Ensor Intrigue

Postilla su alcuni giudizi gaddiani

Giorgio Cavallini

1. In questa postilla prendo in considerazione alcuni giudizi di Gadda su Foscolo, Manzoni e Leopardi, ma non presumo di dir qualcosa di nuovo su argomenti già molto noti e approfonditi in sede critica. Intendo soltanto, anche per corrispondere al gentile invito di Federica Pedriali, tornare su uno scrittore a cui rivolsi il mio interesse più di venticinque anni fa: uso il verbo tornare come si può dire di chi, dopo tanto tempo, faccia appunto ritorno per rivedere i luoghi frequentati quando era più giovane e, con emozione mista a una punta di nostalgia, cerchi di ritrovarvi qualcosa dell’incanto e del fascino di una volta, rimasti ancora intatti nella sua memoria ma non più verificati attraverso il collaudo, spesso impietoso e deludente, con la loro nuova e diversa realtà attuale.

Questa la cifra di una rivisitazione che, a causa del grande intervallo di tempo intercorso, può provocare in me qualche motivo di disincanto o, per metterla su un piano meno coinvolgente sotto il profilo delle esperienze personali che ci segnano, un più attento vaglio delle ragioni di adesione e di consenso (allora incondizionate) verso uno scrittore che allora ebbi a definire «straripante e magmatico». Premesso ciò, inizio il mio discorso con Foscolo per proseguire, poi, con Manzoni e con Leopardi, e presentare infine, come conclusione, tre testimonianze dell’autore sulla sua fedeltà manzoniana.

2. Quanto al rapporto Gadda-Foscolo, il pensiero va subito al pamphlet intitolato ironicamente Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo. In questa Conversazione a tre voci (1967) Gadda si diverte a riversare sull’autore dell’ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo i suoi umori beffardi e irriverenti, attizzati dall’antipatia per i poeti-vati e dall’insofferenza per il mito della virilità – si ricordino, in proposito, gli strali da lui indirizzati contro Napoleone e contro Mussolini.

Alternando il tono grottesco all’invettiva viscerale, Gadda non risparmia il poeta accusato di narcisismo per aver scritto il sonetto autoritratto Solcata ho fronte, occhi incavati, intenti: «L’occhio ce lo aveva penetrante, e roteante: come l’occhio d’una bertuccia»; «La bocca, appena aprirla, una ciabatta»; «Volevo dire che aveva una voce da cornacchia»; «Cambiali fasulle, s’intende. Con che cosa le pagava? Se non aveva un soldo! Che cosa gli pignoravano? Un mezzo pettine… una scarpa frusta. E scompagnata anche quella»; «Piuttosto gobbo, era. Per questo piaceva tanto alle donne, a certe donne, voglio dire, pardon. I gobbi hanno buona fama…»; «All’adorata sua signora mamma non le ha mai mandato una lira»; «Lui sguazza, lui sogna di sguazzare tutta la vita in un collegio di Pimplee, in un mare di educande: che strimpellano non si sa che mandolini o che arpe. Lui nuota a rana in quell’oceano, felice, estasiato, con basette elettrizzate: roteando gli occhi: nella certezza di riuscire irresistibile»; «un bugiardo, un falsario: con due barbe di granoturco appiccicate agli zigomi. E un baro» (SGF II 385-423 passim).

Come appare da queste poche citazioni rapsodiche, c’è da dire che – senza indugiare sull’avversione per Foscolo, attestata anche da altre opere gaddiane (in materia fanno testo gli studi di Pietro Gibellini) – si tratta dell’esternazione di un risentimento che getta luce più sull’uomo Gadda, sulla sua psiche inquieta e tormentata, che sull’autore fatto oggetto di ostilità preconcetta e di derisione. Del resto, il nome stesso del Foscolo, anche quando sembri essere accompagnato da una lode per lo più generica, eccita ogni volta in Gadda la corda del divertissement e ne suscita lo scherno. Già in uno scritto precedente, Conforti della poesia (1949; poi nel volume Il tempo le opere, 1982), se ne ha dimostrazione in due passi. Il primo parla delle «predilezioni squisite» del poeta, una delle quali «basterebbe da sola a predicarne la grandezza». Questo l’inizio, apparentemente encomiastico, del brano, che finisce però in tutt’altro modo:

Il Foscolo ha delle predilezioni squisite: l’una, che basterebbe da sola a predicarne la grandezza, è il culto e insieme la cupidigia della donna: alla donna egli chiede amore e verecondia: prima di tutto verecondia e soprattutto amore: compostezza di celestiali atteggiamenti, in salotto, e sacerdotale perizia e liturgica disinvoltura nei riti d’Artèmide: (o d’Afrodite).
Cadenze jeratiche, dopo essere andati a letto insieme. (SGF I 963)

Il secondo passo, che ha per incipit «la divina poesia del Foscolo», sfocia però in una spiritosaggine con implicita un’allusione oscena:

[…] La divina poesia del Foscolo ha sciolto alle Càriti i tre inni immortali. Il discrimine tra poesia e non-poesia è stato da lui vittoriosamente superato col prendere della non-poesia e col farne della poesia: cioè col demandare alle signore Pandolfini, Rossi-Martinetti e Bignami le funzioni di sacerdotesse delle Grazie: e con l’adibire il collo del cigno, simbolo di poesia, per fare alla sacerdotessa terza, signora Maddalena Bignami, quel che avrebbe voluto farle lui in un momento di non-poesia, se ce l’avesse avuto abbastanza lungo, il collo. (SGF I 965)

Ma nell’uno e nell’altro esempio, come a maggior ragione nel pamphlet prima citato, non si può certo parlare di giudizio critico, bensì di uno sfogo dettato da antipatia caratteriale (con una componente di misoginia), senza dubbio spiritoso e liberamente inventivo, benché un po’ eccessivo e non immune da qualche forzatura e caduta di tono.

3. Molto numerose sono le testimonianze della fedeltà di Gadda al Manzoni: le pagine del Cahier d’études del suo primo tentativo di romanzo (1924-1925: si tratta del Racconto italiano di ignoto del novecento, edito a cura di Isella nel 1983), divenute autonome nel 1927 con il titolo di Apologia manzoniana e pubblicate sulla rivista Solaria; la confessione dello scrittore contenuta nell’Intervista al microfono del 1950; l’articolo Manzoni diviso in tre dal bisturi di Moravia del 1960; la rilettura continua dei Promessi Sposi durata tutta la vita. Tra esse (ma altre, sparse in vari scritti, se ne potrebbero ricordare), è fondamentale la prima, sulla quale si sono espressi critici importanti, quali, per citarne soltanto alcuni, Contini, Nava, Isella e Raimondi. Anche a questo proposito, perciò, non ci sarebbe niente da aggiungere, se non si ritenesse utile riepilogare i motivi principali di una così grande e costante ammirazione.

Innanzi tutto l’Apologia va inquadrata nell’atteggiamento di Solaria contro il provincialismo caratteristico della cultura italiana al tempo del fascismo, nella persuasione che le espressioni più originali della letteratura moderna fossero fiorite in paesi che, invece di celebrare il genio locale o indigeno come nell’Italia ufficiale, affermavano l’esigenza di sentirsi europei. Così, negli anni in cui nessuno da noi si rifaceva al romanzo manzoniano, Gadda ne dichiara la grandezza, la profondità e la «tragica sinfonia»:

Con un disegno segreto e non appariscente egli disegnò li avvenimenti inavvertiti: tragiche e livide forme d’una società che il caso trascina per un corso di miserie senza nome, se può chiamarsi caso lo spostamento risultante della indigenza, della bassezza, della cieca ignoranza, della ignavia politica d’una razza, dell’avidità e dell’orgoglio d’un’altra. Se può chiamarsi caso il tedio d’una vita disorganica e priva di fini, che fa ricercare nel male i simboli della finalità e, poi, i veleni di un più fosco desiderio, d’una più orrida discesa verso cupi silenzi. (SGF I 679)

Oltre a rivalutare il romanzo storico manzoniano, Gadda vede nel suo disegno secentesco anche la prefigurazione del presente, ovverosia di una situazione in cui il male antico di nuovo si rigenera. Riferimento che «aumenta la risuonanza tragica di ogni pensiero»:

Scrittore degli scrittori, egli visse prima la sua meravigliosa annotazione; e il continuo riferimento del male antico al nuovo aumenta la risuonanza tragica di ogni pensiero. (SGF I 679)

Al contempo Gadda mette in evidenza la rappresentazione del vero e la rivoluzione linguistica attuate da Manzoni nel suo «meraviglioso poema»:

Volle poi che il suo dire fosse quello che veramente ognun dice, ogni nato della sua molteplice terra, e non la roca trombazza d’un idioma impossibile, che nessuno parla, (sarebbe il male minore), che nessuno pensa, né rivolgendosi a sé, né alla sua ragazza, né a Dio. […] Egli volle parlare da uomo agli uomini, come, a lor modo, parlarono tutti quelli che ebbero qualche cosa di non cretino da raccontare. […] Quello stesso amore per cui disegnò la figura purissima di una ragazza del popolo, sia pure un po’ timida e ombrosa, lo condusse a sceverare e ad esprimere le cose vere delle anime con le vere parole che la stirpe mescolata e bizzarra usa nei suoi sogni, nei sorrisi e dolori. […] Renzo, non meno della sua ragazza, rappresenta nel poema la stirpe, operante per elezione morale. (SGF I 680-86 passim)

Dove si vuol sottolineare almeno le due espressioni a chiasmo cose vere e vere parole: sintesi mirabile della rappresentazione del vero (non solo storico) e dell’adozione della lingua parlata e intesa da tutti. Non si aggiunge altro perché Raimondi nel saggio Gadda e le incidenze lombarde della luce ha già esplorato e approfondito questi aspetti (qui soltanto sintetizzati), e altri ancora, del rapporto tra i due grandi lombardi. A questo proposito si dice soltanto che tutto ciò non annulla le indubbie differenze che esistono tra l’uno e l’altro, e che si possono così riassumere: alla presenza della fiducia in Dio (in Manzoni) contrasta la sua assenza (in Gadda); così come alla scelta linguistica di una lingua usuale e comune, fatta dal primo, corrisponde invece il plurilinguismo del secondo, come ho cercato di dimostrare a suo tempo (Cavallini 1977).

Un solo esempio per tutti: diversamente da Manzoni che rifiuta «il troppo» e «il vano» per una lingua (si pensi alla semplicissima frase, carica di significati, con cui è narrato il peccato della Monaca di Monza: «La sventurata rispose»), Gadda vuole manifestare il carattere di totalità della sua visione del mondo, valendosi della facoltà di poter liberamente cacciare (sua è l’immagine venatoria) in ogni zona linguistico-espressiva: «I doppioni li voglio tutti, per mania di possesso e per cupidigia di ricchezze: e voglio anche i triploni, e i quadruploni […]: e tutti i sinonimi, usati nelle loro variegate accezioni e sfumature, d’uso corrente, o d’uso rarissimo» (Lingua letteraria e lingua dell’uso, SGF I 490).

Resta da dire della risposta a Moravia, nella quale l’ironia gaddiana ha facilmente buon gioco delle accuse di quietismo e di conservatorismo pratico (Alessandro Manzoni o l’ipotesi di un realismo cattolico, 1960; poi in L’uomo come fine e altri saggi, 1964), mosse all’autore dei Promessi Sposi:

[…] incriminare, sia pure tra sostanziali riconoscimenti, un signore milanese nato nel 1785 e operante fra il congresso di Vienna e il quaranta, di non aver condotto il suo romanzo avendo riguardo alle istanze mentali o alle situazioni di diritto del 1959; quando proprio quel signore milanese ha romanzato per primo nei poveri, negli umili, negli incorrotti o nei fatalmente oppressi i risorgenti protagonisti della storia umana, della salvezza biologica: e li ha immaginati a dire (in battute inimitabili) e a sentire e patire e volere come tali: in un seicento lombardo, spagnolesco, lanzichenesco, e borromeiano e sinodale e cattolico: (cattolico era, lui non poteva farlo turco). Un seicento che non è se non il grande teatro del suo dramma: «l’Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo…». (SGF I 1178-179)

Vi si rinnova anche l’ammirazione per il romanziere e lo storico:

[…] Amiamo nel Manzoni l’artista, ossia il romanziere e lo storico: il consapevole giudice di quegli aspetti della continua irragione umana che nel complesso racconto e nell’ironia sempre vigile dei Promessi Sposi hanno un così ampio, ininterrotto, inevitabile cioè fatale documento. (SGF I 1178)

E vi si confuta il supposto intento propagandistico dell’autore con il richiamo al «significato ironico-logico profondo» del suo libro:

[…] Mi pare che l’intento propaganda sia soltanto un aspetto (forse il più povero) dell’alta e vasta creazione manzoniana, ricca d’interdipendenze e contrasti che hanno valore di realtà combinatoria (e Moravia dice «realismo»), di realtà logica quasi discendente da un superno decreto e significato ironico-logico profondo: e attingono agli strati fondi e veritieri del conoscere, del rappresentare. (SGF I 1179-180)

Infine vi si sottolinea l’evidenza rappresentativa, caratteristica del romanzo:

[…] Incredibile felicità e suprema nettezza descrittiva, la scena «veduta», il personaggio che «ti viene incontro», le vie di Milano e i bravi e il lazzeretto ricostituiti in prosa italiana, ma con l’arte antica e nuova d’un Caravaggio, d’un Canaletto. (SGF I 1180)

Insomma, gli argomenti non mancano a Gadda, che smantella ad una ad una le accuse di Moravia, permettendosi anche, a un certo punto della sua difesa, di esclamare giocosamente: «E va bè!» – quasi a voler concedere qualcosa all’«implacabile rigore mentale» dell’inquisitore, accogliendo alcuni presupposti delle motivazioni, ascritte a colpa dell’accusato, senza però accettarne le conseguenze ricavate per poterlo «incriminare» (SGF I 1177):

[…] Qualche proposito rassegnato, cioè sommesso ai voleri di una ipostatizzata Provvidenza, non basta a figurarne il tipo che si arrende a tutto pur di campare vita comoda. Aveva orrore della folla, da cui troppo temeva d’esser stretto: orrore al vuoto, perché temeva di cadere: soffriva di vertigo e d’insonnia: provvedeva la cioccolata una volta l’anno per sé, per tutta la famiglia, come il mezzadro o il colono rimette il grano per l’annata, o provvede a serbar patate o castagne dopo la colta. E va bè! (SGF I 1177)

Ci sarebbe ancora molto da dire, sul rapporto Gadda-Manzoni, ma qui, soprattutto in sede di riepilogo, non si vuol eccedere dalla misura che ci si è prefissi per una postilla.

4. Quanto a Leopardi, a parte qualche riconoscimento sparso – per esempio, in Psicanalisi e letteratura, del 1949, si legge la qualifica di «grande poeta» (SGF I 469), assegnata a lui e a Rimbaud; nella Battaglia dei topi e delle rane, del 1959, viene giudicato «eccelso» (SGF I 1168) tra i poeti del nostro Ottocento –, è molto significativa la continuazione di una citazione precedente, tratta dall’Apologia manzoniana (v. paragrafo 3). Gadda inizia il capoverso adducendo argomenti a favore di Manzoni («Egli volle parlare da uomo agli uomini […]»), e lo conclude nel modo seguente:

[…] Ebbe compagno nell’impresa della spazzatura un altro conte suo contemporaneo, disgraziatissimo e macilento della persona. La parola di quest’ultimo ha una nitidezza lunare: «Dolce e chiara è la notte». (SGF I 680)

Intanto fa piacere vedere accomunati due autori in genere contrapposti per un motivo o per l’altro: accomunati, per di più, in un’impresa non da poco. Il giudizio, poi, è memorabile, anche per la felicità dell’esempio – uno solo, ma altissimo –, da cui è accompagnato e motivato. «Nitidezza lunare» definisce perfettamente ciò che è peculiare della parola leopardiana, ed il verso citato, che apre La sera del dì di festa, è tra i più belli dei Canti, grazie anche alla forza di espansione che anima l’endecasillabo, ricco di pause e di stacchi («Dolce e chiara è la notte e senza vento», endecasillabo degno, sia detto per inciso, di quello preferito su tutti da Saba: «E chiaro nella valle il fiume appare»). Definizione quanto mai appropriata: Leopardi è poeta notturno e lunare per eccellenza. La quale, inoltre, dimostra che Gadda, se e quando vuole, rinuncia una tantum a essere straripante, e sa optare per l’arte, forse più difficile ma spesso più efficace, della brevità. Giudizio, dunque, davvero memorabile e, insieme, tra i più pertinenti di cui sia stato fatto oggetto Leopardi.

Non certo al fine di allungare il paragrafo – che, come si è visto, si giustifica benissimo da sé –, ma per fornire un’altra tessera, mi piace ricordare il passo di una lettera gaddiana inviata, in data 4 febbraio 1928, a Bonaventura Tecchi. Il passo ha per tema un libro di J.J.Brousson, segretario maldicente di Anatole France. Attraverso una digressione lo scrivente introduce il nome del Leopardi, allora interpretato in chiave falsamente ottimistica, per dire qualcosa di lui in due brevi capoversi:

Di G. Leopardi bisognerà pur arrivare a dire che era pagato a scrivere per scoraggiare la gioventù, ecc. ecc.
Che talora sia un po’ lugubre è vero: ma non credo fosse pagato. Tu che ne pensi? (Gadda 1984b: 61)

Ironia rivelatrice del lucido pessimismo leopardiano, che Gadda fa balenare andando contro corrente rispetto alla cultura dominante del tempo: così come aveva fatto lo stesso Leopardi nel rivendicare la «filosofia dolorosa, ma vera» di Tristano in opposizione a quella imperante nel suo secolo.

5. Vorrei concludere questa postilla nel segno della curiosità, ma anche della fedeltà. Curiosità perché traggo alcuni riferimenti da tre lettere di Gadda a Contini; fedeltà perché si tratta, come è ovvio, di riferimenti a Manzoni.

Nella prima (da Firenze, del 3 maggio 19..?: per Contini l’anno potrebbe essere il 1941) c’è un’allusione suggerita dall’ode composta da Manzoni in occasione della morte di Napoleone: «Parto per Milano domani 5 Maggio (Siccome immobile, utinam) […]». In nota il destinatario e raccoglitore spiega: «L’utinam sembra riferirsi al similinapoleone dell’epoca», cioè a Mussolini (Gadda 1988b: 25).

Nella seconda lettera (sempre da Firenze, del 19 aprile 1949) lo scrivente, per dare notizia della sue pessime condizioni economiche, prende spunto dal «cielo di Lombardia», celebrato nel cap. XVII dei Promessi Sposi: «Montale è assurto nel bel cielo di Lombardia, così bello quando fiocca qualche quattrinello! Ma per me non fiocca più. La miseria s’è avvicinata […]. Non ho più nulla tra poco: non vedo come tirare avanti» (Gadda 1988b: 66).

Nella terza lettera (da Roma, in data 20 dicembre 1962) Gadda si scusa con l’amico per non essersi potuto recare, a causa della sua salute, a Milano a ritirare un importante premio letterario e gli dice che, per gli stessi motivi nonché per i suoi «difficili rapporti col mondo», è costretto a rinviare anche la progettata gita a Firenze: «Devo a ogni modo rimandare a più sereno tempo (non al dì manzoniano dell’Adelchi, a chiusura colónica delle trecce morbide) la gita a Firenze» (Gadda 1988b: 101). Come si vede, i riferimenti periferici riguardano rispettivamente il Manzoni lirico e il Manzoni tragico, mentre quello posto al centro è dedicato al Manzoni autore del romanzo.

Ultima curiosità. Poiché le lettere sono commentate, l’ultima (da Roma, del 10 novembre 1967), raccolta nel volume, è seguita da una pagina, tra affettuosa e commemorativa, nella quale Contini rammenta l’ininterrotta lettura dei Promessi Sposi che Gadda si faceva fare nei giorni estremi di vita. Nella pagina si menziona anche il Caravaggio, «l’altro idolo lombardo del nostro amico lombardo». La conclusione è affidata a una citazione manzoniana, introdotta per annunziare la morte ormai prossima dello scrittore: «La c’è, la Provvidenza, la c’è»; citazione accompagnata da un sobrio commento linguistico: «parole vestite di cenci fiorentini e impastate di sostanza milanese» (Gadda 1988b: 111). Sarà lecito, dunque, dire che lo strenuo e fedele ammiratore del Manzoni è riuscito, morendo, a coinvolgere, portandolo sul proprio terreno preferito e quasi suscitandone l’emulazione, l’«acutissimo» – così giudicato in una lettera del 20 luglio 1934 (Gadda 1988b: 13) – critico, suo amico ed estimatore, da cui aveva appreso in vita l’arte della maccheronea e del pastiche.

Università di Genova

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-03-5

© 2002-2025 Giorgio Cavallini & EJGS. First published in EJGS. Issue no. 2, EJGS 2/2002.

Artwork © 2002-2025 G. & F. Pedriali. Framed image: after James Ensor, Intrigue, 1911 – with photograph of Gadda superimposed.

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