquentin sartriano, Molloy scopre così la contingenza degli oggetti, lo spessore gelatinoso delle parole, l’irriducibile alterità del mondo. Presenza perturbante, causa e segno di disordine, l’oggetto è innominabile – Innommable appunto, e non a caso scatena una proliferazione linguistica che allude già alla logorrea del terzo romanzo della trilogia beckettiana. È proprio per l’impossibilità di associare un significante e un significato a questo scomodo referente che Molloy fornisce una descrizione sempre più pignola, sino a parcellizzare e a sfigurare l’oggetto, rendendolo paradossalmente ancora più misterioso. Fallita la ricerca del nome – unica garanzia di sintesi – la rappresentazione verbale diviene entropica, degenera in dispersione di senso. All’indecifrabile intreccio di x e di v, serie di incognite matematiche a cui sembra ridursi la forma dello strumento, egli può opporre soltanto «un regard étonné» (8) e un’amara riflessione che riassume la sua consapevole pochezza: «… ne rien savoir, ce n’est rien, ne rien vouloir savoir non plus, mais ne rien pouvoir savoir, savoir ne rien pouvoir savoir, voilà par où passe la paix, dans l’âme du chercheur incurieux». La curiosità del protagonista rimane appunto insoddisfatta: l’ossimoro “chercheur incurieux” formula il bisogno compulsivo di comprensione ma per votarlo poi lucidamente allo scacco. Rassegnatosi all’idea che la funzione dell’oggetto gli resterà «toujours cachée», Molloy abbandona il rigore deduttivo per cedere al fascino dell’irrazionale, all’incanto per la lunga sequenza di cifre scaturite dalla magia di una divisione, «vingt-deux par sept», (9) che egli si diletta a trascrivere sulle pagine di un quaderno.

D’altronde, se per Molloy il ruolo degli oggetti è «Ramener le silence» (M, 16), nemmeno il rumore della vita passata può parlare al suo udito difettoso: con il nome proprio che si eclissa dalla memoria, anche la continuità della persona sfugge al ricordo; l’anamnesi si confonde con l’amnesia, ripagando la tentata ricostruzione dell’Io con «un souvenir plus qu’imparfait» (67). Il personaggio beckettiano, pertanto, reagisce alla sconfitta della rievocazione e del pensiero proiettandosi di nuovo all’esterno. All’errare della «conoscenza umiliata» (Cognizione, RR I 698) nell’universo mentale di Gonzalo, Molloy risponde con una ricerca affannosa entro le mura della città, per opporre ai «lembi laceri della memoria» la solidità di «un monument de connaissance» (M, 80) che consenta di ritrovarsi, di esclamare: «Je suis dans ma ville, après tout, j’y ai été tout le temps». Tuttavia, il paesaggio in Molloy è uno spazio di vestigia, non di edifici integri – il luogo della defamiliarizzazione, non della familiarità. Per questo, da pietra miliare, il «monument de connaissance» cui anela Molloy diviene piuttosto monumento alla conoscenza, eretto per commemorare la perduta capacità di controllo su una topologia perturbante, ed esso stesso rovina di una totalità ormai irrecuperabile. L’architettura urbana del testo di Beckett e quella della villa di Lukones sono quindi accomunate dalla medesima precarietà. Nemmeno il «muro pirobutirrico» (Cognizione, RR I 634), infatti, sa preservare efficacemente un’enclave riconoscibile: «nano e ciuco» (712), «senza schegge di bottiglia, né frantumi di piatto» (634), il debole recinto rende l’intera cittadella di Gonzalo vulnerabile alla complessità della realtà esterna. Nella dimora in cui il proprietario ripone il proprio senso di identità si iscrivono i segni paradossali della sua dissoluzione: le multiformi manifestazioni di un mondo inesplicabile si infiltrano da «finestre malsicure» (712) e «cancelli malfermi», ostacolando la conquista di certezze.

Ne La cognizione del dolore e in Molloy ordine e disordine divengono in tal modo principi complementari. Minacciati dalla confusione e dall’irregolarità, i personaggi si ostinano a voler dare un senso all’esperienza, creandolo – dove manchi – tramite la paranoia. Gonzalo connette a infantili gelosie il ritardo ingiustificato della madre, e Molloy confessa la sua «manie de la symétrie» (M, 114) la quale, nonostante la progressiva decadenza fisica, non gli impedisce di osservare compiaciuto che «tout se tient dans la longue folie du corps» (74). La quest beckettiana e gaddiana intende dipanare un «groviglio» (Roscioni 1975: 74-75) in cui si intrecciano «harmonie préétablie» (10) e «hasard extraordinaire» (M, 94), tuttavia – come nell’episodio dei sassolini che Molloy si affanna a distribuire e a riorganizzare con rigore matematico – prevale sempre «le même aléa». Divise le sedici pietruzze in gruppi di quattro e collocatele nelle tasche del cappotto e dei pantaloni, Molloy si impegna in un esercizio di logica combinatoria, immaginando un procedimento per poter succhiare tutti i sassolini in successione ordinata, trasferendoli di volta in volta in una tasca diversa. In realtà, le ripetute sconfitte costringono il vagabondo beckettiano a confrontarsi nuovamente con la propria limitatezza: incapace di penetrare la «confusion inextricable» (98) creata dai suoi stessi esperimenti, Molloy si arresta a contemplare le sedici forme rotondeggianti «avec colère et perplexité» (95). L’impresa avrà infine successo soltanto a patto di riconoscere l’ineliminabile margine di casualità, accontentandosi pertanto di una «tranquillité toute relative» (98) e di una soluzione «toute imparfaite» (99).

Per La cognizione del dolore e Molloy, l’itinerario del viaggio nell’«inutile ordito degli atti» (Cognizione, RR I 704) non è tracciato in alcuna mappa; le coordinate mentali non sanno dirigere le svolte impreviste del pensiero. È quindi inutile affidarsi all’orientamento di una «boussole de poche» (M, 184): il labirinto fa esplodere la struttura lineare dei progetti categorici e, non a caso, inghiotte proprio il personaggio di Moran – la figura paterna fanatica della sistematicità, partita appunto con una bussola in tasca alla ricerca di Molloy. Convinto portavoce del perbenismo e della mentalità positivistica che l’ironia gaddiana non perdona al ceto ingegneresco milanese, Moran appare inizialmente come l’antitesi del protagonista: ossessionato dalla puntualità e dall’«exactitude» (133), fiero del suo «esprit méthodique», egli si compiace di non avere mai intrapreso una spedizione «sans avoir longuement réfléchi à la meilleure façon de partir». Tuttavia nella foresta, lontano dagli imperativi della vita civile, l’autorità e il rigore di Moran soccombono all’assurdo, disgregandosi come il ritratto del genitore sotto il peso e la rabbia di Gonzalo. Nel corso di una patetica metamorfosi, Moran accusa l’acuto dolore al ginocchio lamentato in precedenza da Molloy, sceglie la bicicletta come mezzo di trasporto, comincia poi a camminare carponi e a strisciare sul terreno in completa solitudine, sino a rendersi indistinguibile dal protagonista. La strada a cui il metodo difeso da Moran allude etimologicamente si rivela un vicolo cieco; l’intenzione che anima i personaggi di Beckett e di Gadda rimane letteralmente un tendere verso, un perenne pellegrinaggio che la scrittura invita ad intraprendere ma senza la gratificazione di una meta.

«Andate a veder mondo e paese! E modi e genti, torri e palazzi», esorta appunto anche il Gaddus – novello Gulliver in terra lombarda (Viaggi di Gulliver, cioè del Gaddus, RR II 958). «Dietro la valle è il monte, e dietro il monte altra valle, e questa torre altra e lontana saluta con la sua guardia verso i fuochi occidui, e così fino al mare infinito, a cui tutti li fiumi decèdono». Di fatto, però, la ristretta geografia del viaggio gaddiano soffoca la promessa di avventura alla volta dell’ignoto, suggellata inizialmente dall’allusione a Swift. Entro i confini di una Brianza ironicamente battezzata «felice» (955) dove «comandano i capimastri e i bozzolieri», il mondo da esplorare si esaurisce nelle sagome di «una casa, […] una casina, […] una villa, […] un villino, […] un villone», maldestre citazioni di luoghi e monumenti esotici: un «povero Eldoraduzzo» (960), «una torre, che puoi dirla un poco di Alhambra e un poco di Kremlino», un ricco repertorio di seconda mano «non fatto di vissuta contemplazione, onde, al scimmiare, ne veniva una Vinegia e una Fiorenza di cartolina, scema al tutto di quella propia e accorta finezza che solo può nobilitare la imitazione» (956). Perfino i toponimi che evocano questo altrove custode di bellezze naturali ed artistiche sono «più discosti dalle anime e dalle scuole dei detti salumai e capimastri, che […] Babylon o Tumbuctù la città del Gran Lama». E il Gaddus, che come il Moran di Beckett sembra incamminarsi lungo una via punteggiata di scoperte per offrirne quindi uno scrupoloso resoconto, in realtà mitizza cinicamente la storia banale degli «artefici della ricchezza e della bruttezza lombarda» (955). La materia dei suoi Viaggi di Gulliver è essa stessa già narrata, un «cenno […] cartaceo e tolto di dozzinale quaderno» (956), un archivio di esperienze vissute come «mala copia» (960) di una vita autentica. Al pari dell’architettura fasulla nella sua provincia, la natura irrimediabilmente testuale delle memorie del Gaddus rende l’originalità oggetto di «un inutile desiderio».

Tanto vale, allora, sottrarre al protagonista swiftiano l’epiteto di «Splendid mendax» (11) e dare libero sfogo alla fantasia, crogiolandosi nel miscuglio di realtà e finzione con cui la vita brianzola supplisce alla mancanza di novità. Così – dopo avere giocato impunemente con le etimologie, convincendoci che «bre», radice del nome «Breanza», «significa fortunato» (RR II 955), e che Lombardia «par voglia oggi dire itterizia» (956) – il Gaddus può anche suggestionarci con il racconto della caccia grossa ad un animale chiamato «légora» (963) ma conosciuto pure come «gatto ovverosìa coniglio». Poco importa se, nonostante «mille puntamenti e mille tirature e ù, ù», i lombardi di fatto non «vengono a capo di nissuna légora, avvegnacché siano quaranta schioppi, ottanta stivali e cani centoventi». Inconsistente come il mondo esterno per Gonzalo Pirobutirro,

quella légora […] tu te la trovi imaginata, stanata, puntata, tirata ed ancisa nei discorsi che ne fanno: e dipoi come di légora si genera légora, quella medema doventa duo, e le duo quattro, e le quattro increscono […] Tu li senti nel treno […] Tu li senti dentro cucina del trattore, urlare circa la sua imaginata légora e dirne grandissime laudi, e dipingerla così presta, così scaltra, così feroce, che quasi ella le avrebbe mangiati, se elli non erano quei virtuosi che sono. (RR II 963-64).

Privo di principi ordinatori, lo spazio narrativo si apre così al paradosso: al capriccio del lettore, esso diviene «tutto un caos od un cosmo» (SGF I). Travolta dall’illogico eccesso del reale, la scrittura non può che registrare la «cataratta maravigliosa» (Cognizione, RR I 627) di stimoli ed eventi dispensati «come da piena cornucopia».

L’obolo a Caronte

La «cospirazione di forze» (Lingua letteraria e lingua dell’uso, SGF I 490) – siano esse «intellettive o spontanee, razionali o istintive» – che provoca il fallimento della quest si riflette nella lingua, «specchio del totale essere, e del totale pensiero». Facendo di necessità virtù, il testo gaddiano rinuncia infatti alla riduttiva catalogazione delle esperienze per ostentarne strategicamente l’abbondanza. Per l’autore non esistono, pertanto, né «il troppo né il vano»: non soltanto «i doppioni», ma addirittura «i triploni, e i quadruploni» devono piovere sulla pagina scritta, «per mania di possesso e per cupidigia di ricchezze». Insaziabile e onnivora, la parola si nutre di molteplici registri e stili e, informando, deforma i dati oggettivi. L’abnorme «cupidigia» (Cognizione, RR I 600) di Gonzalo per il cibo – che prorompe in «imbandigioni crapulose» (599) divenute favola tra la gente di Lukones – si amplifica così nella patologica bulimìa verbale de La cognizione del dolore, (12) e suggerisce un ulteriore legame con il personaggio di Beckett. Anche in Molloy, infatti, l’appetito del protagonista è «chose extraordinaire» (M, 71): abbandonata la «pierre à sucer» (73), Molloy si avventa sugli alimenti «avec… frénésie» (71), ne trangugia «la moitié ou le quart en deux bouchées de poisson de proie», ovvero «sans mastiquer» e ingolla poi «cinq ou six pots de bière coup sur coup». È ancora una volta la mancanza di metodo che caratterizza tali azioni. (13) Il bisogno spasmodico di ingerire – di possedere incorporando – non segue regole; esso si manifesta piuttosto come impulso all’accumulazione disordinata, quel medesimo impulso con cui Molloy aggredisce e descrive sempre nuove cose per poi abbandonarle, sconfitto. Sebbene agli antipodi del plurilinguismo enciclopedico de La cognizione del dolore, lo stile scarno e trasparente di Beckett divide con Gadda la voracità pantagruelica, il «moto affannoso ed inarrestabile da una parola all’altra» (14) che la parola stessa non può saziare.

è quindi nella digressione che l’instancabile ricerca di significati trova la forma più congeniale. In un’avventura conoscitiva votata allo scacco, non premiata da alcuna rivelazione, la materia verbale si ribella «contro l’insopportabile tirannide della finalità» (I viaggi, la morte, SGF I 581) e trascina la narrazione in un delirio, (15) facendola uscire dal solco rettilineo del romanzo tradizionale. Il divertimento dello scrittore nell’esibire la gratuità dei suoi artifici – l’inquinamento di generi e di stili in Gadda e l’innaturale mancanza di stile in Beckett – si confonde con il compiaciuto divergere dell’opera dal «palo teleologico» (Cognizione, RR I 573). Se i precursori letterari impongono le leggi del genere «con suggerimento o preghiera o ingiunzione obligante» (TO 39), la divagazione diviene il terreno privilegiato in cui l’autore può esprimersi «con libero estro». Per fronteggiare il misterioso individuo che prescrive a Molloy le norme da seguire nel cominciare l’opera e che deturpa i suoi manoscritti con correzioni incomprensibili, rimane la forza eversiva del «sentimento» (I viaggi, la morte, SGF I 581), il barometro della «funzionalità teleologica»: se «il sentimento è rivolta, ciò significa che il dio operante ha sbagliato». Senza pretese di originalità, consci del debito ineliminabile con il canone, Gadda e Beckett insorgono contro la paternità letteraria trasgredendo la scrittura-«pensum» (M, 180), quella che costringe Molloy a una punitiva adesione alla «marche stricte et réelle des événements» (181) e che corrisponde alle aspettative della «patria maradagalese» (Cognizione, RR I 731). Nella reclusione di Gonzalo e nei «quinze pas par jour» (M, 121) di Molloy il romanzo legge l’impossibilità fisica del suo sviluppo; l’opera si abbandona all’errare della parola narrante nel «caos adirezionale» (I viaggi, la morte, SGF I 581), in quel periplo incessante già messo in scena da Moran – anagramma di roman e quindi personificazione della scrittura.

Tuttavia, dietro il giubilo procurato dalla migrazione fantasmagorica della lingua si cela Thanatos. Il «funeste principe du plaisir» (M, 134) con cui la scrittura gode dei suoi inesauribili giochi di specchi occulta la realtà del nulla, l’assenza di una fabula e di un centro da cui irradiano le linee di fuga. Nel parlare a se stessa, la parola tace quel silenzio che «farà la migliore delle opere» (Il pasticciaccio, SGF I 511) – il silenzio del non-rappresentabile, il silenzio della morte. (16) Il discontinuo baluginare della coscienza suggerisce a Molloy che «il n’y a pas d’ensemble, sinon posthume» (M, 35); il suo peregrinare e il suo racconto saranno redenti soltanto dalla campana che un giorno annuncerà: «ne te ménage plus, c’est la fin» (110). Il gioco linguistico, allora, si trasforma in un divertimento pericoloso, in un «gioco sulla propria pelle» (Calvino 1995: I, 254), il cui aspetto ludico stigmatizza l’autore, sconfinando nella sofferenza. Quello «scarabocchio di romanzo» (Cognizione, RR I 731) che dà voce alla stanchezza di Gonzalo si arresterà di fronte al «vialone coi pioppi» (730) per incontrare la morte dopo averne mimato la dispersione abissale. Ma nel frattempo la pagina scritta non vuole soccombere al più potente e inafferrabile dei rivali: la morte non deve essere celebrata con il «ristagno definitivo […] della penna» (Il pasticciaccio, SGF I 511), bensì titanicamente sfidata. Il percorso narrativo di Gadda e di Beckett diviene così un «véritable calvaire, sans… espoir de crucifixion» (M, 105), un rito di passaggio dilatato all’infinito in cui il personaggio non mantiene la promessa di «faire [les] adieux» per «finir de mourir» (7), in cui la parola fa testamento senza mai uscire di scena. È quindi nell’askesis bloomiana (Bloom 1973: 121-22), che i due autori si prendono la rivincita sull’annientamento: nel purgatorio della loro opera, essi ingaggiano una lotta mortale contro la morte, pur nella desolante consapevolezza della loro sconfitta.

Per gli scribi del caos, il dolore della conoscenza è più sopportabile del dolore del silenzio, e la sofferenza che autentica il dire sarà l’«obolo» (Il pasticciaccio, SGF I 507) che essi pagheranno a Caronte per poter traghettare finalmente a «più vasta dissoluzione, a più sconfinata casualità» (I viaggi, la morte, SGF I 581).

Georgetown University

Note

1. Samuel Beckett, Molloy (Paris: Editions de Minuit, 1951). Futuri riferimenti al testo sono tratti dalla presente edizione e indicati tra parentesi con l’abbreviazione M.

2. Tra le altre associazioni con autori stranieri ricordiamo quella con Flaubert (che avvicina il Pasticciaccio a Bouvard et Pécuchet), quella con Faulkner (oltre che con Joyce) per l’uso della lingua, quella con Borges e Kafka per la complessità e il mistero dell’universo narrativo gaddiano. Più vicino al nostro studio è il parallelo tra Gadda e il Nouveau Roman francese, a cui Marina Fratnik accenna nell’Avant-Propos del suo L’Ecriture détournée: essai sur le texte narratif de C.E. Gadda (Torino: Albert Meynier, 1990).

3. Harold Bloom, The Anxiety of Influence (New York and London: Oxford University Press, 1973).

4. Rispetto al tormentato rapporto letterario tra Gadda e Manzoni (rapporto che, in modo curioso, sembra segnare indelebilmente l’autore de La cognizione del dolore assai prima dell’inizio della sua carriera di scrittore: Gadda nasce a Milano, in via Manzoni), la revisione beckettiana del romanzo esistenzialista è sicuramente meno sistematica. Tuttavia, nel caso di Molloy si colgono precisi riferimenti alle opere di Camus e Sartre, che, alterati dal nuovo contesto, mettono in discussione la loro originaria funzione. L’Etranger rivive, ad esempio, nelle sconnesse elucubrazioni di Molloy sulla presunta morte della madre: «était-elle déjà morte à mon arrivée? Ou n’est-elle morte que plus tard? Je ne veux dire morte à enterrer. Je ne sais pas. Peut-être ne l’a-t-on pas enterrée encore» (M, 7). La libertà che definisce l’uomo sartriano in L’Existentialisme est un humanisme si svuota di ogni valore nei quesiti che seguono poco dopo nel testo di Beckett: «Et je suis à nouveau je ne dirais pas seul, non... mais, comment dire, je ne sais pas, rendu à moi, non, je ne me suis jamais quitté, libre, voilà, je ne sais pas ce que ça veut dire mais c’est le mot que j’entends employer, libre de quoi faire, de ne rien faire, de savoir, mais quoi…» (15-16). La Nausée – già evocata nel momento in cui Molloy, posto di fronte a un reggiposata, sembra riscoprire la contingenza delle cose che opprime Roquentin – riappare, distorta, nelle frasi conclusive del romanzo. Qui, diversamente dall’esperienza di Roquentin a Bouville, la pioggia e la decisione di scrivere non suggellano alcuna soluzione estetica definitiva: «Alors, je rentrai dans la maison, et j’écrivis, Il est minuit. La pluie fouette les vitres. Il n’était pas minuit. Il ne pleuvait pas» (239).

5. Va precisato che se Gonzalo è effettivamente orfano – poichè La cognizione del dolore accenna più volte alla morte del padre – il romanzo di Beckett non rivela alcun particolare sul padre del protagonista, ma presentando Molloy come figlio di una «pauvre putain unipare» (M, 23) ne suggerisce indirettamente l’assenza.

6. Spostamento è qui inteso nell’accezione psicanalitica, ossia come il modo di funzionamento caratteristico dei processi inconsci e, in particolare, del sogno. Esso consiste in una differenza di focalizzazione tra il contenuto onirico manifesto e il contenuto latente, cosicchè gli elementi più importanti del contenuto latente vengono rappresentati nel sogno da dettagli minimi.

7. L’immagine di Molloy in sella alla sua bicicletta da cui pende la gamba rigida – sofferente e inattiva a causa di una malattia al ginocchio – trova una sorprendente analogia in La cognizione del dolore nella figura del vigile ciclista, la cui «gamba rigida e non pedalante» (RR I 574) ormai entrata a tutti i diritti nel mito e nel folklore di Lukones, si deve appunto a «un’anchilosi al ginocchio» e non a una gloriosa azione di guerra.

8. M, 85. L’incapacità di Molloy di definire natura e finalità dell’oggetto (che, come precisato in una precedente nota, è un reggiposata) ha significative ripercussioni anche sul sistema di valori cui esso rimanda. In quanto componente di un servizio da tavola, il reggiposata evoca un preciso stile di vita, quello della mondanità borghese attorno ad una tavola accuratamente apparecchiata. L’oggetto è quindi sineddoche delle convenzioni della buona società – contro la quale anche Gadda si scaglia con altrettanta passione. Con la sua perplessità e la sua ignoranza Molloy misconosce e nega appunto l’etica borghese. Cfr. D. Gauer, «Molloy» et l’objet sans nom, in Etudes Irlandaises, no. XVI-2 (Dicembre 1991): 59.

9. La scelta di tale operazione matematica non è affatto casuale. Il risultato della divisione, infatti, è il numero razionale che più si avvicina al valore (irrazionale) di pi greco. Beckett evoca così il senso di assurdità, di incertezza e di inesauribilità dell’esperienza.

10. M, 83. Si ripropone qui un ulteriore legame intertestuale tra Beckett e Gadda tramite il saggio di Roscioni, il cui titolo – pur con una significativa alterazione – è strettamente affine ai termini impiegati in Molloy: disarmonia prestabilita / harmonie préétablie.

11. è questo l’appellativo che appare sotto il ritratto di Lemuel Gulliver in apertura dei Gulliver’s Travels di Jonathan Swift.

12. Come anche Gian Paolo Biasin (Biasin 1991) ha sottolineato, l’ambivalenza dell’oralità – funzione che accomuna parola e cibo, linguaggio e gastronomia – ricorre in tutta l’opera gaddiana, in qualità di strumento epistemologico: Gadda assimila la realtà metabolizzando i dati dell’esperienza. A tale proposito acquistano particolare valore due contributi di Gadda meno noti, ai quali anche il quotidiano italiano La Repubblica ha richiamato l’attenzione. Il primo, Al Ristorante, è un testo trasmesso al Programma nazionale il 2 ottobre 1955 ed ora ripubblicato con il titolo originale dopo i cambiamenti subiti nella stampa sul Radiocorriere. In questo bozzetto, la tavola diviene «campo di battaglia» e la lingua «un organo bestiale che, usato per il cibo anziché per la favola, ci degrada alla condizione delle bestie» (Gadda 1992b: 22). Nel secondo testo, una lettera del 1928, il sapere che Gadda trasforma in sapore è, significativamente, quello del suo amato-odiato padre letterario – il Manzoni. La lettera introietta un famoso brano dei Promessi Sposi e ne rigurgita la parodia in codice alimentare: «Addio monti di spaghetti sorgenti dall’acque salsose della pommarola che giungeva quasi ’n coppa e con cui m’imbrodolavo (nei momenti di oblio) il bavero della giacca e la mia poco rivoluzionaria cravatta! Addio care memorie di spigole, di vongole, di spiedini di majale, di panforte, e di altri vermiciattoli…» (cfr. Gadda 1992b: 23).

13. Molloy intende distinguere esplicitamente la sua frenesia incontrollabile da quella attribuita a torto ai «gros mangeurs», poiché questi ultimi mangiano appunto «avec lenteur et méthode» (M, 71).

14. Aldo Tagliaferri, Beckett e l’iperdeterminazione letteraria (Milano: Feltrinelli, 1967), 23.

15. è sintomatico che lo stesso Gadda parli della sua immaginazione definendola «delirante». Cfr. Note costruttive, Gadda 1987a: 546.

16. In entrambi gli autori riecheggia la nozione heideggeriana di temporalità – l’idea della transitorietà dell’essere e di una morte non rappresentabile ma incombente, posta come inevitabile traguardo a cui tende la debole teleologia dell’esistenza.

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