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Il banchetto di Gonzalo
Cristiano Spila
Una tonda goccia di olio
Tutto è disposto come all’inizio delle cose, perché tutto accada, la rara alchimia, un quarto di ramaiolo di brodo, giochi floreali e lumachine. Un’escursione nel difficile territorio dell’arte magirica è anche un’operazione di scrittura, lo squisito ornamento del tessuto narrativo, lo sconfinamento digressivo.
La sorprendente esplorazione dei luoghi tangibili del racconto, galloni e pinte, calici e imbuti, il salmì delle carni, immense navi di zucchero, in qualche modo finisce per dare un pregustamento dell’intraveduto ripieno delle cose, ora che nel voluttuoso abbraccio sentiamo una vertigine di sogno, il volto di schiuma d’uovo verso l’esausto contenitore di storie, il debordante magnificentissimo intricato deposito di tropi e figure. La variopinta fisiologia delle portate, i medaglioni dei brasati, gli ingegnosi edifici di amalgame ovoidali, i marmi di franose torri di meringhe, i delicati cartigli di budini, parlano al commensale del piacere solleticante, saliva cerimoniale goccia a goccia, che deriva dalla certezza di ficcare lo sguardo su un mondo che mostra l’incombenza degli odori e ne adduce un succolento riscontro. Nei potaggi d’erbe cremosi e bollenti, negli intingoli aciduli, negli arrosti che sgrondano olio profumato, nell’odore volatile del fiorbianco del pane gonfio molle e fragrante, nella perennità dei beveraggi, non imploriamo forse ricetto, come se la deliberata e materiale loro sostanza emani un calore speciale e benefico che tiene stretto il cuore, e lo seduce, e della cui vista non possiamo saziarci?
Passa del cibo nominato nel banchetto di Gonzalo Pirobutirro (un episodio della sua vita alimentare riportato dal Gaddus): è ancora un piacere di pura rappresentazione, avvertito soltanto da un goloso, o lo scrittore cerca di avanzare pretese nei territori del cibo? Ce lo vedete il signor Gaddus che va in giro armato di penna, piuttosto che di forchetta e cucchiaio, a riconoscere e indicare a se stesso i cibi che poi utilizzerà come autore? La parola serve come il commentario del cibo che non mangiamo, sta lì all’altezza del desiderio che non riusciamo ad esaudire, della brama che non soddisfiamo. La parola, memoria fotografica del cibo o preventivato possesso dell’alimento, non è forse una splendida carta, uno scintillante gioco di tarocchi, dalle infinite combinazioni che ti si avvilisce in mano e che non rende il sapore?
Certo, è pur vero che il racconto, misteriosa polpa del tempo, conchiglia di parole, fornisce sempre con stomaco brontolante le apposite nozioni delle cose, la sequenza ordinata dei fatti. Il racconto è sempre da un’altra parte e non cerca altro che evadere fuori dallo schema della storia, se non di uscire fuori anche dalla sua stessa specie. In vario modo, si percepisce un sostrato ben definito e riconoscibile, una cognizione acquisita dei fatti; e poi però chi racconta lavora sul dato cangiante, sul minimo mutamento.
Tanto basta per concludere, in ultima istanza, che qualora si voglia pervenire agli assunti di base di ogni opera umana, niente di quel cerebro secondo, di quel labirinto pulsante, in guisa di gorgo centrale, che sono le viscere, andrebbe trascurato: cioè i motivi più smodati, gli atti oscuri, la torbida meccanica, la ferale fatica, il disordinato ardore, per chi crede ancora puro e asciutto l’inizio.
1. «Vorace, e avido di cibo e di vino […]»
Fra i molti modi di combattere la noia e il dolore del vivere, oltre allo scrivere, il mangiare non è sollievo da poco, e non assolve funzione dissimile da quella delle altre discipline, perché richiede dedizione, buoni nervi, un controllo del palato e perizia nelle scelte. Il mangiare è cosa lieta, ma invero faticata e vissuta: tutto ciò è specialmente vero per Gonzalo che non vi vede una mera fase di letizia o gusto, ma l’anticamera fastosa dell’oblio, dove il rispetto delle regole dell’etichetta non ha molta importanza, e nell’essenziale ognuno può decidere liberamente come andarsene all’altro mondo.
2. «[…] sue imbandigioni crapulose […]»
Sacerdote devoto, Giove delle tavole, Gonzalo esibisce la magica voracità di uno stomaco totale, onnivoro, pantagruelico. Mangia come un dio gastrico in una cucina posta in cima ad una torre d’avorio così bianca e accecante che è appena possibile distinguerla dall’etere silenzioso in cui è immersa. Nel suo reame si avverte la presenza di sugolini misteriosi, ossalesse, ruminanti brode, sciroppi in vasche come laghi, indizi di odori, cose diverse e congrue che bollono con moto perpetuo, il cui sentore si aggiunge a quello della verdura e del fegato francese che friggono nei siti più acconci.
Soltanto a lui possono venire certe idee senza tante spiegazioni; lui divora secondo la disposizione e gli estri della sua voracità – la cosa è scientifica ma anche piena di fantasia: spezie dappertutto e untuosità delle padelle, spicchi di teneri virgulti, prodigo vaporare di acquecotte, soffritture a fuoco lento, fremiti di poltiglie in casseruola.
Egli è veramente il più alto rappresentante di questa sagace sapienza, sente la vastità e la soddisfazione di un incontro così generoso fra l’arte e la natura – mangia e divora le opere della Natura con una strana eccitazione, come se lui stesso fosse uno strumento, e lo strumento un altro lui un po’ più curvo: uno spettacolo al giorno, ostinato saltimbanco, con un gran gesto accorto del polso e della mano, e di tutte le dita.
Gonzalo ha dieci dita per mano, e sfrutta le eccedenze per afferrare più cibi nella metà del tempo rispetto agli altri pentadigiti; ma ingurgita i piatti col devoto rispetto che germoglia da un animo teso e stimolato dal lavoro dell’arte, profondamente diligente verso la materia trattata. Una caparbia diligenza che guida quelle dita a operar di tramoggia, di filettatura, di pesticciatura, a frantumare i dulcorosi cibi, i domestici lari delle dimore interiori.
Pare come un farnetico lemure, una scimmia dorata, mentre cava da certi cartocci barbòzzole di granelli finissimi, quando taglia con due coltelli burrose carni, nel boccalesco influsso dei vini, nell’ininterrotto vagolare delle sue dita pepemaneggianti sui ponti a schiena d’asino dei coperchi sbuffanti. La mescolanza quasi impossibile delle cose che improvvisamente diventano una sola cosa in un appuntamento, sono un solo corpo che ancora non si conosce, che ancora non sa di essere lo strano coacervo di una pietanza, fatta di tanti ingredienti diversi.
3. «[…] all’osteria del Alegre Corazón […]»
Come spesso accade nelle cucine, i vapori avvolgono i cuochi in una calda penombra, indifferente e umida, una avvolgente e schiumosa fumarola che cancella i contorni delle cose e che solo alla fine della cottura smette di essere tale: nascosto nelle sinuose spire dei vapori, si agita Gonzalo come un gufo in un cono di semiluce.
L’atmosfera insieme nebbiosa e ventilata, odorosa e fradicia, da cui si stacca e cade un numero incalcolabile di gocce di vapore che si squama in argentate bollicelle di grasso, in questa nebbia umida, una volta dentro, il mondo esterno sembra completamente dimenticato. La prima impressione che Gonzalo prova a starci dentro, in quel reame di mortificazione e di gloria, è di armonia: ogni cosa gli pare al suo proprio posto, come se quel posto ne fosse stato da sempre occupato. Forse il suo occhio riesce a vedere in quella stanza fumosa un universo di forme coniche, cubiche, piramidali. In quel momento iniziale, egli segue distintamente un suo recondito pensiero che è quello di ricomporre un frammento, di restituire l’esatto pezzo di un agglomerato disperso di cose e mentre alza gli occhi si scopre anche lui nella latta di una pentola come in uno specchio: l’immagine del destino la cui fisionomia lo raggiunge proprio di faccia.
Fissandosi in uno di quei fuggevoli istanti in cui lui stesso si sorprende a specchiarsi in una lama di coltello o in una falce di mannaia, Gonzalo si studia come sotto a un riflettore, un occhio di bue, mentre la sua immagine muta, si sposta come una nuvola di pesce azzurro in rapido movimento: ora pare un affaccendato Gatto Lupesco che sfurettola tra i fornelli e la dispensa, ora un Corbaccio che scruta i tempi della beccata, ora un Orso assorto in un punto complicato del suo lavoro di stanamento dei salmoni, ora un Cane con lo sguardo inquieto alla preda e il naso gocciante sudore; a volte, pare un malo e nervoso pitone, a volte un ronzante e allegro colibrì, a volte una ansiosa scimmia odorante, a volte una volpe, a volte un cespuglio di code, o un groviglio di zampe.
Gonzalo ha una predilezione tutta speciale per la frittata di nasi d’aringa, o la soavità e la vellutatezza delle ali di mandarini cinesi, o le crudité di code di cipolle e teste d’aglio e gambe di sedano: è la scoperta di un mondo sempre palese, e pure sempre nascosto, un piccolo universo iridato che fluttua ad ogni istante nella mente, e non si altera.
4. «[…] stimolatrice d’un sano appetito […]»
Quando inizia a mangiare, Gonzalo avverte un senso nuovo dell’avventura, si sente un po’ come un Cristoforo Colombo sulla tavola del Mare Oceano, veleggiando verso cose inusitate o emerse da una marea oscura. Le navi-derrate si preparano per quella morte rituale che è il pasto, private del loro significato originario di elementi appartenenti ai regni vegetale e animale vanno a finire negli abissi, nel fondo, nel buio. Alcuni alimenti contengono le cose che sono prima della morte, come sarcofaghi che continuano a ondeggiare di flutto in flutto, sui mari polari, fino a che diventano invisibili per ibernazione; altri sono come Pinte di birra calda che scolano, scialacquate da bevitori che non li possiedono, possono esprimere soltanto il rovesciamento del liquido, la dispersione; altri ancora tendono ad assumere una consistenza di ricordi, vuoti ossicini e quando si spezzano ne esce una cenere leggera, segno che ci sono sfuggiti per sempre.
Ora, Gonzalo guarda la tavola, osserva con cautela i piatti di portata, i taglieri, le scodelle: le forchette gli sembrano come piccole barche d’argento sonnolente nella baia. I piatti fondi sono mura d’avorio che cingono i sentieri della vita e vanno verso montagne e laghi, verso castelli e fabbriche di porcellane. Il cerchio merlato della corona del bicchiere sanguina, tanto il tempo è consumato che non consente di vedere il taglio originario. Gonzalo si appresta a fare la prima mossa, l’inizio, memorizza lo schema d’avvio, gli iniziali sacrifici, il pane da sacrificare per la giusta causa, tutti cocci frammenti pezzi crepe, l’occhio comincia a raccogliere i segni sparsi e a riporli nel labirinto della stanza della memoria, adesso la mano trema e un respiro pastoso e liquido esce dalla bocca...
5. «[…] doveva arrivare con fame […]»
La tavola viene sistemata a dovere, ammannita, come si dice, a parte per lui, luogo riservato a persone di certa importanza, perché abitualmente non usato. In quel momento primario, cade un velo, come una patina, uno sputo del tempo, trasformando il bicchiere in un liquido oro pallido, un colore di acqua piovana gialla di muffe che trasforma le tessere delle viti in lamine d’oro fluente alla luce che cade come una potenziale orina meteorologica. La Fame gli fa cenno di avvicinarsi e di cominciare a bere. Pallido, gli occhi dorati di polvere, il vino adesso gli rivela un’inquietudine circolare. Ora, Gonzalo guarda i piatti sistemati sulla quella scacchiera che è la tavola, con le urgenze del tempo misurato e dello spirito che vuole accelerare. Li annusa, osserva la loro luce, può vedere il colore ingiallito dorato del vino. Sta mangiando. Appena un poco più alto della tavola su cui poggia il viso gramolato e tagliente, dal mento unto di olio speziato. Un improvviso vigore fulmineo degli occhi al passaggio di un grano di peperoncino in bocca. Mi sembra più basso di come lo ricordavo, ma forse è il luogo, è lo strano significato che assume la sua figura stiacciata in quel luogo di schiacciati centauri, mezzo uomini e mezze sedie. Si può cogliere in lui immediate qualità come di cupidità e di potere, anche se sul finire dello sguardo si coglie una certa dimestichezza con il rifugio, la fuga, la paura.
6. «[…] in elisia clemenza […]»
Le visioni post-prandiali sono sempre purgatoriali. L’«alto monte» che vedeva Gonzalo era fatto come un’immensa torta formata da strati senza fine, uno sull’altro, che si alzavano e si perdevano all’infinito, o scendevano in circoli soffici di panespagnolo perdendosi verso il basso, e in mezzo la crema che li teneva uniti. Quando si entrava nella spirale di onde di gialli glucidi, i piedi vi affondavano, i muri trasudavano aromi di liquore, alchermes o rum blanco, e quella spirale era un laborinto: non c’era la vetta né il fondo, né sentiero né ritorno; però c’era la glassa che si ripeteva con esattezza, giro dopo giro.
7. «[…] lo stufato […]»
Bisogna lasciar passare quattro o cinque ore, domandandosi se abbia un senso che noi si stia lì ad aspettare che lo stufato ci dia una risposta, la vaga attesa di qualcosa di ostinato e indifferente, come forse è il destino stesso quando lo interroghiamo e lo ascoltiamo, sapendo che tutto proviene da un’altra parte e va a finire chissà poi dove, e che è unicamente questo che conta.
8. «[…] certe sleppe giù per lo stomaco […]»
La tavola assomiglia a una partita a scacchi con la Fame. Bordeggiano i quadrati ebano e avorio le omeriche dapi delimitate ognuna nel piatto di portata, svettano come pezzi sulle caselle nere e bianche e come sogni attendono la forchetta del giocatore, sporgono le loro masse morbide o croccanti, i loro intagli immobili e le loro terminazioni di criniere di fumo caldo in aria. Allora, Gonzalo guarda nel piatto e pensa alle mosse da fare e cosa lo aspetta e si chiede come incominciare, ma non conosce la tattica. Ogni pasto, una partita diversa. Egli si sorprende a studiare il collocamento dei pezzi come dissimulati fantasmi nell’aria grassa e blu delle pentole a sbuffo. Lì, su quella tavola, il nostro inizia in un rinnovato lampo di vita, nel barlume asciutto della gola; nella solitudine sacramentale della magnata, quel gioco ritualistico e assurdo insieme, vomitevole e sublime, trova il suo quotidiano destino.
I Cavalli Patate concubinano con le Regine Polpette davanti all’immaginario palazzo d’avorio e di sale del riso bianco, sporgono elmi fioriti e cimieri come cardi spinosi gli Alfieri Carciofi mentre nelle loro catafratte armature fanno corona di sé dalle paludi sugose in emersione. Le Torri Maccheroni sentono l’impulso di penetrare nel caldo della nostra anima, con le aguzze merlature a formare una monarchia assoluta di significato e di dominio sull’estensione barocca degli Scacchi Formaggi. Lievitate teste come servizievoli palchi di Spighe e Ciriole e Rosette sostengono le nuvole dei Re Pani espansi desideri di vittoria, cupole bianche di Cattedrali senza ossa.
Il pasto ha inizio sempre come in un cauto inseguimento. Alcuni Pedoni Stuzzichini, sotto lo sguardo severo del Re Pane, preparano la strada di occultamento sopra cui dovrà posarsi il Primo Piatto, omaggio della nobiltà del mangiare alla santità di quel disciplinato Reggitore. Alcuni Pedoni Antipasti sono quasi diafani, azzurri nella luce, come scaglie di pesce di mercurio, i bocconi di mozzarella lattegrondanti, le olive ombelichi sacri con la pelle di legno, i Salamini tronfi fantasmi del mattino, rallentano le pulsazioni del Primo attacco. Entro il complesso dell’agone enorme e antico, scivolano per le ali di sinistra altri Pedoni Cipolle che cercano di prendere il centro del gioco, come a voler mettere un ponte di sforo per i Cavalli Lasagne. Nel frattempo, si osservano le mosse parallele dei Vini Novelli, sfrangiati dai Calici Freddi, pieni di significati nascosti, allungamenti e rintuzzamenti che cercava di rendere più innocua l’offesa. Poi si prosegue attraverso il gioco laterale dei Secondi Piatti, fino a lasciarsi alle spalle i sopravvissuti Pedoni Pizzette. Giunto al Duomo del Dessert, circondato da Avversari ridotti a ossicini e Torri sbriciolate che sembrano inattaccabili e maestose, Gonzalo cerca lo Scacco finale e il suo sguardo cattura per primo la Regina Dessert, con accompagnatori di un Alfiere Budino ebano e panna. Il Re Caffè appare sempre in un’attitudine come di fuga, come di chi è in trappola e cerca di difendersi dagli assalti dei Lupi del Tempo.
9. […] a banchetto con le ombre […]
Per combattere l’estremo pragmatismo, lo zelo industrioso e l’orribile tendenza della morte al conseguimento dei propri fini, Gonzalo sostiene che il metodo più acconcio sia quello di cucinare. La morte, infatti, in cucina diventa faina domestica o gatta di focolare: lui se la tiene daccanto senza paura, docile e disciplinata gli viene vicino, scodinzola così quasi senza sorpresa – l’ozio caldo della cucina gli restituisce qualcosa di infantile che aveva dimenticato durante il suo turpe lavoro.
Gonzalo è riconoscente alla morte, che lo guarda intensamente in viso mentre cucina e gli indica una via d’uscita: pare che voglia dirgli che lei è qualcosa di estraneo che tuttavia bisogna ugualmente accudire. Come da uno spioncino laterale della cucina, lo guarda mentre prepara frammenti neri di scarabei, granelli nel mortaio del tempo: tutto ciò che è nero per lui non è necessariamente mortuario. Il caviale è nero, ma il suo nero non è il nero della morte, ma è un bluastro di abissi fangosi e lutulenti di fiume, o è mogano, che è ben più violaceo. Il nero delle olive è il nero della terra smossa, il nero della ruggine che è cupo, della polvere sotto le unghie. Il nero del caffè è quello flessibile e oscuro della notte, è il nero che nasce dalla mescolanza del marrone e dell’ebano cotto, tenebroso come l’ombra cava sotto ai palmeti. Il nero della seppia è un nero opaco e scuro, ma diluito in acqua, non è il nero della morte, che ha perso l’uso di ogni colore, ma è il nero sorprendente dell’inchiostro, che perdura e macchia e continua. Se il nero vuol dire la morte, il nero del tartufo è solare: non è il nero della notte, ma il nero del sole. Il nero del ribes, della mora, e del mirtillo, è il nero della pietra, il denso accumulo del minerale fattosi morbido zucchero. Il merlano nero è un pesce allegro, quasi argenteo, ha il colore della luna e delle cose pallide: quando il cuoco lo cucina è ben poco quello che ha da dire, se non che le sue carni sono ben toniche e gagliarde.
Guardando Gonzalo indaffarato nelle cucine, perduta in uno strano stupore che sempre in questi casi l’accompagna, la morte non sente trascorrere il tempo e non pensa al lavoro. Si lascia attraversare dalle sensazioni, qualche volta chiede notizie del tempo di cottura, aggiunge spizzichi di pepe nero, o sogna in solitudine nell’attitudine di una sfinge che pare Anoubi.
10. «[…] così saporito sulla lingua […]»
L’avventura culinaria passa per una via larga che dal tramite del naso va nei pressi del cantuccio della stanza della memoria, e poi insieme per il cono oculare e di lì ad espandersi come l’acqua mesta e lenta di un fiume che arriva al suo oceano finale, grumo di voluttà che giunge nel cuore convesso dell’esofago e si scioglie nelle mucose della lingua, e ritorna com’era in principio: nulla. Disciogliti boccone bocconcino nel lago di papille gustative, comunica un ordine ideale nella simmetria della mente, l’unica capace di configurare un senso.
Nelle parti degli angoli della bocca la lingua è rossa pronta alla rapida consumazione. Il resto mostra il brillante viola dell’appetito vampiresco, e le mandibole si chiudono con lo scatto, clac, tipico delle zanne canine ossificate e taglienti. Nei denti rimasti uniti ma separati come da una bolla d’aria perché appiccicata agli angoli, l’avorio tagliente riluce più brillante come se fosse stato risparmiato dalla bava corrosiva del tempo. Quegli insensibili molari e canini che delimitano le tacche regali del morso lasciano, sulle fibre della carne, incisioni e cicatrici, una fetta di manzo attraversata da colpi d’ascia, sulle strisce di pane caldo i morsi sono gugliate di energia capace di far esplodere le vene di lievito dalle miniere di farina, estendendosi nelle gallerie come una mano bianca che si dischiude per lasciare iscrizioni indecifrabile su pareti oscillanti. La natura grezza delle verdure assorbe le acque-madri del tempo come una penetrazione di piogge; madrepore verdi, le fibre sotto i molari fanno pensare a un’esplosione di verde, perché i grumi della clorofilla si sono induriti e sclerotizzati, placche di nero seppia, le irrigazioni dell’inchiostro hanno perso aderenza sulla carta e formano come un mostruoso reticolo di arterie nere. Gonzalo dedica al pasto una piena vigilanza, cerca l’inciso come una stilettata dei più diversi colori che si disfano in spirali come se stesse di nuovo cercando una Genesi.
11. «[…] maciullare, gramolare, espellere […]»
Il lavoro di ingurgitare tutti i giorni, a imbuto, arrotare le carni sulla mola dei denti, frollare le carni in gola e ammorbidire il palato rasciugato, non sono forse l’analogo della fatica di aprirsi un varco nella massa appiccicosa di morte cose o immote che ingombra in cucina, ogni mattina inciampare nel ripugnante liquido di risulta, ma con soddisfazione constatare che tutto è a posto, la stessa cucina, le stesse armi, la stessa tristezza delle carni molli, flaccide, smesse, sporche. In cucina non si vede cosa che la morte abbia dimenticato – la lotta all’arma bianca dove scorre il sangue delle sue vene di acqua salata.
Gli indizi sconnessi dei frammenti rimasti nell’acquaio scivolano sulla precaria superficie della coscienza, cercano di restituirci un originario senso delle cose. Il passato non è mai chiarito, il presente diventa sempre più insopportabile – ma per Gonzalo la tavola è una vera isola, un’isola governata da lui, dove le sue cose sono con lui, un’isola circondata dal tempo, ma in cui i rigurgiti dello ieri e il frastuono del pensare al domani non passano.
Ogni povero cristo avanza quotidianamente lungo una galleria araldica di forme, di sapori, di odori: ciò che può avvicinare e fissare di fronte allo specchio è un piatto oppure la sua faccia, tenera o dolce, l’altra faccia degli effetti e delle cause, l’illusa durata delle cose. Così, Gonzalo cerca di costruirsi un mondo tutto suo, si educa al mirabile mondo della culinaria – vi si dedica in modo esclusivo e passionale, a scopo terapeutico, per fuggire il mondo in cui è costretto a vivere e ad operare, che lo ripugna.
12. «[…] peptonizzazione degli albuminoidi […]»
Un romanzo può corrompersi come una braciola di maiale. Da anni, il Gaddus stava assistendo agli indizi di putrefazione del suo romanzo. Con le sue angine, le sue trombosi, le sue disfunzioni vasali, lo precedeva sulla via della dissoluzione ultima. In fin dei conti, se scrivere voleva dire corrompersi, imputridire significava farla finita con le impurità dei componenti e restituire i propri diritti al sodio, e così pure all’azoto e al carbonio chimicamente puro.
13. «E il fegato!»
Un dio compose la forma del fegato, come ci informa Platone nel Timeo (XXXII), confezionandolo denso e levigato, con una parte amara e una parte dolce. La parola è della stessa sostanza del fegato: è una materia linoleosa, unticcia, le narici fiutano un’agrodolce asettica combinazione di odori: è il fiele e il miele. Il fiele-miele. La parola è come un piccolo fegato: elabora, suggerisce, è il riassunto di una vita di stravizi o di parsimonia, una piccola vita fermentata in cui l’oro del miele e il porpora del sangue e il bianco del latte si mescolano ai granuli di cibarie liquida ingerita a forza, centro di una chimica infinitamente ricca e misteriosa, remota e vicina. La parola è stilla, bava di risulta, ormone zuccherino e globulo agresto, che dà alla mente un’allegria inutile in mezzo alle peggiori tristezze: l’allegria troppo tardi o la malinconia troppo presto. La parola è incongruo fegato, molliccia contraddizione, dolce e amara al tempo stesso, che non si sa come cucinarla, universo chiuso ma in espansione che se lo tagli ricresce.
Noi veniamo presi dalla strana sensazione di avere limitate parole, sospetto crescente e terribile di annaspare in un glutine il cui centro è in tutti i punti: uno stato immanente, uno stato senza differenze, senza gusto, perché il gusto è semmai il gusto degli altri – la parola è un’alchimia, una pustolosa indeterminatezza, buona per le manipolazioni. Non si tratta, perciò, di perfezionarsi, di decantare, di riscattarsi, di scegliere: si è già parola. Qualunque cosa è già quella parola. Non si cerca la conciliazione dei sapori, perché nella nozione di parlare, di scrivere, di ricominciare dal fegato, o dall’olio, o dalla saliva e dalle pellicole epatiche, sempre è insita la nostalgia di uno stato edenico; ma magari tutto è molto più semplice, tirar via un dito di burro, un nodulo di grasso su una fetta di pane…
14. «[…] legumi di stagione […]»
Quella volta che Gonzalo vide l’Isola di Atlantide nel minestrone, in realtà stava consultando l’orologio per la cottura. L’isola era piccola e solitaria in fondo alla zuppa e l’intenso e pastoso verde in cui era immersa ne confondeva i contorni. Un’isola rocciosa come una macchia plumbea in fondo al pentolone: Atlantide, pensò – e iniziò a rimestare, ma a quel punto l’isola si era cancellata dalla sua vista.
Si sa che il minestrone, l’enorme ibrido, ha di tutto: architetture di vegetali, foreste di bacche e legumi, basiliche di sedani, piramidi di fave, giardini pensili di ortaggi, alte torri di carote, tutta una verde strategia compositiva che si raccoglie nel centro ideale del mulinello, nella regione abissale dei sapori. Porta magica verso il sublime coagulo di smeraldo, il minestrone è un gurgite di sapori mescolati assieme, madidi erbari, muschi e legioni di vegetazioni, distillate arborescenze, umidori di spugne, catrami floreali, vellutati licheni, scaglie e radici, corolle e glaucomi di foglie. Piatto eternamente inconcluso, perché vi si possono aggiungere ogni sorta di regole e contrordini di alimenti, il minestrone somiglia ai pezzi dell’immaginazione del mondo, a grandi alberi sbriciolati come concime.
Gonzalo prende una manciata di sale e osserva questo enorme ibrido, si sporge a vedere se c’è già l’isola e le impossibili permanenze di sapori e cangiamenti di toni e si trova davanti il settore vegetale del mondo e nel mezzo, proprio nell’incavo zupposo, una isoletta che sembra la mitica Atlantide. Allora, gli viene in mente che quest’isola, che un’onda di verdura può certo ricoprire, è un antico guscio di tartaruga, un carapace vegetale, che non corrisponde a nulla di ciò che egli può verosimilmente immaginare; e allora, crede di poterla riportare a galla da sopra, con un mestolo: ben presto, pensa di poterne arguire che l’isola è abitata, forse da una razza diversa di esseri, qualche insetto scampato al naufragio, cervi-volanti o scarabei-pavone, o magari soltanto formiche, anche perché i templi e le case gli sembrano paragonabili a formicai dalle numerose e formichevoli cellette. Poi, ancora una volta, Atlantide scompare, inghiottita dal bollore del mare caldo di umori vegetali.
15. «Nel 1928 si era detto dalla gente […]»
Molti anni orsono (il Gaddus, cronista fedele, ne registra la data), a Babylon, i commensali di Gonzalo Pirobutirro assistettero ad uno spettacolo effimero ma sorprendente, un banchetto paragonabile allo scoppio di un fuoco di sanlorenzo-in-graticola dentro a uno gnocco di patate, un fiore esploso in lievito di birra, uno zodiaco abbagliante di budelli, fegatini, rognoni, lardelli, trippe, ossibuchi, cervella, un ninfeo di odorosissimi carri allegorici.
Il lettore si figuri il mappamondo cartografico, in cui si vede la terra disegnata in compendio, in modo tale che con un dito se ne possa accennare una vasta regione, o il compasso passeggi con un paio di circolinature per tutto un continente: appunto così deve immaginare il tavolo della mensa di Gonzalo, dove in un perfetto globo su cui poggiare i gomiti vi era rappresentato tutto un saporoso mondo con varietà non minori di quello geografico. Ivi era il luogo dove avveniva la rivelazione dei prodigi, il catalogo infinito delle vivande, pietanza come alberi, piramidi immense di indovinelli profumati fatti a capriccio di raffinatissima arte culinaria, dai nomi oscuri e immaginosi: cosciotti, ventricoli, lombi, strisciole, nocelle, tendini, gorguzzole, fricassee, croste, gusci, gerle, tramagli, frittelle, mazzacorde, pasticci, marmellate, cedrate, melasse, cotognate, castagnacci, erbazzoni, canditi, raperonzoli.
La descrizione di un banchetto forse non è altro che una faccia di diamante sovrapposta alle infinite trasformazioni del racconto, il riflesso di una sfoglia di specchio sollevata, un paravento di inchiostro di seppia, un’araba fenice sempre sul punto di rinascere, un universo all’interno di chissà quanti universi che forse sono soltanto un pezzettino d’avorio di un dente della canna d’organo della bocca di un uomo che mangia dentro la bocca panciuta di un uomo più grande di lui, che a sua volta mangia avidamente nella pancia di un altro uomo ancora più grande, che smisuratamente celebra i suoi fasti mangerecci in uno spazio grande quanto la pancia di un uomo gigantesco, che mangia nel mischio delle viscere dell’uomo più grande di tutti gli uomini che siano mai stati celebrati dalla storia, il camalionfantico giogante, tracannante Behemoth, baratro del granchiostrica, macrocosmico-macroscomico Sancio Panza: Gonzalo Pirobutirro (le tavole scrocchiano e si incrinano al passaggio di questo vorace universo: figlio di decimo letto di Pantagruele, nipote alla lontana del lontano Trimalcione).
16. «[…] spada: o spilla […]»
Per prima cosa occorre dire che la zuppa di pesce è pietanza che soffre di nostalgia. Alimento composito che in determinati momenti cessa di essere se stesso e la sua propria circostanza, e quindi desidera ritornare ciò che era in natura – un guizzo salso di vari pesci – e scoprire così di essere l’inaspettata pietanza che ci aspettavamo. Per divenire edule, la zuppa di pesce esige di diventare ricetta: esige cioè uno sviluppo temporale ordinario.
Nel brodoso colliquame ittico, i soprannaturali scorfani, gli appuntiti e combattivi merluzzetti, le preistoriche cernie, le loricate e rossastre triglie, gli affilati dentici, le piratesche salpe, i corazzati scorpioni di mare, pesci spada e pesci sega, tutti sogliono introdursi come istantanei ed effimeri cunei nella sugosa massa della consuetudine evaporante. E così un delibante signore che si è guadagnato l’odio minuzioso dei pesci viene giustamente strangolato grazie a una spina fantastica, un pugnale di mare, una spada o uno stocco, lancia in resta, una resca, un aculeo, un runciglio, un uncino che gli entra in gola dal cucchiaio ed esce dall’orecchio senza troppi complimenti; a parte che in quei casi il cuoco si crede obbligato a fornire le sue «scuse» sulla compatibilità dei pesci e la loro presunta pericolosità anche da cotti.
Per questo motivo, Gonzalo deve ordire una zuppa di creature innocue, pesci dalla condotta prevedibile, preparare poi con diversi ingredienti un composto di base con un gran spiegamento di speziati cotillon, lasciar nitrire le grasse serpi d’acqua, sbivalvare le conche delle cozze, mandare in risacca le chiglie marine, lasciar trasudare incantati sapori di pesci grisù. Quanto sopra avrà messo il cuoco sulla pista: una sorta di magia, di possessione ontologica muoverà Gonzalo a sfibrare quei pesci che danno al brodo il suo specifico carattere. Egli sa che col Caciucco si lavora con materiali eterogenei svincolati dal loro uso proprio, per cui la pommarola serve ad osmosi, e l’olio pure da convincente congiunzione. Al glorioso composto si uniscono odori di agliesse e prezzemoli e lubrificanti cipollonie; e il resto è una certa abilità del veterano chef a non falsificare il mistero di violati oceani e a trasmetterci gli indubbi meriti di quella archetipica schiumosa birra salata.
17. «[…] quasi quasi lo soffocava […]»
Cfr. Pietro Aretino, Lettere: «Dei cibi delicati è cuoca la Morte».
18. «[…] simili barocche fandonie […]»
La ricetta di cucina è un racconto intessuto di cose non dette fino in fondo, un racconto con un doppio fondo segreto nascosto dentro. La voce cupa e lunare delle viscere che gli si accompagna, ogni tanto non proprio si interrompe, ma nemmeno sviluppa la storia. In principio, vi sono accenni, espressioni vaghe, frammentarie, poi persistenti allusioni a un discorso prettamente compiuto.
C’è una nota di ostile tenerezza, un velo oleoso di malinconia, una enigmatica vena di compiacenza nella ricetta – se il cuoco fosse uno scrittore di professione si dedicherebbe soltanto a questo. Ma un piatto non si lascia descrivere come se niente fosse, voglio dire che incomincia come una cosa da niente – prendi un pizzico di questa cosa qua, un tocco di quest’altra là, un sentore di tal’altra, un non so che di quella e poi sale e pepe quanto basta – e proprio quando ti sembra di aver riprodotto fedelmente la ricetta illustrata, il tuo piatto diventa un’altra cosa, è uno spettacolo di polveri colorate oppure d’improvviso non ti rimane che un pasticcio miserevole, e in entrambi i casi, nella riuscita e nel fallimento, si richiede una buona preparazione, che la maggior parte degli improvvisati cuochi non possiede: e così ci si consola immaginando il piatto già cucinato, addormentato nella sua piccola teglia di alluminio come un esemplare di rara farfalla in una teca di vetro.
19. «La quasi ferale aragosta […]»
O Aragosta,
fenicio crostaceo, screziata ragusta
carenata bordata di giunture rosate,
crosta mielata di porri marini e fragrante
fango di marea, gòcciolami il suono
del tuo grasposo respiro,
sbriciato zucchero di mare,
ora che imbarchesata in vasca d’acquaio
muglisci lontano dal tumultuante oceano
flagellato dai pescherecci.
O Aragosta,
fungoloso granchio,
hispanica langosta, locusta marina, madrepora
d’acqua rossa senza ruggine,
muggine di scorza fruttata, irrobustita
di coralli flottanti
nell’acidulo sapore calcareo delle correnti;
horcyna fracosta, duramente compressa
finché compatta, come una fortezza:
fortificata a vivere,
fortificata a morire,
la tua è una vita a rovescio (forse, è un’eredità
materna) – ora sei troppo lontana,
devi dimenticare tutto.
O Aragosta,
gamberone dalla camminata grecoromana,
marmoconchiglia di incenso marino,
dalla coda di bronzo argilloso,
goccia di lava indurita,
un tempo le onde
vellicavano il ventaglio delle tue antenne,
ramata salsiccia in lorica di rame,
smaltata come cera di candia,
crocchiante grampo
da Cipro e Famagosta,
gambo e galbo afrodisiaco,
gemma di virtuosismo in cucina,
tu riveli una dolcezza di zucchero glassato
e resinate fragranze, come ci fanno notare
persone degne di fiducia.
O Aragosta,
laggiù in fondo, sta
la padella, ma niente paura:
afferra il cuoco con la chela e abbandonalo
al suo destino
in acqua bollente (tortura medioevale):
ma ricordati, se puoi,
una pinza di sale.
E una di pepe.
20. «[…] un neonato umano […]»
Notiamo un nesso semantico tra il divorare un composto organico e il mangiare la carne umana. Lasciando da parte le motivazioni che tale scelta culinaria comporta, atteniamoci unicamente al corretto modo di mangiare la carne umana, intendendo con questo un pasto che non sconfini nel rimorso di aver sgranocchiato le ossa di un tizio e tanto meno in un insulto al sorriso degli altri commensali.
Per mangiare la carne umana occorre fissare l’immaginazione su se stessi, e se ciò risultasse difficile perché è stata contratta l’abitudine di credere al mondo esteriore, si ponga mente a quel bambino caramellato ricoperto di granelli di zucchero, vera delizia dei palati più raffinati, che noi avremmo potuto essere un tempo e che abbiamo scampato. Una volta arrivato il piatto, ci si copra con dignità gli occhi, si stringa la forchetta tra le dita e si provi la resistenza della carne. Le signore, se vorranno, potranno piangere usando un tovagliolo con fiorami e merletti, nel frattempo comunque annusando quella cosa nel piatto che sornionamente accetta il nome di carne.
A un pranzo di presidenti e plenipotenziari, si può eventualmente contare i bocconi che fanno i potenti della terra, e ad ogni deglutizione fermarsi un istante e aspettare, e seguire la discesa del piccolo grumo di carne e saliva, sentire un rumore di pietre che si sbriciolano e accompagnano la discesa del cibo, che scivola nella gola contratta dell’illustre banchettante, uomo dall’onesto presente, e allora mandare un grido secco e breve, e vedere che il Primo Ministro impallidisce, vuole rigettare, e non ci riesce, ed è costretto ad inghiottire il boccone successivo – allora voltargli le spalle e uscire, e annunciare per i corridoi che il Premier, sí proprio lui, è un cannibale!
21. «[…] la ventosa oscena di quella bocca […]»
Sarà polipaio, o polyptoto, o polipessa, ma Gonzalo riesce a trovare buoni motivi per mangiare anche il nordico Kraken, con otto e più braccia allungate da friggere, perentorie come le squame di un pesce. Gli antichi navigatori ce ne hanno lasciato orride descrizioni: «In riguardevole altezza dal corpo, a poco a poco ingrossando, il Kraken innalza lo spartimento dei tentacoli, le midolla innumerabili che si dipartono dalla bocca, tal che fa da sé solo una selva di braccia che incatenano, cerchiandola, la nave: ad essa s’aggrappano e rampicano su per gli altissimi tronchi e la affondano nei rapinosi colpi del flutto» (Gerb Hallström, Dei perigli e degli incagli del navigare in Oceano, Cristiania, Presso la Stamperia Reale, 1568, tomo II, capo settimo).
Può darsi che il Kraken sia un mostro nevrotico e battagliero, e che perciò la sua carne sia disgustosa e indigeribile, piena di callosità e di nervature; ma rendere gradevole e mangiabile il suo sapore fibroso che ricorda il principio del gusto ridotto al minimo, persuadere qualcuno dei nostri commensali che sia di gusti austeri e fermi, non è impresa delle più comuni. L’arte della cucina si misura dalla capacità di vincere la natura più riottosa: dimostrare ai sommi sacerdoti di una casta così nobile come quella dei gourmet che lo snobismo in fatto di mostri è futilità. Certo, dicono i palati più snob, la carne del Kraken è la sagra del selvaggio, la fiera del disgustoso e dell’orripilante in materia di sapori, l’occhio e la gola sanno già cosa evitare. Ma, si chiede Gonzalo, se questo mostro così portentoso non si può cucinare, a quale scopo è stato inventato dalla Natura?
Vera sfida dell’arte magirica, il Kraken vale il suo peso, ma non tutti lo sanno cucinare. Il suo odore pestifero al grezzo, la durezza delle sue carni di corrotta polipessa, rendono difficoltosa la preparazione. Grosso, ma non pesante, il gelatinoso tentacolo del Kraken andrà sgrossato in acquamulsa variegata con tiglio, cinnamomo e mela cotogna. Il pezzo acquisterà un colore vitello chiaro, avendo spurgato tutti i suoi umori maligni. Nel completare la frollatura sotto il riposante ed elegante pizzo dei tronchetti di rosmarino, la carne verrà accolta dalla trama compatta delle frasche di ruta e genziana e i cumuli di spugnoso timo, erica e maggiorana.
Dissimulato nella confusione di un ulteriore bagno a base di latte e orzo, arricchito di prezzemolo, menta ed erba cipollina, il tentacolo andrà tagliuzzato strato dopo strato con un coltellino da incisione con la sicurezza del tocco e del paziente intaglio, in modo che affiori solamente quel tanto di carniccio che è necessario al piatto, rinunciando alle ventose sovrastanti troppo dure. Il pezzo, reso in striscioline sottili, potrà affrontare solo allora la cottura, lo sconnesso bollore dell’olio e della cipolla. Non dovremmo scorgere difetto di colore in questo piatto, che andrà a cottura ultimata abbellito con un limone, una pera e grappoli d’uva e una rosellina color sangue sul bordo della fiamminga.
22. «[…] stando alla leggenda […]»
Come avviene con la lingua, che dice e assaggia, fra un po’ di tempo – pensa Gonzalo – nessuno riuscirà più a fare un budino di riso, non ci sarà alcuno che si ricorderà più di come si candisce la frutta, o sarà capace di fare un vincotto, nessuna mano esperta riuscirà a comporre il magico risvolto di un tortellino. Gonzalo si scopre a ricordare il naturale odore dei ciccioli fritti nell’olio delle olive di Creta, o il fumo caldo stagnante in cui cuoce il tacchino, formidabile, garantita l’affumicatura.
Cucinare è anche ricordare, pensa. Così o in altro modo, si finirà per costituire un Archivio degli odori, o una Biblioteca Nazionale dei sapori, si dovrà andare al Museo dei Gusti Perduti a leggere schede sul sapore della carne di montone arrosto, schede sulle erbe da taglio, ci faranno annusare l’odore dei funghi di macchia, si sceglierà il sentore della crema di uova di storione, si sceglierà un tasto e da una macchina olezzatrice usciranno fuori i profumi del lievito, dell’uovo, della farina, tireranno fuori, già schedato e inventariato, il sentore del formaggio briquet, quello che doveva essere un formaggio a pasta molle, a meno che fosse proprio quel formaggio che volevamo sentire e non un altro, un giallo cadaverico estratto di formaggio in una sentina d’archivio che sta lì in attesa che qualcuno lo annusi, lo ricordi al naso. Oppure si farà la storia comparata delle mostarde da tavola per gli arrosti, ci faranno vedere su pellicole di microfilm come era fatto un arrosto di maiale, o analizzeremo le topografie e le sezioni di una torta ai lamponi.
Immaginare un repertorio di cose culinarie di un tempo, l’enorme lavoro di investigazione che attende le generazioni future. Storia delle zeppole di patate, duemila schede consultate, libri e libri per giungere alla certezza che per tutto il Medioevo non si fa menzione di quel prodotto alimentare. Poi improvvisamente in un in folio calabrese del 1522 compare l’immagine di un tipo con la berretta ritratto nell’atto di ingurgitare una zeppola. Non si tratta esattamente di una zeppola, però è una cosa molto simile. Qualcuno stampa a Subiaco un’altra immagine di una tavola imbandita dove si riconoscono zeppole di semolella adagiate su un piatto. Allora, si studia l’etimologia: forse deriva da zeppo, ossia pieno, ricolmo, oppure da Giuseppe il santo frittellaro; ma dal punto di vista gastronomico è una cosa un po’ diversa, gieppola, jeppola, zippula, zeppola, ceppolo, zeppolo. Nel secolo XVII un certo Ruoffolo inventa a Napoli le prime zeppole coi rossi d’uova: problema risolto, i cuochi possono lavorare fino in fondo, a variarle, dolci o salate, impastate col latte, con mezza foglietta di vino, con le sarde, l’erba fegatella, l’uva passa, o con il miele, ripieno di crema, con lo zucchero, ma son sempre zeppole. Il metodo è trovare qualsiasi cosa, una attestazione del sec. XIX su come si facevano le zeppole in Lucania, in Abruzzo, in Calabria, le zeppole, ma anche le paste fumose, gli gnocchi fritti, il pane papalino. Mille schede, duemila schede. Anni di lavoro. Se poi considerassimo le infrusaglie, la pasta ripiena, i tozzetti, o il pasticcio ferrarese, il vischio di pesce, o l’allesso di verzure nel secolo XII, le schede sarebbero molte di più. Ma i posteri non conosceranno il presente. E nel futuro certo noi non ci saremo. Perduto nei fogli, nelle carte, nelle cerimoniali impiccagioni della schedatura d’archivio, sarà il nostro tempo a non esserci più, saremo noi con le nostre nasute appendici e le nostre lingue desertiche ad essere scomparsi.
Boia il tempo che taglia le teste come il coltello le punte de’ zucchini.
23. «[…] ghiotti e innocentissimi tréfoli, o lacèrtoli […]»
Filamenti e frammenti che mi fanno pensare a una insolita insalata di insetti. Non sempre gli insetti si rendono percettibili a tutti in questa forma di derrata alimentare, di edule pietanza, e così a Gonzalo capitava ogni tanto di sorprendersi a pronunciare l’insolito ingrediente di un piatto, come che so: cavalletta! – ed esattamente in mezzo al vuoto aperto con le sue parole quel nome sembrava acquistare alone, risonanza e corpo. Avvicinandosi ai fornelli, gli sembrava di udire qualcosa nell’aria, un rumore tenue di angeli o minuscoli draghi alati uscire da una vaga oscurità irriconoscibile.
Gli insetti, divinità minori della grande madre Aria, o mitologici dèi inferi del Sotto Terra, giacciono ora mortificati in un bagno di salsa acidula, sottoposti ad una lenta ossidazione, orribili fossili di carta di riso, scrocchianti presenze familiari, snidati dai loro buchi, si offrono ai suoi occhi esperti per iniziare il macabro rituale del pasto, la sempiterna celebrazione del lutto. Attraverso la luce accecante della cucina, sullo sfondo di un fumo grigio di pietra, si profilano bastoncini e spiedini, un odore di muschio e di zucchero, un rimescolìo di diafani brodi, di striduli e incessanti gridii delle padelle, odori e polveri di eterei distillati.
Lo stridere dei fuochi scuoteva Gonzalo come una sferzata. Convulsi, torcendosi, i vermi grassi dell’Amazzonia lottano per uscire dalla padella che li consuma come burro fuso – ma loro non hanno ali. Gonzalo pensa che devono aver gridato aiuto nel fulgore luminoso che li squaglia. Sente che lo stomaco gli si rivolta per quel cibo sconosciuto, ma primigenio. Che cosa sono per lui gli insetti? Sono il richiamo ancestrale del cibo, il cibo mitologico dei popoli primitivi, e lui prova la finzione di un sacrificio che lo fa assomigliare a un padre tirannico che divora i propri figli mai visti. La marmaglia dei vermi molli e carnosi, fragranti e franosi, si scioglie, si soffoca nel suo stesso grassume. Sente ora Gonzalo un odore come di aceto mielato e di linfa cruda, ora un alternarsi di profumi pungenti e zuccherini, gli fa male lo stomaco e nei suoi occhi è impresso il disgusto, e la paura.
Dopo aver cucinato tutto questo, Gonzalo si siede a tavola ed esperimenta, masticando rimasugli e callosità di larve bianche come cipolle. C’è un sentore d’umidità intorno, un’idea di squame bagnate o di liscia pelle di biscia.
Chiude gli occhi, li riapre, pensando di essere solo in un sogno. L’atmosfera è calda e vaporosa di forno e la testa prende a ronzargli per il disgusto – forse, si è lasciato trasportare dalla paura, dalla lieve vibrazione di quel cibo. Un movimento rapido d’aria, come smossa da ali secche, gli soffia in faccia un sentore di sonno. Attorno a lui tutto si coagula come in un torpore fluido, gli sembra di sognare, chiude gli occhi, li riapre, pensando di essere solo in un sogno. Ma come sogno è strano, perché gli sembra di sognare che sta mangiando ciò che mangiavano antiche divinità ripugnanti.
24. «[…] le unghie […] scheggiate!»
Se si vuol preparare un sugo di vongole; per prima cosa, pensa Gonzalo, occorre aprire le vongole. Si sa che le vongole sono mitili ostinati, esseri testardamente chiusi, refrattari all’esterno. Dunque, per aprirle, si deve usare un coltello non troppo buono ma già intaccato in modo tale da fare diversi tentativi, acciocché ci si tagli le dita e ci si rompa le unghie e non si riesca a gustare l’interno molle e vischioso che dovrebbe rifluire nell’olio caldo, una pozzanghera gelosa e brillantemente dorata preparata poco prima.
25. «Poi, satollo […]»
Dopo il pasto, sembra che Gonzalo sia affaticato nella digestione. Respira con difficoltà, sembra che l’aria indurisca e perda trasparenza. – Saranno le arterie –, pensa. È lo stesso sale del cibo che è entrato nei nostri visceri al momento della ingestione, solo che adesso è il corpo a fare il calcolo, a metabolizzarlo. La prima reazione di Gonzalo alle mosse della digestione è accompagnata da qualche segno visibile. Gli si velano gli occhi, e si sporge in avanti dalla sedia. Ma qualcosa di molto importante è accaduto e giunto fino a lui. Gli si cancella, come se avesse ricevuto un colpo di spada tagliente e rossa, il concetto di innocenza.
26. «Del grifo e del naturale porcino […]»
Favole d’argomento affine tratte dall’Esopo Gaddiano, epitome delle Favole della Salsiccia di Agoràcrito:
I
La salsiccia, andata a finire nel braciere, guardando da lungi la padella dalla quale era scampata, osservò: «Ecco la gran differenza di essermi affidata a costui!».
II
Il gatto, che aveva aperto una bottega di barbiere, convinse la salsiccia a lasciarsi radere da lui.
III
La salsiccia, spinta dalla propria vanità (e dal cuoco), desiderò ardentemente di specchiarsi nell’acqua calda della pentola.
IV
La salsiccia, colpita talvolta da ipocondria e malinconia, arreca offese al porco.
V
Una salsiccia andò all’Anagrafe Comunale e l’impiegato gli chiese che mestiere facesse. Rispose essa che sorvegliava la polenta.
VI
La salsiccia, in odore di santità, si stese cristianamente sulla graticola ardente.
VII
La gallina pensa che la frittata sia un antropomorfismo applicato all’uovo.
VIII
La salsiccia, fattasi trovare senza documenti, venne consegnata a un picchetto di ordinanza. Dal verbale dell’interrogatorio risulta che la sopradetta si trovava in possesso di un passaporto per carni bianche.
IX
Il soufflé di cavolfiori scrisse un racconto e in quel racconto c’era un soufflé e il soufflé aveva un amico e l’amico era un cavolfiore e si scambiavano dei favori.
X
Una salsiccia sente gran disio, e lo chiede con insistenti preghiere, di recare per corona uno di quei ramoscelli di alloro che ornano le tempie dei poeti. Venne poi ricompensata, e per soprammercato unta d’olio, come gli antichi.
XI
Una salsiccia cade in una padella. Un’altra pietosa compagna scende ad estrarla e ci resta lei pure. Ne accorre un’altra, e fa la fine delle due. Una sbadataggine da non credere, commenta il sugo di pomodoro.
XII
La torta patriottarda, verde pistacchio rosso lampone bianco panna, che spesso passava le notti in prigione per le sue allusioni politiche, usava la lima nascosta tra gli strati di pandispagna per segare le sbarre, e fuggirsene.
27. «[…] merlani in bianco […]»
Sbarbati eremiti delle cambuse, prosciutti di mare, i merluzzi lasciano colare grosse e occhiute carni bianche infagottate di odorose saline lontane – pare uno che dorma col volto chiuso in una maschera d’argento così giusta e aderente da sembrare non so che trasfigurato pallore di santità. È di argento opalino, con gli occhi aperti sul nulla, il muso nobile e ricurvo, e una bella linea di corpo liscia e compatta come quella delle statue. Ma proprio ciò che tocca il cuore è quel soave riflesso rosa e damasco rosso – il palpitare della sua anima rossastra e per sempre incapsulata in quella forma d’acciaio di siluro.
28. «[…] fiotti di majonese […]»
«La salsa majonese è indocile cosa, se pure ha da essere preparata in fretta» (Alvaro Peje-Rey, Osservazioni sulla salsa de Mayorca, Stamperia Reale di Madrid, 1765).
29. «[…] piccioni arrostiti in casseruola […]»
Molto prima di realizzare sul piano pratico la ricetta del piccione al forno, il cuoco sa bene che l’animale pone un duplice problema, tecnico ed etico. Il primo non consiste tanto nella ricetta, quanto piuttosto nel piccione stesso, nella misura in cui a questi volatili non piace finire in padella, seppure circondati da ghirlande di odori e broletti di gloriosi lauri, e fanno appello a tutte le loro energie per sottrarvisi. È lecito, in tal caso, sfidare l’idiosincrasia dei suddetti animali? La domanda si sposta così sul piano morale rispetto al quale ogni azione può essere riprovevole o giusta.
Si sa, i piccioni sono degli animali sentimentali. Probabilmente è la solitudine, o sono le mollichelle che gli porge una mano umana, o le fatiche del volare che convincono il piccione a venirsene blandamente verso di noi. Sotto un certo aspetto, la cucina è un luogo dove appartarsi dalle cose che lo attorniano, è come rientrare nell’ordine domestico, per proteggersi, per evitare un riflesso accecante di quel mondo di falchi e di storni, di gabbiani e di corvi gracchianti e rapaci così assurdo, troppo pericoloso e irritante. La comodità calda e vaporosa della cucina è una alleata altrettanto valida quanto il colombario, anzi forse ancora più accogliente.
Forse, il piccione avrà pensato a questo. Ma Gonzalo non ha bisogno di molto tempo per sondare i sentimenti dei piccioni: egli ha già tratto sicure conclusioni e può quindi passare all’azione, senza rimorso alcuno. Un metodo rigoroso ritma i suoi gesti, prepara le carni con cura, sceglie gli aromi con i quali aiutarsi nel difficile compito della frollatura, insaporisce il tutto all’ombra di spagirici dèi nostrani. Dopo averlo accuratamente mondato e averlo adagiato in un solenne lavacro di vinaccia e di unguenti aromatici, Gonzalo offre al piccione una sistemazione più adeguata in una teglia da forno. La nuda spoglia ora riposa di un sopore antico, qualcosa che a vederlo prelude ai riti che vi si terranno, cerimonie che sanno di zampette bruciacchiate, di coscette sacrificate, di alucce spolpate – ma il piccione pure così è contento, e allora tutto va bene.
30. «[…] nel sugo stesso […]»
Nei sughi, o salse, i pomodori s’infangano nel fitto groviglio delle cipolle, assorbono scampoli di carote, lanugini di cipolle, carte di orìgani, origàmi di sedani, in curve paraboliche concentriche mosse dal mestolo di legno. Sapido e sublime concentrato, il sugo rilascia onde sferiche di odori di rara congruenza; mentre, per favorire l’integrazione dei sapori, altri spizzichi di peperoncino si fanno avvolgere quasi senza spreco nella precisione geometrica della ricetta. Il pomodoro fa sortilegi in padella come il bocciolo di un fiore compatto, la sua polpa di un rosso profondo spande sulle ali fragranti il suo profumo che s’impiglia tra la corteccia e il sale – non c’è seduzione più potente. Come sempre, Gonzalo è attratto dalla possibilità di una comunicazione misteriosa tra le cose, la ricetta propizia agli incontri tra alimenti, i grezzi vegetami che simili a brandelli di un’oscura foresta conducono alle aperte gallerie degli odori, nelle forme familiari degli impasti barocchi.
31. «[…] una ricetta andalusa […]»
Per preparare un’ottima fagiana all’andalusa in soli 5 minuti è necessario che ci si procuri – oltre a una mezza dozzina di bei sugosi portogalli e un paioletto di dove bollirà l’acqua che vi terrà puntualmente informati tanto del trascorrere del tempo quanto della vanità e dell’inutilità degli sforzi del cucinare – una bella e grassa fagianella di otto o dieci mesi. Mentre cercate un coltellaccio per ferire a morte il polposo palmato, che non vi venga in mente di mettervi davanti a una di quelle monotone e asettiche pareti piastrellate di cucine-cliniche: no, non fatelo! Fate in modo, invece, di avere in cucina una bella finestrona aperta sul cielo e che il vostro sguardo si perda nell’ampio orizzonte che si estende oltre la finestra, in quell’azzurro dove gli uccelli vanno disegnando le volute del loro piacere volatorio.
Ciò fatto, ripiegatevi su voi stessi, mordetevi la coda dell’occhio, e le ali della lingua, scacazzate lagrime amare, e sputate le penne, poi guardate attraverso il vostro telescopio privato il luogo di dove verrà accolto il volatile una volta cotto, proprio lì dove le vostre viscere lavorano silenziose, colando bile e succhi gastrici, domandate al vostro corpo se ha freddo, se ha sete, o fame, o qualunque tipo di angoscia. Nel caso in cui sentite un formicolìo diffuso in tutto il corpo, evitate di preoccuparvi inutilmente, dato che sarebbe molto strano se riusciste ad avviare il lavoro al primo tentativo. Osservate la pentolina con l’acqua un po’ evaporata, verificate che è passato appena un minuto e mezzo. Non vi innervosite, lasciate pure starnazzare la fagiana con le ali legate, aprite il rubinetto dell’acqua fredda, bevete un sorso e non perdete occasione di bagnarvi la nuca.
Tornate poi al vostro tavolo. Lì c’è sempre la fagianella incaprettata, e lì di fronte a voi per la finestra vedete ancora i passerotti, ci sono sempre le nuvole e lì c’è sempre – sul lavatoio a sinistra – il grosso coltellaccio per sgozzare il pavido volatile. Impugnatelo con molta cura come se si trattasse di uno specchio. Lasciatevi guidare dall’istinto, e immaginate che quel coltello sia proprio uno specchio. Il coltello di solito vi rifletterà un’immagine silenziosa, un uomo o una donna fatti di parole, o meglio, formati da segni, da rughe, da tagli, da ferite mai rimarginate, da buchi di vaiolo, da bruciature, da bulbi neri, da macchie scarlatte, da cuperose, da peli, da nei; quindi, fate in modo che questi segni che vi compongono escano da voi per incontrarsi con le loro sorelle e fratelli che compongono lo spazio attorno a voi, come cartucce di polvere da sparo che esplodano per simpatia – stoviglie come occhi, marmitte calde come bocche, neri obici di gas al posto di narici, e reticelle e imbuti come orecchie.
Giunti a questo punto, fate una nuova sosta e controllate la pentolina. Un’occhiata vi dimostrerà che l’acqua è quasi del tutto evaporata; ma ecco che avete appena finito di considerarvi per quello che siete, che già dovete decidere il taglio al collo dell’animale. Dovete scegliere. È doloroso, ma dovete scegliere.
Di solito, non volete ammetterlo, ma, ad essere sinceri, non avete l’abitudine di uccidere; il fatto è che, oltretutto, provate un po’ di vergogna ad andare in giro con un coltellaccio come un qualsiasi criminale. E inoltre avete così bene organizzato il vostro tempo che potete pensare alle vostre proprie cose, oppure mettervi a immaginare che cosa stia pensando la fagiana di voi, perché non la smette di frignare, di starnazzare: è spaventata!, pensate; e per la verità anche voi siete spaventati, ma continuate a guardare la vostra pentolina, e l’ultimo dito d’acqua incomincia ad evaporare quando voi restate come ipnotizzati, non potete distogliere gli occhi dagli occhi dell’anatra che si uniscono e si separano continuamente dai vostri, perché questo è quanto càpita se sei impacchettato per le zampe, càpita pure che qualcuno ti faccia questo scherzo di infilzarti la giugulare e di lasciarti lì a sussultare fioco fioco...
Vi resta ancora qualche spicciolo di secondo. Oramai non avete più bisogno della fagiana, non perdete più tempo con lei. Badate solo ai portogalli. Non perdete tempo e spremetene il succo: sono sei, ma ve ne basta uno, e – presto! – zuccherate nello stesso istante in cui culmina spasmodicamente l’ultima bollicella d’acqua.
32. «[…] mentastro, e pimiento […]»
«Herbolare è Barocco», scriveva Antonio Crapobalsamo nel Gran Theatro delle verzure (1615) e ne sciorinava i nomi: Abrotano, Acoro, Agresta, Aloe, Aneto, Astoreo, Bambace, Bettonica, Bolarmenico, Borbaco, Calamo, Cardamomo, Carlona, Centaurio, Centonchio, Cinnamomo, Coloquimida, Coriandro, Costo, Cubebe, Dittamo, Dragante, Esquivante, Euforbio, Eupatorio, Frassinella, Giusquiamo, Imperatoria, Laurino, Lentiglio, Lisequeone, Marrupio, Mentastro, Mentuccina, Mortella, Narciso, Nardo, Oppione, Oppoponaco, Orpimento, Paprica, Pastinaca, Piantaggine, Pimiento, Piretro, Pollizzola, Portulaca, Prezzemolo, Puleggio, Raffano, Regolizio, Rosmarino, Ruta, Salbianco, Salvia, Sambucino, Sarcocolo, Scordeon, Scropolo, Sesamo, Seppiata, Spandio, Strafizaga, Tarragona, Teriaca, Timo, Verbena, Zafferano, Zenzero...
La lista è lunga e varia, ma chissà perché adesso gli viene da pensare alle spezie. E pensare alle spezie significa per lui una tale quantità di cose che non sa da che parte cominciare. Piante officinali, droghe eupeptiche, amare radici, erbe stregonesche o foglie lassative; forse, uno come lui doveva fare lo speziale, il farmacista. Ma forse che lo speziale e lo scrittore non sono simili? Non è forse lo scrivere un farmaco, e il cibo un dolce rimedio ai mali della vita? C’è in Gonzalo, come nello speziale che dosa gli ingredienti del farmaco, una rotazione cerimoniale, alzarsi per prendere un pestello, un limone, accendere o spegnere i fuochi; c’è in lui quella strana ostinazione dello scrittore a nascondere la faccia sotto alle spalle, come di ossuto gibbone, come se volesse occultare lo sguardo, cercando di spegnere la luce carnivora dei suoi occhi per poi scoprirla di nuovo, per portarla in un nuovo cammino di oblio o di un nuovo inizio.
Cucinare, allora. Scrivere. La piccola vertigine della conoscenza, il cieco tuffarsi nell’attimo faustiano, l’odorosa pietra filosofale. Adesso, Gonzalo cerca di raggiungere l’inizio primo di tutta questa storia, il principio nubiloso che come per un guscio di noce nuovamente ritorna nel passato percorso a ritroso labirinto dopo labirinto, gheriglio dopo gheriglio, che finisce in un luogo chiuso che finisce in qualcosa che lui non ricorda più ma che in un certo senso lo riconduce lì, in quel momento, a perdersi di nuovo tra i fornelli, trascinando una memoria sempre più pesante.
33. «[…] lardo di scrofa […]»
Si rimanda alla nota 24. Aggiungesi l’invocazione accorata del Poeta: «’e saucicce»! (Giulio Cesare Cortese, Viaggio in Parnaso).
34. «[…] chiodi di garofano […]»
Una volta liberati dall’ingombro di essere scambiati per ferruginosi chiodi, i garòfali o garòfoli o garòffoli o garòffani o geriòfani o gariòfani o gheròfani si esprimono in diversi modi: non si può affermare che non abbiano intenzioni o volontà di accrescersi, di dilatarsi, ma in tutti i casi non esiste in loro altra volontà se non quella di sublimarsi – dallo stato di piccola spezie a quello di fiore vero e proprio.
35. «[…] fuori del deretano del piccione […]»
Incredibile, dallo stuff del piccione, dalla sua pancia farcita può uscire qualsiasi cosa, prugne, molliche di pane, spezie, castagne, orologi, brandelli di giornale, piume d’oca, può capitare di infilare una mano e tirar fuori per la coda un topolino bianco latte, è possibilissimo.
Mentre cerca di impostare, nel culo della bestia, quel ripieno turchino – miscuglio inestricabile di grezzi grassumi elicoidali – improvvisamente la mano di Gonzalo cava fuori un ritaglio di viscere rosse e insieme un altro pezzo che risultò essere una chiromante meccanica. Però! a lui sarebbe piaciuto conoscere il destino dai piccioni. Bisognava andarci per forza. Sono cose che si sanno subito.
All’altezza del buco centrale, dopo essersi seduto su una pallina di mollica di pane, Gonzalo calcola attentamente il tragitto e, sotto braccio all’indovina, va dall’altra parte del tacchino. All’ingresso, un filo da cucina: un segno per far ritorno al mondo che stava per abbandonare.
36. «[…] una seconda polpa […]»
Quando muore un gran cuoco, non muore; ma si converte in vulcano. Continua a soffiare lento lento sulla brace.
Cfr. «Non ego item cenam condio ut alii coqui» (Plauto, Pseudolus: atto II).
37. «[…] nuova situazione di pollo arrosto […]»
Fumi agliati dove grigio vi sosta l’aere di lardi e brodi in cottura, vapori pungenti del salace salmì, sotto due ali di nuvole giallo sugna, verso il fondo si avvertono odori fegatosi, di lungo ristagno, l’etra è pesto d’olio in su pesanti cipolle. Vi sono lente caldarole, pignatte e bollitori che si consumano nel tedio, sul lato destro padelle che inviano notizie di quaglie, pernici e quant’altro di dolce variopintura su due zampe. Ad un tratto, dal lato manco, esce uno sbuffo dimesso come un fuscello di ruggine odorosa perché vi rimanga un cammeo. Steso sul tagliere, duro legno da fachiro, il pollo riposa accanto al vino, aromi e frutta di stagione.
Gonzalo annusa nebbie e nubi di odori, come un segugio lascivo per l’ambita preda, e si trova nella situazione in cui fermezza e pazienza sono doni da non trascurare.
Del pollo è stato detto che dà man forte ai piatti, ma se si predicasse l’uso del simbolo, allora si dovrebbe dire che esso rappresenta il martire delle dispense, il santo delle arene necessarie ai cuochi. L’interesse di Gonzalo si dispone in una prospettiva che ha senso soltanto dal punto di vista dell’uso del pollo, delle sue parti meccaniche: ali, lune, sovracosce, tendini, gorguzzole, pappi, nocelle, budelli, stinchi, grumi, gnocche, cosciotti, croste, cicci, grassetti, ventricoli, culettini, lombi, mazzacorde, corbelli, cervellacci. Tutto insieme il pollo, quel garbuglio di filamenti e di callosità, quel rotolo di cordicelle aggrumate, quell’insieme sfilacciato di muscoli e nervetti, il pollo tutto accende le brame culinarie di Gonzalo: e lui lo brusca, lo lardella, lo trimballa, lo rinforza, lo aromatizza, lo sfogliaccia, lo stufa, e lo latta, lo strippa, lo intruglia, lo sfiletta, lo strascica, lo affoga, lo ribotta, lo rimpolpa, lo rimpasta, lo slomba, lo frigge, lo impastella, lo agguazza, lo salmistra, lo sciroppa, lo squaglia, lo sfricassa, lo aristizza, lo ariostizza, mai lo leopardizza (per non mortificar le carni), ma, in ultimo, verbigrazia, lo gaddizza. Così rinasce il pollo et rincomincia:
Incipit vita nova.
38. «[…] primo tatto della sua lingua […]»
Continuiamo a occuparci della domanda delle domande: come distinguere la bocca che mangia dalla bocca che parla? Ancora una volta ci sorprende, durante le sue funzioni, la pastosità della parola che trascorre. Muove dal basso, si può dire, gronda sulla nostra bocca producendo l’effetto di una verticalità che taglia e suddivide la nostra vita in fette di tempo compatte e crude, come burro. Un suono pastoso, sí, ma un suono salino (forse un rutto), una montagna di burro tutta intera che riempie il palato, e tracima, è piuttosto un impasto giallognolo, un germoglio di giallo nella grande massa bianca del siero verbale. La parola sembra piuttosto una dilatazione, un implacabile gonfiarsi del latte primevo, un tenero piumaggio di pavone giallo, la consacrazione della burrosità.
Ho preso il primo boccone, ho infilato l’oliva in bocca, ho infilzato il pesce, ho infarcito il grissino, ho preso un morso di pane, perché sapevo della fragranza del pane. Attacco allora la soglia della prima linea del discorso. Immenso gurgite di nulla, la bocca riceve al centro della sua dorsale il peso di imponenti lieviti di suoni dall’intestino, agglomerazioni di fiati caldi di pepe, emigrazioni dal basso di idee, bollicine di vocali, vomiti di consonanti. La lingua, senziente elemento, nella sua interezza suda l’ornamento dei suoi olii, evapora tutta quella materia di saliva e fibre di pelle traslucida, e papille di vaniglia e lascia passare senza filtrarla la densità di un aere leggero fatto apposta per imbrattare l’anima e i libri, screpolandone la corteccia.
39. «[…] si sdilinquivano subito […]»
Ossimori materici per eccellenza, i budini e le gelatine sembrano dei seni di donna, preparati da secoli per una evenienza di piacere accessorio. Mobili e immobili allo stesso tempo, leggeri e densi, saldi e tremanti, hanno la bellezza dei fiori che appassiscono, il loro tempo si risolve nello spazio che occupano, la loro posa non è mai precisata, la loro identità e la loro forma lasciano trionfare il desiderio di assaporarli.
La loro forma è perfezione, la loro densità è «luce, calma e voluttà», i loro esangui sapori fanno nascere una infinità di sentimenti dolci e addomesticati. La loro condensazione dal latte alla forma finale vibra al limite della musica, come un sospiro di soddisfazione che dura finché dura la loro facoltà di attrarci.
40. «[…] maciullava tutto in una volta […]»
Vicino alla fontana del lavatoio, il turchino torso delle oche grasse e primaticce, fagiani di gran rango come strippate arche, eviscerati e sfogliacciati capponi, sotto agli occhi in bella mostra tutti gli spiumati pennuti, i terrafunici animali, alati totem – guardandoli sconocchiati e rattrappiti a pesomorto, irremovibili corpi appesi ai ganci, un proffluvio di sangue gocciato nel canterano, Gonzalo sente che questa è una faccenda giustappunto per lui. Adesso, ancora una volta, si metterà a mangiare, a brandire i canini e gli incisivi, i denti del mestiere come corti e affilati coltelli, puntandoli nel pestatoio delle interiora, contro il sodo turbamento delle carni, paccottiglia di fiori di sughero, grumoli e grappoli.
Gli occhi acutamente vigili in quella penombra di pelle becchi zampe unghie rostri piume piumette penne pennicelle: sullo sfondo della notte, tutto è di legno, tutto scricchiola, legumi e pezzi di ricambio, articolazioni, giunture, cordigli, colli, maschere, viscere, occhi e cristalli, muscoli e filacce, nervi scrocchianti – egli intuisce che l’ora della congiunzione è avvenuta: ora polli, pollanche, pollastrelle, tacchini, gallinelle, quaglie, pernici, fagiani e fagianelle, oconi salvatici, tortore, piccioni e piccionazzi, faraone, tordi, anatroni, volpoche, papere, colombacci, allodole, oche mestolone, germani, beccacce, pavoni, pavoncelle, uccellini da palude, volatili di passo, tutti ora, unti e impeciati bolliranno metro per metro in scaldevole liquore, loto rubicondo, nella grande madre di rame e di stagno, la fluviale marmitta oleosa, l’immenso ventre di vacca gelatinosa, la bocca gorgogliante dell’Orco.
Nemmeno chiosa o postilla, ma non più che un intento di narrazione, come a latere di un gran discorso, vien fatto di dire quale iniqua offesa, e sopraffazione, e cruccio perenne sia la morte, ma come pure da essa scaturisca il pensiero del necessario ritorno in altre forme. Non più dunque quell’orribile delusione morendo e capendo di essere finiti – ma il presagio di una nuova vita tra gli aromi, immersi in un vischioso acquitrinio, adattandosi a infrollare in mezzo all’acqua forte di pepe e di rosmarino, suggendo l’essenza all’alloro e allo zenzero, facendosi penetrare dalla salvia e dalla cipolla, mescolandosi al timo, alla mentuccia, al basilico, alla noce moscata.
Rotolosi fegatini, grassi cosciotti, pastose midolla presagivano il transito ad altra vita, lasciavano questa esistenza finitima sghignazzando in padella – frippolavano verso le spezie. Come distesi Faraoni nelle fasciature di bisso, a lasciarsi laccare dai balsami, dagli unguenti elisir: e lui mangiava quei tutankamon, quegli amenofi, terzi o quarti, in padella, sopra un magma di burro, rigogliosamente eternati dal salso del peperoncino o del ginepro: e niente sembrava aver termine, più nulla aveva una fine, o un inizio.
41. «[…] e cervelli e lardelli […]»
Dopo aver fatto tutto il necessario per ben cuocer la carne, buttate i nervi in avanzo, troppo duri, e i pezzettini di sugna in eccesso nella sacca delle buone cose da dare al cane.
42. «[…] coi vini prelibati […]»
Tre Haiku di vino d’un oscuro poeta giapponese, tradotti dal Gaddus, ci mostrano gli emblemi destinati alla nostra esistenza: li troviamo nei dolci cunei svettanti dei bicchieri e nelle misteriose forme dell’oblio che ci trasmettono:
Il vino oscilla
goccia di ambra gialla:
attende il sorso.
Calice freddo
come uva bianca
è neve sulla lingua.
Fior di loto nel gotto
umida lacca –
s’è macchiato un dito!
43. «[…] e i pesci invece […]»
Prendete il Baccalà. Questo piatto richiama alla mente e alla lingua l’intricato sapore del Capodoglio, la vasta mole del Leviatano e le sue pinne che s’innalzano ad arco e scendono scatenando un mirabolante effetto di vapore acqueo. Cucinando il Baccalà, uno si dimentica l’ora, o capita magari il contrario: è l’ora che si dimentica di noi – ma ad un certo momento ci svegliamo trasognati e umidi di acqua marina, con i vestiti inzuppati e le alghe al posto dei capelli. Il Baccalà gioca brutti scherzi, inserisce il cuoco in una temporalità ingannevole, fa in modo che chissà come vengano fuori cose misteriose e improbabili. Per questo, si è soliti cucinarlo alla fine della settimana lavorativa.
44. «[…] la purità frigida ed incorporea […]»
Come è meravigliosa la cucina, che trasforma e spiritualizza le differenze e le caratteristiche dei materiali e tiene in piedi il provvisorio modello della civiltà. Come è meraviglioso, per esempio, che quella sacca rigonfia e tumida, quella molle ghiandola putrida e amara del rognone possa essersi convertita in un nome così misterioso: Arnione – come un prode cavaliere bordolese!
In un bouquet di vino e di fiori, con profumate bacche di ginepro e foglie nettaree, prugne sabine e aglio fresco di campagna, estratti aromatici ed erbe franzesi: qui viene adagiato nottetempo l’eroe bordolese.
O Arnione, non c’è acqua più ferma e decisa di quella morta del rognone, che andrà gettata ai rifiuti, mentre tu, purgato e austero, riposerai in un vaso di liscia porcellana, possibilmente dipinto a smalto, con una scena di caccia al cervo o al cinghiale. Ai fuochi lenti e larghi del meriggio, di tra i fiori caldi del pistacchio, Arnione compie la sua suprema metamorfosi – mutando il verde in onice. Il prode cavaliere ha trovato pace nell’unione dei macilenti boschetti di verzure, ha finito per condirsi, ammaliato dal potere degli aromi, e ora posa sul nostro piatto, mite e gentile, innocuo, purificato.
45. «[…] uno stambugio tenebrosissimo […]»
I sotterranei sono la parte considerevole delle cucine, là dove sono dispense e coltelleria. Tutti i luoghi dell’orrore sono sotterra. Poiché possano aver luce si fa d’intorno un graticciato di ferro, altrimenti il continuo passaggio dei fumi e dei vapori di risulta lo impedirebbe. A un angolo oscuro di quei sotterranei si trova la mia fontana del rimpianto. (Piso von Spilämberg, Minotauro di sapori, Tubinga, 1860)
46. «[…] alla propria ingorda capienza […]»
Lettera di Gonzalo a un cuoco francese, siglata «Pastrufazio, nel ricordo dei bei tempi felici, 1928»:
Caro amico,
devo dirti che era per le lumache che frequentavo il tuo Bistrot alle Halles, e che non conosco altro posto dove se ne incontrano tante tutte assieme. Tigri di bava bianca, lente come cinesi, con riflessi azzurri e rosa, comparivano la sera, te le ricordi, verso le dieci: calavano da zone vaghe del ristorante, dai buchi umidi delle cantine, dai bagni, dai rubinetti della cucina, strette nelle casette, dimore complicate e iperboliche delle quali è rimasta la fatica e l’orgoglio di sostenerle. Si riunivano e si ammucchiavano in silenzio senza farsene accorgere su di noi: sul nostro corpo avveniva il loro incontro, la notte di schiuma e vaniglia.
Venivano per questo, si allacciavano ai nostri peli, alla nostra barba, si incollavano alla nostra pelle con grave rispetto e vischiosa deferenza, sudori di carità, giro dopo giro si ammucchiavano lente lente lentissime senza inutili schiamazzi, succhiandoci la pelle con piccoli morsi sdentati. E c’era anche l’odore, non è possibile non ricordare quell’odore intenso di fruttata umidità, di umidiccio fungoso, di zuccherosa erba marcita, che ti faceva sospettare lavacri intestinali e umide feci, una crosta biancastra di melma argentata che riluceva. Scivolavano sulla frastagliata superficie del nostro corpo, occupandoci la coscienza – cercando di restituirci quell’originario stato di natura.
Sostenuti e sfiniti dai morsi senza denti delle lumache, ci rivestivamo contenti. Ti ricordi il senso di soddisfazione di quelle carezze morbose di lumache ingorde del nostro sudore? Impossibile predire il destino del tuo Bistrot, caro amico: la gente mangia per dimenticare se stessa, mangia tutto quello che può mangiare per non mangiare se stessa, e un locale come il tuo invita precisamente all’opposto – è il luogo in cui ci vediamo tutti un po’ più al nudo; magari, è di buon profitto per le lumache, non si può mai sapere.Adieu.
47. «[…] e gatti e gatte […]»
«Le parole, quelle strane fusa che s’appiccicano per un istante alla nostra vita e di loro poi non rimane niente che sia se non una masticata reverenza», diceva nei suoi Mémoires il Gatto con gli Stivali. Qualche volta anche un gatto riesce a capire (carpire?) qualche cosa, come dimostra questa coda della gatta creola e del lardo mutolo:
Adesso penserò a te, soltanto a te,
tutta la notte a te mio amato lardo
che te stai in dispensa e ti riposi.
Mi preparo a desinar solo con te,
tutta la notte, amore mio: che nol
conosco altro modo per amarti,
tenerti in me come un amuleto,
gioiello
di carne, dolce amore.
Mi stacco adagio dalla fumosa
candita fosca affumicata luna,
col baffo e ’l pelo tasto l’aere
vibrisse vibran (tutta vibro)
sei tu carne, carne io pure.
La notte ruota lene verso
l’alba; ma dove posi tu,
laggiù in dispensa sarà
per noi novella notte
e io ratta salirò da te.
C’è odor di spezieria:
che buono! Ci sei tu,
il filo del tuo aroma
e io ti annuso forte
la tua cotica bella
e il tenue velame
che ieri mi illuse
e oggi mi illude.
Ora, amor mio,
io m’appresso
alla mia tana
all’alcova
ti traggo
vieni
mio
cibo
mio
tut
to
m
i
o
g
n
a
m
48. «[…] ossi di pollo […]»
In purissimo stilo priapesco, Gaddus nel suo trattato sulla Alettriomachia (Terepáttola, 1928) descrive di certe epiche battaglie in pollaio, in cui trovan morte i galli nel sudiciume incrostato e di tra l’afrore di marcio, nel dappertutto di pozze di guano e filamenti verdastri di lattuga putrida. Il pollaio non è un recinto dove vivono i galli, ma il loro orrido cimitero. Muoion lentamente traverso il pantano, col portamento marziale dei dispotici, al centro di una disputa grifonesca, di dove si spollinano dentro il tumulto di una battaglia giornaliera.
Cro cro cro... un urto convulsivo di becchi ocra e arancio, ronco a ronco, con rincalzo di calcagni crocchianti. Troppo capofila, troppo regali, per non sentirsi tutti apposta galli nella checca, tutto ciò che rilutta alla regalità viene spazzato via, l’esalazione pruriginosa delle piume nell’aria, lo sgomento dei cortigiani pennuti, rostri a runciglio, ciaffi grifagni, il mondo come proscenio, splendori e corone di polvere e fanga.
Impacci di piume, moresche pavoniere, faraoniche ghirlande, gorgiere e ciuffi, orpelli sontuosi e smodati archipenzoli, le anfore sonaglianti dei bargigli, irrompono e si cristallizzano ora nei fantocci colorati, zolfo e cannella, nero e zafferano, rosso e blu, che già indossano maschere e parrucconi. I protagonisti di questa lotta sempiterna sono forse Pirati e Soldati, Spie e Gregari, Sentinelle e Delatori, Re e Duci da impiccare o sgozzare? Araldici combattenti da palcoscenico, guitti e commedianti, l’Oppo, il Moschetto, il Dorato, il Raspacio, il Fiammingo, il Polveraro, lo Smeriglio, precisano le figure di danza che ripetono le linee e i cerchi delle mosse di una sfida, una sarabanda di carne bianca, un’epica da sugo, la lotta di legno e di piume, fatta di ali e cosciotti dilaniati, e petti squarciati, viscere lapse. Nel corso dei giorni si instaura un ordine sempre nuovo, una legge fittizia, madre del futuro, che regola la successiva ragion d’essere di questi avvoltori casalinghi dal nervoso disprezzo, indizio di inesorabili contorni di peperoni o patate arrosto.
«Questo vulturismo del mondo!», chiosava ai tempi l’uom saggio.
49. «[…] perpetrato spolpamento […]»
La tavola, quadrata come una regione desertica, di spazi levigati e piatti riquadrati di bianco su cui inclina e si inchina la luce. La forza di quello spazio è generale, è assorbente, è un mare, è una terra astratta e metafisica, una landa di luce pura dove si muovono quelle astratte incarnazioni della nostra storia e della nostra coscienza, abissale, immensa, oscillante. Bocca aperta dell’Orco che attira verso il proprio centro il solitario svolgersi di un piccolo rito di sprovveduti animali.
50. «[…] simili portate […]»
A un macaco delle Antille insegnarono a cucinare nella gabbia dello zoo dove era rinchiuso; la sensibilità di cui pareva dotato l’animale lo rendeva capace di questa prestazione supplementare. La scimmia, presso ai fornelli, con grandi stridii e urlacci, mescolava senza tregua ingredienti e odori di tutte le forme, sperimentava nuove combinazioni di sapori con un’ostinazione e un talento che lasciavano tutti a bocca aperta.
Per il resto, il macaco aveva le inevitabili sconcezze della specie, si masturbava in cucina davanti alle cameriere, la cacca lo faceva ridacchiare, e gettava le bucce delle noccioline sul pavimento. Per di più, l’animale aveva una zona molto sensibile sotto alle piante degli arti inferiori e ogni volta che lo toccavano lì non poteva fare a meno di torcersi, tremava per tutto il corpo ed emetteva guaste flatulenze.
Nel complesso, il ristorante dove cucinava, in una strada signorile di New York, andava a gonfie vele e se guardava attraverso la porta della cucina spalancata nella grande sala rossa di velluto (la luce elettrica illuminava in maniera quasi teatrale), tutti quei clienti seduti che lo guardavano attoniti, come una vegetazione di teste, e da lontano ascoltava lo stormire della grande foresta pluviale – esagerato, è solo il parco cittadino – non riusciva a ricordarsi di aver mai veduto un simile panorama nella sua vita.
Con il passare del tempo, il macaco finì per diventare pensieroso, faceva una faccia lunga lunga come il muso di un levriero afgano; la preoccupazione che i gastronomi non riuscissero a comprendere la sua intelligenza era un sentimento che lo tormentava e lo soffocava sino a renderlo stupido e a far riaffiorare gli istinti atavici. Era chiaro che il desiderio di arrivare a un piatto estremo e raffinato, di sublime armonia, lo incitasse a non tralasciare alcuna cosa per trovarla: lo si vedeva alzare le lunghe dita prensili nell’aria col libero gesto di un artista – con quale gravità sembrava sorprendere tutti mescolando pietanze e spezie in incroci inverosimili come soltanto l’arte sa produrre quando pare molto importante!
Fu così che giunse a quella che fu la sua ultima creazione, rimasta celebre col nome di nourriture exotique, nella cui circostanza fu vittima di un barattolo di pepe verde del Madagascar che ingurgitò e riprodusse, sforzandosi con particolare accanimento di rendere edule un rifiuto di intestino. Si guadagnò, così, post mortem, la copertina del Times per quella che fu giudicata «l’opera culinaria d’avanguardia più ambiziosa e risolutiva», e una citazione nella nota Enciclopedia della cucina esotica.
Il suo corpo imbalsamato riposa (così suol dirsi) in una teca del Museo di Storia Naturale di New York, Sala dei Primati.
51. «[…] ordinaria somministrazione di puchero […]»
Come fare il puchero, o brodo di lesso. Cap. I. Quando comincia la stagione estiva, si cominci con lo spaccare le gambe ai sedani, si lasci cadere in acqua carote e cipolle, si sali bellamente, e ci si dimentichi del tutto. Si ascolti il primo bollore, se viene un suono come di qualcosa che assomiglia a un pensiero di familiari giardini d’infanzia, allora l’avvio è buono; e ugualmente se si sarà udito un fiume con barche in risacca, e anche se si udrà un sapore di nostalgie di paesi lontani, l’ombra di un bue mansueto, il tonfo dei fichi sull’erba, un bombito di api, allora che il brodo sia lasciato bollire in pace fino a restringersi in un dado gelatinoso. Poi (Cap. II), nei rigidi e gelidi inverni pieni di solitudine e di amarezza, prendi un dado di brodo rappreso preparato in estate, e gettalo in acqua bollente. L’acqua prenderà quello stesso odore che aveva avuto non molto tempo prima, una volta accaduto tutto ciò che era già successo, e il vapore prenderà l’aspetto di nuvole d’infanzia, un gioco a nascondersi come quando a moscacieca si gira vanamente su se stessi con una benda sugli occhi cercando di afferrare qualcosa e prolungando l’illusione di un gioco: ma è falso, come la felicità, perché il tempo intanto passa realmente, e mentre accadono cose sopra e cose sotto le palpebre chiuse il brodo evapora in aria senza smettere di essere proprio quella cosa che si chiama brodo.
52. «[…] non il coltello […]»
Giorgio Vigolo diceva di Alberto Savinio che forse nessuno meglio di lui avrebbe difeso, a una tavola di trattoria, l’etimologia funeraria dei maccheroni, dal greco makaria, cibo dei beati e dei trapassati, perché ad essi appunto si dedicavano e offrivano per i banchetti dell’Ade. Gonzalo pensava alle parole dimenticate, ai molteplici vocaboli a poco a poco perduti, o trasmigrati in altre forme, trasportati uno dopo l’altro dai marosi del tempo. Makaria era anche il coltello del magheiros, del macellaio, il sacerdote che nell’antichità greca sgozzava e macellava le bestie sacrificali.
Quella notte, Gonzalo lo trovò sul tavolo da cucina, allora vide che la sua mano lo prendeva, lo alzava, e mentre lo guardava pensava che quel gesto era appartenuto a tutta l’umanità, per migliaia di anni. Immaginò altri gesti del passato, quello che mima l’impugnatura della spada o quello che taglia il pane, quello che spalma il burro e il chirurgo che incide le carni; e poi il temperino e l’apriscatole, quello appartenuto al carnefice o al pescatore per pulire il pesce.
Come i gesti di allora, di sempre, tagliare il cordone ombelicale, sgozzare il nemico, scannare un capretto, aprire in due il maiale, intaccare il legno, incidere le castagne, pelare le patate, mondare le mele, cavar fuori del guscio le lumache, stendere il burro sul pane, carezzarvi sopra la marmellata, leccare la lama addolcita – a queste cose pensava Gonzalo, a tutte queste cose che un oggetto protegge e conserva e, a volte, sotterra.
Ma il coltello è sempre lo stesso oggetto?
Solo il tempo è capace di spiegare il tempo.
53 «[…] a far friggere […]»
La frittura d’uova fa venire in mente a Gonzalo la caduta della luna. Una caduta implacabile, ma relativamente lenta, un sempiterno precipitare senza vigore, una frazione intensa di meteora: nel piatto di portata la luna forma non più che una pozzanghera vischiosa e giallastra – sembra della grandezza di un chicco di grano, là di un limone, altrove quasi una patata. Poi di colpo, la sua statura sembra subito immensa. La parte illuminata è più stretta, infiltrata da vani d’ombra, sembra un arazzo inzuppato d’olio. Vi è in essa un’aspirazione a riprendere contegno dopo la caduta, ma al tempo stesso una inclinazione alla pigrizia a lasciarsi cullare nell’olio dei condimenti.
La luna forma ora un unico ponte tra la cucina e il cielo, in campo grigio-azzurro di stoviglia, è ora una sgargiante frittata con riflessi d’olio, gialla d’uovo, trascina con sé invisibili ali di polvere, velami di croco e zafferano, come granuli impercettibili di sale che si levano pigri nell’aria, frammenti di piume d’oro, portati via da correnti discenditive. Un liquido di ambra burrosa si è sparso, portatore di fragranza, di aromi soavi, come da una mammella bianchissima calano certe ampolle di latte mollemente sapido, che ci incoraggiano ad affogare nell’alimento.
Breve postillato:
Secondo Gabriel Da Nunzio, che se lo appunta nel suo Libro Segreto, esiste una favola sull’ovo, che è poi il seguito di questa: «L’angelo nel passaggio aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita. La sosteneva con le dita non usate se non a levare l’ostia. La recava ai beati, offerta di perfezione terrestre. Non imitava la dorata ritondità dell’aureola? In Paradiso... ell’è per i secoli l’aureola di Sainte Omelette».
54. «[…] mignolo mignolo […]»
Spiumando archivi di odori gialli, nel suo viaggio in Italia, Lord Sheffield ricorda che tutta nel mignolo risiedeva la forza di arricciolare il tortellino alla Scuola di Bononia: «Le mani si muovevano per conto loro, raccogliendo ad uno ad uno i lembi della sfoglia tirata, lisciando col pollice la pasta quasi a prepararla per il risvolto divino, ogni tanto senza smettere di fare quello che stava facendo, lasciava andare nella massa spianata d’uovo un pizzico di ripieno di carne condita e la infilava in un ideale concavo di pasta destinata ad accoglierla e stringeva in un movimento impercettibilmente veloce le dita a formare un ricciolo (gesto incomprensibile!), e il tortello era fabbricato all’istante sotto i nostri occhi increduli» (Trip in Italy, 1804).
55. «[…] glugolando alcun gotto […]»
Ingollamento nel glu glu della gola.
56. «[…] un lungo e costosissimo male […]»
Solo nella sua camera, Gaddus cadeva spesso in artifizi di scriba malato, le mosche funeste si vendicavano di lui mordendogli rabbiosamente il collo chino sul tavolo. Si dice tavolo o tavola? Non importa, lo mordevano. Perché questo terrore per le mosche funeste? Anche a Gaddus, qualche volta, mentre scriveva, gli pareva di dare vita a sciami di mosche feroci che avrebbero divorato il mondo.
57. «[…] disfatte impoltonate […]»
Sgangherata scacchiera di castagne, o di mele, o di fave, di carne, di midolla, di sangue, o di libri, per quale ragione deve essere così un pasticcio, ovvero perché il cuoco non deve spiegare le ragioni del pasticcio e il pasticcio non deve giustificare le passioni del cuoco? Dalla più piccola particella di pepe rosa o dal mollichino di formaggio si vede quanto c’è nella natura che passa nella speranza dell’artefice. Le cose pesano di più se le si adopera, o le si mangia: guardarle, non basta.
Spesso capita che Gonzalo, che in fondo è un buontempone, a un certo momento della sera, in una ricca cena di gala faccia venir fuori dalla cucina un piatto di portata a base di merda farcita, inserimento mondano ricevuto da tutti con grande stupore. Basta che Gonzalo faccia alzare il coperchio d’argento perché il manicaretto fumante appaia in tutta la sua putrida consistenza. Per molti risulta impossibile capire le scene di infantilismo e di ghiottoneria scatenate da quell’insolita fricassea appena indorata con una crosticina di pane grattato in ritardata cottura, che bisogna maneggiare delicatamente, e che nel taglio lascia uscire una sottile strisciolina di liquame.
I commensali, di solito, distolgono pudicamente il naso dal piatto, anche perché Gonzalo arriva a un tale estremo di zelo descrittivo da prendere su una mano il plateau flamande e con l’altra peritandosi di reggere il coperchio e sottoporre il piatto agli occhi di tutti con un gesto sublime. Passare l’estrema soglia del gusto pone un certo imbarazzo, ma viene trinciata con slancio quasi epico l’ingabbiatura gratinata. Da cui ne risulta che il ripieno interno viene in gran quantità allo scoperto e, oggetto di disgusto da parte dei commensali, rivela il policromato groviglio neroscuro che denuncia il motivo dell’odore forte del piatto.
58. «Egli, il figlio […]»
A volte la vita (questo astratto sempre in corso e tuttavia sempre differito) pecca di indiscrezione, riportandoci alla memoria una cosa sepolta sotto quotidiane macerie, sotto altre illusioni, altri fatti, altri libri, altri cibi, migliori o peggiori, che hanno contribuito a cancellare ciò che in un determinato momento ci era parsa la fine del mondo.
Gonzalo aveva un segreto. Aveva scoperto che suo padre, che non vedeva da molti anni, si era aggiunto nel novero del clienti che egli, nel corso di una non modesta attività, era abituato a ricevere nel suo ristorante. Lo vide per caso, un giorno, dietro la vetrata delle cucine mangiare da solo ad un tavolo: era piuttosto imbiancato e ingobbito con un cappello di panama in testa. Gonzalo ha guardato suo padre, quel padre ormai vecchio, e si è lasciato scappare un sorriso. Ha notato che suo padre mangiava in modo troppo naturale, che tutto ciò gli sembrava orrendo, oppure no.
Prese a venire tutti i giorni, verso mezzogiorno, suo padre. È vero che i camerieri avevano preso in confidenza a chiamarlo «Dottore», ma in realtà egli non era se non un personaggio di romanzo, uno che non lo trovavi mai se non con persone estranee, e che dormiva in letti ricavati da alberi dentro case di faccendieri sudamericani con le donne come fiori esotici ai balconi, e forse divideva il piano con altri Indios.
Gonzalo desiderò di ritornare bambino, di guardare intensamente negli occhi suo padre, di cercarvi una risposta. Questo lo sapeva: di questo almeno era certo, la risposta era nel padre, anche se lui lo ignorava, anche se credeva di essere condannato a rimanere senza risposta. Ma il padre ora era lì, nella sala da pranzo, davanti a lui: poteva vederlo dall’oblò della cucina, e immaginarlo come sempre in viaggio, su una nave nella risacca del tempo – e il mistero della sua vita era la materia stessa del suo turbamento. Pensò a come mettere finalmente ordine in tutto ciò che aveva creduto così caotico e romanzesco prima di quel giorno, creare una prospettiva nella quale il romanzo della vita di suo padre non fosse ormai più possibile.
Decise, allora, di cucinare per lui: per nascondersi a lui. Nascondersi in un piatto, in una mescolanza di sapori e di odori, e sapere che nascondersi non sarebbe stato più un tradimento. Cucinò tante cose per lui, ma così vaghe, così affatturate, così romanzesche: in cui vi entravano polveri di spezie andine, soffiavano venti e sospiri di bolliti, pungevano macumbe di sapori piccanti, e consolazioni di riso, spiriti e fragranze di inevitabili acque di pesce, tracime creole di sapori, risonanze e fermenti di robuste cagliate, involti e cerfogli di carni, resinosi favi colanti di verdure e gelatine in salsa, profumi e quiete gratitudini della frutta, gelatinosi rifreddi e creme spumose barocche.
Il padre si lasciò abbracciare quietamente da quei cibi, cedendo alla loro fascinazione, quei cibi erano un abbraccio caldo ma enigmatico, e lui mangiandone sempre di nuovi sentiva salire la vecchia febbre della fuga, la stessa vecchia febbre di solitudine e di egoismo che solo la fuga avrebbe inasprito o placato. Ed era così bello per lui, e così inutile, mangiare quei cibi che gli pareva di mangiare il suo stesso cuore, un cuore che sapeva di manioca e guacamole, come gli anni trascorsi sotto gli occhi degli antichi dèi del Sudamerica, per sommarsi alle ore dell’oggi.
Gonzalo si accorse che la mano del padre stringeva il cucchiaio, e poi non più. Restò immobile guardandolo morire in modo che sentisse la sua presenza che lo calmava.
59. «Povero viscerame degli umani! […]»
La luce del mattino l’aveva lavato dai brutti sogni, ma non gli aveva tolto di dosso una certa sensazione di nausea, una sorta di oppressione alla bocca dello stomaco. Erano avanzi di intestino, un brutto colore di rifiuti che un continuo malessere viscerale lo obbligava ogni mattina ad espellere. Pensò alle conseguenze dell’evacuazione: era come se in quel rituale contegno, o atto risolutivo, si rivelasse il carattere profondo e celato di ogni persona, i segni del suo quotidiano avvilimento, la sublime degradazione, la più profonda paura, e il dubbioso senso che tale azione comporta.
Guardò in fondo al buco del cesso. Lui alla mattina era lì, in quel buio fangoso, in quel nulla di odori e liquami – con tutta la grazia di dio andata in merda.
Università di Roma La SapienzaPublished by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-19-1
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