L’alba della Cognizione: Gadda postmoderno?

Giuseppe Stellardi

La notizia della pubblicazione di Céline, Gadda, Beckett di Norma Bouchard (Bouchard 2000a) ha lasciato sperare in un cospicuo e da tempo atteso passo avanti nell’approccio critico comparativo all’opera dell’Ingegnere. La semplice associazione di questi tre nomi ha l’effetto di aprire, finalmente, prospettive veramente europee agli studi gaddiani, talvolta segnati da una certa insularità; si trattava anche, più specificamente, di colmare lacune ormai ingiustificabili. Quanto al rapporto fra Gadda e Céline, infatti, già Contini (suggeritore anche di un altro riferimento transalpino e novecentesco importante, quello a Proust) si era accorto dell’air de famille, Gadda stesso l’aveva confermata, qualche altro critico opportunamente sottolineata; penso, per esempio, a Wladimir Krysinki (Krysinski 1997). Per Beckett, Nicoletta Pireddu aveva condotto un raffronto puntuale fra la Cognizione e Molloy (Pireddu 1994). Esistevano quindi stimoli e indizi sufficienti per un più sistematico raffronto a tre. Il libro della Bouchard, dunque, oltre a spalancare porte e finestre su dimensioni transnazionali e comparative, avrebbe potuto contenere la conferma definitiva, e cioè la prova testuale oggettiva e l’elucidazione logica, dell’esistenza di una linea Gadda-Céline-Beckett, che prima poteva essere soltanto una interessante intuizione. Si sarebbe trattato di un contributo veramente cospicuo.

Già il sottotitolo dell’opera, però, è tale da ingenerare qualche sospetto. Recita, in effetti: Experimental writings of the 1930s; e qui ci si trova subito a dover dissentire. È convinzione di chi scrive che sia errato e sviante parlare di «sperimentalismo» nel caso di Gadda, e del Céline dei romanzi maggiori; per Beckett forse il termine è legittimo, limitatamente a una parte ristretta della sua opera. Per Gadda, invece, anche se lui stesso occasionalmente usa il termine «sperimentare» relativamente al suo lavoro letterario, (1) tenderei a parlare di ricerca espressiva e stilistica, non di «tecniche sperimentali» (alla maniera dei futuristi o dell’Oulipo, per intenderci). Gadda non è sperimentalista: perché un concetto tecnicamente sperimentale di scrittura è in contrasto radicale con l’idea, per lui fondamentale, di un rapporto insopprimibile (e di natura eminentemente etico-biologico-sociale), di un indispensabile contatto diretto fra lo scrittore, il linguaggio e la realtà che esige espressione. «Sperimentare», nel contesto della creazione artistica, implica invece di solito un distacco rispetto all’oggetto della sperimentazione, in questo caso la lingua: distacco che Gadda rifiuta. I suoi non sono esperimenti premeditati, ma secrezioni: l’esperimento è opera di un cervello astraente, la secrezione, invece, di un corpo vivente. Modulare la secrezione e interrogarne curiosamente le possibili direzioni si può, ma non è «sperimentare»: non, almeno, nel senso sopra esemplificato, e peraltro ampiamente praticato tanto nel novecento, quanto in epoche precedenti.

Una volta arrivati ai risvolti di copertina del libro in questione, i timori suscitati dal sottotitolo prendono corpo: tanto un anonimo redattore, quanto lo stesso Wladimir Krysinski in veste di prefatore, ci informano senza mezzi termini che «such writers as Céline, Gadda, and Beckett produced a new vision which later came to be known as postmodernism».

Si impone qui un importante chiarimento preliminare. La lettura, amichevolmente critica, del libro di Norma Bouchard non è in nessun modo legata a un sospetto di fondo nei confronti della cosiddetta «teoria»; dichiaro anzi volentieri un pregiudizio ampiamente favorevole rispetto a indagini testuali guidate da strumenti teorico-letterari e filosofici. Così, la menzione di concetti quali «strutturalismo», «formalismo», o perfino «decostruzione», tanto per fare qualche esempio fra i più vilificati da parte di chi nutra remore nei confronti dei discorsi teorici, non mi pare affatto fuori luogo in sede critico-letteraria. Non credo, inoltre, che solo nozioni semplici e immediatamente perspicue abbiano diritto di cittadinanza nel dibattito filosofico e critico.

In pari tempo, devo però confessare di nutrire un’ostinata riluttanza ad accettare per buona e utilizzare serenamente la coppia concettuale «modernismo – postmodernismo», al giorno d’oggi così invadente, sempre più inflazionata, ma non per questo meno scivolosamente sfuggente. Sono conscio di riproporre in questo una radicata e forse stereotipa antipatia nazionale, probabilmente motivata da reali differenze di storia culturale; ma non penso di essere mosso da vieto preconcetto. La coppia «strutturalismo – post-strutturalismo», per esempio, si applica a realtà certamente complesse, ed è meno trasparente di quanto alcuni credano; e tuttavia ha sicuro valore conoscitivo e applicabilità, fatta salva ovviamente la necessità di distinguere e approfondire. La categoria del postmoderno non è affatto priva di senso, ed ha anzi generato esercizi di alta intelligenza: ma, in quanto concetto critico di uso corrente, mi pare che per lo più serva, se non a confondere le idee, almeno a semplificarle oltre il dovuto. Ciò è talmente vero che, a dispetto delle finissime elaborazioni di Lyotard, Jameson, Baudrillard e tanti altri, essa finisce spesso per puntellare concettualmente affermazioni contraddittorie e di limitato valore euristico, oltre che – talvolta – di sconcertante superficialità. Insomma, si presta a troppi usi e al tempo stesso è di troppo scarso aiuto alla comprensione. Non credo, del resto, di dire cose nuovissime, né mi illudo di convertire gli adepti del postmoderno. Voglio solo spiegare come mai la mia lettura del libro in questione, iniziata nell’entusiasmo, sia poi proseguita sotto il segno della cautela (o, insisterà chi non è d’accordo con me, del pregiudizio).

Le opere analizzate dalla Bouchard sono, per Gadda, quelle comprese fra il Giornale e la Cognizione (quindi una parte importantissima del corpus); per Céline, Voyage au bout de la nuit e Mort à crédit; e, per Beckett, Dream of fair to middling women, More pricks than kicks e Murphy (cioè le opere del periodo inglese). Spero di non fare troppo torto alla collega americana se, di necessità, riduco all’osso i suoi articolati e documentati argomenti. In breve: Gadda, Céline e Beckett propongono, già negli anni trenta, una coscienza della lingua, un rapporto con l’opera, una relazione con la realtà fenomenica e in particolare sociale, e un senso di se stessi in quanto scrittori, che – continuando la rivoluzione delle avanguardie storiche e superando i limiti del modernismo di inizio secolo – attivamente preparano le condizioni concettuali e stilistiche del postmodernismo che caratterizzerà la seconda metà del novecento. Questa la tesi, suffragata da prove documentarie e logiche che non potranno qui tutte essere discusse esaustivamente.

L’ipotesi è allettante, e credo se ne intuiscano immediatamente – al di là della correzione tecnica di prospettiva storico-critica che essa suggerisce – il significato e la portata più ampi. Beckett, ma soprattutto Gadda, e più ancora Céline, sono – in modi diversi – figure di grandi isolati (e il terzo lo si potrebbe tranquillamente definire un reietto) nella letteratura del novecento. Si tratta quindi non soltanto di ricollocarli nel grafico della storia letteraria contemporanea, ma anche di sottrarli alla loro solitudine, di inserirli in una sincronica comunità ed anzi fratellanza spirituale di intenti e modi, e in una diacronica evoluzione e successione storica di opere e di poetiche. Insomma di coordinarli al secolo in cui vivono, reintegrarli nella carità del tessuto sociale e ideale a cui sono parsi talvolta dolorosamente estranei, e simultaneamente – illuminandoli della luce di categorie critiche più o meno assodate – renderli meno indigesti a falangi di nuovi lettori. Con beneficio di tutte le parti in causa: i tre ex-diversi verranno meglio accolti, letti, capiti; i movimenti a cui si sarà potuto ascriverli in termini di ascendenza o discendenza si gioveranno del formidabile sostegno convalidante di tre grandi; tutti avremo vita più facile nella diuturna fatica del nostro insegnamento; e il mondo delle idee sarà un pochino meno disgregato e ostico.

Non è da sottovalutare, a dispetto del distacco professionale con cui l’operazione è condotta, la componente emotiva e direi «filantropica» del gesto: abbiamo davanti, a giudicare dai testi e da quello che pensiamo di sapere delle vite, tre casi di straordinaria sofferenza morale. Forse qualcosa si può salvare, di queste vite disperate; forse, dopotutto, un senso positivo c’è stato, una redenzione simbolica in un destino comune e non tutto buio non è impossibile. Ne saremmo tutti altamente confortati. E poi l’eloquenza pesante, facile e senza sbocco del «male di vivere», il pathos dell’«abisso del senso», dell’«incomprensibile tragedia», così come la retorica dell’«unicità» e dell’«incommensurabilità», alla lunga finiscono per stancare; è un sollievo e una necessità poter parlare, invece, d’altro, e per esempio poter misurare l’individuale e l’oscuro al metro del concettualmente noto, o ritenuto tale (nella fattispecie, modernismo, futurismo, postmodernismo).

Nel caso di Céline il gesto è particolarmente ardito: si ricordi che questo autore è stato talvolta condannato all’esclusione, reale e perpetua, per motivi di imperdonabile difformità ideologica (così ha decretato Sartre, per esempio, in uno dei suoi momenti peggiori): perché, insomma, pare non la pensasse come noi – su temi peraltro assai gravi e che mi guarderei bene dal trivializzare. Riguadagnarlo a una certa qual normalità evolutiva, dunque, almeno a livello stilistico e poetico, non è operazione di poco conto.

Per Gadda le cose stanno un po’ diversamente. Per quanto atipico e a lungo marginale, questo scrittore – lo riconosce volentieri lui stesso – è stato accompagnato, e quasi preceduto nella realizzazione della sua opera, da una significativa e ininterrotta simpatia critica – con le debite eccezioni, s’intende. Al giorno d’oggi, grazie anche all’opera intensa di editori, filologi e critici, e nonostante qualche scrupolo residuo (parlo, per esempio, delle esitazioni concernenti il «fascismo» di Gadda), l’Ingegnere sembra prossimo alla definitiva canonizzazione. Proprio per questo un allargamento dell’orizzonte a dimensione europea, combinato con un’espansione diacronica delle coordinate interpretative, sembrerebbero venire particolarmente opportuni: come può nuocere alla grandezza di Gadda dimostrarlo idealmente, oltre che storicamente, coevo a altri grandi coetanei d’oltralpe, e con essi parte integrante delle correnti culturali che hanno disegnato il novecento, e delineato, anzi generato i più significativi sviluppi futuri? Non dovrebbe ogni sincero gaddista tripudiare che si sia finalmente pervenuti a questa fausta giuntura?

Vorrei esternare una parola di monito: ho l’impressione che a forza di voler, con le migliori intenzioni, inquadrare un autore secondo assi sincro-diacronici, e inserirlo dunque in una prospettiva macro-storica (e cioè, sia detto tra parentesi, in una «narrazione totalizzante»: che, se non erro, dovrebbe costituire precisamente il principale fra gli idoli negativi del postmodernismo), si finisca per inchiodare il povero Gadda (e credo anche i due ladroni ai suoi fianchi) a una croce che non merita, e – quel che è peggio – preparare il terreno a gravi fraintendimenti.

Restringendomi a Gadda, dirò in primo luogo che non ho obiezioni di sorta all’idea che egli, come chiunque, sia di tutto diritto inserito in un ambiente e in una storia con i quali, dando e ricevendo, interagisce pienamente. Trovo invece problematico lo specifico diagramma di forze (o, meglio, di cause e di effetti), che la studiosa perviene a delineare. Mi sembra, infatti, che l’operazione della Bouchard possa aver l’aria di riuscire solo forzando un pochino la mano sia a testi, che a concetti, che a indizi di carattere storico. Vediamo come, almeno per esempi.

Una forzatura significativa è quella che chiamerò l’avanguardizzazione dell’Ingegnere. La collega, mi affretto a precisare, usa sì il termine avant-gardizing, ma in relazione a Beckett, non a Gadda. Tuttavia un pilastro del suo ragionamento la conduce a sostenere che il Nostro, a dispetto dell’antipatia spesso esplicitamente manifestata, non sia affatto ostile, e neppure estraneo, alla poetica del Futurismo e altre avanguardie. In questo modo reperisce l’anello mancante nella serie di moti di emancipazione linguistico-stilistico-ideologico-sociale che, da Folengo, al Belli, al Porta, alla Scapigliatura, alle avanguardie storiche, ai neo-avanguardismi e sperimentalismi della seconda parte del novecento, attraversando Gadda come momento cruciale, portano senza soluzione di continuità alle pratiche postmoderne e correnti. Conducono, nel caso specifico, a Calvino e Eco, che la Bouchard finisce per isolare come portatori coscienti, in area italofona, del virus postmoderno di cui Gadda sarebbe stato portatore inconscio, se non addirittura co-creatore ante litteram. Ed ecco delinearsi (questa è un’illazione mia) una triade canonica nuova: Gadda-Calvino-Eco, dopo Pascoli-Carducci-d’Annunzio, Foscolo-Leopardi-Manzoni, etc.

Tornando alle avanguardie, per quanto riguarda il Futurismo in particolare, la Bouchard prende a testimone un passo di una lettera a Carocci del ’26 (Gadda 1979a: 16), in cui Gadda non solo non parla male del movimento, ma anzi addirittura segnala – per quanto abbastanza cautamente, a dire il vero – una certa consonanza con le proprie intenzioni artistiche; e poi, soprattutto, la collega si appoggia su quella che interpreta come oggettiva prossimità programmatica e stilistica: non vuole Gadda, infatti, liberare la lingua dall’oppressione grammaticale e sintattica, dall’ossessione soggettiva, dalla schiavitù nei confronti della retorica e del passato? Nella pratica della scrittura Gadda ha poi modi che fanno pensare a certe «regole» e abitudini proto-futuriste, e al «paroliberismo». Anche se le personalità e gli atteggiamenti lo irritano, l’intenzione e la realtà del rapporto del futurismo con la lingua (ma anche con i miti socio-culturali della tribù) non sono forse gli stessi ai quali egli sottoscrive? Già Contini, del resto, se n’era reso conto (Contini 1989: 57, 7). Così la Bouchard.

Bisogna, in primo luogo, concedere che certe consonanze, superficiali e non, sono effettivamente presenti. Ci sono, in Gadda, ardite sintesi verbali che fanno pensare al Futurismo, e a queste credo si riferisse Contini; ci sono nominalizzazioni astraenti o concretizzanti, ci sono raddoppiamenti lessicali e strutture paratattiche. Confesserò, per inciso, di non essere uniformemente entusiasta di tutti gli ardimenti linguistici di Gadda; e trovo che i meno convincenti siano precisamente quelli (i «pitecantropi-granoturco», per intenderci) che più fanno pensare a Marinetti & Co.; ben altri sono i titoli di merito linguistico e stilistico dell’Ingegnere, e quelli poco hanno a che vedere con i manifesti futuristi. Gadda è parte di un tessuto culturale e ne assorbe i fermenti e gli stimoli, certo, ma quelli segnalati dalla Bouchard mi sembrano proprio fra i meno significativi.

In secondo luogo, e quanto alla sostanza, c’è forse un errore di fondo e di prospettiva: Gadda non intende rompere con la lingua, né con la letteratura, né con la società del passato, verso le quali invece esprime per lo più ammirazione; rompe invece, e in modo esplosivo, con la realtà presente di un uso micidialmente limitativo (sia esso conservatore-moraleggiante-idealizzante, o eversivo-parolaio-estetizzante) del grande patrimonio linguistico di cui la tradizione, attraverso secoli di letteratura e di vita associata (le due concepite come indissolubilmente legate), ci ha dotato. In questo senso è forse più vicino a un Lucini (un altro «inclassificabile», che per certi versi verrebbe spontaneo assimilare parzialmente a movenze futuriste), che a un Marinetti.

Un altro esempio. Bouchard ha bisogno di dimostrare che Gadda, non solo nella realtà dello stile, ma anche in quella del pensiero, pone le basi di ciò che lei ritiene essere una poetica postmoderna. Prende in esame dunque, nel Cahier d’études, nella Meditazione e in alcuni dei saggi, i segnali di una filosofia consona a quella poetica, soffermandosi in particolare sul problema crucialissimo del male. Trova che Gadda esprime, nel Cahier, nella Meditazione e altrove, un concetto di male come coestensivo al bene, e dunque l’idea che il reale, l’essere, sia necessariamente sempre composto di male e bene; ne conclude che lo scrittore anticipi una moralità postmoderna, avversa ai grandi (o piccoli) dogmi etici, localizzata anziché totalizzante, comprensiva invece che esclusiva, e così via. Forse (suggerisco io) un’anticipazione del moderno «pensiero debole»? (2)

è possibile; o – per essere più precisi – è una possibilità. Direi che, sì, c’è certamente in Gadda quell’idea del male, che talvolta egli descrive come «bi-polare», e che in parte mutua (lo dice lui stesso) dalla «concezione relativistica» e dalla «teodicea stoica» (espressioni sue: Cahier d’études I, SVP 416); né vorrei, in ragione di queste associazioni, negarne l’importanza e l’originalità. Ma ciò che l’autrice sembra non vedere, è che in Gadda quell’idea «co-estensiva» del male non sostituisce, anzi si accompagna sempre al suo opposto, cioè alla nozione che il male è, essenzialmente, non-essere: il dissolversi del reale, il disaggregarsi di ogni pensiero e di ogni verità, davanti al quale – anche per propria autodifesa, oltre che per preservare la consistenza dell’essere in generale – si esige una forma di moralità responsabile (chiamiamola così) più tradizionale, manzoniana, lombarda, che non può non richiedere l’identificazione chiara del male come nemico del bene, da combattere e eliminare.

Questa nozione di male come non-essere, come opposto dell’essere – se mi si permette un breve inciso – è un’idea che subisce interessanti variazioni nella teologia cristiana. In John Donne la troviamo in forma concettosa e paradossale («As sin is nothing, let it nowhere be»: A Litany, XXVIII), ma in Dante la nozione è veramente centrale: cos’è in effetti Lucifero, ai confini estremi della luce e della grazia, se non il momento immediatamente precedente il precipitare dell’essere nell’abisso del non-essere, e il desiderio, motivato da gelosia, odio e disperazione, di scaraventare se stesso e il creato in quell’abisso gelido e buio? Quello – e non le fiamme dell’inferno o della passione – è il male assoluto, contro il quale non c’è altro ricorso che l’attività razionale e responsabile dei buoni, che è un dovere altrettanto assoluto.

Ma come se non bastasse, e per complicare ulteriormente le cose, c’è anche, in Gadda, la traccia chiara di una terza posizione (la definiremo «amletica»), corrispondente all’equazione dell’essere (dell’esistere) con il male: «[…] io dovevo rimanerci: e sarebbe stata la cosa più logica. Non esserci rimasto significa indubbiamente aver abdicato alla verità […]. Essere era disparire: sopravvivere significò non essere» (Castello di Udine, RR I 152). Insomma, il discorso è assai complesso e non può essere esaurito in questa sede, ma privilegiare in Gadda una morale «leggera», «debole», distaccata, inclusiva, o postmoderna che sia, significa obliterare una parte forse anche più importante della struttura mentale di questo aggrovigliatissimo scrittore. E non è un caso che i grandi modelli di Gadda (Dante, Manzoni, anche il Belli, anche il Porta, naturalmente) siano tutti portatori di una sostanza etica che il postmodernismo non può più assumere in proprio, per necessità; e che anche lui, Gadda, del resto, non può più gestire senza contraddizioni. Ma che resta, nondimeno, l’unica sua vera bandiera.

Un altro esempio concerne più direttamente i fondamenti teorici della presunta poetica gaddiana. Nel Cahier, com’è noto, si delinea una solida struttura di romanzo, che non verrà peraltro mai realizzata; questa struttura si articola in tre tempi narrativi, che Gadda descrive come «la Norma, l’Abnorme e la Comprensione» (tutti con la maiuscola) (SVP 415). Con un giro di mano che ha del miracoloso, la Bouchard riesce a vedere, in questo diagramma, esclusivamente una struttura cinematico-eisensteiniana (Bouchard 2000a: 100), e a ignorarne completamente, invece, l’abbastanza ovvio antecedente idealistico-hegeliano (che del resto, attraverso tutte le sue propaggini ulteriori in ambito post-hegeliano e marxista, deve essere all’origine degli esiti eisensteiniani). Si limita a dire, al riguardo, che, se dialettica c’è, è dialettica aperta e non chiusa, quindi non sistematica. Ho i miei dubbi. Cos’è questa Comprensione, con la c maiuscola, se non una specie di totalità? E Gadda parla ripetutamente di «universale umano». Quale che sia il valore «cinematico» di questa dialettica, come ignorarne la portata totalizzante? Ma non è proprio questa la dimensione che il postmodernismo (così almeno come la Bouchard stessa lo descrive) più si sforza di mettere in causa?

Io direi che l’interessantissimo sforzo di chiarificazione teorica da Gadda condotto in parallelo al Racconto italiano si chiude con un definitivo fallimento proprio perché non gli è possibile far coesistere l’ambizione di totalizzazione con il bisogno di verità individuale che, entrambi, tanto gli stanno a cuore. Per la stessa ragione, forse, fallisce il progetto della Meditazione milanese, e resta da ultimo aperta soltanto la strada (o meglio l’ultima spiaggia: perché in quanto strada, da un punto di vista programmatico e segnaletico, in termini di poetica coerente, quindi, non porta proprio da nessuna parte) della narrazione stupenda ma imperfetta, soggetta, semmai, più a ritmi di sistole-diastole (o catastrofica implosione-esplosione), che di onnicomprensivo superamento dialettico: e che certo non è la via che Gadda avrebbe voluto imboccare agli albori della sua scrittura.

Un ultimo esempio, in una vena simile, è quello del barocco. Com’è forse naturale, l’autrice coglie, delle esternazioni gaddiane in proposito, solo quel tanto che sembra dipingere una poetica trionfalmente anti-essenzialista, anti-dogmatica, euristica, aperta, ludica, libertaria e rivoluzionaria. Sembra non vedere, invece, che il barocco è per Gadda anche, e simultaneamente, un momento di pausa e involuzione, direi senz’altro di negatività, e include comunque non solo un’irreparabile sofferenza (questo, a rigore, potrebbe essere uno scotto soggettivo da pagare – o meglio far pagare a Gadda – a cuor leggero), ma anche un senso di sconfitta, che certo non è solo sconfitta personale ma anche collettiva e anzi quasi universale, cosmica. Ancora una volta, il barocco di Gadda non ha nulla della giocosa leggerezza postmoderna, è al contrario una cosa dannatamente pesante e – a dispetto dei vari tentativi di auto-giustificazione – assai più sofferta che cercata.

Non sono, del resto, cose nuovissime, almeno nell’essenziale, quelle che si vanno obbiettando alla Bouchard. La collega, infatti, rivela in partenza di volersi opporre a una precisa e autorevolmente rappresentata linea interpretativa (grosso modo facente capo a Gian Carlo Roscioni), da lei ritenuta dominante ma errata, alla quale giustamente accoda anche i modesti contributi di chi scrive. Rispetto – inutile dirlo – il diritto di dissentire, così come sono conscio dell’esistenza di filoni critici rispettabilissimi, per quanto diversamente orientati rispetto a quello da me preferito. Semplicemente, non trovo convincente questo tentativo – peraltro pazientemente orchestrato – di ricalibrare, sia pure, nelle intenzioni, ad maiorem gloriam Gaddi, le coordinate critiche della lettura del testo gaddiano.

Che queste intenzioni siano «buone» (e cioè che la posta in gioco sia una ri-valutazione in positivo di Gadda) lo dimostra, fra l’altro, l’immagine dell’alba, che ho mutuato nel mio titolo, e che la Bouchard eleva a posizione simbolicamente e sintomaticamente dominante nella sua lettura parallela di Gadda e di Céline. Sappiamo che la Cognizione si conclude, dopo l’orrenda scoperta del corpo martoriato della Madre, col sorgere del sole sulla campagna brianzolo-sudamericana; si ricorderà poi che anche Voyage au bout de la nuit termina sullo stesso motivo. La Bouchard è troppo intelligente per mettersi a intonare il peana dei radiosi domani; è però certo che queste due albe le vengono molto a proposito per suggerire la possibilità di conclusioni meno sconfortanti di quanto si potrebbe temere alla penosa traiettoria umana e artistica di due scrittori d’eccezione. Cito:

[…] La cognizione also finishes – without closing – at the dawn of a new day. It extends an invitation to stop trying to wrap being in the singularity of a proper name and start describing instead the being(s) of the «gelsi». (Bouchard 2000a: 122)

L’implicito suggerimento interpretativo lascia un po’ perplessi; c’è sicuramente, nel testo gaddiano, uno spostamento del fuoco narrativo verso l’esterno e l’impersonale, ma la Bouchard sembra andare oltre. In quell’«aurora di un nuovo giorno», in quell’«invito» (esteso evidentemente anche al lettore), pare tiri aria di redenzione; devo purtroppo sottrarmi a questa così invitante sollecitazione. Personalmente, trovo quei due lever du soleil fra i meno incoraggianti nella storia della letteratura mondiale; si può concedere, tutt’al più, un rimando stoico e biblico (nihil novi sub sole), per quanto, almeno nel caso di Céline, rapidamente e totalmente ingoiato da un cupio dissolvi di proporzioni cosmiche. Magari si potrebbe estrapolare qualcosa di più, mettiamo, circa l’impassibile catarsi dell’arte e il suo luminoso, oggettivo trionfare di ogni negatività. Ma l’apertura di nuovi orizzonti allo scrittore di domani (sia esso lo stesso Gadda-Céline, o il postmoderno letterato a venire), che (potrei sbagliare) pare suggerita dalla Bouchard, non sembra veramente giustificata. Soprattutto (nel contesto di quanto prima indicato a proposito di Calvino e Eco), non si vede alcuna parentela degna di nota fra i genitori putativi e i presunti rampolli, o nipotini, o pronipotini che siano.

Non voglio però chiudere questa prima parte del mio intervento senza aver sottolineato, ancora una volta, che l’idea di partenza – cioè la consanguineità profonda fra Gadda, Céline e Beckett – è non solo buona, ma addirittura cruciale per la comprensione di aspetti essenziali dell’anima del novecento (chiamiamola così); ma è questa un’idea che resta ancora tutta da sviluppare.

Vorrei ora proseguire e concludere allargando gli spunti proposti dal libro di Norma Bouchard a una discussione del problema generale dell’esistenza (o meno) di una poetica di Gadda. Mi sono, in passato, espresso a sfavore dell’idea di una «poetica gaddiana» (Stellardi 1995b); la disponibilità, in seguito, delle annotazioni per Il secondo libro della poetica (Gadda 2003a) non ha significativamente cambiato il quadro della situazione. Anzi, alcune affermazioni di Gadda (parzialmente del resto già note) in questo suo «libro del buon senso poetico» (Gadda 2003a: 12), datato o databile fra il ’25 e il ’28, sembrano confortare, in negativo, la diagnosi che mi accingo ad esporre. (3)

Sulla base dei testi oggi disponibili, e tenuto conto della congiuntura storica corrente, cioè dello stato presente delle cose gaddiane, non si vede né la giustificazione, né l’opportunità di tentare di aggiustare o ridurre la scrittura dell’Ingegnere a una qualsivoglia poetica, postmoderna o no. Si concede che molto dipende da cosa si intenda per «poetica». Ammettiamo, come ipotesi di partenza, che «poetica» significhi un sistema di idee astratte e/o regole pratiche atto a sussistere in relazione normativa rispetto a un testo letterario, presente o immaginario, proprio o altrui. Si danno, a questo punto, diversi ordini di possibilità:

a) tale sistema potrebbe essere conscio o inconscio, intenzionale o (a termini di logica) preterintenzionale; se inconscio, potrebbe essere inscritto nel testo stesso; a questo punto si potrebbe dire che ogni testo ha una corrispondente poetica; o, invece, che non a ogni testo corrisponde una poetica, ma che, quando essa ci sia, non è sempre consapevolmente presente alla mente dell’autore;

b) tale poetica potrebbe essere, altresì – ed è questo un diverso ordine di possibilità rispetto al precedente – pienamente coerente con il testo reale, oppure no, con tutti i gradi intermedi di prossimità; in altri termini, accertata o presunta l’esistenza di una poetica, resta da vedere in che modo e fino a che punto il testo fenomenico corrisponda ad essa;

c) e, infine, tale poetica potrebbe non essere affatto un sistema razionale e totalizzante, cioè potrebbe configurarsi in modo frammentario e perfino contraddittorio; al limite, allora, si potrebbe parlare di una poetica anche in totale assenza di una congruenza logica fra – da un lato – i dettami o le intenzioni, e – dall’altro – la realtà concreta del testo letterario. Ma, in tal caso, che senso avrebbe parlare ancora di poetica?

Poste queste ipotetiche premesse, si potrebbe dire, alternativamente:

1) che in Gadda c’è una poetica, la quale matura nel tempo ma sostanzialmente non cambia; è l’ipotesi della Bouchard, che fin dal Cahier, se non addirittura dal Giornale, identifica in Gadda i principi genetici di una poetica postmodernista;

2) che in Gadda ci sono almeno due poetiche, una corrispondente al Cahier e grosso modo (nonostante sprazzi di originalità) improntata a modelli letterari e teorici precedenti, poi rimpiazzata da pratiche di scrittura e da un’idea di letteratura diverse e più sovversive;

3) che c’è scarsa relazione fra le idee espresse da Gadda in materia di poetica, e la realtà effettiva della sua scrittura; nel qual caso resterebbe da determinare se sia identificabile, nel testo fenomenico, un’altra poetica, inconscia ma coerente; o se invece si debba concludere all’inanità essenziale del concetto stesso di poetica, nel caso di Gadda.

Si sarà capito che quest’ultima è la soluzione preferita dallo scrivente. Esistono, ad ogni modo, vari indizi di come lo stesso Gadda la pensasse in proposito, dagli anni trenta in poi; e ciò che ne emerge abbastanza chiaramente è il suo esplicito rifiuto a un inquadramento in termini di poetica. Per esempio, in Postille a un’analisi stilistica (1937), l’Ingegnere scrive:

[…] se pure, lavorando, mi sia avveduto subito che i modi della espressione (in un dato sistema di tempo, luogo, affetti, ambiente, cognitiva, studio: e stato fisico e morale dello scrivente) procedono da impulsi pressoché ineluttabili a una fattispecie che direi preordinata e fatale. […] Il discorso vero dell’anima tende a venire a galla. Il libero arbitrio non vi ha governo, o poco: e non è pace fino alla pace raggiunta. (SGF I 816)

In Lingua letteraria e lingua dell’uso, del 1942:

le facoltà che dall’arte si esercitano sulla propria materia sono piuttosto istintive e i mezzi e i processi alquanto surgivi e reconditi, piuttosto che non razionali o dialettici o apertamente radrizzabili con manifestata ortopedia. […] Una felice espressione […] si raggiunge più veramente lungo i misteriosi cammini di una sintesi inconscia, che non per grammaticali o lessicologiche deliberazioni. […] Non tanto il dibattito estetico o filologico (in senso stretto) può venirci al soccorso, quanto un amoroso praticare l’idioma, per lettura e per discorso: e per esercizio d’inchiostri. (SGF I 489)

In Manzoni diviso in tre dal bisturi di Moravia (1960):

Non tutto, un romanzo, e non il meglio, d’un romanzo, discende (a mio avviso) da una premeditazione concettuale, da una pianificazione dialettica. (SGF I 1177)

In Quattro domande (1957), una delle interviste ora raccolte in «Per favore, mi lasci nell’ombra»:

Il lavoro, bello o brutto che sia, non è l’approssimazione maggiore o minore a un preesistente paradigma […]: è invenzione e costruzione, sia pur lenta, sgraziata, infelice, che bisogna strapparsi dall’anima. [La critica che si fonda] sulla o sulle poetiche [...] non è fatta per mio soccorso. (Gadda 1993b: 55)

Eccetera. Insomma, se non è dubitabile che Gadda pensasse di poter far chiarezza sulla propria poetica agli albori della sua traiettoria di scrittore (benché, a vero dire, già allora avesse serie e documentabili riserve circa la possibilità di aderire a un programma), pare ci sia motivo di credere che non nutrisse più, in seguito, grandi illusioni in proposito. Ciò accade in parallelo alla (più o meno) coeva dismissione delle sue ambizioni filosofiche; se per Gadda una poetica può solo valere in dipendenza da un’etica, che a sua volta discenda da una gnoseologia, la quale si innesti su una vita (si veda Come lavoro, SGF I 427), interrotta la possibilità di sistemare il reale razionalmente (dunque di collegare logicamente esistenza e pensiero), cessa anche quella di regolamentare, o anche solo descrivere normativamente, la scrittura.

Vale insomma secondo me ancora, e in generale, il detto di Contini a proposito della Cognizione: «Il lume (e voglio proprio dire la salute) da chiedergli [a Gadda] è di poesia, non d’intelletto» (Contini 1989: 22). E ciò si applica anche in fatto di poetica.

Resta forse aperta l’ultima possibilità, e cioè che una poetica coerente in Gadda esista, ma a livello implicito e inconscio. Contro questa ipotesi può valere soltanto la prova dei fatti: se c’è, bisognerà che non contraddica pesantemente il testo, o ne limiti indebitamente l’interpretazione.

Avanzerei ora, a spron battuto, le seguenti tesi conclusive:

1) c’è in Gadda, indubbiamente, una «ricerca di poetica», che ben corrisponde al suo bisogno di razionalizzazione: bisogno evidentissimo fino all’altezza della Meditazione, poi ancora residualmente attivo, ma – salvo novità inedite – sempre meno sistematico;

2) nelle idee di Gadda in materia di poetica non c’è, né c’è stata mai, uniformità sufficiente a enucleare non dico un sistema (questo forse è scontato), ma neppure una posizione coerente; ciò che emerge sistematicamente, semmai, è proprio l’impossibilità in cui Gadda si trova di superare l’interna contraddizione delle sue posizioni;

3) la scrittura gaddiana, dunque, per quanto è dato vedere, non corrisponde a nessun sistema normativo coerente che (sia esso di origine intenzionale o inconscia) possa risultare chiaramente identificabibile al lettore; anche se localmente, com’è ovvio, emergono momenti di auto-consapevolezza, e corrispondenze fra certe idee dell’autore e certi modi della sua scrittura;

4) non c’è alcun bisogno di crocifiggere Gadda a una poetica, sua o altrui; ed è significativo che quando una poetica gaddiana sembra effettivamente profilarsi, dalle carte o dal cerebro di qualche solerte interprete, l’inadeguatezza a illuminare il testo non tarda a manifestarsi. Questo, del resto, mi pare il destino inevitabile di ogni poetica.

A voler essere polemici, si potrebbe aggiungere che l’unica poetica coerente reperibile in Gadda è contenuta nelle Norme per la redazione di un testo radiofonico, ora negli Scritti dispersi (SGF I 1081-091).

Non è, del resto, che Gadda non abbia idee assai intelligenti e talvolta persino precorritrici di certi aspetti di un novecento più avanzato; troviamo infatti, nella Meditazione, spunti che sembrano annunciare il pensiero post-strutturalista di un Derrida, anche se la loro origine va ragionevolmente trovata ben più vicino a Gadda (diciamo per esempio, per vie probabilmente indirette, in Gödel, o nella teoria della relatività, o comunque all’interno dell’immediata temperie culturale). Ma affibbiargli una poetica, o una posizione filosofica precisa, ancorché eventualmente eclettica, mi pare operazione gravida di rischi. E per spiegarmi più chiaramente, farò un confronto proprio con la decostruzione derridiana; si potrebbe in effetti dire che Gadda, come Derrida, si rifiuta al sistema, alla totalizzazione logocentrica: e che quindi applicargli categorie critiche strettamente logiche sarebbe strategia improduttiva ed anzi controproducente. Ma la decostruzione, così come il «pensiero debole», pur non essendo (ed anzi assai fortemente tentando di non essere) un sistema, è pur sempre una posizione, forse difficile da giustificare e mantenere, ma in fin dei conti coerente. Così non è per Gadda. Imporgli una posizione coerente che, viceversa, per ragioni essenziali, Gadda non ha potuto trovare e mantenere, sarebbe fargli torto. Sarebbe perdere di vista le sue ragioni più vere.

Un’eventuale «poetica gaddiana» o non sarebbe sua, perché funzionerebbe solo a patto di cancellare parti importanti della sostanza mentale di Gadda; oppure sarebbe talmente labile, generica o contraddittoria da non valere in quanto poetica. Potrebbe invece sussistere, magari, in quanto interessante dissezione di problematiche aperte, di tensioni irriducibili. Ma chiamarla poetica mi parrebbe sviante. In particolare, non c’è né – a mio avviso – ci può essere in Gadda (ed è questo un malinteso abbastanza comune) una poetica «d’avanguardia», in rottura generalizzata col passato; sì invece disaccordo localizzato con certi modelli letterari recenti o contemporanei (neorealismo, simbolismo attardato), o polemica anche feroce con certi aspetti dell’opera di certi autori (Foscolo, Carducci, d’Annunzio: per ognuno dei quali, del resto, la condanna non è né totale né permanente, come ben si vede spulciando attentamente le carte). (4) In Gadda la rottura c’è, ma non col passato; Gadda non ce l’ha con la tradizione, ma (come già notato) col presente, e in fin dei conti soprattutto con se stesso. Né è prova la polemica contro l’io (formidabilmente sviluppata nel nucleo centrale della Cognizione), che a Norma Bouchard, per esempio, è parsa prova certa di affinità futuriste e avanguardiste: ma è invece, primariamente, in parte polemica anti-retorica (che quindi investe anche la retorica futurista), e in parte polemica autolesionista. Gonzalo ce l’ha indubbiamente con la società, ma finisce, tragicamente, per attaccare se stesso; nell’aggredire l’io attacca e distrugge, sì, un idolo sociale, ma simultaneamente corrode e distrugge le basi stesse della propria vita: come il dolente narratore non manca di sottolineare. Non c’è trionfo, non c’è vittoria, ma la tragica sconfitta di un uomo che – abbagliato da un’inutile verità – si infligge la mutilazione definitiva.

Questa è la grande differenza rispetto al Futurismo, e a tutte le avanguardie, vecchie e nuove. Gadda è forse vicino per certi aspetti a movenze postmoderne, ma manca in lui l’abbraccio delle forme, la complicità con le sembianze, che (almeno secondo alcune formulazioni correnti) dovrebbe contraddistinguere il postmodernismo; al contrario, Gonzalo-Gadda distrugge le parvenze bugiarde, e lo fa – consapevolmente – a prezzo della propria vita. Anche per questo è particolarmente disperato ogni ottimistico tentativo di associare Gadda a poetiche risolutamente novatrici; la sindrome di Gonzalo, la ferale automutilazione (che può benissimo prendere le forme paradossali di una concrescenza tumorale) si applica anche al contesto linguistico e stilistico, e ne spiega alcune peculiarità più di quanto non possa fare qualunque presunta poetica – senza peraltro pretendere di risolverne definitivamente la straordinaria, irrefrenabile originalità.

L’errore dei critici, del resto, è comprensibile ed anzi non fa che riprodurre quello dello stesso Gadda; ma resta comunque un errore. Come accennato sopra, il tentativo di ricerca e sistemazione teorica del Racconto italiano è fallimentare, proprio perché Gadda cerca di andare contro la propria natura di scrittore, di incanalare la scrittura in una preconcetta poetica. Lo fa in ossequio a un profondo e sentitissimo bisogno di verità e di razionalità, ma è per lui un vicolo cieco. È un errore che, per quanto ne so, dopo gli anni ’20 Gadda non commetterà più nelle stesse proporzioni, anche se il conato riaffiorerà di tanto in tanto anche in seguito (l’apologia del barocco in appendice alla Cognizione, RR I 759 sgg., è un buon esempio): ma non è che questa più o meno volontaria rinuncia, del resto, risolva i suoi problemi di scrittore.

L’insistenza sul parodico e sul maccheronico, da parte di chi vuole affibbiare a Gadda una poetica postmoderna o barocca o d’avanguardia, è sintomatica di un errore di fondo: quello di ritenere che l’importante, in questo scrittore, sia la forma, il rapporto con l’opacità e l’autoreferenzialità della lingua. Il malinteso si spiega facilmente, date le proporzioni, il mostruoso ingombro del mezzo linguistico. Ma l’essenza di Gadda (come anche di Beckett e di Céline) è lirica e tragica. Senza questa, Beckett sarebbe un parolaio (come certi esponenti del nouveau roman che spesso gli vengono affiancati), o un vicino di casa dell’Oulipo; Céline sarebbe un ubriacone che urla in mezzo alla strada le sue atroci e efficacissime oscenità; e Gadda sarebbe un eccellente bozzettista, un acuto ritrattista di interni borghesi, o un magnifico manipolatore di impasti verbali.

Ma cos’altro è Gadda? Difficile dirlo a chiare lettere, senza ricadere nella trappola classificatoria. Viene però in mente un episodio del Castello di Udine: in Polemiche e pace nel direttissimo, Gadda si mette in scena nei panni di un «signore silenzioso», o «senza lingua» (RR I 269), che se ne sta in disparte mentre altri si accapigliano su questioni di stile (dunque, potremmo anche dire, di poetica). La discussione viene interrotta in seguito a un incidente cruento: un giovane si ferisce gravemente al volto salendo sul treno in movimento e viene introdotto nello scompartimento. La scena, fra parentesi, ricorda quella che conclude la Cognizione, con la descrizione della Signora orribilmente ferita al capo; tanto più che anche qui c’è un oscuro sentimento di colpa: il «signore silenzioso» conosce il ragazzo ferito, ed anzi probabilmente si sente in parte colpevole dell’accaduto, essendo stato direttamente responsabile del suo licenziamento e dunque della sua partenza in treno. Anche il Pasticciaccio, del resto, ruota e provvisoriamente pare immobilizzarsi – ancora una volta con un vago senso di colpa – attorno a un corpo martoriato. Questi parallelismi non sembrano casuali, ma non è questa la sede adatta per approfondire. Nel caso del Castello di Udine, però, la scena si presta a un’interpretazione metaforica pertinente a quanto vengo dicendo, e che getta luce anche sulle opere posteriori: ci sono, al centro della scrittura di Gadda, delle ferite, dei grumi di sangue da poco coagulati, che sono essenziali al suo dire, perché senza di essi tutto si ridurrebbe a vana apparenza e superficiale chiacchiera; attorno ad essi recede ogni vano tentativo di regolamentare e controllare la rappresentazione con gli strumenti dell’intelligenza discorsiva, ma al tempo stesso rischia di disgregarsi la fragile consistenza della vita. C’è, insomma, l’emergere di un fondo tragico incompatibile – a dispetto delle forme superficialmente e magari anche non superficialmente affini – con la leggerezza e con il gioco postmoderni.

Non c’è in Gadda poetica compatta e coerente, lui stesso non manifesta, in età matura, grande urgenza di procurarsene una, né a vero dire noi lettori ne sentiamo la mancanza; poiché perfino dove visibilmente una poetica coerente c’è (penso ad altri scrittori), in genere non spande grande luce né sul farsi della scrittura, né sulla sua interpretazione. Ma qui bisognerebbe aprire una altro capitolo.

Mi avvio alla conclusione con una citazione da Come lavoro (1949):

[…] e il Walalla aspetta (che aspetti pure!) un bel busto di stucco. Non voglio deludere i bidelli del Walalla: avanti, dunque, con quella mezza dozzina di verità e con quelle due dozzine di mezze bugie che mi sono rimaste, incomestibili briciole, nel mio tascapane di soldato, di ferito. (SGF I 427)

Ho talvolta l’impressione che, forse per meglio canonizzare e monumentalizzare Gadda, si sia oggi disposti a prendere troppo sul serio quelle due dozzine di mezze bugie, e a credere di poter ignorare quella mezza dozzina di scomode, nude verità. È forse questo il momento in cui bisogna fare particolarmente attenzione alle cosiddette «sistemazioni critiche», «[…] prima che l’indirizzo impresso dai timbri abbia potenza di consegnare i nostri pacchi e fascicoli al gelido archivio dell’Eternità […]». È una citazione da un brevissimo testo del ’34 (… Tàciti anni fuggono, catalogati dagli almanacchi…, ora in Scritti dispersi, SGF I 791).

University of Oxford

Note

1. Si veda per esempio l’intervista L’apotema del mattone (1962) (Gadda 1993b: 79).

2. Si veda Il pensiero debole, a cura di G. Vattimo e P. A. Rovatti (Milano: Feltrinelli, 1983).

3. «Dal pasticcio della mia personalità devo trarre un sistema di riferimento preciso – nitidissimo.–» (Gadda 2003a: 18). Compito impossibile e, come dirò, presto dolorosamente abbandonato. E si veda anche un passo, assai significativo per quanto accennato sopra, a proposito del problema del male (Gadda 2003a: 14).

4. Si veda ad esempio, sempre nelle succitate annotazioni al Secondo libro della poetica, ciò che Gadda dice a proposito di d’Annunzio (Gadda 2003a: 20).

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859
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framed image: view from the Villa Gadda terrace, superimposed on a modified detail of Umberto Boccioni, States of Mind: Those who stay, 1911, Museum of Modern Art, New York.

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