Una mostra di Ensor
Gentili visitatrici e visitatori,
davanti a queste incisioni di Ensor mi è data la parola: me ne rincresce per voi: credo che i direttori della mostra abbiano voluto saggiare, nel mio dire, le reazioni del primo che passa, con la stessa tecnica del «colpire a caso», dell’«estrarre a sorte», usata in certe indagini statistiche oltreché davanti ai gradini del Duomo da quei due giovani fotografi che vi bersagliano senza premeditazione speciale, come elementi di una folla. Nessun titolo, cioè nessuna competenza e nessuna autorità io mi riconosco, da poter interloquire in quistioni di pittura, o di disegno, o d’acque forti o punte secche o zinchi o rami che siano. Il mio cervello, in questa materia, come in tante altre del resto, è così squisitamente disabitato, ch’io mi ritrovo in grado di dar ragione a tutti, a tutti i poeti d’Italia come a tutti i pittori di Firenze.
Poiché abbiamo sott’occhio un pittore e (nella fattispecie) un incisore di Ostenda, e poiché mi è conferito questo salvacondotto d’un quarto d’ora di libera dizione, dirò della grande opera di lui le piccole parole che mi verrà fatto poter dire, implorando la vostra clemenza. So, di lui, che nacque a Ostenda nel 1860 da padre inglese e da madre fiamminga: ch’egli parla de’ suoi «maggiori anglosassoni», un po’ come Rimbaud poté parlare «de ses ancêtres gaulois»: che visse a Ostenda senz’altra interruzione dopo il triennio d’accademia a Bruxelles: 1877-1880, da diciassette a vent’anni: che, prima dell’accademia, sopportò le lezioni di due innocenti acquarellisti, Dubar e Van Kuick: che l’insegnamento alquanto dogmatico di Bruxelles esasperò in lui la rivolta, fino a dettargli quelle Trois semaines à l’Académie che non ho letto, ma che mi propongo di leggere, visto che la sua prosa è tra le più caustiche delizie in cui mi possa imbattere. So che amava il mare e la landa, che dovette vivere in solitudine, coronata dagli spini dell’incomprensione e del dileggio: che nessuno voleva comperare le sue tele: che lo chiamavan pazzo e misantropo: che il riconoscimento fu lento e, rispetto alla sua vita mortale, dolorosamente tardivo: che nel 1930 Re Alberto lo nominò barone. Ensor ebbe ingegno musicale e letterario. È autore d’un balletto. La sua «prosa nervosa» deformatrice, gli spunti critici illuminati, il coraggio, la «verve» polemica, l’audacia della caricatura fanno di lui uno scrittore: uno scrittore divertente. L’accostamento a Rimbaud non mi sembra del tutto fuori tono. «L’arte dei precursori è, per lo più, amara e violenta, qualche volta aspra, irritante: bisogna tracannarla come un purgante dei più drastici». Così scrive di se stesso. «Molto sarà perdonato a chi ha molto osato». E, a proposito di ogni pensabile poetica: «Dipingete, seguitate a dipingere. Non mettetevi a scrivere, per carità». E ancora: «Verso l’isola di malizia e delle palpitanti ricerche! là ho condotto la mia nave, a piene vele, tutta pavesata di fiamme, le fiamme tutte aggettivate d’inchiostri. Vorrei essere con voi a difendere la vostra gioventù e le speranze…». E più oltre: «Mare miracoloso di Ostenda, fatto d’opali e di perle, vergine marina de’ miei amori… oh! i cavernosi vuotacessi della pittura hanno l’ardire di venir a imbrattare il vostro volto, a maculare le vostre robe intessute di iridi, lamate di seta…».
Chiave d’apertura per comprendere certi suoi temi insistenti: «Una notte, mentre riposavo nella mia culla, in un camerone rischiarato da lampade, con tutte le finestre aperte sul mare, un uccellaccio del mare attratto dalla luce venne a sbattere davanti a me, facendo sussultare la culla. Impressione incancellabile, sinistra… Impazzii di terrore, allora. Risento ancora l’urto, nel mio cuore, di quella nera fantasima… E così pure ogni misteriosa storia di fate, di orchi, di temibili giganti: racconti variegati o chiazzati, a pelle di pantera: pepe e sale, grigio e argento, impressioni terribili. E così pure, e più anche, una soffitta paurosa, tutta piena di ragni giganteschi, orribili, e di un indescrivibile bazar di conchiglie, di piante, di ricci e di stelle e di ippocampi secchi dei mari lontani, di belle maioliche polverose, di vecchie marsine e di vecchie bautte color ruggine, o color sangue: di coralli, di scimmiotti imbalsamati, di sirene vizze, di tartarughe vuote, di cinesi impagliati.
«La visione si modifica… nel tempo stesso che uno osserva. La visione prima, quella di tutti, è la semplice linea, nella sua schematicità elementare, senza ricerca e senza apprensione del colore. La visione seconda è quella per cui un occhio più esercitato… ha appreso a discernere i toni, le delicate gradazioni. L’ultima è quella dell’artista: egli “vede” i sottili giochi della luce, il suo frantumarsi nelle combinazioni infinite, i suoi piani di posa, il suo gravitare, il suo discendere… Una visione “progressiva” modifica la prima percezione, la visione prima e volgare: la linea si deforma , è declassata a una entità secondaria… Una visione siffatta sarà compresa dalla clientela?… No: la clientela non c’è. è un lungo guardare quello dell’artista, è uno studio attento, insistente, una “penetrazione eroica” in quel “cosmo” stesso dove la gente non suol discernere che il disordine, il caos, o addirittura l’errore… Così l’arte ha potuto svolgersi dalla “linea”, dalla “lineatura”, del gotico attraverso il colore e il movimento della Rinascita, fino alla luce dei moderni.
«Aggiungo inoltre: il ragionamento è il nemico dell’arte. Gli artisti dominati da ragione non “sentono”, non “vedono”. L’onnipossente istinto si estingue, l’inspirazione si inaridisce, il cuore manca di slancio… In capo al filo, al sottile filo di ragione, è appesa la scempiaggine, o il naso di un cretino».
Lasciando a Ensor la responsabilità di questi apoftegmi ch’io non sono in grado di dibattere, ho voluto tuttavia citarli, in un vago intento biografico, esegetico: esegetico per mio proprio uso, beninteso. La sua biografia è quella di un lavoratore solitario, mal compreso o addirittura incompreso, e dunque sdegnoso dell’opinione di chi non lo comprende: la gente di Ostenda lo considerava, nella più rosea delle ipotesi, una curiosità del luogo, un demente non pericoloso: «Ensor est fou!» sta scritto sul muro a cui è rivolto il «popolano» dell’incisione numero 12.
La sua pittura è caratterizzata da un abbandono risoluto d’ogni precedente di scuola, da una ricerca ininterrotta. Questa ricerca, assistita dalla felicità del suo ingegno, lo conduce a presagire, o addirittura a scoprire, taluni modi o mezzi, o certe affermazioni critiche di movimenti che verranno poi, dall’espressionismo al surrealismo. Ha dietro di sé i fiamminghi, e, dicono, Watteau, e soprattutto Goya: davanti a sé la speranza delle nuove o rinnovate poetiche. Il suo coraggio è mania, salutifera mania. Quando arrivano i compratori egli è vecchio, rifiuta di vender loro ciò che non hanno voluto per tanti anni, vuol crepare tra le sue tele, come un burattino abbandonato tra i cenci, nel solaio. La ricerca multidirezionale è visibile nei documenti pittorici: c’è, in Ensor, una proteiforme capacità di rinnovarsi, di rifar da capo ogni volta, di adeguare al nuovo tema il nuovo segno, il segno rinnovato. «Il faut inventer son procédé. Chaque œuvre nouvelle devrait présenter un procédé nouveau»: così afferma. Egli non vuole installare le sue visioni multiformi nell’unità immobile di uno «stile» raggiunto ed unicamente sfruttato. Questo «stile» che può diventare accademia a sua volta, cifra fissa, routine, «non, ce n’est pas son affaire». E, dicono i migliori critici, Ensor non si lascia neppure «periodare», non si lascia incantonare nei «periodi», primo, secondo, terzo, quarto periodo, come un bimbo in castigo nel cantone. Rispetto ai modi, poi, non gli si riconosce un periodo impressionistico, un periodo intimistico, un periodo luministico. Rispetto ai temi, non gli si riconosce un periodo delle marine, del paesaggio, delle maschere, degli interni borghesi, dei goujats, o delle streghe, o dei teschi. C’è nel suo lavoro, nella storia delle sue eccitazioni e dei suoi impulsi rappresentativi e dei suoi ritorni e delle sue scoperte o riscoperte, un va e vieni continuo, un intercambio tematico, un fluire e un rifluire di modi che imita lo «ebb and flow», il riflusso e il flusso della marea oceanica ad Ostenda.
Della sua pittura, dei molti problemi che solleva, tanto sotto l’aspetto modale o stilistico, quanto per le controversie che riguardano il tema, l’occasione, il pretesto, vi dirà altri, con autorità ch’io non ho, e non sogno neppure d’avere. Per parte mia mi limito a esternare qualche impressione sui disegni, su queste incisioni che avete qui veduto e ammirato, grazie all’intervento del governo belga e alla operosa intelligenza della direzione della Strozzina.
La prima cosa che m’ha colpito, all’osservare le incisioni, è la varietà multiforme dei soggetti, e però dei modi di trattarli. Mi richiamo con questo «e però» all’affermazione già citata di Ensor: «Chaque œuvre nouvelle devrait présenter un procédé nouveau». Il tratto, ecco, raggiunge la finezza del ragnatelo e irretisce l’occhio nelle due «dentelles» marmorizzanti delle due Cattedrali (numeri 7 e 105): e in una specie di mineralizzazione, di fossilizzazione dei reggimenti e della moltitudine stipata, si ispessisce in primo piano ad archiviare i visi, i nasi. Altrove, come nel macabro numero 34, Il mio ritratto nel 1960, sembra patire quel disfacimento medesimo di che patirà, disseccato, il cadavere: ad ogni epica il suo esametro: qui l’esametro del tratto, rompendosi, cancellandosi in bianche cesure, accompagna la dislocazione delle ossa.
Cito a caso, o forse nell’ordine. Nel numero 88, I diavoli Dziltis e Hi-ha-nok portano Cristo all’inferno, il fasto barocco un po’ alla Louis XIV si appoggia sulla maestà fittizia d’un segno e d’uno stile curvilineo, come a suggerire la certezza che ogni rotondità ornamentale, ogni rotondo ventre, o pancia, o ghirigoro di bellìco sarà consegnato a friggere al demonio. La coda dell’un diavolo è intrecciata a tortiglione barocco, come d’un cavallo di Gondrand: stercorarie emissioni, di quell’altro, tengono le veci della coda. Il forcone ha ornamenti pesanti, degni d’un candelabro seicentesco. La sola entità non barocca è il nero Cristo spaurito, oltraggiato, e pure alonato di luce. Ma l’un diavolo, il più possente, il più turpe, con mature polpe di femminone in baldoria, gli ha messo una mano attorno al collo, sguaiatamente. Dal trono di Satana-scheletro discende infinitamente il serpente, è un’unghia del piede dello scheletro divenuta serpe in eterno: serpe denutrito, scheletrito. Galline col cilindro in testa, batraci alla Louis XIV. Dov’è andato a finire, qui, il pizzo marmorizzante della cattedrale di Aquisgrana, o di Ostenda che sia?
E altrove è il paesaggio, nella sua sconsolata purità. Nel numero 27, Al margine del bosco,la lieve virgolatura delle erbe, il segno nero, come di braccia vegetali, degli alti alberi spogli, l’apparizione del lavoro e del contegno umano, le opere e i giorni che sembrano dover uscire dagli abituri, dai poveri tetti di embrici di legno, nella magia desolata della landa. Altrove invece, numero 70, le nuvole dell’uragano sono ottenute da una tecnica macchiata, quasi casuale, sulla gracilità nerastra di alcuni tetti di canniccio. È il metodo del «soufrage», che penso consista in una solforazione della lastra. Nel numero 4 (anno 1886), la pingue finezza del segno, per l’autoritratto del maestro. Il volto è più intento che non sia pensoso: è il muto coperchio delle inquietudini, delle angosce, dei desideri, forse, che ribollono incomposti nel pentolone dell’anima.
Ho voluto accennare, soltanto accennare, alla varietà dei modi e dei mezzi: a quella dei temi non occorre, mi sembra. È ricchezza che si ostenta da sé sola, che parla ai distratti.
Anche nelle incisioni in rame, nell’acquaforte, Ensor, annotando i suoi sogni, erede e amministratore de’ suoi propri incubi, ha voluto introdurre le apparizioni stregonesche o diaboliche, i convegni delle maschere e degli scheletri, le sarabande degli spettri, le conchiglie enigmatiche del mare.
La sagacia dell’arte, la pienezza della vita interiore, si manifestano in una varietà, in una discontinuità di modi e di temi. Le incisioni di Ensor non sono, se non in qualche caso, degli studi per le tele e nemmeno delle repliche di esse: piuttosto ne fiancheggiano l’avvento con una propria vita, più sommessa, accogliendo, entro i termini della tavoletta ad inchiostro, quanto non poté irrompere nei fulgori o decantare sui toni, cioè trasferirsi dalla tavolozza alla tela.
L’entrata di Cristo a Bruxelles, numero 114, eseguita nel 1898, a dieci anni dal grande quadro, può considerarsi una replica. Lo stesso lirismo sarcastico, lo stesso sdegno contenuto: la stessa opulenza borghese: la mascherata, i cartelli, la corporazione dei «charcutiers», i tromboni, i tamburi, le bandiere. C’è tutto Ensor, c’è la sua tacita e dolorosa iperbole: a vedersi, a sentirsi trasfigurato nel Cristo. Ogni vero artista certo senso, ha da portare la sua croce, ha da salire il suo Golgota.
Ensor, che ha convocato le streghe della landa, che ha salutato le maschere e le conchiglie, che ha interloquito così familiarmente col teschio, e lo ha raffigurato con tanta bravura e tanta eleganza tra i feltri, i velluti, Ensor ha avuto la sua cohue alle calcagna, che gli gridava raha vedendolo dipingere il mare, i tetti di Ostenda, gli uomini di Ostenda e di Bruxelles. Sua nonna già, poi sua madre e sua zia, avevano un negozio di «ricordi di Ostenda»: ch’era divenuto il dolce e triste bazar e maschere, delle bautte, dei nasi di cartone, dei feltri, dei piumaggi. Da questo mondo pieno di colore di eleganza e di polvere, da questa sublimazione d’un carnevale ipotetico a motivo centrale dell’anima e del lavoro, egli ha cavato la sua nozione e il suo conforto: quello, soprattutto, di poter definire in colore e in disegno il carnevale reale dell’umanità. Dietro di lui era, nell’antico magistero, il volto umano, psicologicamente individuato, di Hieronimus Bosch, il grande maestro di sua gente. L’isteria, la follia, la fissità, la lussuria, l’avarizia divenute persona, arricchite di tutti i contrassegni individuali di persona. Ma c’era anche, altrove, la smorfia tipicizzante, e in certa misura astraente, di un Goya. La maschera è per Ensor il mezzo prediletto, a raggiungere questa tipologia dei caratteri, dei loro vizi, delle loro imperfezioni, delle loro infermità. Ogni vizio ci singolarizza, perché ogni vizio ci «separa», ci «astrae» dal nostro destino più vero: e deturpa il volto a una smorfia, se pure involontaria. Ensor hacompreso che le maschere, le sue maschere, potrebbero vivere tipicizzate al di fuori della contingenza e del tempo: e si libera, proprio in esse, di una aneddotica imbecille inerente alla scena, al quadro di costume. Astrae il tipo fisiognomico e spirituale dalle stretture della contingenza, per trasportarlo in una stagione dialettica senza radici nella storia, nell’aneddotica. Maschere tragiche, ricordatelo, decorano le mètopi dei templi dorici, i timpani dei teatri neoclassici. Spoglie di ogni attrattiva carnale, o fatte di gesso e di cartone, esse ci denunciano in una iperbole fisiognomica la passione enfatizzata, teatrata, dialettizzata in un rito senza il palpitare degli accompagnamenti carnali.
Ensor ha così abbandonato i programmi dell’accademia di Bruxelles, quanto le direttive comminatorie d’una poetica predeterminata una volta per sempre. Nessun vitalizio egli ha stipulato col destino. Quanto e fino a che punto ciò possa essere considerato pittura, o incisione, proprio non saprei dire. Osservandolo, in questa mostra, ho un po’ smarrito le nozioni sacrosante, che d’altronde mi hanno sempre intrigato, scusate il francesismo, abbacinato, dirottato.
Se il suo lavoro sia contenuto o sia forma, non arrivo a opinare. Fino a un certo anno le patate erano il contenuto e la forma era il modo di dipingerle. Oggi mi si assicura invece che il modo di dipingere è il contenuto, proprio d’ogni artista, e che le patate sono delle solanacee che si prestano a essere dipinte dai maestri. Io credo nelle discussioni estetiche: che fertilizzano la nostra capacità di lettura. Ci credo come Talleyrand nella Bibbia. Domandatogli se credeva nella Bibbia, «certamente», rispose, «anzitutto perche sono vescovo di Autun, e in secondo luogo parce que je n’y comprends rien». Io credo nelle diatribe estetiche: anzitutto perché vivo a Firenze, e in secondo luogo… «perché non ci capisco nulla».
1950
Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
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Framed image: after a detail from James Ensor, Cranes et Masques («Un cauchemar»), 1888, The University of Michigan Museum of Art.
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