Il faut d’abord être coupable
è il motto in fascetta. L’autore (1) traspone in un giudizio parenetico, di timbro che sarei tentato qualificare agostiniano (egli è ateo), quello che per il mio criterio più pedestremente enumerativo, fondato sui cataloghi, arrossato all’opera dall’incendio del probabile, confortato da discriminazioni questurinesche nei più sani propositi, è invece il vecchio (e discutibilissimo) cànone: «primum vivere, deinde philosophari». Per meritare un bel regno dei cieli senza Trinità, e il perdono d’un giudice che non è Cristo ma la coscienza generale del «milieu» umano, si deve primamente rivoltolarsi per una sorta di novo gaudio nel braco umiliato del dolore, e praticare il furto e tradire: e adire, in letizia, la inclinazione un tantino quattrocentesca del Bazzi.
Un’affermazione poco ricevuta nelle Scuole. Rubare o tradire non è atto che si compia senza intoppo, senza fare un tal quale schifo a noi stessi. Certo la condizione di virtù, e la relativa disciplina, è materiata, le più volte, d’una inesperienza del male: i verbosi splendori della Virtù in Trono, fra i Santi Babbione e Princisbecco, sono suffumigati dai suffumigi del non-essere. Mestier difficile sceverare il bene dal male: definire il bene, il male: se non s’è conosciuto l’uno e poi l’altro, o l’altro e poi l’uno. Una cognizione metafisica del male, aprioristica, la ritengo improbabile (è ciò che mi separa da ogni etica di tipo «religioso», da ogni «religione», direi). Una nozione storica è possibile: una nozione che sia scaturita dal meccanismo dialettico del mondo: nata dall’aver sperimentato e patito, nella nostra vita e nella nostra anima e carne: o nella vita, carne, anima di chi ha patito e sperimentato in vece nostra.
Pratico però, è ovvio, il culto dei confessori, dei martiri: e, in appendice, una certa indulgenza verso i dissoluti, materiale didattico per la scuola di virtù. Esempio: non si può conoscere a priori se un seme è velenoso, o no: se un dato fungo è letifero o édule. Solo dopo la morte di chi si è prestato a ingerirlo noi siamo fatti consapevoli che… «non tira aria». Tutti i colpevoli, tutti i peccatori, sono dunque necessari alla definizione della colpa, della non-colpa: e alla conseguente pratica del bene, e al ripudio del male. Ogni più sinistro e pericoloso ribaldo, ogni pendaglio da forca, è cavia benemerita: della farmacopea generale dell’umanità: così come ogni cavia in gabbia, ogni sciagurato rattonzolo, a Careggi, è strumento benemerito delle nostre cognizioni cliniche o batteriologiche, è confessore, cioè martire, del «bene» che siamo pervenuti a conoscere: bene clinico: o batteriologico. Il «bene» si separa dialetticamente dal «male» attraverso le disgiunzioni operate ed espresse da una storia, vale a dire da un’esperienza: non è bene dove non è altrettanto male nella dialessi del mondo: bene-male sono i due diòscuri altalenanti sulla linea d’orizzonte, che quando l’uno sorge, l’altro sommerge. Si può affermare che quand’anche sceverati (polarizzati), necessariamente coesistano: come siero e grasso, dal latte, che la centrifuga disgiunge.
Questo avvertimento ci porta a considerare il crimine, il male, il peccato, i peccatori, i delinquenti, come termini conecessari all’articolazione, cioè alla costruzione e alla espressione, della vita: e Faraone in trono un sin-verguenza, profittatore della miseria d’ognun d’essi. Un soldato cade, un altro scampa a battaglia, sopravvive alla guerra: il morto giace, il vivo si dà pace. Tutti i matricolati della questura sono pure loro, poerini, dei «momenti espressivi» della vita: cascatelle un tantino capricciose in quel deflusso di deformazioni multiple che sogliamo chiamare «la vita», storicamente apprezzata, cioè distesa in una consecuzione temporale. L’augusta virtù defluisce, con solenne compostezza, per il filone centrale: in quanto altre masse d’acqua si sono incaricate (ont pris sur elles-mêmes) di «riempire» gli itinerari esecrandi.
Ne discende la norma – evangelica? epievangelica? – della carità: per la quale tutti noi, i più pomposi e i più virtuosi di noi, dobbiamo o debbono ritenersi, o ritenerci, solidali e corresponsabili nel male coi più sciagurati peccatori. Se un eredo-luetico alcoolizzato, a Maracaybo, taglia la gola con un colpo di rasoio a una povera meticcia ch’egli sfruttava e picchiava fino a farla sputar sangue, io, io Carlo Emilio, ne sono per la mia quota parte responsabile. (Attraverso il cumulo di benefici che nella «evoluzione» del mondo si sono accumulati, a prezzo della sifilide del Maracaybo, insino a produr me, ne’ miei virtuosi appartamenti: indove l’Onore, la Dignità, la Verecondia, la Temperanza nel prender cibo, oltreché la nobile Carenza dei biglietti da cinquemila mal guadagnati, o anche ben guadagnati, hanno eletto il domicilio.) Dostoiewski sembra accentuare questa verità, con la potente arsi del dramma. Leibniz, ereditando da Origene e da’ più pensosi scolastici, ha energicamente affermato la correlazione bene-male: il male non è se non il revers-de-médaille del Colendissimo, dell’Ineffabile Bene. Polemizza, negli Essais de Théodicée,con Pierre Bayle: e la infinitamente sfaccettata polemica ritorna tutte le volte a quel punto. Voltaire lo sbeffa: la «harmonie préétablie» e l’«optimisme» del mansueto indagatore sono bocconi troppo ghiotti al suo spirito gouailleur, insperato pretesto alla gouaillerie: mais... il faudrait d’abord avoir compris.
Se non che il Genet ci induce qualche volta in sospetto: egli non è soltanto una vittima del meccanismo del mondo: non è (alla pagina) il puro peccatore, necessitato dalla dialessi del mondo al delitto, il termine co-necessario (leibnizianamente) alla antistante Pompa di Virtù: non è soltanto la benemerita cavia di cui sopra. Ci appare incaparbito Narcisso. E glie la perdoneremo. Tutti noi ci studiamo valutare, sopravalutare, la nostra condizione, il nostro essere. Sono domenicano? Ah i domenicani! Sono siciliano? Ah i siciliani! Sono ortolano? Ah gli ortolani!
Lui è un ragazzo abbandonato, raccolto al brefotrofio della carità senza carezze, scampato per un pelo al riformatorio, all’istituto dei corrigendi: laureato dal carcere. C’è del compiacimento, se pur freddo, nel suo rimestare: una esibizione istintiva, disperata, incoercibile: una leggera falsificazione dei moventi, forse dei «modi».
è da concedere che in ogni uomo o scrittore, in ogni memoria, in ogni consapevolezza d’uomo o di scrittore, si può sceverare dal referto un’autoapologia: ogni uomo si sente «momento espressivo» d’una dialessi, e tende a porre in luce la «necessità» e quindi il «merito» della propria posizione. Nei patetici termini, magari, del pentimento cristiano.
è da avvertire che il titolo del libro, Journal du voleur, non è centrato sul contenuto reale. Il furto... È caduta motivata dalla fame: imposta alla sciagurata anima di Genet dall’esterno, dal bisogno di metter pane sotto al dente, di procurare un giaciglio. È, ancora, un sintomo dell’esasperazione, un aspetto della «vendetta» contro la società. È macchinazione, è azione secondaria.
Della vicenda di vita, e della notazione che le consegue, altro è il filo conduttore. Gli enjolivements di tipo noético e i problemi di metodo e la poetica del recupero elettivo non ci ingannano: gravano, è vero, sul racconto.
Genet, abbandonato dalla madre, esce dallo squallore d’un orfanotrofio alla strada: alle strade senza meta e senza fine. La gioia del furto è, talora, in lui, rivalsa, è «vendetta». Dacché la società si identifica nel delitto della madre, che ha tradito, cioè abbandonato, il bambino. Altre volte egli «ama» e «insegue» nella disperazione la madre: una imagine sconsolatamente astratta per lui, un concetto: la sconosciuta e pressoché metafisica entità da cui è disceso alla fame, ai turbamenti della carne. Ma il sistema totale degli interessi, degli appetiti, dei pruriti, dei sogni, di tutti gli stati e i moventi psicologici (ed etici) del vagabondo giovinetto si coagula, in realtà, in una bruciante passione: ’a passione sua: nata, forse, dalla «modalità» stessa della vita collettiva tra maschi (orfanotrofio), dalla mancanza di «affetti domestici», (2) da predisposizione malinconica, da scompensi endocrini, che so: confortata dalle condizioni del carcere (dove i moralisti baffoni vorrebbero rinchiudere tutti coloro che. Bel rimedio. E avreste voglia a pagar tasse, da fabbricare penitenziari bastevoli). La passione sua: che è quella, altresì, che fu di ser Brunetto e del Bazzi (Giovanni Antonio) e del Vannucci Pietro di Cristoforo da Castello della Pieve, oggi a’ novi secoli Città della Pieve: (3) di Paolo (Verlaine) e di Gide e di Rimbaud e di Cocteau e di Proust e di Sachs: (4) di Melville e di Walt Whitman: di alcuni Visconti e Lorena (5) e di tre o quattro Oddi o Baglioni e dei due Borgia, padre e figlio, e del Farnese Pier Luigi «nepote» (ad Alessandro ovvero cioè Paolo III) immortalato da Tiziano (Vecellio), oltreché dal Varchi Benedetto: di Giacomo I Stuart e del suo «favourite» Georges Villiers dipoi Duca, manco a dirlo, di Buckingham immortalato da van Dyck (Antonio: Firenze, Galleria Palatina detta Pitti): di Federico II di Hohenzollern e forse, dopo di lui, di un qualche altro regnante, Hohenzollern o no: e di Tiberio Cesare a Capri (Tacito, Svetonio). Adde: Michelangelo, (6) Virgilio, Socrate, Platone, Catullo, Shakespeare (Sonnets), Giovanni Vittorio Moreau, il vincitore di Hohenlinden, Prisciano di Cesarea, Francesco d’Accursio, Andrea de’ Mozzi, Carlo Augusto Platen, Giovanni Luigi Uhland, Goethe Wolfango en passant, e il Winckelmann araldo de l’arti e de la gloria assassinato da un cameriere a Trieste (Tergestum): e Galba, Otone, Vitellio, Nerva, Caracalla, Eliogàbalo. Degli altri fia laudabile tacerci, ché il tempo sarìa corto a tanto suono.
In paragone a Paul (Verlaine), Jean (Genet) ha il certo svantaggio di non poterci frinfrinare la «chanson bien douce» in onore della moglie. È noto che in onore della su’ moglie a va e vieni, spaurita, ingobbita dalle scenate e magari dalle busse, il (momentaneamente) ripentito poeta ci regalò quei versi:
Accueillez la voix qui persiste
Dans son naïff épithalame...
(Sagesse, 1-8)
Un naivo epitalamio di sbronze, di minacce col revolver. Per poi regalarci quegli altri, non meno vivi ed esquisiti (Parallèlement. Laeti et errabundi):
Nous allions, – vous en souvient-il,
Voyageur où ça disparu? –
Filant légers dans l’air subtil,
Deux spectres joyeux, on eût cru!
Il viaggiatore disparito e secondo spettro gioioso è naturalmente l’Arturo, l’ex-revolverato di Bruxelles. «Mort, vous, toi, dieu parmi les demi-dieux! Ceux qui le disent sont des fous! Mort, mon grand péché radieux…». La lirica sembra riassumere nei modi del dolore, della concitazione poetica, dello sgomento, i dialettizzanti «motivi» di Genet. Non posso astenermi dal richiamare alcune quartine centrali (Gide le ha escluse dalla sua Anthologie, operando indi una saldatura infelice). Sovvengono, àlacri, al mio incarico d’informatore coscienzioso.
Le roman de vivre à deux hommes
Mieux que non pas d’époux modèles,
Chacun au tas versant des sommes
De sentiments forts et fidèles.
L’envie aux yeux de basilic
Censurait ce mot d’écot;
Nous dînions du blâme public
Et soupions du même fricot.
La misère aussi faisait rage
Par des fois dans le phalanstère:
On ripostait par le courage,
La joie et les pommes de terre.
Scandaleux sans savoir pourquoi (sic)
(Peut-être que c’était trop beau),
...............................................
Troppo sì, troppo... (bello). Lo dic’anchio, si dice a Firenze.
Un compagno dopo l’altro, per Jean Genet: uno alla volta. Il gelo delle notti, la fame, le soste all’addiaccio. O nel falansterio, o nella buiosa, (7) due «sposi modello». O contubernali nel contubernio di miseria. Le patate... di quando in quando: non sempre. Formicolanti nel buio, sulla calda pelle del giovane e su quella del compagno condormente, lungo i sogni della tenebra, tra i morsi di fame, gli eserciti infiniti e l’infinita cavalleria dei pidocchi. Le grandi manovre dei pidocchi. (Forse la mirabile composizione di Arturo, Les chercheuses de poux, lucidità e classicità senza riscontro, ha incuorato un po’ tutti. Poi la guerra, Barbusse, la trincea. La nuova Iliade può fare a meno d’Agamennone, de’ suoi pidocchi no. Elevati a cittadinanza letteraria e a dignità poetica i pruriginosi squadroni. Dice con ottocentesca verecondia il Ranieri del suo povero ospite, che «il povero Giacomino soffriva di ftiriasi». Anch’io, senz’esser Giacomo, ho avuto occasione di soffrire di ftiriasi: 1917-’18: Rastatt: Kriegsgefangenenlager, Friedrichsfestung.)
Il referto non si abbandona alle andature spigliate o malizioso-allegre della narrativa picaresca, né in alcun momento né in alcun modo risente d’una qualsivoglia circolazione d’ironia. La battuta (e cioè il giudizio e l’imagine) è scevra d’ironia. È nobilmente burocratizzata in una prosa perfetta. È seria, secca, acre. Una esplicita ma dichiarata amarezza: non quella che deriva alla pagina dal circolo umorale sottostante e profondo, dalle allusioni, dalle litoti, dalle ambagi, dalle caute perifrasi, da deliziosi sottintesi. La pittura è magra, è risoluta nel tratto, è definita in sé: non lascia travedere un al di là. Spietata o disperata, a momenti, non è tuttavia Goya: e neppure è Quevedo. Non vi palpita in sanguigna sua grullaggine quel «cuor contento nella miseria» che contraddistingue alcuni assai orecchiabili motivi della vie de bohème. No, Jean Genet non ride: men che meno sorride: neppure per l’infinitesimo tempuscolo del lampo al magnesio può degradarsi fino a «un sorriso di bontà».
Non opera, non può operare, è ovvio, con quel tanto di mistero iniziale e di ansia investigativa con che il racconto giallo arriva a identificare e poi raggiunge il voleur, uscendo in battuta alla metropoli dagli uffici della polizia: egli è dalla parte del ladro, non dalla parte della polizia. E neppure gioca a quella «epicizzazione fanfaronesca del delinquente diavolo» che la deteriore letteratura da edicole e più d’una volta il cinema hanno sceneggiato pei ragazzi, o per i loro adulti equivalenti.
Egli vuole che l’adorato delinquente gli venga disegnato il più perfetto possibile, il più audace e il più deliberato possibile. Si tratta, quasi, di volontaria costruzione dell’imagine dell’«adorato delinquente». Il verbo adorare, poi, e l’atto dell’adorazione, li leggerete a ogni passo: riferiti a persona, riferiti a oggetto: feticcio sacro, in tal caso. «Avec un léger sourire impertinent, mais négligemment, il me regardait l’adorer. Je sais qu’il m’aimera» (pag. 24).
D’altronde la vita de’ suoi tipi comporta certi trucchi, certi espedienti, che raggiungono a volte ai nostri banali occhi il grottesco. Genet non si lascia sconturbare dalle evidenze del grottesco e annota ogni cosa con lucida e secca serietà, in una lingua e in uno stile d’una magrezza impeccabile: e ci edifica sopra, in aggiunta, i severi e mirabolanti castelli dei problemi etici, espressivi, gnoseologici… qui l’intriguent à tout moment.
Una «tapette» riesce a combinare un’occasionale amourette con un gendarme, come chi dicesse con un carabiniere (spagnolo, a Barcellona, nottetempo): se la sbrigano alla meno peggio nella garitta in dove il gendarme è di guardia. A cose fatte il gendarme chiede compermesso un momento e s’allontana verso la fontanella, lasciando in garitta il mantellone carabinieresco, di buonissimo panno nero. La «tapette» taglia la corda con il mantellone: vola dallo sposo: e Genet, per il resto della notte, ha la sua calda coperta.
«Ainsi m’aperçois-je que je n’ai recherché que les situations chargées d’intentions érotiques » (pag. 90: passaggio critico ed esegetico). Molto attento ai rapporti psicologici fra persone (fra delinquenti, o fra delinquenti e vittime, o fra delinquenti e carcerieri, e poliziotti) Genet contribuisce con molti altri scrittori allo studio di quei mutui (e talora muti) intercambi d’energia per cui i trattatisti non hanno ancora escogitato una nomenclatura. E nemmeno sono pervenuti a riconoscerli, nonché a studiarli, a sistemarli in un ordine di cognizioni positive. Eppure queste «azioni gravidiche», simili alle attrazioni-repulsioni di Newton e degli elettrologi, sono operanti e manifeste nella società delle anime: e sono gran fatto e potenza nel gioco intricatissimo delle umane relazioni. La «massa (8) psichica» agisce da persona a persona come agisce da un corpo a un altro la massa gravidica. L’inter-azione (9) psichica è acutamente osservata e segnalata nel racconto. Dallo Genet, per lo più, con uno spirito di indagine e di veridicità positiva che continua Balzac nel dominio infinitesimale: qualche volta con una tensione un po’ voluta, con uno sforzo, impostogli dalla sua mania del costruire à tout prix la sua imagine. Questo balzachismo infinitesimale urta a dei limiti: 1) va a sbattere, certe volte, in certe quistioncelle di lana caprina; 2) appesantisce la levità del racconto rovesciandogli addosso tutta un’algebra di finezze. Si ha nostalgia di Petronio. Tutto ha un limite, a questo mondo, in cui ogni finito è definito da limiti (Spinoza). E anche la finezza avrà il suo, un giorno o l’altro, m’immagino.
Gran merito comunque, della narrativa, della poesia, della più acuta saggistica, l’aver messo in luce questo gioco, questa inter-azione psicologica (non ogni volta espressa nella fisionomia, o nella parola, o nelle schioppettate) con buon anticipo di fase rispetto alla magna trattatistica e alla storiografia d’alto bordo. Una storiografia un po’ ammodernata dovrà tener conto, un giorno o l’altro, di questo gioco delle tensioni mute, non colorabile secondo un coloris etico o dichiaratamente razionale.
Lo Genet, mi sembra evidente, ha bazzicato i filosofi. Il suo esposto è qua e là interrotto, qua e là infarinato dallo sbriciolarsi lungo la pagina de’ problemi di costruzione e di scena: etici, gnoseologici: questioni di metodo: rapporti tra la cosiddetta realtà, di cui si dubita, e la costruzione dell’immagine voluta e della vita voluta, in cui si crede, o almeno si spera. Come se allo spettacolo, a teatro, ci fossero esibiti, col dramma, tutti i trucchi, i cordami, le leve, le carrucole, gli elmi di pompieri del retroscena.
L’ansia del recupero mnemonico (Saint-Simon, Proust) è sostituita, in Genet, dall’ansia di una scelta liricizzante (affermazioni esplicite al riguardo: passim), da una mistica del voler essere, da una vocazione après coup, matrice del segno, e dell’immagine ch’esso contiene. «Exalté par mon amour, je voulais vivre avec Stilitano de périlleuses aventures. Lui-même paressait vouloir se prêter au jeu et m’éblouir par son audace» (pag. 131). «Je choisis la France » (a teatro de’ suoi furti) «par un souci de profondeur. Je la connaissais assez pour être sûr d’accorder au vol toute mon attention, mes soins: de le travailler comme une matière unique dont je deviendrai l’ouvrier dévoué». Qui rigore logico e verità (souci de profondeur) e feticismo consacrante: (matière unique… ouvrier dévoué) (pag. 121). «Je refuse d’être prisonnier d’un automatisme verbal…» (pag. 64).
La componente immaginifico-lirica e la esegetico-critica prestate dallo «storiografo» al racconto prevarrebbero, molte volte, sul «dato» (nel senso dei positivisti). L’autobiografia non è la storia d’una vita già sofferta, ma una scelta di immagini con cui io, ora, al tavolino, costruisco me stesso, e rappresento me stesso dopo colpo, vale a dire dopo consunta la festa, interpretando a ritroso un passato ineffabilmente probabile. (Concetto della probabilità fisica nella teoria dei quanti. Onde di probabilità.)
Quest’ansia del voler scegliere e del «voler essere stato» ottiene tre effetti, alla pagina: 1) scombina i tempi dell’accaduto, e i luoghi, talvolta: una certa storia viene anticipata ad un’altra, che nella realtà l’ha preceduta: un fatto vien collocato a Barcellona mentre s’è svolto a Cadice; 2) perviene a falsare la grossezza sporca e pesante della reale vicenda, cioè a lavarne via l’abominio; 3) tende a sublimare le immagini con iniezioni d’eroina (dialettico-lirico-critica) investendole d’un significato rigoroso, che permetta di inserirle in un rigoroso (e arduo) sistema di conoscenza.
Dirimpetto alla qual sublimazione, il mio istinto un po’ vecchiotto rimane... un po’ perplesso.
1950
1. Jean Genet, Journal du voleur.
2. Le ricerche de’ pedagogisti e psichiatri hanno dimolto annaspato sulla correlazione tra i mancati affetti familiari e le deviazioni omoaffettive. Con più lena, e speriamo con più sagacia, avranno a lavorare in futuro.
3. Nell’opera del Bazzi riconosce Adolfo Venturi «la studiata leggiadria d’un tipo muliebre molle e opulento». Dei maschi non dice nulla, in quel punto. Il San Sebastiano della Palatina è un maschio: e nelle Nozze di Alessandro e Rossane alla Farnesina si avverte pure qualche presenza maschile, nobilmente alessandresca. Del Vannucci Pietro collauda Achille Bertini Calosso la facoltà di «creare ai personaggi assorti in un’estasi ultraterrena l’ambiente più proprio» (all’estasi medesima). Gli autoritratti vaticano (Sistina) e perugino (Collegio de’ Cambi) sono documenti non dirò probanti, per riguardo a certe predilezioni del cuore, ma introducenti in alcuna terrena suspicione.
4. Maurice Sachs. Le Sabbat. Per similarità di premesse psicologiche (di cartelle cliniche) il libro si apparenta al Voleur. Sachs è molto più vicino alla tradizione memorialistica francese: ci offre una galleria di cattivellissimi e vivacissimi ritratti, di »uomini di lettere».
5. Riferendosi a un Lorena e poi a più Lorena del suo tempo, annota Saint-Simon: «... il fut bombardé Précepteur... (del giovane Delfino). Son goût n’était pas celui des femmes». E qualche pagina più innanzi: «... la sodomie avait bien servi les Lorraine: comme eux l’avaient bien servie».
6. Sonetti. Lettere. A Tomaso de’ Cavalieri, a Gherardo Perini, a Febo (di Poggio a Caiano).
7. Cella, prigione, cachot: nel gergo.
8. Uso la parola «massa» nel senso della fisica, non in quello della terminologia sociologistica.
9. Interazione (Zwischentat) o azione mutua (dei fotoni, delle masse elementari) è termine della fisica dei quanti.
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