La fortuna del Pasticciaccio

Alba Andreini

L’eclatante notorietà che l’uscita in volume del Pasticciaccio determina per Gadda, facendo esplodere nel ’57 un vero e proprio caso letterario, non ha un corrispettivo altrettanto netto nell’immediata fortuna del testo, per la mancanza di un giudizio unanime sulla grandezza del romanzo. Non si grida all’unisono al capolavoro, come attestano le forti discordie dell’accoglienza critica e la conseguente difficoltà, con la mancata assegnazione del premio Marzotto, a tributare allo scrittore un riconoscimento. (1) Provvederà poi la pubblicazione della Cognizione del dolore, nel 1963, a ricompattare la critica in un consenso che porterà dritto lo scrittore al Prix International de Littérature, facendo un po’ scendere da quel momento le quotazioni del Pasticciaccio. È all’auctoritas e al patronage di Contini che si deve una canonizzazione di Gadda incentrata sulla Cognizione e sulla sua superiorità rispetto al Pasticciaccio (fa bene Donnarumma a ricordare che la critica stilistica di Contini non si è «mai occupat[a] direttamente del Pasticciaccio» – Donnarumma 1998: 784). Con la Cognizione, ci si riappropriava di un Gadda del quale, chi era venuto «su con lui», per dirlo con Alessandro Bonsanti, aveva delibato «parola per parola sul loro nascere scritti e idiosincrasie», in una continuità di clima culturale, fiorentino sia per intese tra numi tutelari e patrocinatori sia per marchio editoriale (tutti i testi anteriori al ’57 erano apparsi per i tipi di case toscane, con l’eccezione del Primo libro delle Favole). Bonsanti individuava nel dato storico tale omogeneità: le «estreme propaggini» del primo dopoguerra, «d’una guerra che mostrava sempre più d’aver sconvolto e ricreato la […] natura» (2) di Gadda.

Il Pasticciaccio fiorì ai margini di quella stagione, incuneandosi tra gli anni Trenta e Sessanta, che costituiscono i due tempi, equiparabili tra loro per l’identico predominio di una propizia tendenza all’autonomia dell’arte (lo aveva detto a suo tempo Asor Rosa – Asor Rosa 1987: 11-17), ai quali resta consegnata – per scrittura e sua successiva affermazione – la maggior parte della produzione gaddiana. Il Pasticciaccio venne a inscriversi nel secondo dopoguerra, alle cui logiche e regole dettate dall’industria culturale i vecchi sostenitori di Gadda reagirono con sottile senso di estraneità o fastidiosa espropriazione. Ancora Bonsanti: «Per molti, per tanta critica, Gadda è un argomento di questo dopoguerra; […] le scoperte che si vanno compiendo sulla sua opera oggidì, strappano ai pionieri sorrisi poco caritatevoli di sufficienza. Eppure, bisogna adattarsi a considerarsi postumi degli amici oltreché di se stessi; […] e niente è più difficile del resto, che convincere la gente che il mondo esisteva anche prima. […] Purtroppo, un Gadda inedito non potremo mai conoscerlo […]» (Bonsanti 1978: 239). Non è un caso che si riscontrino raramente, nei recensori del Pasticciaccio, attenzioni e riferimenti agli scritti che lo precedono (salvo qualche eccezione), (3) quasi che davvero Gadda non fosse esistito prima, con tutti i temi (compresi quelli storici) e le questioni (come le scelte linguistiche) che accesero la pluralità e le divergenze d’opinione. Al pari della vita del suo autore, la storia della fortuna del Pasticciaccio presenta, a biografarla, non pochi «pruni» (4) (malumori, disaccordi, diatribe, fraintendimenti) che divisero i critici. Concorde fu invece la risposta del pubblico, sul cui entusiasmo si fondò l’editoria, complice l’intervento di Emilio Cecchi, per inventare un premio, il Premio appunto degli Editori, che risarcì Gadda dell’alloro poco prima negato. (5)

Il successo di pubblico «grosso» arrivò dunque per Gadda con il Pasticciaccio, dopo la conquista del pubblico «fino», che anzi guardò all’altro con diffidenza e disdegno, senza consentirgli di adempiere alla funzione strumentale erroneamente prevista per esso, nei suoi confronti, dallo stesso Gadda, in una nota a Novella seconda: «arrivare al pubblico fino attraverso il grosso» (RR II 1318). Quel vecchio proposito programmatico, espresso nel 1928, appare smentito dai fatti nel suo ordine di successione e nella connessa progettualità strategica. Non solo: nel 1957, Gadda aveva anche esperito da tempo, sia pure in modo fallimentare, e proprio sulla materia del Pasticciaccio, un’altra delle forme catalogate come paritarie nella lista delle arti popolari contenuta in una lettera a Carocci del 1928, il cinema:

lo stato d’animo di stanchezza e di tedio della vita […] ci spinge a cercare in un sogno – nell’arte, arte popolare, arte sentita dalle masse – l’oblio momentaneo del male. Bisogna riconoscere che è questo il fondo delle manifestazioni artistiche a larga base (carnevale teatro popolare; romanzo poliziesco; oggi Cinema). (Gadda 1979a: 60; lettera a Carocci, 8 febbraio 1928)

Con la rinuncia alla realizzazione filmica del Palazzo degli ori, il progetto di conseguire il successo riconduce Gadda al proprio punto di partenza: al recupero dell’obbiettivo originario di scrivere un romanzo, enunciato nel 1924 per il Racconto italiano d’ignoto del novecento. Che poi Il palazzo degli ori sia di fatto anche una tappa della vicenda interna, redazionale, del Pasticciaccio testimonia e ci ricorda come il romanzo, nei dieci anni che gli occorrono per assestarsi, si regga su una coerenza e un’autonomia di progetto forti, che lo distinguono, per genesi, dalla Cognizione, alla cui «narrazione […] di pronunciata componente descrittiva e lirica» (Manzotti 1988: 857) era invece connaturata la prevista destinazione di singoli tratti ad altri volumi (a partire dall’originario Le meraviglie d’Italia). Diversamente, il Pasticciaccio nasce per ideazione unitaria («racconto» di un più ampio progetto di Un volume giallo nel ’45, o «romanzetto» nel ’46, non fa differenza – cfr. Pinotti 1989: 1137-138); non ha excerpta salvo il brano Il sogno del brigadiere, la cui apparizione indipendente nel dicembre ’53 (su L’Apollo errante) fa quasi da annuncio prolettico alla pubblicazione dell’intera opera ormai incamminatasi sulla dirittura d’arrivo; vede sottostare anche le differenze interne di scrittura, insite e riscontrabili nella stratigrafia del suo narrare, al disegno coagulante di un concepimento autonomo, che ne ricongiunge saldamente l’esecuzione, appunto, all’antica molla del sogno originario del romanzo e la conduce in porto come testo sostanzialmente concluso (a dispetto dell’interrogativo se il romanzo sia terminato oppure no, e all’eventuale esistenza di un seguito). Il Pasticciaccio ingloba dunque nell’unitarietà del suo proposito anche l’ambizione cinematografica che la remota ricerca della popolarità accomunava a quella del romanzo e che, infelicemente intrapresa in proprio dall’autore, ha finito per lasciare aperto il capitolo della fortuna scenica dell’opera per mano d’altri, nel quale è venuto ad inserirsi Ronconi, cogliendo però teatralmente, rispetto alle versioni filmiche del testo, in cosa consistano le potenzialità intrinseche di traduzione teatrale della pagina letteraria del Pasticciaccio.

Con la prima prova romanzesca, nel 1924, il proposito di affermarsi aveva preso i contorni di un sogno di gloria letteraria, quasi in analogia con il sogno di un destino eroico da cui Gadda era stato spinto in guerra. Ecco come nacque, secondo una nota del 24 marzo 1924, il «Cahier d’études» del Racconto italiano di ignoto del Novecento:

Il premio Mondadori 1924 mi alletta a tentare; […] gli anni che si spengono inesorabilmente l’uno dopo l’altro mi comandano di tentare, perché domani non sia troppo tardi.

[…] è meglio giocare una volta un gioco disperato che vivere inutilmente la tragica, inutile vita. […] Difficilissima impresa lo scrivere un romanzo passabile in quattro mesi. Quasi impossibile vincere un concorso. Però «bisogna» tentare. (SVP 389)

Nel ’57, con l’arrivo della notorietà, la lontana intenzione di diventare famoso pare essersi rivitalizzata, come lo stesso tentativo di trarre un film dal romanzo, al vento dei tempi: il Pasticciaccio è, in fondo, l’unico testo la cui composizione (tra il 1945 e il ’57) si colloca nel momento (intermedio tra le due fasi segnalate in precedenza) di un’eteronomia dell’arte e Gadda, pur nell’indubbia, e apertamente proclamata, distanza dal neorealismo, risentì di quell’ondata: non a caso l’ampio dibattito, suscitato dall’uscita del volume, abbozzò una possibile annessione dell’autore agli ultimi sussulti del neorealismo, profilando quella all’incipiente neoavanguardia. Credo che l’influenza del clima storico lasci tracce tutte da approfondire anche nella diacronia della posizione ideologica di Gadda e nel testo, per una diversa considerazione delle ragioni degli umili ed un attenuarsi della misoginia. Si pensi alla splendida figura della Ines, alla quale viene affidato, in una bellissima pagina del romanzo, il giudizio su «la giustizzia: na macchina!» (RR II 170): giudizio consegnato, con tutto il suo groviglio di implicazioni, ai due punti che ne inghiottono, come un abisso che si sprofonda, l’inesplicabile complessità, ossia quel «segreto macchinismo» che sta dietro la faccia della realtà come «dietro il quadrante dell’orologio» e che il reale di Gadda insegue, lamentandone la mancanza nella «tremenda serietà del referto» neorealista, fermo alla poetica del fatto quale «morto corpo della realtà, il residuo fecale della storia» (Un’opinione sul neorealismo, SGF I 630). Colpisce che il termine «popolo» (6) risuoni significativamente nella prima intervista televisiva di Gadda sul Pasticciaccio, del 1962, che dà il via, preceduta soltanto da due a stampa, alla serie delle interviste, a conferma di un’avvenuta consacrazione dell’autore. Quanto poi all’amara reazione dello scrittore alla scoppio di notorietà, nel ’57, quando ormai, ultrasessantenne, lavorava da mezzo secolo («era sempre stato lì», sosteneva), va detto che anche il rammarico per un’incoronazione avvenuta troppo tardivamente incise nel personale rendiconto con cui Gadda finì per sottomettere il conseguimento del successo al paradigma consolidato dalla sua mitografia di personaggio, cui pesava addosso come scrittore quella stessa identità di ferito che gli pesava addosso come uomo.

Nel 1996, la messa in scena del Pasticciaccio da parte di Ronconi, nel rinverdire la popolarità dello scrittore, pare reiterare il successo della prima divulgazione del testo su ampia scala: l’afflusso di spettatori che ha costretto il Teatro Argentina di Roma a tenere in cartellone lo spettacolo per ben due stagioni, nonostante le difficoltà legate all’eccezionale imponenza dell’impresa, può essere dunque considerato anche come trionfo del romanzo, che ha regalato a Gadda un’ulteriore, inopinata, ondata dell’ambìto favore di pubblico, analoga alla popolarità del 1957. L’accostamento tra i due eventi sarebbe a prima vista del tutto illecito, improprio o addirittura scorretto, se i fronti del teatro e della critica letteraria, coinvolti nella comparazione, non fossero chiamati a cooperare, dalla diversità della loro peculiare competenza e senza reciproche messe al bando, al medesimo fine di veicolare la trasmissione dei testi, consegnandoli con la propria mediazione ad un destinatario da non dimenticare: il pubblico. Soltanto specificità (sia pur di fatto non sovrapponibili) impegnate in modo cieco a parlare ciascuna esclusivamente a se stessa, possono espungere dal proprio orizzonte tale obbiettivo, rendendolo incondivisibile o addirittura scongiurandolo. E anche a voler considerare Ronconi un intruso in area letteraria, in un territorio abusivamente invaso (ma si può invece ritenere che si tratti di un felice scombinamento della fissità dei confini disciplinari), la sua operazione ha di fatto sortito per la fortuna del Pasticciaccio l’effetto di quei liquidi, i quali hanno «la proprietà di rendere meglio delineati e visibili dati e aspetti che altrimenti sfuggirebbero» a un’analisi superficiale. (7) Ha infatti palesato, con la sorpresa di un’assunzione anomala, l’opportunità di una rivalutazione del testo e perfino del posto da esso occupato nella graduatoria dei capolavori gaddiani, riavviandone il bilancio critico, che è subito arrivato attraverso voci autorevoli (Segre, Citati) o interventi e precisazioni, giornalistiche, che ne hanno fatto parlare assai di più, fino alla recente lezione di Cesare Garboli su Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, nel volume conclusivo dell’opera einaudiana Il romanzo, curata da Franco Moretti (Garboli 2003: 539-70).

Mantenendo un parallelismo con il 1957, si potrebbe azzardare che se nel ’57 ci fu chi affermò, almeno per quanto riguardava il riconoscimento di un premio al Pasticciaccio, che Gadda avevano dovuto sostenerlo gli editori, inventandone uno proprio, di premi, per «por riparo» al «doloroso» (così si disse) stato di indecisione dei letterati, che non erano stati capaci di attribuirgli il Marzotto (e il fatto (riportarono le cronache) «non depone(va) bene sulla (loro) mentalità») (Andreini 2001a: 258), oggi non è scorretto affermare che a rimettere in moto presso il grande pubblico la circolazione di Gadda, rinfocolando la curiosità nei suoi confronti, lo spettacolo di Ronconi ha contribuito molto, arrivando forse dove non era arrivata la consacrazione critica dell’autore. Ci si può interrogare se la rappresentazione teatrale sia maggiormente deputata al successo di pubblico, ma alla forza transitiva del mezzo va in fondo attribuita solo una responsabilità limitata: manca al teatro il grande pubblico del cinema (che, in questa occasione, si è mosso al traino di Ronconi, con la drammaturgia di secondo grado di Giuseppe Bertolucci); inoltre, la messa in scena del Pasticciaccio è avvenuta senza la complicità di quella memoria teatrale del testo (di cui il romanzo è ovviamente sguarnito) necessaria a far da richiamo per gli spettatori, già non numerosi, peraltro, quali aficionados di un regista difficile, che per di più costruisce in maniera innovativa la propria drammaturgia, puntando spesso, provocatoriamente, su una idea di teatro e su una drammaturgia inesistenti, liberamente ritagliate dagli immediati dintorni del territorio considerato suo precipuo, (8) per reagire all’angustia delle delimitazioni teatrali consuete.

A rendere stimolante, se non a legittimare, il confronto dei risultati, provvede la natura dell’«audace impresa» dell’operazione di Ronconi, che ha traslocato tout court il testo dall’area letteraria al palcoscenico, senza tener conto delle consuete regole della trascrizione teatrale, tradizionalmente legate alle convenzioni della scrittura drammaturgica (dialogo e didascalie). Se l’operazione di Ronconi costituisse una riduzione, si fosse risolta in mero adattamento che, trasferendo un’opera da un primo habitat (il libro) ad una sua seconda casa (il palcoscenico), presuppone e rispetta il discrimine della diversità di genere, non sarebbe pertinente al nostro ambito discuterla. Ma, ad andare in scena, in questo caso, è stata la letteratura: Ronconi assume il romanzo così com’è, inalterato nel suo continuum e invariato nell’impianto strutturale, salvo le necessarie sforbiciature, imposte dalla misura di una durata non superiore alle quattro ore e mezza. Anzi, il disegno ronconiano di allestire uno spettacolo da Gadda si attua attraverso scarti che lo rendono comparabile, nelle ragioni della soluzione ultima, al tragitto che aveva fatto riapprodare lo scrittore al romanzo.

L’iter del Pasticciaccio, si sa, va dal romanzo al cinema al romanzo, scartando il cinema, sul quale lo scrittore proclama alla fine la supremazia del romanzo e delle sue superiori potenzialità espressive. Nel dopoguerra (1951), prima ancora che inizi a scemare anche l’interesse critico-estetico che aveva per il cinema (del quale, nel lontano 1928, era stata stabilita la parità con il romanzo, quale identico veicolo per raggiungere un’«arte sentita dalle masse» – cfr. Gadda 1979: 60, lettera a Carocci cit.), Gadda, in un passo di una dichiarazione sfuggito, nella sua più ampia versione, alla raccolta delle interviste curata da Claudio Vela (Gadda 1993b), riconosce che il «cinema dispone della meravigliosa facoltà di alludere mediante immagini, dirette, e per di più deformabili, e semoventi, e cioè fluide nel tempo, alla “consecuzione noumenica”, alla recondita serie delle cause e dei fini tragici», ma aggiunge però che «il Manzoni, il duca di Saint-Simon, Leone Tolstoj e Marcel Proust, oltre ad altri loro colleghi, ci danno la prova d’aver veduto abbastanza bene, per non aver da imparare tutto dal cinema». (9) Se Gadda, nel suo cammino, torna al romanzo, Ronconi lo preleva così com’è per la scena. E la preferenza che Ronconi accorda al Pasticciaccio rinunciando a Il palazzo degli ori e a Eros e Priapo, cui pure aveva originariamente pensato, oltre a ricalcare il percorso di Gadda, sottintende il lavoro di grande commento critico cui tutta la messinscena è improntata: in un’ottica esegetica, diventa così un merito il rimprovero mosso a Ronconi da Carmelo Bene, che considera il lavoro del collega, non senza una punta di polemico veleno, «assai migliore (sono sue parole) di quel che si è scritto intorno a Gadda» e anzi lo annette esplicitamente all’ambito letterario definendolo un «ottimo saggio critico sul testo letterario». (10)

Concludendo, si ammetta o no che il l’esito di un riaccendersi di celebrità dipende dall’interpretazione su cui si regge la riproposta, Ronconi pare aver colto nel testo la popolarità come suo dato costitutivo, pensato da Gadda, finendo per evidenziare elementi che in tal senso meritano un approfondimento critico. Intanto, ha restituito alla lingua la sua pronunciabilità, scommettendo sulla sua fruibilità, in nome di quel suo nucleo vitale che l’ha spinto a rendere il linguaggio protagonista dello spettacolo, contrapponendolo provocatoriamente al carattere esangue della drammaturgia. Il risultato di questa sfida vittoriosa, attraverso la quale il voltaggio espressivo di Gadda si è preso una rivincita sugli infausti pronostici di una sua impossibilità di futuro, è stato colto come meglio non si potrebbe da Arbasino, che ha lodato la mirabile capacità di «far arrivare al pubblico immediata e viva la totalità e la qualità di quel gran linguaggio espressivo (espressionista? o barocco? o macaronico?) tanto compatito (dai coetanei accademici e perbenino di Gadda) come “eccentrico, faticoso, cincischiato, disgregato, umoristico a vuoto”… E invece vivissimo con tutta la sua forza parlata e bassa, rispetto all’italiano generico della paginetta corrente e della routine teatrale media che non riesce a far vivere personaggi e dialoghi perché un italiano dove non si sentono la religione e la città e il ceto suona come una lingua artificiale o una lingua morta. Senza suono né corpo» (Arbasino 1996: 21).

Inoltre, con la scelta di far coincidere il luogo della realtà rappresentata, Roma, con il luogo della finzione, ha restituito il testo al suo luogo e saputo indicare, ben oltre le ragioni contingenti e tecniche responsabili anch’esse della scelta, che nel testo l’ambiente si salda al suo sfondo storico connotandosi come metafora dell’intero paese e come paesaggio in senso profondamente antropologico. Ronconi vuole anzi comunicare agli spettatori, con lo spazio ambientale di Roma, che il Pasticciaccio ha un carattere «attualissimo», ma anche «antropologico o costituzionale in un paese dominato dal perenne intrigo plautino di servi e parassiti», in cui «la tendenza all’imbroglio e al sotterfugio è permanente». Insomma il pubblico è riuscito ad accorgersi che il testo «fa parte del nostro Dna culturale» e «l’humus» a cui «si riferisce ha un carattere […] profondamente e perennemente nostro» (11) (così come Manganelli usa deliberatamente il lemma «indigeni» nel riferirsi ai personaggi) (12) e lo attraversa nelle sue parti portanti ed extravaganti.

L’italianità del romanzo, come riflesso di un’italianità percorsa in molti aspetti storici e tipologici dall’«ordigno cognitivo» della macchina del Pasticciaccio, (13) costituisce una fertile prospettiva di approfondimento per spiegare l’opera quale tassello di quella «splendida pagina autobiografica» che per Gadda la propria «generazione non (aveva) dato alle stampe» (14) e che include il conflitto gaddiano di appartenenza/estraneità al paese per il quale ha sognato un ordine frantumatosi in caos: quello di una biografia piena di attese incenerite dalla folgore della disillusione; quello di «romantico preso a calci dal destino», e infine quello di un diverso che guarda all’alterità da defraudato della normalità, di un Nord che guarda al Sud (il milanese che si fa romano, nel ritratto che ne ha fatto Attilio Bertolucci).

Risiede forse in ciò la molla per cui pare agire nella scrittura di Gadda, a dirlo con le parole di Vittorini, «la preoccupazione di non lasciar vedere che lo muovono le cose», piuttosto che quella «di non lasciar vedere che lo muovono le parole» (Vittorini 1957: 20-21). Il filo, e tema catalizzatore, dell’italianità, pare da richiamare, più che per l’antitesi storia/metastoria, come sede di iato profondo e ineliminabile, che il Pasticciaccio declina diversamente rispetto a opere cronologicamente o tipologicamente lontane come Gli anni e Meraviglie d’Italia, e tuttavia tutte presupposte. Che il Pasticciaccio sia stato proposto da Gadda a Vallecchi per sanare il debito contratto con il Racconto italiano d’ignoto del novecento può, dalla realtà dell’arruffìo dei propositi editoriali e dell’instabile sinossi dei programmi, passare a indicarci figurativamente una consegna di testimone per cui il Pasticciaccio si configura – potremmo dire – come Racconto italiano di noto del novecento, in nome della significativa ricorrenza dell’aggettivo italiano, nei testi e nei titoli.

Cortellessa ha giustamente usato per Gadda la definizione di «genio italiano»; (15) anche il sogno di diventare un grande scrittore, va detto in chiusura, assume con il Pasticciaccio colori italiani. Se per la lingua la qualificazione viene usata con forza da Gadda a rivendicare al proprio puzzle dialettale l’unitarietà di un «fondo (appunto) italiano, anzi italianissimo» (16) (o, ancora: «Umilmente, […] ho creduto di portare avanti un lavoro che Verga ha fatto per la Sicilia usando il dialetto. Forse questa strada italiana conforta il lavoro di uno scrittore come me» – Gadda 1993b: 50), coerentemente, Gadda, interrogato sul suo desiderio di successo popolare, dice di sé: «è ovvio che un successo popolare non può che essere gradito a uno scrittore il quale viva appoggiato all’amore per il suo paese e ami perciò riconoscersi nelle disposizioni mentali dei suoi concittadini» (Gadda 1993b: 59).

Università di Torino

Note

1. Per una parziale ricostruzione delle reazioni seguite all’uscita del romanzo, rinvio al mio saggio La fortuna del «Pasticciaccio» (Andreini 2001a: 243-85).

2. A. Bonsanti, Feltre anni trenta, in Portolani d’agosto (Mondadori: Milano 1978), 239-40.

3. Ad es. De Robertis 1957: 67 riporta la scrittura di Gadda all’«uomo» e alle sue origini, già presenti nel Giornale di guerra e di prigionia pubblicato nel 1955.

4. A voler assumere la terminologia dello stesso Gadda (cfr. Come lavoro, SGF I 427).

5. Per dirlo ancora con le parole dello scrittore, si tratta «del mancato (premio) Marzotto. (“La coroncina già predisposta”, come la chiamò il critico della mia gloriuzza, nella sua stroncatura su “Il Tempo” (E. Falqui))» (Gadda 1974c: 93).

6. Cfr. l’intervista a Gadda, Il seguito del «Pasticciaccio», di G. Reposi e G. Cattaneo, a cura di S. Giannelli, trasmessa dalla Rai per «Arti e Scienze» il 4 settembre 1962, in cui Gadda parlava, per il romanzo, di tentativo di «accostarsi alla realtà espressiva del popolo e della gente» (Gadda 1993c: 149).

7. Si esprime in questi termini Renzo Tian, sul «lavoro di drammatizzazione» fatto sulla Cognizione del dolore da Siro Ferrone e Beppe Navello (Ferrone 1983) – programma di sala (Teatro Stabile di Torino, stagione 1983/84) dello spettacolo.

8. «La drammaturgia italiana soffre di un’endemica povertà linguistica largamente determinata da fattori storici quali la mancanza di una secolare tradizione di italiano parlato. L’utilizzo di forme di conversazione “convenzionali” e necessariamente stereotipate – o i calchi sintattici da lingue straniere, prima fra tutte il francese, hanno finito col prevalere nella nostra scrittura teatrale. L’accensione visionaria del barocco gaddiano, refrattario ad ogni uso piattamente comunicativo o informativo del linguaggio, permette ad attori e regista di misurarsi con una struttura linguistica italiana forte» – così il regista nella Conversazione con Luca Ronconi, a cura di G. La Fontana, nel programma di sala, Teatro di Roma (La Fontana 1996: 113-14).

9. Il passo si legge in Inchiesta sul neorealismo, a cura di C. Bo (Torino: ERI 1951), 69-70.

10. Cfr. l’intervista di U. Volli, Bene: «Esploderò in scena», in La Repubblica (28 settembre 1996): 37.

11. La considerazione di Ronconi si trova in un’intervista: cfr. R. Cirio, Siamo tutti Ingravallo, in L’Espresso (16 febbraio 1996): 121.

12. Cfr. C. Garboli e G. Manganelli, Cento libri (Milano: 1997, 1989), 25.

13. Il termine è, nella pregnanza della sua applicazione al romanzo, di E. Trevi – «Memorie del mondo». Strategie di rappresentazione del reale nella letteratura italiana, in Costellazioni italiane 1945-199. Libri e autori del secondo Novecento (Firenze: Casa Editrice Le Lettere, 1999), 179.

14. La citazione, da una recensione di Gadda a B. Tecchi del 1930, è qui ripresa dalla Nota introduttiva non firmata, ma di G.C. Roscioni, a C.E. Gadda, La cognizione del dolore (Torino: Einaudi, 1971), xii.

15. Cortellessa 2001b: 121 (ma anche le pp. 117-121, con riferimenti ad alcuni dei critici che hanno colto in Gadda tale aspetto).

16. Cfr. la lettera del 20 ottobre 1959 di C.E. Gadda al cugino (Gadda 1974c: 106).

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-06-X

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framed image: after a photograph of Gadda (Effigie).

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