Un esempio di traduzione intersemiotica:
dal Pasticciaccio a Un maledetto imbroglio

Emanuela Gutkowski

In generale, mi sembrerebbe un sintomo di decadenza, per il cinema, ridursi a cercare le sue storie nei romanzi. Per quanto mi riguarda, mi sentirei diminuito se risultasse che nel mio lavoro mi aggancio alla letteratura. Io credo nell’assoluta autonomia del cinema; non solo, ma credo che sia molto difficile che un film veramente importante nasca da un libro.

Pietro Germi, 1964 (1)

Quando, nel 1959, Pietro Germi realizza Un maledetto imbroglio, (2) libera riduzione del Pasticciaccio, il cinema italiano è maturo per attingere i propri soggetti dalla letteratura mantenendo peraltro una sua autonomia. Soltanto un anno prima André Bazin ne aveva elogiato la capacità di rendere le opere letterarie non attraverso l’imitazione pedissequa dell’intrigo, ma facendo «passare in immagini qualcosa dello stile dei romanzieri, cioè della struttura stessa del racconto, della legge di gravitazione che regge l’ordinamento dei fatti». (3)

Il giudizio di Bazin si può applicare al passaggio dal codice linguistico del romanzo di Gadda a quello polisemico del cinema: (4) i tratti essenziali rimangono intatti, sebbene la fedeltà al testo si dissolva dietro le novità della sceneggiatura, nata dalla collaborazione di Germi con Alfredo Giannetti ed Ennio De Concini e premiata, nel 1960, con un Nastro d’argento. (5)

Singolare il rapporto tra Germi e Gadda. Entrambi innamorati del genere poliziesco: il primo non nuovo a soggetti di carattere giudiziario, (6) il secondo aspirante «conandoyliano» perlomeno dal ’28 (RR II 1317). Sul Pasticciaccio esiste una copiosa bibliografia; qui mi limiterò pertanto a segnalare i punti rilevanti ad un’analisi della sua trasposizione cinematografica.

L’operazione di Germi è senz’altro coraggiosa. Il tratto più originale del romanzo non sta tanto nell’intreccio, il cui filo si perde talvolta tra le digressioni, quanto nel linguaggio. Difficile stabilire come una pellicola avrebbe potuto rendere le scelte gaddiane:

Se si fosse voluto trasferire fedelmente sullo schermo questo libro che per i critici era un caleidoscopio di parole, per i comuni lettori una sfilza di errori d’ortografia, si sarebbe dovuti ricorrere a un regista d’avanguardia, di quelli che fanno i film per sé soli: inquadrature sghembe, movimenti vertiginosi, obiettivi sporchi, filtri deformanti, il tutto sommato a dialoghi da commedia dialettale di serie B ed errori di montaggio intenzionali. Germi, che gli errori li faceva soltanto per sbaglio, si accontentò di confezionare un poliziesco; ma un buon poliziesco, di solido mestiere e di insolita ambientazione […]. (Giacovelli 1990:73)

Dalla sperimentazione letteraria alla solidità di una regia tradizionale, dunque. Eppure, «a Gadda [il film] piacque» (Giacovelli 1990: 71). Al di là delle inevitabili modifiche il regista aveva reso, se non tutte, almeno parte delle intenzioni dell’autore, seguendo lo stile che in letteratura chiameremmo delle belle infedeli. E come nel caso di tutte le buone traduzioni, l’operazione finale non consiste semplicemente nel riprodurre, con un diverso linguaggio, l’opera di partenza. Si tratta piuttosto di un processo di appropriazione e rielaborazione personale in cui il contenuto iniziale viene filtrato e riproposto attraverso gli occhi del regista. La nuova lettura della materia di base determina l’originalità del film anche se in certi casi, proprio per via di una rivisitazione tradizionale del romanzo, la peculiarità della tecnica narrativa gaddiana perde il suo mordente. Alcune scelte stilistiche dello scrittore si trasformano, nelle mani del regista, in gag e macchiette di genere, ironiche e ben costruite, ma al tempo stesso convenzionali. L’opera di Germi è, dopotutto, un noir all’italiana – ambientato in una Roma estremamente fotogenica, (7) segue fedelmente i dettami del genere:

Da [un film] all’altro si ritrova la stessa atmosfera generale di disillusione e di durezza nei rapporti fra le persone, lo stesso uso contrastato del bianco e nero nell’illuminazione della fotografia, gli stessi notturni urbani d’asfalto o di cemento, gli stessi intrighi di tipo poliziesco (volutamente annodati a imbroglio), (8) gli stessi personaggi di detective privato, a mezza strada fra la lucida canaglia e il cavaliere romantico di tutte le cause perse. (Metz 1977: 132)

Se la collocazione temporale slitta (dal 1927 agli anni ’50), quella spaziale non muta. Come già Gadda, Germi rispetta l’etimologia del genere poliziesco alla cui radice, polis, si delinea la città come co-protagonista, teatro naturale di un male oscuro che si manifesta in azioni delittuose. (9) Film e romanzo si muovono, dentro e fuori Roma, tra il palazzo degli ori, abitato da una borghesia ipocrita, e i quartieri poveri, in cui un’umanità diseredata vive di espedienti più o meno leciti; accomuna i due ambienti l’avidità. Parzialmente diverso, nel passaggio dal romanzo al film, è l’intreccio, non soltanto per la soppressione di alcuni personaggi e il differente scioglimento, ma soprattutto per il rapporto che il narratore instaura con il lettore.

Nel romanzo un narratore extradiegetico espone i fatti evitando di anticipare la soluzione dell’intreccio; il lettore si trova cioè su per giù nella posizione di Ingravallo. Il regista concede invece allo spettatore qualche informazione in più. La macchina da presa segue ad esempio Valdarena quando questi entra sulla scena del delitto e riprende lo stupore che, disegnandosi sul suo viso, lo scagiona. La denuncia del marcio nell’individuo, che Gadda ritrae in modo netto, mantiene in Germi la sua veemenza: scoperto il delitto, il primo pensiero del giovane va, non a caso, al denaro. Valdarena non è certo l’assassino, ma lo sdegno per il suo cinico comportamento viene addirittura rafforzato dal regista: con moralismo che la critica cinematografica gli attribuisce all’unanimità, Germi/Ingravallo conclude infatti il suo rapporto col personaggio con una sonora sberla, non trascurando di castigare allo stesso modo Banducci. A Valdarena, scoperto nudo nel letto di Virginia, non viene concesso nemmeno di rivestirsi se non entro i limiti della presentabilità e come a dire: una volta smascherati, non è più necessario ricorrere ad alcuna copertura, nemmeno quella simbolica degli abiti. L’incontro finale con l’immagine a lui speculare dell’ipocrisia, quella del Banducci, avviene, significativamente, in canottiera. Ma torniamo al momento in cui viene scoperto il delitto. Gadda si serve di un’immagine violenta e delicata al tempo stesso:

Il corpo della povera signora giaceva in una posizione infame, supino, con la gonna di lana grigia e una sottogonna bianca buttate all’indietro, fin quasi al petto: come se qualcuno avesse voluto scoprire il candore affascinante di quel dessous, e indagarne lo stato di nettezza. (RR II 58)

Passa poi alla ferita, fin nei dettagli del sangue rappreso:

Un profondo, un terribile taglio rosso le apriva la gola, ferocemente. Aveva preso metà il collo, dal davanti verso destra, cioè verso sinistra, per lei, destra per loro che guardavano: o punta: un orrore! Da nun potesse vede. Palesava come delle filacce rosse, all’interno, tra quella spumiccia nera der sangue, già raggrumato, a momenti; un pasticcio! Con delle bollicine rimaste a mezzo. Curiose forme, agli agenti: parevano buchi, al novizio, come dei maccheroncini color rosso, o rosa. «La trachea,» mormorò Ingravallo chinandosi, «la carotide! la iugulare… Dio!». (RR II 59)

Germi agisce qui in modo del tutto personale. L’imbarazzante scena del pudore femminile violato perde tutta la forza che ha in Gadda, mentre viene enfatizzato, con inquadrature studiate, il dramma di Liliana Banducci: la macchina da presa si sofferma sul corpo insanguinato della vittima e, sullo sfondo, un quadro ritrae un bambino. Le immagini si sostituiscono alle parole per narrare una maternità mancata e un profondo senso di solitudine tra l’indifferenza degli altri. Valdarena, dal canto suo, si preoccupa di prelevare il denaro. La differente conoscenza dei fatti dal momento in cui il delitto viene scoperto crea, cioè, un’irreversibile situazione di superiorità dello spettatore sui personaggi, superiorità che il lettore non gode e da cui lo spettatore invece può osservare anche i metodi investigativi della polizia italiana (scimmiottano quelli americani, ma rimangono in stile con una realtà inevitabilmente provinciale).

Il romanzo alterna parti dialogate a brani in indiretto libero. (10) Attraverso continui cambiamenti di registro linguistico, e nel pieno del gioco polifonico, ogni parlante ha un proprio dialetto o idioletto – o, come direbbe Eco, «offende la norma» (11) –, a seconda delle origini regionali e del mestiere (in senso lato: hanno un mestiere il ladro e la donna di malaffare). Molisano, napoletano, romanesco si mescolano, dunque, a latinismi, anglicismi, francesismi, ispanismi, burocratese, in un complesso arrangiamento di voci tra loro distinte-accomunate da una ricercata coralità. L’esperimento linguistico è affermato sin dalle prime battute di Ingravallo:

«Quanno me chiammeno!… Già. Si me chiammeno a me… può sta ssicure ch’è nu guaio: quacche gliuommero… de sberretà…» diceva, contaminando napolitano, molisano e italiano. (RR II 16-17)

Germi, da parte sua, elimina il discorso indiretto e, attraverso i dialoghi, tenta una sommaria ricostruzione della struttura polivocale. Se Ingravallo parla in un italiano che potremmo definire standard, il maresciallo Saro (Saro Urzì, immancabile macchietta nei film di Germi) si esprime con inflessione siciliana – perché questa venga sicuramente colta, di lui viene detto che è di Catania, come la chitarra in cui è ritrovata la refurtiva.

L’allievo carabiniere ha un forte accento settentrionale, e anche in questo caso, per segnalare che si tratta di un voluto regionalismo Ingravallo fa mostra di rimanere interdetto ascoltandolo: fino a ripeterne una delle frasi con la propria cadenza, come per essere certo di avere capito lo strano idioma. Pluralità di voci, quindi, ma anche un tentativo di rendere l’invadente coralità del romanzo, come quando il condominio continua a etichettare il ladro «assassino» – tanto da condizionare Ingravallo, che inizialmente oppone alla «collettività fabulante» (RR II 37) la propria logica («Ma qua’ assassine si nun ce sta ’o muorto?», RR II 29), ma infine cede e domanda «se fossero rimaste delle tracce… o impronte, o altro… dell’assassino» (RR II 37).

Nel film si muovono coralmente non soltanto i rumorosi condomini, ma anche le forze di polizia. A sottolineare una scelta registica precisa, arriva la richiesta del Banducci di parlare con il commissario: almeno per una volta, «soltanto con lui». Nella sequenza successiva l’intera squadra di polizia ascolta la confessione segreta.

Per quanto in forma impoverita, la complessità della tecnica narrativa gaddiana viene quindi riproposta: è difatti pur sempre su citazioni precise che le scene ridotte a gag da commedia all’italiana vengono ricalcate. La telefonata in cui, a turno, poliziotti e carabinieri tentano di comunicare, ognuno nella propria lingua e tutti ripetendo lo stesso discorso, con un ipotetico centralino, riprende certo l’episodio che Gadda colloca all’inizio del sesto capitolo:

Da quanto le diligenze auricolari del Di Pietrantonio pervennero infine a racimolare dal naufragio del testo (il crepitio del microfono e l’induttanza della linea sonorizzavano il testo: interferenze varie, da contatto urbano, intercicalavano, straziavano la ricezione), apparve a un dipresso che l’incauto Enea Retalli o Ritalli, sive Luiginio (ma evidentemente Luigino) aveva dato a tinger la sciarpa… trentasei quintali di parmigiano! brondi ghi barla? Spediti ieri da Reggio Emilia… Parla il tenente di vascello Racace. Brondi, brondi! Tenenza carabinieri Marino! Di parmigiano stagionato brondi… […]. (RR II 139)

Vittima e marito, si sarà notato, hanno cambiato cognome. «No, non Balducci!» – dice Ingravallo in una conversazione telefonica endodiegetica che però sembra diretta al lettore/spettatore stupito che il regista si sia confuso sull’onomastica – «Band-ucci, come band-ito». Lo slittamento potrebbe continuare seguendo la rima (Ben-ito) o, tramite parziale consonanza, con allusione al band-olo di una matassa da sciogliere, sinonimo di quello stesso imbroglio che, nel titolo, ha sostituito il pasticcio. Gadda, del resto, non occorre proprio ricordarlo, gioca di continuo a sua volta con lo slittamento da un termine a un altro per associazione semantica o sonora: «Ingravallo, nero, […] [m]alediceva mentalmente alle gomme, ai fascioni, ai fascisti» (RR II 266).

Varie volte, poi, nel corso del film, viene inquadrata la targa della porta di casa, col nome: il cognome creato da Germi. La scelta, che potrebbe sembrare singolare, in realtà ricorda una segnalazione-ripresa davvero insistita del Palazzo degli ori: la scritta portiere sulla portineria vuota, che Gadda ripetutamente dichiara essere neccessario inquadrare, forse ad indicare che alla parola non corrisponde contenuto, espletamento di funzione. (12) La denuncia di insostanzialità (del significante, nell’assenza del significato), ben presente nelle intenzioni di Gadda, viene così riprodotta nella pellicola di Germi.

I personaggi gaddiani amano inoltre autodefinirsi attraverso etichette che indicano, ma solo in apparenza, status sociale medio-alto. La contessa è tale non per nascita; ha sposato un conte, specifica Gadda nel trattamento cinematografico, e da parvenue la tratta, nel romanzo, la punteggiatura: il titolo di contessa viene inserito tra virgolette – «Di quel nome e di quelle gioie, vere o supposte, di quel mucchio d’ori della “contessa” der terzo piano der ducentodicinnove […] l’epos ormai s’era insignorito […].» (RR II 51). (13) Lo spettatore, ovviamente, non sa se i titoli con cui i personaggi si definiscono siano virgolettati; può però percepire che il regista ne fa largo uso e con una notevole ironia sin da quando, in una delle prime scene, un condomino giustifica il possesso della pistola dichiarando con enfasi caricaturale: «Sono un generale!» – per non dire di Valdarena: presentandosi come medico di un certo prestigio, il bel cugino mira a costruirsi un’aura di rispettabilità professionale, che però viene smentita dal testamento della Banducci – riceverà la sua parte di eredità soltanto al conseguimento della laurea.

Dalla galleria delle etichette fittizie si distacca Ingravallo che, in netta controtendenza, rifiuta il titolo di dottore. Il commissario di Germi rispecchia il suo creatore: e, al di là dei tratti autobiografici, si allontana, ancora una volta, dalla complessità dell’equivalente gaddiano. Germi propone un personaggio standardizzato, ripreso dal genere (noir americano, italianizzato): il burbero che rifiuta la mondanità, la falsità dilagante. Il lavoro, percepito come missione, non gli lascia spazio per una vita sentimentale – ma la sua virilità è garantita dalle telefonate ricevute e indirizzate a una donna, che lo spettatore non vedrà mai.

Il trattamento della contessa e di Valdarena mostra un meccanismo tipico di Germi: il regista assimila il contenuto del romanzo, e lo rielabora modificando (situazioni, personaggi), ma anche riproponendo (qui, le tematiche del romanzo). La contessa, in Gadda, è descritta nell’originalità dell’abbigliamento, che, nelle pretese di eleganza, è solo di cattivo gusto:

Un gran foulard lilla attorno al collo, che sul davanti appariva scarno e appassito: un tono languido di tutta la traumatizzata persona. Un négligé un po’ imprevisto, tra giapponese e madrileno, tra la mantiglia e il chimono. Un baffo bleu sul volto piuttosto vizzo, la pelle pallida, come d’un geco infarinato, le labbra fatte di due cuori congiunti smaltate in un rosso fragola dei più procaci, le conferivano l’aspetto e il prestigio formale momentaneo d’una tenutaria od ex-frequentatrice d’una qualche casa d’appuntamenti un po’ scaduta di rango: non fosse stato invece quel tanto di neovirginale e di rasciutto, e la tipica sollecitudine-devozione delle indelibate, a collocarla senza preventivo sospetto nel romantico elenco delle disponibili, oltreché donne per bene. (RR II 30)

Germi, in questo caso, enfatizza il carattere grottesco della situazione attribuendo abbigliamento e caratteristiche ad un uomo, il commendatore Anzaloni, Angeloni nel Pasticciaccio (la modifica fonetica, con l’innesto dell’affricata, avvicina invero commendatore e contessa pure nel cognome). Con un’autocommiserazione che esaspera Ingravallo, Anzaloni, vittima del furto (ulteriore conferma che il personaggio, pur conservando l’ingordigia e la reticenza del commendatore gaddiano, ha anche assimilato i tratti della contessa), minaccia il suicidio perché i giornali hanno scritto in modo pettegolo circa la sua «stravagante vestaglia» (policromia e dettagli si perdono a causa del bianco e nero).

Sorte analoga per Zumira, che nel film è figura grottesca – concluderà una scena movimentata mostrando la bocca sdentata. Anche la Zamira gaddiana è «nota a tutti, tra Marino e Ariccia, per la mancanza degli otto denti davanti […], quattro sopra e quattro sotto» (RR II 147), ma il personaggio di Germi ha anche l’aggressività giovanile delle cugine Mattonari, Camilla e Lavinia, che, litigando per lo stesso uomo, fanno volare insulti:

«Me lo vòi pijà co li sordi, eh, tanto se’ scrana, brutta vipera. Tu p’assaggià un omo hai da comprattelo, come la maestra. Ma nun ce la fai a soffiammelo. Sei troppo racchia, sei, co quela faccia da patata che t’aritrovi […]». (RR II 241)

La «faccia da patata» torna in un’altra citazione: il soprannome di «er patata» è attribuito al ladro chitarrista trovato in possesso dei gioielli rubati.

Altro slittamento tra Manuela Pettacchioni e Teresa, una delle figlie mancate di Liliana Banducci. Convocata in commissariato per una deposizione,

[l]a sora Manuela, spicciato sul tavolo di don Ciccio quell’orribile e interminabile garbuglio della firma reverita sua, Manuella Petachoni, attraversando la stanzaccia di attesa volle accomiatarsi dall’imbacuccato […]. (RR II 19)

Dopo la lettura del testamento, nel film, i beneficiari sfilano innanzi al notaio e rilasciano la propria firma. Uno zoom riprende lo scarabocchio da semianalfabeta di Teresa.

Alcune immagini pittoriche vengono trasferite dalla pagina alla pellicola. In un brano del Pasticciaccio sembra che alla gazzarra generale partecipino persino dei broccoli:

Era una confusione di voci e di aspetti: serve, padrone, broccoli: enormi foglie di un broccolo uscivano da una sporta rigonfia, tumefatta. Vocine acri o infantili aggiungevano dinieghi o conferme. (RR II 34)

Il quadro colpisce Germi, ma le verdure parlanti vengono inserite in un nuovo contesto. In questura, Ingravallo viene avvicinato da un’anziana popolana che vuole ragguagli sulla sorte del marito appena arrestato. L’episodio è inventato da Germi e costituisce quello che Chatman definisce «satellite»: un evento secondario asportabile dalla trama senza disturbare lo sviluppo (a differenza dei «nuclei»), «per quanto la sua omissione impoverisca senz’altro la narrativa sotto il profilo estetico». (14) Lo spettatore che ha letto il romanzo riconosce l’immagine: la signora tiene in mano una sporta da cui fanno capolino delle verdure traballanti che, con il loro movimento, seguono il ritmo concitato del romanesco.

Alcune anticipazioni di Gadda vengono rielaborate. All’inizio del romanzo il commissario è invitato a cena dai Balducci e, in una situazione familiare apparentemente normale, percepisce, nell’atteggiamento di Liliana, una nota malinconica:

Ingravallo notò che due o tre volte, a mezza voce, aveva detto mah! Chi dice ma, cuore contento non ha. Una strana mestizia pareva soffonderle il viso, nei momenti in cui non parlava o non guardava ai commensali. Una idea, una preoccupazione la teneva? celandosi dietro alla cortina dei sorrisi, o delle attenzioni gentili? e dei discorsi non già voluti o studiati, ma pur sempre molto garbati, di cui amava inghirlandare il suo ospite? Il dottor Ingravallo a quei sospiri, a quel modo di porgere, a quegli sguardi che talora divagavano tristi, e parevano tentare uno spazio o un tempo irreali da lei sola presagiti, si sarebbe detto, a poco a poco aveva preso a farci caso: ne aveva dedotto altrettanti indizi, non forse di una disposizione originaria ma di una condizione attuale dell’animo, di uno scoramento crescente. (RR II 21)

Segue l’episodio del furto, a tinte forti e grottesche, e anche in questo caso qualche dettaglio lascia presagire il peggio: l’epiteto di assassino affibbiato al ladro verrà rivisto, una volta consumato il delitto, come una macabra profezia della tragedia imminente.

Germi, seguendo Gadda (ma con variazioni), inserisce altre spie che preannunciano l’epilogo. All’inizio del film la macchina da presa inquadra la fontana di Piazza Farnese, sfondo dei titoli di testa. Questi sono accompagnati dalla canzone Sinnò me moro, scritta con la collaborazione di Rustichelli dallo stesso Germi, e cantata da Alida Chelli. I versi espletano una duplice funzione: conducono immediatamente lo spettatore all’interno di un contesto popolare romanesco; e, con il tono straziante che si conviene alle canzoni di ispirazione popolare, anticipa una tragedia sentimentale.

La scena si sposta poi all’interno del principale teatro degli eventi, il condominio. Il guazzabuglio di voci che si sovrappongono è lo stesso del romanzo e la confusione è acuita, nella comicità, dall’uso improprio della pistola (per sparare in aria), con relativa caduta di calcinacci (sulla testa del pistolero). Al di là dell’episodio grottesco, servendosi di uno dei mezzi espressivi mancanti alla letteratura, il sonoro, Germi continua a tenere desta la tensione. Nel corso del film, spesso, nel momento in cui la macchina da presa inquadra Liliana, vittima dell’indifferenza e dell’ingratitudine, o Assunta, complice non ancora smascherata del delitto compiuto da Diomede, ritorna la canzone sentimentale e straziante, innescando quel meccanismo che Peirce definisce «attenzione»: «L’attenzione sorge quando lo stesso fenomeno si presenta ripetutamente in occasioni differenti, o lo stesso predicato si presenta in soggetti differenti». (15)

La musica serve quindi a separare due diverse atmosfere: quella del giallo e quella della commedia. Il codice cui Germi si rifà, scrive Pasolini nella sua recensione al film, è quello sessuale: da una parte i «posti in cui son tutti uomini, maschi», (16) vale a dire i bar, il commissariato, i luoghi di libertinaggio, dall’altra l’universo femminile, mite e sottomesso, di cui diventa simbolo Assuntina, vittima finale (come vittima è Liliana) di un omicidio che non ha commesso (Sesti 1997: 93).

Il passaggio dalla premonizione alla tragedia, al delitto efferato che non lascia più spazio all’innocenza, è segnalato da Gadda nel passaggio dal primo al secondo capitolo. Germi, a sua volta, chiude anche un capitolo, con una dissolvenza sul portone, a indicare il contrasto tra un prima ancora farsesco e un dopo tragico. L’ultima immagine dell’interno di casa Banducci, prima del ritrovamento del cadavere di Liliana, è un quadro rappresentante il macabro episodio di Giuditta e Oloferne.

Altri elementi, nel film, contribuiscono a svelare alcuni indizi. Al funerale della vittima, una macchina da presa della polizia riprende la processione degli amici e parenti di Liliana Banducci. Siamo in presenza, certo, di un omaggio al cinema neorealista: la macchina da presa svela i complotti, mostra il marito e il cugino della vittima che confabulano pur dichiarandosi a stento conoscenti, ripropone l’immagine di Assunta (assente al funerale gaddiano) che, come nota uno degli inquirenti, «sembra invecchiata». Ma l’espediente di un film nel film, accompagnato dai commenti degli spettatori-poliziotti, instaura al contempo un discorso metacinematografico: un discorso che propone, attraverso le immagini e i suoni, il passaggio dal livello dei significati al gioco di significanti che Gadda elabora con la parola scritta.

Ma è nel rendere uno degli aspetti più marcati del romanzo che Germi dimostra, a mio avviso, di volere restare fedele alle intenzioni del testo, pur sostituendo alle esplicite accuse di Gadda immagini sintetiche e, talvolta, da decodificare. È noto il carattere antifascista del romanzo – l’ipocrisia del regime, che maschera i delitti per darsi una parvenza d’ordine, è continuamente messa alla berlina:

[…] l’Urbe incarnava omai senza er minimo dubbio la città de li sette candelabri de le sette virtù: quella che avevano auspicato lungo folti millenni tutti i suoi poeti e tutti gli inquisitori, i moralisti e gli utopici, Cola appeso. (RR II 73)

La polemica di Germi non è altrettanto elaborata. Il regista non usa i toni accesi né l’arguzia implacabile dello scrittore – a sminuire la carica polemica contro il fascismo contribuisce, inoltre, anche il salto in avanti del tempo della vicenda. Germi, però, non ignora la volontà di Gadda, e ricostruisce, a modo suo, parte dell’accusa nei confronti del regime. Se un personaggio incarna la falsità del regime, quello è Banducci. Rispettabile e premuroso in apparenza (non litigava mai con la moglie, rivela Assunta in uno degli interrogatori), il suo perbenismo cela continui tradimenti, uno dei quali particolarmente grave e indirettamente incestuoso, in quanto perpetrato con la domestica che la moglie tratta come una figlia. Rendendo tangibile, attraverso le immagini, la metafora del cadavere nell’armadio, gli inquirenti dell’Imbroglio trovano, in uno sgabuzzino, i segni del passato. Si tratta di due gigantografie di Banducci in tenuta militare fascista. L’inquadratura dura circa un secondo e l’immagine scivola via così rapidamente che allo spettatore può venire da chiedersi se uno dei visi ritratti sia quello del Banducci-bandito o del duce-Benito. Solo il fermo-immagine permette di rispondere al quesito, irrisolvibile per gli spettatori degli anni ’50.

Nella colpa del Banducci troviamo un’ulteriore semplificazione del peccato di cui parla Gadda. Virginia è descritta in tutta la sua carica erotica, che non risparmia neppure il suo contraltare: la purezza angelica di Liliana. Nel racconto di Don Corpi:

La baciava come po bacià una pantera, dicennole: «Sora mia bella Liliana, voi site à Madonna pe mme!» poi, basso basso, in un tono di ardore anche più soffocato: «Ve vojo bene, te vojo: ma una vorta o l’antra me te magno»: e le strizzava il polso, e glie lo storceva come in una morsa, bocca contro bocca, de sentisse er fiato der respiro in bocca, l’una co l’artra, zinne contro zinne. (RR II 137)

Poco rimane del personaggio gaddiano – la Virginia dell’Imbroglio è soltanto una bella ragazza eterosessuale ossessionata, come gli altri, da un’avidità che la porta al ricatto; la sua ambiguità e forza, tra il felino e il demoniaco, si perdono, in Germi, in una figura convenzionale dalla condotta biasimevole, ma non inquietante.

Nell’episodio conclusivo Germi si distacca parzialmente dal Pasticciaccio. Se il romanzo non concede l’epilogo chiaro e razionale (o semplicemente, convenzionale) che si conviene al giallo, il finale del film, seguendo le regole del noir, presenta uno scioglimento che fuga ogni dubbio. Non a caso la chiave del mistero è racchiusa, simbolicamente, nell’osservazione attenta della chiave di casa Banducci, copia di quella che ha permesso all’assassino di entrare nell’abitazione e consumare il delitto. (17) Ingravallo ha ormai compreso l’accaduto e non gli resta, per concludere la propria missione, che stanare il colpevole.

L’arresto di Diomede, però, non ha nulla di trionfale, e anche l’ironia che ha pervaso tutto il film lascia posto soltanto alla comprensione umana. Per condurre a termine il suo compito di investigatore, Ingravallo deve scendere negli inferi dei diseredati, in cui, a dispetto dell’epilogo che caratterizza il poliziesco tradizionale, non è più chiaro se ci sia un colpevole, o se colpevole di tutto l’accaduto sia soltanto la disperazione. In questa scelta il regista si allontana dal noir e dimostra una sensibilità analoga a quella di Gadda nel Palazzo degli ori, vicina a sua volta al cinema neorealista (Andreini 1991: 19).

è proprio con una citazione del cinema neorealista che Germi conclude il suo film e, con esso, tutto un periodo della sua produzione. (18) In una scena interpretata dalla giovanissima Claudia Cardinale (Assunta) la cameriera insegue la macchina della polizia, secondo una costruzione registica ricalcata sulla celebre scena di Roma città aperta (1946) in cui una disperata Pina-Anna Magnani viene uccisa con un colpo di mitra alla schiena mentre insegue un camion su cui stanno portando via il suo uomo.

I titoli di coda accompagnati dalla canzone d’apertura, che questa volta è pienamente empatica, enfatizzano la tragedia. Il cerchio si chiude, come avevano indicato all’ascoltatore attento le parole della canzone, su un dramma sentimentale.

Università di Catania

Note

1. Citato in E. Giacovelli, Pietro Germi (Firenze: La Nuova Italia, 1990), 5.

2. Regia: Pietro Germi. Sceneggiatura: Alfredo Giannetti, Ennio De Concini, Pietro Germi. Collaborazione artistica: Alfredo Giannetti. Direttore della fotografia: Leonida Barboni. Scenografia: Carlo Egidi. Musica: Carlo Rustichelli. Costumi: Bona Magrini. Montaggio: Roberto Cinquini. Produttore: Giuseppe Amato. Interpreti: Pietro Germi (Commissario Ingravallo), Claudia Cardinale (Assuntina Jacovacci), Eleonora Rossi Drago (Liliana Banducci), Claudio Gora (Remo Banducci), Nino Castelnuovo (Diomede Lanciani), Franco Fabrizi (Massimo Valdarena), Cristina Gajoni (Virginia), Saro Urzì (maresciallo Saro), Silla Bettini (Brigadiere Oreste), Ildebrando Santafè (Commendatore Anzaloni), Toni Ucci (Er Patata). Durata: 111 minuti. Anno: 1959.

3. A. Bazin, Che cos’è il cinema? (Milano: Garzanti, 1973), 301. Bazin si riferisce per lo più alla capacità dei registi italiani di rendere i romanzi di Faulkner, Hemingway, Dos Passos. Ben commentata, comunque, l’abitudine di andare oltre la trama, alla ricerca delle intenzioni dello scrittore.

4. «[…] Il discorso cinematografico iscrive le sue configurazioni significanti in supporti sensoriali di cinque tipi: l’immagine, il suono musicale, il suono fonetico delle parole, il rumore, il tracciato grafico delle diciture scritte. […] Non sarebbe possibile in ogni caso definire il film come un fatto di linguaggio se si rifiuta di assumere che esso agisce su cinque materie significanti e su quelle cinque che abbiamo detto: in questa misura la semiologia del film si intreccia inestricabilmente con considerazioni “psicologiche” (meccanismi percettivi, caratteri propri dell’immagine, ecc.) riutilizzati in un’altra prospettiva» – C. Metz, Linguaggio e Cinema (Milano: Bompiani, 1977), 16.

5. Cfr. G. Rondolino, Dizionario del cinema italiano 1945-1969 (Torino: Einaudi, 1969), 159. Sulla genesi della sceneggiatura dell’Imbroglio, cfr. M. Sesti, Tutto il cinema di Pietro Germi (Milano: Baldini & Castaldi, 1997), 82 e segg.

6. Nel 1959 Germi aveva già all’attivo film di disparata ispirazione: Il testimone (1946), Gioventù perduta (1948), In nome della legge (1949), Il cammino della speranza (1950), La città si difende (1951), Il brigante di Tacca del Lupo (1952), Il Ferroviere (1956), L’uomo di paglia (1958).

7. «Gli italiani hanno […] un incontestabile vantaggio: la città italiana, che sia antica o moderna, è prodigiosamente fotogenica. […] la vita urbana è uno spettacolo, una commedia dell’arte che gli italiani danno a se stessi. E anche nei quartieri più miserabili quella specie di aggregazione corallica delle case consente, grazie alle terrazze e ai balconi, delle grandi possibilità spettacolari» (Bazin 1973: 289).

8. In italiano nel testo.

9. Cfr. F. évrard, Lire le roman policier (Paris: éditions Dunod, 1996), 8.

10. Ronconi che, nel 1996, ha affrontato la messa in scena del Pasticciaccio, sottolinea come «[r]iflettendosi nella molteplicità di specchi rappresentati dai diversi punti di vista narrativi e parlando di sé in terza persona i personaggi perdono la loro presunta identità monolitica; il “racconto”, variamente declinato, si prospetta come forma alternativa al dialogo nello strutturare la narrazione teatrale e attiva una più intensa comunicazione tra palcoscenico e platea […]» (La Fontana 1996).

11. U. Eco, La struttura assente (Milano: Bompiani, 1998), 68.

12. Chiusura dello sgabuzzino e assenza regolamentare della portinaia è costante scenica: «La portineria è vuota e chiusa. Le lettere della parola “Portiere” spiccano sullo sgabuzzino a vetri dove non c’è nessuno, salvo giornali e qualche lavoro di cucito intermesso. […] Parola “Portiere” di nuovo, sullo sgabuzzino vuoto e chiuso»; «Lo sgabuzzino a vetri con la parola “Portiere” è finalmente aperto, (primo piano con chiave infilata, uscio a vetri aperto) unica volta nel film» (SVP 931, 947). Germi non si serve del trattamento cinematografico di Gadda ma, stranamente, si avvicina talvolta ad alcune indicazioni dell’autore.

13. Andreini nota che la Menegazzi «è promossa da signora a contessa: era signora nel ’46, diventa contessa nel ’57 […]. Un innalzamento formale del personaggio che contrasta poi con la reale dappocaggine della donna» (Andreini 1991: 26-27).

14. S. Chatman, Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo e nel film (Parma: Nuova Pratiche Editrice, 1981, 19781), 52.

15. C.S. Peirce, Semiotica (tratto da Collected Papers, 1931), testi scelti e introdotti da M. Bonfantini, L. Grassi, R. Grazia (Torino: Einaudi, 1980), 72.

16. P.P. Pasolini, Lo stile di Germi, in I film degli altri, a cura di Tullio Kezich (Parma: Guanda, 1996), cit. in Sesti 1997: 92.

17. A proposito dello scioglimento dell’intreccio Ronconi, nell’intervista citata, afferma che «abbozzata sin dalla scena del pranzo, l’ipotesi che Assunta abbia assassinato Liliana prende corpo nella scena finale […]». Il regista però non nomina Germi, che circa quarant’anni prima aveva avuto la geniale intuizione di rendere Assunta complice del delitto.

18. Dopo Un maledetto imbroglio, probabilmente influenzato dall’incontro con Gadda, Germi inaugurerà, con Divorzio all’italiana (1961) un filone grottesco (Sesti 1997: 96-97).

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-03-5

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