Fulmini e pianoforti

Aldo Pecoraro

Non c’è pensiero che imprigioni il fulmine
ma chi ha veduto la luce non se ne priva.

Montale

1. Una villa manzoniana

Luoghi, tempi e personaggi della Cognizione si celano spesso sotto maschere allusive. La Brianza rivive in forme sudamericane. I nomi delle città si atteggiano a una fonetica ispaneggiante: Lukones per Lecco. Milano è nei secoli prima San Juan, poi Pastrufazio. Il Resegone torna in Serruchon. Cade sotto la stessa legge il tempo: i tumulti di Milano del novembre 1628 saltano al novembre 1688. Fra i personaggi, Filarenzo Calzamaglia è l’equivalente parlante di Lorenzo Tramaglino, mentre Pedro Manganones, o Mahagones, si rivela Gaetano Palumbo nella dinamica narrativa.

Le costruzioni allusive recitano una parte dominante nella Cognizione. Sempre al riparo da divagazioni arbitrarie, la pagina è carica di risonanze oltre la lettera e a fondo nella letteratura. La decifrazione dello spessore allusivo porta il più delle volte alla comprensione, anche letterale, del testo. Per l’ampia autonomia che gode all’interno del primo tratto, l’episodio del fulmine sfida le virtù dell’assolo. Non legando, nella lettura tradizionale, con quanto segue e quanto precede, potrebbe avvalorare l’ipotesi di un andamento digressivo della narrazione. La presente lettura mira a reintegrare l’episodio nell’opera che lo contiene con reciproca illuminazione agli effetti interpretativi.

L’odissea del fulmine rappresenta la parodia dell’avventurosa vita militare di Napoleone attraverso la rifrazione di tratti e immagini del Cinque maggio. Eccone la prima parte:

Con le vetrate a ghigliottina uno e sessanta larghe nel telaio dei cementi, da chiamar dentro la montagna ed il lago, ossia nella hall, alla quale inoltre conferiscono una temperatura deliziosa: da ova sode.
Ma basti, con l’elenco delle escogitazioni funzionali.
Fra le ville della costa di San Juan, lungo lo stradone del Prado, (saettavano i rimandi rossi dei loro vetri avverso il taciturno crepuscolo), c’era anche, piuttosto sciatta, e ad un tempo stranamente allampanata, Villa Maria Giuseppina; di proprietà Bertoloni. Il crepuscolo, e il suo fronte malinconioso e lontano, appariva striato, ad ora ad ora, da lunghe rughe orizzontali, di cenere e di sanguigno. La villa aveva due torri, e due parafulmini, alle due estremità d’un corpo centrale basso e lungo; tanto da far pensare a due giraffe sorelle-siamesi, o incorporàtesi l’una nell’altra dopo un incontro a culo indietro seguito da unificazione dei deretani. Dei due parafulmini, l’uno pareva stesse meditando un suo speciale malestro verso nord-ovest, oh! una trovata: ma diabolicamente funzionale: e l’altro la stessa precisa cosa a sud-est; a cioè d’infilare il fulmine, non appena gli venisse a tiro, sul «confinante» di destra: e l’altro invece su quello di sinistra: rispettivamente Villa Enrichetta e Villa Antonietta. Accoccolate lì sotto, in positura assai vereconda, e un po’ subalterna rispetto alle due pròtesi di Villa Giuseppina, e pittate di chiaro, avevano quell’aria mite e linfatica che vieppiù eccita, o ne sembra, il crudele sadismo dell’elemento.
Questo sospetto della nostra immaginosa tensione era divenuto scarica della realtà il 21 luglio 1931, durante l’imperversare d’una grandinata senza precedenti nel secolo, che locupletò di pesos papel tutti i negozianti di vetro dell’arrondimiento.
Descrivere lo spavento e i cocci di quella fulgurazione così inopinata non è nemmeno pensabile. Ma il diportamento scaricabarilistico dei due parafulmini ebbe strascichi giudiziari, – subito istradati verso l’eternità – tanto in sede civile, con rivendica di danni-interessi, perizie tecniche, contro-perizie di parte, e perizie arbitrali, mai però accettate contemporaneamente dalle due parti; – quanto in sede penale, per incuria colposa a danneggiamento a proprietà di terzi. E ciò perché la causa apparì, fin dal suo principio, delle più controverse. «Che ce ne impodo io», protestava il vecchio Bertoloni, un immigrato lombardo, «se quel ludro non sapeva neanche lui dove andare?». Il fulmine infatti, quando capì di non poter più resistere al suo bisogno, si precipitò sul parafulmine piccolo; ma non parendogli, quella verga, abbastanza insigne per lui, rimbalzò subito indietro come una palla demoniaca e schiantò su quell’altro, un po’ più lungo, della torre più alta, e cioè in definitiva allontanandosi da terra, cosa da nemmen crederci. Lì, sul riccio platinato e dorato, aveva accecato un attimo il terrore dei castani, sotto la nuova veste d’una palla ovale, – fuoco pazzo a bilicare sulla punta, – come fosse preso da un bieco furore, nell’impotenza: ma in realtà sdipanando e addipanando un gomitolo a controgomitolo di orbite ellittiche in senso alternativo un paio di milioni di volte al secondo: tutt’attorno l’oro falso del riccio, che difatti avea fuso, insieme col platino, e anche col ferro: e smoccolàtili anche, giù per la stanga, quasi ch’e’ fussero di cera di candela.
Poi sparnazzò un po’ dappertutto sul tetto, sto farfallone della malora, e aveva poi fatto l’acròbato e la sonnambula lungo il colmigno e la grondaia, da cui traboccò in cantina, per i buoni uffici d’un tubo di scarico della grondaia medesima, resuscitandone indi come un serpente, intrefolàtosi alla corda di rame del parafulmine piccolo, che aveva viceversa l’incarico di liquidarlo in profondo, sta stupida. E in quel nuovo farnetico della resurrezione si diede tutto alla rete metallica del pollaio retrostante il casamento della Maria Giuseppina (figurarsi i polli!), alla quale metallica non gli era parso vero di istradarlo issofatto sulla cancellata a punte, divisoria delle due proprietà confinanti, cioè Giuseppina a Antonietta: che lo introdusse a sua volta senza por tempo in mezzo nella latrina in riparazione, perché intasata, del garage dell’Antonietta, donde, non si capì bene come, traslocò immantinente addosso alla Enrichetta, saltata a piè pari la Giuseppina, che sta in mezzo. Ivi, con uno sparo formidabile, e previo annientamento d’un pianoforte a coda, si tuffò nella bagnarola asciutta della donna di servizio. Stavolta s’era appiattito per sempre nella misteriosa nullità del potenziale di terra. (RR I 586-88)

La strofa più celebre del Cinque maggio presenta Napoleone in figura di fulmine che scorrazza per il mondo con indiavolata rapidità. Quello della Cognizione non è un fulmine qualunque, come certifica a prima lettura il tono alto, perfettamente funzionale alla parodia. L’epicità del viaggio si arricchisce di espressioni come «non parendogli, quella verga, abbastanza insigne per lui», o «non poté usufruire del passaggio necessario a un tanto fulmine», che equivale alla designazione di Napoleone nell’ode come «tanto raggio» (v. 22).

Nel panorama brianzolo di manzoniana memoria, il pianoforte incenerito a Villa Enrichetta si connette emblematicamente al pianoforte suonato da Enrichetta Blondel in accompagnamento alla composizione del Cinque maggio. Il fulmine, come era partito, quanto a figurazione poetica rispecchiatrice della realtà, dal pianoforte come simbolo ispiratore dell’ode, così percorre a ritroso, nel testo gaddiano, il cammino di partenza con coeffetto polemico-parodico, sino apparentemente a incenerire le sue poetiche origini, in realtà a ridurre a silenzio e cenere tutte le fanfare dell’epica scatenate sulla vita gloriosa che il Manzoni aveva potentemente ridotto a silenzio e tenebre. Che il fulmine si avventi contro la rete metallica del pollaio, terrorizzando i polli e inducendoli a schiamazzare fuor di misura – «(figurarsi i polli! )» – richiama infatti il fragore celebrativo levatosi alle tappe del vittorioso itinerario reale sotteso.

Non è casuale che siano i polli di Villa Giuseppina a starnazzare tanto. L’«allampanata e polluta Giuseppina» – polluta, fra l’altro, in quanto provvista di polli, allampanata anche perché attira la luce dei fulmini – è la dimora, anzi, lo è stata, di Carlos Caçoncellos, vate del Maradagàl.

Alla musica della Blondel, concomitante al movimento creativo dell’ode, viene conferito rilievo in una nota del racconto Quattro figlie ebbe e ciascuna regina dell’Adalgisa, raccolta assai vicina cronologicamente e tematicamente alla Cognizione, tanto da presentare parti in comune compreso l’episodio del fulmine. La nota, stilata sul modello delle guide del Touring, interessa per la fenomenologia memoriale che svela:

«Brusuglio»: (alt. 145): oggi frazione del comune di Cormano: 10 chilometri circa a settentrione della metropoli. A Brusuglio, una villa già appartenuta ad A. Manzoni: vi fu composto di getto il Cinque Maggio, con la diletta Enrichetta al pianoforte. Son terre di bravi muratori capimastri (magütt e capmàster), che ogni mattina s’inurbano in bicicletta o «con la Nord»: (Ferrovie Nord Milano). (RR I 375)

L’informazione topografica seleziona come tratto rilevante del paesaggio la villa manzoniana e il ricordo della villa trascina a sé – in maniera quasi coatta, perché indipendente dall’intento informativo della nota – il particolare biografico che la memoria dello scrittore le associa immediatamente, con l’accenno, assente nelle guide turistiche, all’accompagnamento musicale. All’interno dell’Adalgisa la nota precede di poche pagine il primo tratto della Cognizione, riportato proprio a partire dall’episodio del fulmine.

2. Contrappasso parodico

L’onomastica delle altre due ville si attaglia coerentemente alla lettura proposta, mentre la letteratura trova il suo complemento nella storia. Villa Giuseppina costituisce la piattaforma di lancio per la metamorfosata odissea di Napoleone. L’addentellato biografico è dei più calzanti. Villa Giuseppina, chiamata nelle stesse pagine «Villa Maria Giuseppina» (RR I 586) e «casamento della Maria Giuseppina» (587), rinvia a Giuseppina Beauharnais, di cui sono storicamente note le manovre per favorire l’ascesa di Napoleone al potere.

Minuziose informazioni biografiche sulla Beauharnais tengono il campo nella nota di argomento napoleonico del disegno milanese Quando il Girolamo ha smesso e il suo nome viene declinato sugli stessi virtuosismi destinati alla denominazione della villa: «Joséphine (Giuseppina): in privato Maria Giuseppa Rosa Tascher de la Pagerie» (RR I 332) e più avanti «Giuseppa Rosa» (333), «Giuseppa» (334), «Giuseppina». La Beauharnais, soprattutto, è indicata come causa della «fulgurativa missione» di Napoleone:

Il redditizio travaglio della di lei ragionevole amabilità non indugiò maturar l’incarico al Bonaparte, in quattro e quattr’otto, la fulgurativa missione! (RR I 334)

Anche la terza villa, Villa Antonietta, non rimane esclusa dall’itinerario motivato del fulmine. La patina metaforica dell’ultima escogitazione funzionale, immediatamente precedente l’episodio del fulmine, aveva come prefigurato la comparsa della regina con «le vetrate a ghigliottina uno e sessanta larghe nel telaio dei cementi», introducendo l’immagine della rivoluzione francese. (1) La decapitazione della regina Maria Antonietta è uno dei presupposti della rivoluzione e la rivoluzione, a sua volta, di Napoleone. (2) Il nesso è lucidamente sintetizzato in Eros e Priapo con la figura del «nano demonio straniero scaturito dalla rivoluzione blasfema» (SGF II 338).

La stessa nota dell’Adalgisa che conferma la base di partenza della missione fulminea palesa come non casuale il fatto che il viaggio di un tanto fulmine si concluda ingloriosamente in una bagnarola. Fra le indicazioni biografiche relative al condottiero viene ricordato uno dei suoi oggetti prediletti: «Era però assai netto della persona e amante di bagni, anche in una reminescenza neoclassica dei bagni e delle vasche da bagno (bagnarole) imperiali romane, di granito e di porfido» (RR I 331).

La parodia tocca il vertice con l’annientamento del fulmine, fra tante vittorie e sogni di gloria, in un contenitore tutt’altro che nobile, tant’è vero che la nota sottolinea con la parentesi il descensus stilistico. Davvero il «premio | ch’era follia sperar», l’adorata bagnarola. Il rilievo della bagnarola, ultima tappa dell’odissea, è sancito da una figura consueta in Gadda, visto che nel testo si parla antonomasticamente di «scarica della bagnarola» (Cognizione, RR I 588).

Anni dopo, in Il guerriero, l’amazzone lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo, la parodia si libera in forme equivalenti, muovendo ancora una volta dal Cinque maggio. Non sfugga la voce sguaiata e schiamazzante che fa da accompagnamento critico al verso del fulmine:

BODONI TACCHI […] Il fulmine del suo genio puntava, in definitiva…
DE’ LINGUAGI (con voce sguaiata a schiamazzante) Di quel secùro il fulmine voleva andare a sbattere a Vienna. Ma il fulmine gli toccò rinfoderarselo. E così… retrocesse. E si aggirava disperato sulle strade della Bassa veronese ridotta a un lago. Pareva un topo in un pitale. (SGF II 397)

La metamorfosi di Napoleone come topo in pitale declina sullo stesso piano denigratorio del fulmine intasatosi nella latrina e spentosi nella bagnarola. Se non va colta un’ulteriore sfumatura antifrastica nel capovolgimento del culto della bagnarola nella navigazione in un pitale.

Distintivo del fulmine della Cognizione è la conversione parodica del viaggio rispetto alla realtà poetica che l’ha generato. Alle tappe precise dell’itinerario – latrina, bagnarola, pollaio – si somma l’andare a sbattere un po’ dappertutto senza requie. Per l’interpretazione del movimento frenetico, indice di sanzione punitiva, soccorre un passo del saggio I viaggi, la morte, col desiderio, di fronte alle tesi meschine e grette, «di prendere il sicuro assertore e di strascinarlo per una corsa pazza nel mondo» (SGF I 580). Pazza corsa che per Napoleone rappresenta un simmetrico contrappasso al comportamento di una vita, secondo lo schema di memoria dantesca. Quando il Girolamo ha smesso lo vede infatti «indaffarato ovunque verso le fanfare e la gloria» (Adalgisa, RR I 305), e, sempre in rapporto con la sua indiavolata rapidità, ricompare «omettino col diavolo in corpo, e col pepe in culo» (332). 

3. Due vite e un pianoforte

La musica del pianoforte di Enrichetta Blondel non è la sola emblematicamente legata alle celebrazioni di Napoleone. Di ben altra risonanza storica, la terza sinfonia di Beethoven, detta l’Eroica, si era levata in suo onore. Anche se in un secondo tempo il musicista, indignato per l’autoproclamazione di Napoleone a imperatore, aveva lacerato la dedica. All’evento allude il primo libro gaddiano, la Madonna dei Filosofi:

e l’autore era quello, certamente un po’ bisbetico, che aveva furiosamente lacerato l’indirizzo di un’altra e più eroica sua marcia, già dedicata al Liberatore. (RR I 95)

Il Liberatore è chiaramente Napoleone, come lo salutò il Foscolo. L’autore, designato con una metonimia in praesentia attraverso la lacerazione della dedica, è Beethoven. All’etichetta della sinfonia si volge, con aggettivante malizia, l’accenno all’«altra e più eroica sua marcia».

La competenza musicale e biografica di Gadda in materia beethoveniana (3) accredita oltre ogni ragionevole dubbio che il pianoforte, simbolo per eccellenza dell’attività musicale, incenerito a Villa Enrichetta non appartenga soltanto alla Blondel, ma simboleggi anche la musica di Beethoven, celebratore esemplare in musica di Napoleone con l’Eroica. Le biografie del compositore registrano un evento al limite del sovrannaturale che rafforza ulteriormente l’ipotesi: un fulmine durante una nevicata, come un miracolo, in coincidenza con la sua morte.

La biografia (4) di Alberto Albertini, Beethoven. L’uomo (Torino: Fratelli Bocca Editori, 1924), oggetto in Italia di ampia diffusione e fortuna, e presumibilmente letta da Gadda, traspone la testimonianza di un amico presente al momento del trapasso:

«Mentre noi – scrive ancora Hiller – il 26 marzo eravamo in casa di un ex allievo di Hummel fra le cinque e le sei (il cielo era di un purissimo azzurro), fummo sorpresi da un rombo improvviso e fortissimo, e un turbine di neve che si rovesciò su la terra fra tuoni e lampi». Beethoven alzato il pugno in alto spirava in quel momento! (Albertini 1924: 293)

All’interno del resoconto biografico la misteriosa testimonianza non rimane inattiva ma risalta emblematicamente per l’attribuzione della scomparsa del musicista al fulmine: «E la pianta gigantesca che si ripiega su sé stessa, dopo aver dato una fioritura che lasciava pensare a nuove primavere, ma che il fulmine schianta di colpo!» (Albertini 1924: 286).

Tornando alla Cognizione, è come se la vendetta celeste, annientando il pianoforte a Villa Enrichetta, avesse voluto punire con esemplare contrappasso i celebratori del fulmine di guerra. C’è di più. Il contrappasso è perfetto, ma manca un anello della catena per renderlo simmetrico. Resta Enrichetta. Dalle note del suo pianoforte era scaturito, nel tempo-lampo di tre giorni, il Cinque maggio. La punizione è asimmetrica rispetto a quella subita da Beethoven. Non c’è evento biografico che la veda colpita da un fulmine. La risposta, l’anello mancante per leggere una complessa e solida struttura significativa, la si apprende frugando fra le carte più dolorose che il Manzoni abbia scritto. Che Gadda, ipersensibile annotatore del dolore, non poteva aver chiuso in sé senza una profonda impressione, sostrato fertile per le ripercussioni mnemoniche nella cassa di risonanza della sua pagina. Il Natale del 1833, unico testo manzoniano fermato in apocope tragica, è stato interrotto dallo scrivente col cecidere manus di virgiliana memoria. Sullo sfondo tragico di un cielo tagliato dai fulmini, Enrichetta è rapita alla vita da un fulmine – metafora di ascendenza biblica – dopo che invano la stessa figura folgorante è stata raggiunta dalla preghiera:

Come da sopra i turbini
Regni, o Fanciul severo!
(vv. 5-6)

Mentre a stornar la folgore
Trepido il prego ascende
Sorda la folgor scende
Dove tu vuoi ferir
(vv. 13-16)

Gadda era oltremodo attento alle misteriose combinazioni del destino. Nulla di strano che nell’episodio del fulmine abbia voluto captare i segnali emblematici di due materie biografiche troppo incise nella memoria per non avvertire una fatale simmetria. La scrittura come rivelazione dell’enigmatico coagularsi di eventi nella compagine della realtà è un ideale gaddiano.

Ad attivare la preesistenza storico-mitica dell’incenerimento del pianoforte della Cognizione potrebbe aver contribuito un elemento della realtà sperimentata e sofferta dall’autore, il pianoforte in briciole tra le macerie di una casa distrutta dai bombardamenti annotato nei diari di guerra (Giornale, SGF II 554).

Prescindendo dalla lettura proposta, la rilevanza testuale del pianoforte si disperderebbe in un’irragionevole entropia:

Parallelamente a ciò, nel mito e nel folklore del Serruchon si fece strada l’idea che il pianoforte sia strumento pericolosissimo, da carrucolar fuori in giardino senza perdere un istante, non appena si vede venire il temporale. (Cognizione, RR I 588)

Come a suggerire che a lasciar celebrare all’epica l’insensato delle guerre come sensato, se ne attraggono altre altrettanto insensate. Il pianoforte, figura delle celebrazioni del fulmineo condottiero, simbolicamente connesso alle due più rappresentative, il Cinque maggio e l’Eroica, calamita i fulmini, cioè le guerre, perché, come ricorda Gadda nella Meditazione breve circa il dire e il fare (1936), «un vizio della espressione influisce nei giudizi e però negli atti d’un uomo o d’un collegio di uomini» (SGF I 444). La «parlata falsa», qual è l’epica retorica in sommo grado, ingenera il male e «né il vate marmoreo, né l’economista usano roboare per nulla. E chi paga, paga» (449).

Quasi come svolgimento narrativo dei teoremi della Meditazione breve circa il dire e il fare, esce in anteprima sul Meridiano di Roma del 24 luglio 1938, pp. 6-7, l’episodio del fulmine assieme a quello contiguo del vate, da «Fra le ville della costa di San Juan etc.» sino a «La sua signora approvò» (RR I 586-93). Il giornale ne indica l’appartenenza al «romanzo La cognizione del dolore di cui la rivista Letteratura inizia la pubblicazione».

4. Predilezioni fulminee

Nel capitolo Dal castello di Udine verso i monti del Castello di Udine lo scrittore si confessa particolarmente impressionabile da ogni sorta di tuono o boato, oggetti prediletti della fantasia: «I miei sogni meravigliosamente accoglievano i boati profondi, su dal buio delle valli, con esperta gioia registravano i tonfi lontani di là dalle valli» (RR I 150).

Nella nota, sotto «esperta gioia», viene registrata la «psicosi lirica del Ns., ardente amatore di cannonate e peritissimo di sibili, schianti, tonfi, boati, e mugolamenti d’ogni qualità» (RR I 155). Il fulmine, oltre a presenziare alla violenza della guerra tramite la metafora sonora del tuono, si oppone direttamente al binomio inscindibile di vita e conoscenza:

il fragore voleva svellere, fuor dalla conoscenza, ogni cosa. L’ultimo stelo dispariva, bruciato dal fulmine». (RR I 154)

La tensione espressiva si adegua alla qualità della percezione, come mostra la nota relativa all’«orror giallo e feroce delle cose furibonde» (RR I 150). Le cannonate vengono denunciate dall’inconscio «come fatti non ancora nominalizzati nel nome “cannonate”, ma come obbietti o fenomeni pre-nominali: gialli, feroci, furibondi» (Postille, SGF I 821). Il fulmine che cade sulle ville è battezzato dal muratore di Villa Enrichetta «giallone», mentre nella seconda parte della Cognizione compare la definizione di «giallone troja» (RR I 718). Nel Castello di Udine, oltre alla persistenza del giallo come colore deputato a rappresentare le cannonate, si parla delle «bombarde» come di «scrofe gravide» (RR I 150). Basandosi sulla consistente analogia percettiva, per le sfere visiva e uditiva, la fantasia gaddiana identifica fulmini e bombe. L’equazione fulmine=guerra carica di risonanze l’equazione fulmine=Napoleone e ne è per certi aspetti il presupposto. Il fulmine diventa figura della violenza della guerra.

Secondo uno sviluppo già in nuce nel Castello di Udine, dove l’esperienza bellica gode ancora di spazi liricamente vitali, l’attrazione esercitata dagli oggetti prediletti della fantasia si converte nella più marcata delle repulsioni:

Alla stazione di Udine mancai persino ad un incontro, fissato con persona che dovevo non più rivedere sulla terra! Per far presto, per arrivar prima!, dove ci fossero, nelle valli, cupi tuoni, tra il fumare delle fredde nebbie autunnali. Ho scontato quella fantasia con anni di disperato rimorso, sono andato, come un cieco, al mio disperato destino. (RR I 150)

I tuoni subiscono la stessa metamorfosi dei monti, intensamente contemplati nella fanciullezza, e poi ridotti, «nel tempo mutato» (Cognizione, RR I 677), dopo gli stravolgimenti apportati dalla guerra, a persistente immagine di morte, per il rimorso di avere affrontato con giovanile entusiasmo – due volte volontario! – la guerra che gli avrebbe portato via il fratello.

Il fulmine assume veste e figura di diavolo in Tecnica a poesia (1940), cronologicamente successivo. Le tecniche pagano il loro contributo espressivo, fornendo la base descrittiva di una parte dell’episodio del fulmine. «Belzebù cornuto in figura di saetta» fa «fondere il rame delle barre, da parere il cerogeno di una candela» (SGF I 252), mentre nella Cognizione gira «tutt’attorno l’oro falso del riccio, che difatti avea fuso, insieme col platino, e anche col ferro: e smoccolàtili anche, giù per la stanga, quasi ch’e’ fussero di cera di candela» (RR I 587).

L’incendio di via Keplero (1930-35) consente alla fantasia dell’autore di avventarsi sulle fiamme con tutte le sue risorse analogiche, connotazioni demoniache in primo piano. L’«arrosto infernale» si concreta in «tanti pipistrelli infuocati» che formano «i petali di quella così sinistra magia», «farfalloni ardenti», e poi ancora in un «volo di talleri affocati che parevano vaporar via dalla zecca maledetta di Belzebù» (RR II 701, 703). Un simile sostrato figurativo giova al fulmine della Cognizione, che presenta fra l’altro l’aspetto di una «palla demoniaca» ed è apostrofato come «farfallone della malora», mentre include nel suo movimento lo stesso verbo intrefolarsi. La predisposizione di Napoleone ad arricchirsi di connotazioni demoniache, come «omettino col diavolo in corpo» o come «nano demonio straniero», può averlo condotto sinergicamente in armonia rappresentativa con i fulmini.

5. Il «Cinque maggio» in filigrana

Il verso manzoniano «di quel secùro il fulmine», insieme alla strofa orchestrata su di esso, si impone prepotentemente alla memoria e alla fantasia gaddiana – sugli indugi memoriali si dilatano spesso gli scatti fantastici – complice la reiterata insistenza dell’ode sui caratteri fulminei di quel grande:

Lui folgorante in solio
Vide il mio genio e tacque;
(vv. 13-14)

Sorge or commosso al subito
Sparir di tanto raggio;
(vv. 21-22)

Dall’Alpi alle Piramidi,
Dal Manzanarre al Reno,
Di quel secùro il fulmine
Tenea dietro al baleno;
Scoppiò da Scilla al Tanai,
Dall’uno all’altro mar.
(vv. 25-30)

La procellosa e trepida
Gioia d’un gran disegno,
L’ansia d’un cor che indocile
Serve, pensando al regno;
E il giunge, e tiene un premio
Ch’era follia sperar;
(vv. 37-42)

Chinati i rai fulminei.
(v. 75)

Le sequenze rievocative in rapida e fulminea successione concorrono al medesimo effetto:

E ripenso le mobili
Tende, e i percossi valli,
E il lampo de’ manipoli,
E l’onda dei cavalli,
E il concitato imperio,
E il celere ubbidir.
(vv. 79-84)

è possibile una lettura in filigrana di interi versi del Cinque maggio nelle pagine della Cognizione. «Cadde, risorse e giacque» si riflette nel continuo cadere e risorgere del fulmine, che «traboccò in cantina, per i buoni uffici d’un tubo di scarico della grondaia medesima, resuscitandone indi come un serpente, intrefolàtosi alla corda di rame del parafulmine piccolo, che aveva viceversa l’incarico di liquidarlo in profondo, sta stupida. E in quel nuovo farnetico della resurrezione»: l’accento batte due volte sul risorse, resurrezione che lo porta antifrasticamente a sbattere contro la rete metallica del pollaio. Analogo ribaltamento ferocemente parodico subisce «scoppiò da Scilla al Tanai, | dall’uno all’altro mar»: lo scoppio, lo sparo formidabile avviene proprio dall’uno all’altro mare, dalla latrina alla bagnarola. Con «tanto fulmine» «appiattito per sempre nella misteriosa nullità del potenziale di terra» si assiste al «subito | sparir di tanto raggio». La risposta al quesito manzoniano «Fu vera gloria?» è in fondo data dal proprietario di Villa Giuseppina: «“Che ce ne impodo io” protestava il vecchio Bertoloni, un immigrato lombardo, “se quel ludro non sapeva neanche lui dove andare?”», perché già in sé il fulminare guerre è insensato. Al medesimo quesito Gadda risponde in Eros e Priapo, scagliando addosso alla gloria patria tanto in auge sotto il fascismo la figura del giovane «spentosi a ventun anno appiè i monti senza ritorno: perché i ciuchi avessono a ragghiare di patria e di patria, hi ha, hi ha, eja eja, dentro al sole baggiano della lor gloria. Che fu gloria mentita» (SGF II 272). «Che fu gloria mentita» è complementare al sottinteso «Fu vera gloria?».

L’idea dell’epico assalto alla villa potrebbe essere stata suggerita di straforo da qualche modello letterario. Possono essere presentati, solo come possibili, tre diversi punti di riferimento. Il primo appartiene all’Orlando furioso, uno dei testi mitici dell’adolescenza gaddiana. L’ottava ariostesca paragona la perlustrazione degli effetti disastrosi di una battaglia alla ricerca del percorso di un fulmine all’interno di una casa, «come alcuno, in cui danno il fulgur venne, | cerca per casa ogni sentier che tenne» (XXVII, 22, 7-8). Nella Cognizione la nota della ricerca per casa dei sentieri del fulmine, anch’esso legato metaforicamente alla guerra, è presente, e con insistenza:

– Furono le diverse perizie che via via permisero di delineare, per successivi aggiustamenti, in un atlante di carta bollata, questo catastrofico «itinéraire». Ciò in un primo tempo. In un secondo tempo, furono le perizie stesse a intorbidar le acque, ossia a mescolar le carte, a un tal segno da rendere impensabile ogni configurazione di percorrenza. Il muratore di villa Enrichetta, con il buon senso proprio de’ paesani, affacciò una sua ipotesi, d’altronde plausibilissima: che l’ultimo indietreggiamento del giallone, così lo chiamò, fosse dovuto al fatto d’aver trovata intasata la canna della latrina; per cui non poté usufruire del passaggio necessario a un tanto fulmine. Ma gli elettròlogi non ne vollero sapere d’una simile ipotesi, e sfoderarono delle equazioni differenziali: che pervennero anche a integrare, con quale gioia del cav. Bertoloni si può presumere. (RR I 588)

Un secondo modello ipotizzabile, ma assai meno probabile, è il terzo dei Frammenti lirici (1913) di Rebora, dove un fulmine scorrazza in assetto di guerra e dà battaglia a campi e ville. (5)

Si potrebbe infine pensare al fulmine di morte che assale una casa in una poesia (6) di Leopoldo Lugones, assai noto negli anni in cui Gadda abitò in Argentina (1922-24). Fra l’altro, il nome Lugones potrebbe aver fornito la base per la traslazione di Lecco in Lukones nella toponomastica della Cognizione. Non sarebbe l’unico caso di attribuzione di nomi di persona a città o viceversa.

6. Illuminazioni autocritiche

Un prezioso inquadramento dei procedimenti espressivi della Cognizione proviene da un testo tanto legato all’opera da seguirla nello stesso volume. La prosa L’Editore chiede venia del recupero, aggiunta in appendice all’edizione in volume, risulta illuminante ai fini della comprensione dell’episodio del fulmine, perché assume categorie interpretative che vengono a corroborare quelle applicate nel corso della presente analisi.

Nella seconda e terza pagina del testo autocritico, all’interno di un percorso esplicativo che riflette simmetricamente l’ordine narrativo della Cognizione, dove l’episodio interessato si trova poco dopo l’inizio, sono presentate soluzioni analitiche che si attagliano con impressionante precisione, anche in termini di corredo esemplificativo, all’interpretazione napoleonica. Per converso, l’intera prima parte della prosa autocritica, senza una lettura così orientata, sfuggirebbe anche a un piano elementare di comprensione. Il metodo rappresentativo è nitidamente messo a fuoco:

La sceverazione degli accadimenti del mondo e della società in parvenze o simboli spettacolari, muffe della storia biologica e della relativa componente estetica, e in moventi e sentimenti profondi, veridici, della realtà spirituale, questa cernita è metodo caratterizzante la rappresentazione che l’autore ama dare della società: i simboli spettacolari muovono per lo più il referto a una programmata derisione, che in certe pagine raggiunge tonalità parossistica e aspetto deforme: lo muovono alla polemica, alla beffa, al grottesco, al «barocco»: alla insofferenza, all’apparente crudeltà, a un indugio «misantropico» del pensiero. (RR I 759)

La storia napoleonica è condensata da Manzoni nel simbolo spettacolare del fulmine e l’accettazione da parte di Gadda del procedimento espressivo, considerato anzi esemplare, induce il trapianto del simbolo dal Cinque maggio alla Cognizione. Che il simbolo spettacolare equivalga a «muffa della storia biologica e della relativa componente estetica» rispecchia il fatto che il generale salti sulla pagina in figura di saetta a immagine del suo fulminare guerre in ogni luogo, preservando la fedeltà della componente letteraria, artistica alla realtà della vita umana. Che il referto sia mosso a «programmata derisione» discende dalla forma rappresentativa adottata nel testo e riflette il travestimento parodico, polemico sino alla beffa, di Napoleone. Non si dimentichi che tanto fulmine finisce in una bagnarola, oggetto prediletto, come informa Gadda, del Napoleone vivente.

I termini dell’operazione parodica sono compiutamente vagliati nel seguito della prosa autocritica. Il metodo espressivo viene illustrato come specchio fedele di una non difforme realtà e l’argomentazione è largamente basata sul Cinque maggio:

Ma il barocco e il grottesco albergano già nelle cose, nelle singole trovate di una fenomenologia a noi esterna: nelle stesse espressioni del costume, nella nozione accettata «comunemente» dai pochi o dai molti: e nelle lettere, umane o disumane che siano: grottesco e barocco non ascrivibili a una premeditata volontà o tendenza espressiva dell’autore, ma legati alla natura e alla storia: la grinta dello smargiasso, ancorché trombato, o il verso «che più superba altezza» non ponno addebitarsi a volontà prava e «baroccheggiante» dell’autore, sì a reale e storica bambolaggine di secondi o di terzi, del loro contegno, o dei loro settenarî: talché il grido-parola d’ordine «barocco è il G.!» potrebbe commutarsi nel più ragionevole e più pacato asserto «barocco è il mondo, e il G. ne ha percepito e ritratto la baroccaggine». (RR I 760)

Le opinioni comunemente accettate sono sottoposte a un processo di ironizzazione, svuotate dall’interno attraverso le relative raffigurazioni, come avviene nella Cognizione con le celebrazioni fulminanti della mentita grandezza di Napoleone. La conoscenza della realtà è possibile solo smascherando le false conoscenze. Il verso «che più superba altezza» è pareggiato alla grinta dello smargiasso come espressione di una realtà grottesca che il Manzoni si è limitato a riprodurre. I due punti e la proposizione consecutiva contigua alla difesa del Manzoni pongono in simmetria la difesa di Gadda dalla stessa accusa, di aver recuperato il simbolo spettacolare del fulmine, sia pure precipitandolo agli inferi del sarcasmo. La colpa viene fatta rimbalzare su quanti, secondi o terzi, hanno permesso con la propria «reale e storica bambolaggine» che Napoleone si comportasse, con effetti deleteri, da fulmine, e in particolare su quanti, «nelle lettere, umane o disumane che siano», ne hanno glorificato le imprese. Il bersaglio è l’epica retorica con i suoi miti.

Gadda tende sin dalle prime opere, in sintonia con la pluralità di piani della propria scrittura, a caricare di venature simboliche le situazioni e gli eventi attraversati. Il castello di Udine (1934), suo secondo libro, è investito di sovrasenso già nel titolo. Al termine della sezione Dal castello di Udine verso i monti, dopo le note numerate, il castello che dà nome al libro si svela figura della patria:

Il titolo è suscettivo di interpretazione simbolistica. Il castello di Udine, il sischièl a Udin, è la momentanea imagine-sintesi di tutta la patria, quasi un amuleto dello spirito. I monti son quelli delle Alpi Giulie, dove il Ns. pensava di solo adempiere ai suoi doveri, e si ebbe la immeritata umiliazione della prigionìa. (RR I 155)

Quand’anche il titolo non fosse così orientato a livello costruttivo primario, resterebbe pur sempre la disponibilità per forme di motivazione simboliche. Tanto più che un’interpretazione siffatta, ancora con l’immagine della patria velatamente postulata dal titolo, avvolge, e stavolta in misura più cogente, un’altra opera, per esplicita ammissione dell’autore in una lettera al cugino Piero Gadda Conti (Gadda 1974c: 82). Le Novelle dal Ducato in fiamme, titolo di una raccolta di racconti, vanno lette in filigrana, secondo la precisa indicazione, Notizie dello Stato del Duce andato a ramengo. Se per il Castello di Udine si potrebbe pensare a una sovra- o postinterpretazione da parte dell’autore, la seconda allusione si impone come costitutiva del significato del titolo, perché è difficile trovare per ducato una spiegazione più calzante di Stato del Duce, mentre la metafora delle fiamme, svelato il clinamen imboccato in Gadda da fenomeni simili, si integra perfettamente come segnale di distruzione.

Introducendo il problema della funzione espressiva del simbolismo, Gadda si era soffermato sui rapporti tra simbolismo ed espressionismo nel saggio I viaggi, la morte, apparso nel 1927 su Solaria e poi nella raccolta omonima. Quando il simbolo «prende addirittura il sopravvento» e il poeta, «lieto dell’invenzione», «si indugia a delinearlo e lo reca a un tale risalto, da farci dimentichi dello sviluppo tematico del poema» (SGF I 575), il simbolista trapassa a espressionista. Col procedimento dell’espressionista, inteso a ricreare la compagine spesso non razionale della realtà attraverso l’intensità del sentimento e l’altezza delle suggestioni espressive, si spiega la libertà di invenzione fantastica presente nelle pagine del fulmine. Il mezzo è una scrittura tenuemente mimetica che sappia raggrumare le cause e i modi dei processi storici senza soffocarne, con linee rigidamente definite, la complessità. Della descrizione dell’incendio di via Keplero non va sottovalutata la «trama criptosimbolica delle cose elettriche» (RR II 702), che, sublimando le fiamme ai limiti di un fenomeno di elettricità atmosferica, allude a una certa disponibilità, tra il magico e il misterioso, dei fulmini.

Merita attenzione la convergenza di tutti gli esempi della prosa autocritica sul materiale narrativo della Cognizione. La lettura tradizionale, non motivata dall’interpretazione proposta in queste pagine, mal si accorderebbe con la rilevanza che vi assume il Cinque maggio:

Riferito all’omiciàttolo Nabulione [sic nell’atto di battesimo] il settenario del grande Manzoni riesce al grottesco, in quanto l’Ei fu, cioè il Più superba altezza, fu notoriamente una superbiciàttola piccolezza: a misurarne il fisico, (fisicuzzo), un riformabile se non riformato alla leva. Che fosse italiano e sveglio, non era buona ragione per chiamarlo una altezza. Il verso, in realtà grottesco, non deve ascriversi a fissazione vale a dire mania baroccòfila di chi eventualmente lo citi o lo riscriva, da riderne un attimo, sì bene a realtà barocca nella storia del lirismo italiano dell’Ottocento. (RR I 760) (7)

La tesi di una priorità storica delle deformazioni presenti sulla pagina letteraria viene sostenuta all’interno delle stesse strutture linguistiche con la corruzione di Napoleone in Nabulione subito assegnata a un certificato legale, che storicamente è l’atto di battesimo. Centrale è il riferimento alla citazione o riscrittura del verso del Cinque maggio, con cui si allude alla propria ripresa e sviluppo del tratto immaginifico del fulmine, sintetizzato da «di quel secùro il fulmine». La valutazione ingrana perfettamente nel contesto di autodifesa. Come, prima, lo scrittore aveva respinto in generale l’accusa di barocchismo, ascrivendo il barocco alla natura delle cose, allo stesso modo giustifica la particolare adibizione dell’ode manzoniana all’interno della Cognizione, scaricando la baroccaggine sulla «realtà barocca nella storia del lirismo italiano dell’Ottocento». Se da una parte Gadda approva l’espressione manzoniana come calco della realtà, dall’altra, assimilandola alla natura retorica del linguaggio poetico ottocentesco e costruendovi sopra l’edificio del giudizio, non può che condannarne gli aspetti celebrativi.

Di esemplare interesse è la trasposizione antonomastica dei versi del Cinque maggio. Napoleone è chiamato l’«Ei fu», il «Più superba altezza», nomi che formano un grado intermedio rispetto alla materializzazione del condottiero in fulmine. Se i versi manzoniani palesano tanta forza rappresentativa da volgersi in veri e propri soprannomi per l’oggetto a cui si riferiscono, non meraviglia che la metafora cardinale dell’ode acquisti la consistenza di una personificazione. In Quando il Girolamo ha smesso fra le precise notazioni, frutto di una lunga consuetudine con la storia napoleonica, s’inserisce l’adozione del verso «di quel secùro il fulmine», in una variante appena mutata dall’eliminazione dell’anastrofe, per designare Napoleone (RR I 336). Le motivazioni non mancano alla scrittura gaddiana, che nella sua densità giunge a ribattezzare, come strumento di giudizio, i personaggi che la attraversano, trasferendo il tradizionale nomina sunt consequentia rerum da una visione naturalistica a una letterariamente attiva.

7. Preesistenza di una metamorfosi

In una nota del racconto Al parco, in una sera di maggio, la designazione si fa più brachilogica, non è più necessario l’intero verso, Napoleone attinge il grado espressivo di «secùro» per antonomasia:

Aveva firmato, rimpetto al secùro, i «preliminari di pace» di Leoben: 18 aprile 1897, lunedì di Pasqua […] [Il Bellegarde] rioccupò la Lombardia quando il secùro fu assecurato, ma non troppo, nell’isola ferruginosa. (Adalgisa, RR I 503)

La forza semantica di «secùro» è amplificata dalla figura etimologica che lo incatena ad «assecurato».

L’incidenza del Cinque maggio in racconti diversi e tuttavia riconducibili a un arco cronologico interferente o contiguo rispetto alla Cognizione si accorda con le sue radici in quest’ultima. Nel quadro dell’adibizione dei tratti ostinatamente fulminei del protagonista dell’ode manzoniana, i «rai fulminei» sono più volte oggetto di attrazione in testi ben lontani nel tempo, segno della persistenza mnemonica che è il miglior fulcro per la trasfigurazione fantastica. La metamorfosi in fulmine è a tal punto operante che i «rai fulminei» assurgono a paradigma di un’intera categoria di sguardi fulminanti, come per esempio in Quattro figlie ebbe a ciascuna regina con «un bel fulminare occhiate da primo console a quei poveri polli di commessi» (Adalgisa, RR I 367). Se Napoleone in figura di fulmine va a sbattere contro il pollaio, la metafora occhifulminea di ascendenza manzoniana non manca di declinare inesorabilmente verso il pollame, termine fisso del descensus parodico. Il dottor Fumi nel Pasticciaccio, in un momento di agitazione epica e di enfasi locutoria, «svolazzò co’ le manocce, buttandole qua e là come fulmini, con gli occhi del fulminatore» (RR II 173).

La persistenza memoriale procura automaticamente nel tempo deformazioni analogiche e costruzioni fantastiche, perché i processi mentali non sono mai neutri verso ciò che li attrae fortemente. Fra gli esempi di adibizione antonomastica del materiale linguistico manzoniano, clamoroso è il caso del Resegone, «totem orografico della manzoneria lombarda» (Dalle specchiere, SGF I 227), che, inciso nella memoria, riaffiora spesso sulla pagina. Esemplare è l’affioramento della seconda parte della Cognizione, con l’esplicitazione etimologica del Serruchon come travestimento linguistico del Resegone:

e dall’animo tenuemente rattristato sarebbero potuti venire alle labbra quei detti, dell’immortale preludio de’ Promessi Sposi: «Talché non è chi, al primo vederlo (il Serruchón) purché sia di fronte, come per esempio, di su le mura di Pastrufazio che guardano a settentrione, non lo riconosca tosto a un tal contrassegno (cioè l’andamento a sega) dalle altre Sierre di nome più oscuro e di forma più comune….». (RR I 721)

Individuando nella battuta iniziale gaddiana il contrassegno memoriale del passo ripreso, si legga quanto segue in Dalle specchiere dei laghi:

Il sauro Talchè non avrebbe mai accentrato su cotali padri lo sguardo jettatore delle sue cuspidi, così come già fecero, sulla trireme alla fonda, le specchiere di fuoco d’oro del maligno Archimede. (SGF I 229)

La congiunzione talché, solo perché innestata in tempo forte nell’ordito sintattico relativo al Resegone, viene proiettata antonomasticamente dalla memoria gaddiana sul nome del monte. La scrittura dei Promessi sposi appare dotata di una tale carica di esemplarità da presentarsi espressiva persino negli elementi più neutri, al di là del loro significato. La congiunzione talché per eccellenza, quella che i processi mnemonici sovrapponevano a ogni adibizione sinsemantica, era il talché del manzoniano Resegone. La selezione ai limiti dell’unicità forma il fulcro attorno al quale la particella congiuntiva si carica, in funzione di tessera segnaletica, della semantica del contesto in cui l’aveva occasionalmente calata il Manzoni.

Tra le trasformazioni del talché e della metafora costitutiva del Cinque maggio corre una stretta parentela. Alla base vi è la straordinaria vicinanza dei testi manzoniani col conseguente dialogo ellittico fra i due scrittori milanesi. Valga come esempio la correzione criptica che Gadda mimetizza nel dettato del Pasticciaccio: «l’odor buono dell’incenso, erogabile (con cuidado) per parsimonioso dondolio del turibolo» (RR II 273).

Il «con cuidado» è animato da intento correttorio verso il Manzoni, che aveva messo in bocca a Ferrer l’errato «con juicio» obliterando la voce esatta cuidado. (8)

Il dialogo intertestuale, pur avendo nel Manzoni un interlocutore privilegiato, coinvolge spesso altri scrittori. Sulla linea dell’allusione correttoria si potrebbero ricordare le esplicite ironizzazioni, nella Cognizione e altrove, del sole con tramonto all’incontrario della Canzone di Legnano. Più rilevante, perché implicita, l’allusione asseverativa che si presenta col canto delle cicale. «Le cicale franàrono nella continuità eguale del tempo» (RR I 633) risponde, per l’impatto onomatopeico di franare rispetto al regolare frinire, all’invito che apre una celebre prosa carducciana, Le risorse di San Miniato al Tedesco:

Come strillavano le cicale giù per la china meridiana del colle di San Miniato al Tedesco nel luglio del 1857!
Veramente per significare lo strepito delle cicale il Gherardini e il Fanfani scavarono dalla Fabbrica del mondo di Francesco Alunno il verbo frinire. E per una cicala sola, che canti, amatrice solinga, sta. Ma, quando le son tante a cantar tutte insieme, altro che frinire, filologi cari!
Come, dunque, strillavano le cicale, etc. etc.! (9)

La creazione linguistica gaddiana sposta su frinire il coro di a assunto in Carducci da strillare, superando la proposta carducciana sulla scala semantica del rumore. Oltre a salvare la specificità di frinire rispetto a strillare, l’impasto di a in «franarono» crea un adeguato sottofondo vocale alla tensione onomatopeica della metafora. Come spesso per Gadda, la decifrazione dell’allusione permette di chiarire la molla degli scatti linguistici.

8. Una negazione permanente

Passando a una serie di riprese del Cinque maggio che configurano in misura più completa la lettura gaddiana dell’ode, lo stravolgimento comico della «deserta coltrice» nel Pasticciaccio cancella l’illusione che il povero Napoleone venga lasciato in pace almeno sul nobile materasso:

A quell’ora doveva essere di certo a letto, e col naso più goccioloso che mai, berretto a calza tirato giù fin sul collo e sugli occhi: impolpato dentro il letto de la nonna sotto pingue strapunto e su polputa ma deserta coltrice, la più adatta, e la più ambita da un polpettone di quel calibro. (RR II 140)

La «deserta coltrice», di espressione tanto eletta, finisce «polputa» sotto un «polpettone» di commendatore «impolpato», franando stilisticamente. Agli occhi severi di Gadda, si era forse, come la zucca ariostesca, levata troppo in alto. Lo scenario aereo, quasi rarefatto, dell’ode scade a immagine di goffa quotidianità. Il poliptoto di polpette, poi, è impagabile.

Nemmeno il trapasso del condottiero, scandito in lapidaria maestà dal memorabile incipit, sfugge al tagliente scarto della caricatura. L’«Ei fu» viene assunto in Divagazioni e garbuglio, straripante di consunti ricordi letterari, a rimprovero delle malefatte extraconiugali di Zeus, «che s’invaghì di tutte e di tutti appena vederli dacché altro non sapeva fare che concupire, immorituro lazzarone che Ei fu» (SGF 1221).

I versi manzoniani non sono solo il pretesto per un attacco a Napoleone. Tanta critica ha saturato l’ode di sensi reconditi e di valori poetici, infastidendo Gadda, come indica proprio per la celebrata pausa dopo l’«Ei fu», l’ipotesi, in La battaglia dei topi e delle rane (1959), che «se all’autore del Cinque Maggio fosse caduto di penna un bel gocciolone dopo Ei fu, quel pataffio color castagna rimarrebbe sull’eterna pagina documento inestimabile della pietà, della commozione del Genio» (SGF I 1164). Tra le righe l’ironia colpisce certe impennate magniloquenti dell’ode: «sull’eterna pagina» ricalca il «sull’eterne pagine» delle memorie non scritte di Napoleone, mentre la «commozione del Genio» compendia «Vide il mio genio e tacque» e «Sorge or commosso al subito | Sparir di tanto raggio». L’aspetto linguistico della polemica gaddiana si accentra sulle espressioni non sostenute da adeguato impegno rappresentativo, tanto indebolite da rasentare la contraddittorietà. Nel saggio citato da ultimo, a favore dei poeti dialettali in quanto espressivi, vengono mostrate le pecche dei poeti in monolingua con l’esemplificazione di parecchi svarioni, cioè, in termini di metodo, dilatando i limiti sino al paradosso in funzione di una maggiore evidenza (tecnica della colorazione o del microscopio). Gli esempi sono carducciani, uno del Prati, e diversi del Cinque maggio. In margine a «Né sa quando una simile | Orma di piè mortale | La sua cruenta polvere | A calpestar verrà», viene annotato:

Noi poi, dico noi… mostro plurilingue, nemmeno ci spieghiamo come l’orma del piede di Napoleone possa calpestar la polvere della terra, visto che a calpestar la fanga e la polvere è il piede stesso e non l’orma, che è, se mai, una conseguenza del pestare, cioè un odore (ὀσμή) del piede. Al sentir poi che il Napo fu a sua volta l’orma (e dàlli con l’orma!) dello spirito creatore di Dio sulla terra, si entra malgré nous in tutto un visibilio di considerazioni e di illuminazioni teologico-napoleonico-pedagne, anche se ci sovvenga di Dante: «e mani e piede – attribuisce a Dio e altro intende». (Battaglia dei topi, SGF I 1167-168)

Con l’ultimo periodo entra in gioco «Chiniam la fronte al Massimo | Fattor, che volle in lui | Del creator suo spirito | Più vasta orma stampar». Risulta inaccettabile l’inserimento, sia pure generico, di Napoleone nei disegni divini, ma l’opposizione di Gadda coinvolge la stessa grandezza, esaltata nell’ode per la sfera militare con la sospensione del giudizio morale:

Al sentir titolare il Napo di «superba altezza» si riman di stucco, visto ch’Ei fu, se mai, una superba piccolezza. Superba altezza si sarebbe potuta salutare più agevolmente Sua Maestà Sarda, il re Carlo Alberto, che misurò sulla predella della leva centimetri 202: venti più di Nui. (SGF I 1168)

«Nui» è ovviamente Gadda. Solo una lettura ingenua può fermarsi alla derisione fisica. Il giudizio manzoniano di «superba altezza» concerne l’opera e non la statura. La valutazione dell’opera permane in Gadda sul piano fisico e va apprezzata percorrendo a ritroso l’operazione ironizzante, che, come indicano ulteriormente il «visto ch’Ei fu» e il «più di Nui», trae ingredienti dal linguaggio dell’ode. «Superba altezza» è capovolto in «superbiciattola piccolezza» in un passo prima citato della prosa autocritica. La deformazione in «Napo», indice di una certa familiarità, partecipa alla condanna. Con intransigenza etica assoluta non è ammessa grandezza tout court per Napoleone. L’appellativo di nano, e la pattuglia di varianti adiafore capitanata da piccinella, con la loro frequenza più che significativa instaurano una negazione permanente.

Sotto le deformazioni in Nabulione, Napo, e l’intercambiabilità dei nomignoli denigratori, traspare la condanna di Napoleone, che, in quanto figura negativa, viene privato anche del nome. Allo stesso modo Gadda aborrirà sempre dal nominare direttamente Mussolini, accanendosi in epiteti feroci. Agli abissi del male risponde il silenzio, più duro d’ogni macigno. Per dirla con Dante, «la sconoscente vita che i fé sozzi, | ad ogne conoscenza or li fa bruni» (Inf. VII, 53-54).

9. Dante, Carlyle, e Hugo

Dietro il Gadda giudicante si intravedono in dissolvenza tre giudici implacabili della storia del loro tempo: Dante, Carlyle e Hugo. Dantesca è l’idea del contrappasso metamorfico, che non si esaurisce con la metempsicosi, o, per meglio dire, metensomatosi, di Napoleone in fulmine, ma continua per maggiore scherno nell’instabilità di forme senza requie. Il fulmine, infatti, si abbatte sul parafulmine più basso, rimbalza indietro come palla demoniaca sul parafulmine più alto, di cui, assumendo figura ovale, fonde l’estremità, gironzola come un farfallone per il tetto, fa il funambolo e il sonnambulo sino a finire nel tubo di scarico della grondaia, resuscita in forma di serpente per disintegrarsi nel nulla.

Thomas Carlyle aveva ridotto l’epopea napoleonica alla fiammata di un attimo, quasi a svelare la controparte effimera della tradizionale rappresentazione fulminea:

Che fu dunque l’opera di Napoleone, a malgrado di tanto scalpore? Uno sprazzo come di polvere da fucile largamente sparsa; una fiammata come di eriche secche. Per un’ora, l’universo intero sembra avvolto dal fumo e dalle fiamme; ma per un’ora soltanto. (10)

A Victor Hugo risale un altro fondamentale processo letterario a Napoleone I con il lungo componimento L’autorité est sacrée, compreso nell’ininterrotto assalto a Napoleone III che sono Les châtiments. La visione macabra della disfatta di Russia, l’annientamento a Waterloo, la morte imminente vedono Napoleone chiedere a Dio se si tratti del suo tremendo castigo: tre volte la voce divina risponde di no. La punizione più amara lo attende nel sonno eterno della morte, quando lo travolge la visione del Secondo Impero di Napoleone III, la più sinistra e feroce parodia della propria grandezza: (11)

Une nuit, – c’est toujours la nuit dans le tombeau, –
Il s’éveilla. Luisant comme un hideux flambeau,
D’étranges visions emplissaient sa paupière;
Des rires éclataient sous son plafond de pierre;
Livide, il se dressa, la vision grandit;
O terreur! une voix qu’il reconnut, lui dit:
– Réveille-toi. Moscou, Waterloo, Sainte-Hélène,
L’exil, les rois geôliers, l’Angleterre hautaine
Sur ton lit accoudée à ton dernier moment,
Sire, cela n’est rien. Voici le châtiment:

La voix alors devint âpre, amère, stridente,
Comme le noir sarcasme et l’ironie ardente;
C’était le rire amer mordant un demi-dieu.

– Sire! on t’a retiré de ton Panthéon bleu!
– Sire! on t’a descendu de ta haute colonne!
– Regarde: des brigands, dont l’essaim tourbillonne,
D’affreux bohémiens, des vainqueurs de charnier
Te tiennent dans leurs mains et t’ont fait prisonnier.
A ton orteil d’airain leur patte infâme touche.
Ils t’ont pris. Tu mourus, comme un astre se couche,
Napoléon-le-Grand, empereur; tu renais
Bonaparte, écuyer du cirque Beauharnais.
Te voilà dans leurs rangs, on t’a, l’on te harnache.
Ils t’appellent tout haut grand homme, entr’eux, ganache.
Ils traînent, sur Paris, qui les voit s’étaler,
Des sabres qu’au besoin ils sauraient avaler.
Aux passants attroupés devant leur habitacle,
Ils disent, entends-les: – Empire à grand spectacle!

Non vengono risparmiati al condottiero giudizi senza appello come «Le nom grandit quand l’homme tombe» o «Cet homme étrange avait comme enivré l’histoire; | La justice à l’oeil froid disparut sous sa gloire». Gadda accoglie il suggerimento di Victor Hugo, trasferendo la punizione storica a condanna letteraria con la parodia del Cinque maggio. Anche parte dell’armamentario di insulti, nano al primo posto, riservato da Hugo a Napoleone III, potrebbe essere passato in Gadda per Napoleone I.

10. Una presenza latente

Napoleone affiora spesso e in difformi maniere sulla superficie delle varie opere gaddiane, tranne nella Cognizione, dove, senza la rivelazione della metamorfosi, apparirebbe inspiegabilmente assente, tanto più che non sfuggono all’inquisizione di Gonzalo i ben più innocenti Garibaldi, Washington, Moreno, Belgrano, Tamerlano, per non citarne altri. Le maggiori responsabilità del Bonaparte nel tessuto narrativo di un’opera segnata dalla guerra cancellano anche possibili epiteti sostitutivi e ne soffocano la presenza nei limiti della veste metaforica o metonimica. Se non comparisse in figura di fulmine, adempiendo una celebre metafora poetica a lui rivolta, sarebbe mancata una presenza necessaria, sia pure nei modi capovolti del più flagrante contrappasso. L’annientamento del fulmine in una bacinella va oltre l’azzeramento del nome.

Se si vagliano testi sottesi da un arco cronologico interferente o contiguo alla scrittura della Cognizione, il Bonaparte risulta adeguatamente rappresentato nelle note dei disegni milanesi dell’Adalgisa. A differenza della Cognizione, il Castello di Udine e l’Adalgisa incorporano nei propri testi un apparato di note che svela linee referenziali condensate dalla prosa in accenni rapidi e molto spesso criptici. La peculiarità della Cognizione, che preserva intatta la progressione per referenti più o meno velati, a indizi concatenati, è salva anche nei due spezzoni in comune con l’Adalgisa, le cui note sono assai ridotte rispetto alla media. Le stesse note tendono comunque a spiegare in minima parte i testi, come dimostra l’equivoco interpretativo di Devoto su un passo del Castello di Udine e l’intervento chiarificatore di Gadda in Postille a una analisi stilistica (SGF I 815-23, in particolare 816 sgg. con l’illustrazione del velo della reticenza come cecidere manus). Che sia l’Adalgisa, l’opera più vicina in più sensi alla Cognizione, a lievitare un interesse particolare per il condottiero, aggiunge un ulteriore supporto alla centralità che la presente analisi gli affida all’interno della Cognizione. La quantità di materia napoleonica nell’Adalgisa sarebbe tale da alterare irrimediabilmente la fisionomia dei racconti: per motivi di economia interna, quindi, Gadda le concede di straripare nelle note.

Napoleone è nella Cognizione una presenza latente, tanto più centrale quanto più velata. Un affioramento metonimico libera un’altra epifania. Tra i fatti militari universalmente noti, elencati nella prima parte dell’opera, due sui tre del totale sono napoleonici:

Tutti ripetevano «l’azione di quota 131, l’azione di quota 131», come si trattasse d’un fatto universalmente noto, Waterloo, Aboukir, Porta Tosa. (RR I 578)

Waterloo e Aboukir, le più disastrose sconfitte di Napoleone. Fra tanti trionfi – sarcasmo impera – le disfatte. Il giudizio di colpevolezza trapela dagli accenni a prima vista più innocui. Lo scrittore non riesce a restare neutrale nei confronti dell’oggetto negativo nemmeno nei riferimenti più neutri. E accanto agli insuccessi dell’odiato imperatore, a moltiplicare lo scherno, le vittoriose Cinque Giornate, simboleggiate da Porta Tosa. Quasi a vendicare la sua città, con la contiguità più lacerata, di quanto subì da Napoleone.

Frammento di storia, la corona ferrea partecipa a un affioramento tanto criptico quanto laterale:

Si riabbandonava al suo delirio. Idee coatte cerchiavano quel cranio della loro corona di ferro. (RR I 645)

La corona ferrea si carica, per effetto della frase «Dio me l’ha data, guai a chi la tocca», di intoccabilità e ostinata persistenza, mentre «coatte» palesa sul piano denotativo la connotazione storica. Affioramento laterale, in quanto contenuti di incontenibile attualità per la memoria si liberano arbitrariamente sulla pagina in contesti a loro estranei. La nota napoleonica di Quando il Girolamo ha smesso informa dettagliatamente sulle cerimonie delle due incoronazioni, parigina del 2 dicembre 1804 e milanese del 26 maggio 1805, riportandone gli antefatti assieme alla prima fase della scalata al potere (Adalgisa, RR I 331-36). Alla storia della corona ferrea è concesso un inserto, mentre un turbinio di personaggi si agita nella nota con minuzia di riferimenti.

11. Milano contro Napoleone

Se i testi gaddiani non testimoniassero una conoscenza approfondita e un interesse sempre desto per la persona e l’opera di Napoleone, ne farebbero fede le opere storiche che lo riguardano nella biblioteca personale dello scrittore. (12) L’occhio con cui Gadda vede Napoleone è della più autentica tradizione milanese. Depositari ne sono, fra l’altro, i libri di Raffaello Barbiera, che vantano pubblicazioni dal 1895 al 1940 nella biblioteca gaddiana. (13)

Carlo Porta e la sua Milano è in realtà un libro su Napoleone, con molte pagine sugli insuccessi più disastrosi. Emerge la sagoma del condottiero carnefice, che, perso dietro la vanità e l’ambizione in ebbri sogni di gloria e di potenza (Barbiera 1921: 256-57), perde il senso della realtà, disseminando il suo cammino di «inutili eroi» (266), costringe il suo esercito alle morti più atroci – per gelo, per fame (265-66) – e alle atrocità più impensabili, se pezzi di cadaveri gelati otturano le fessure delle capanne durante la campagna di Russia (256).

La descrizione del passaggio della Beresina è piegata dal dolore alla smorfia, a tratti grotteschi. Vigliaccheria, cinismo e dileggio sopra i sacrificati (Barbiera 1921: 270) si combinano nella miscela adatta per la figura più nera della storia. Nel quadro delle reazioni negative seguite al disastro di Russia in Europa e soprattutto a Milano, «Ingrossa la bufera d’odio contro Napoleone» (282) apre il sommario del capitolo XX. Tra i fieri oppositori le personalità più rappresentative della cultura milanese: Porta (277-78), Manzoni (300); e l’intera cittadinanza: vola dal balcone il «ritratto di Napoleone, dipinto da Andrea Appiani con le insegne sovrane» (289). I motivi di odio non mancavano certo. Gli scontri c’erano stati, e feroci:

Negli orrendi giorni, quando Binasco e Pavia osarono ribellarsi all’invasione francese e furono perciò il primo, per cenno del Bonaparte, orribilmente incendiato, e Pavia abbandonata al saccheggio e alla strage. (Barbiera 1921: 51)

Implacabile è la requisitoria contro Napoleone, si moltiplicano le testimonianze che lo dicono ladro (Barbiera 1921: 91, 259).

Il rigore dell’inquisizione del Barbiera, su cui convergono la cultura e la tradizione lombarda, non poteva non trovare l’assenso di Gadda, che di certo assimilò le sue pagine con la massima attenzione. Anche il riguardo portato agli aspetti della realtà dove il grottesco si mescola al tragico (Barbiera 1921: 259, 270) collima perfettamente con la posizione di chi, nella prosa autocritica che accompagna la Cognizione, si era proposto «una lettura consapevole (da parte sua) della scemenza del mondo e della bamboccesca inanità della cosiddetta storia, che meglio potrebbe chiamarsi una farsa da commedianti nati cretini e diplomati somari» (L’Editore, RR I 761). I resoconti storici del Barbiera sono quanto di più lontano dalla storiografia tradizionale tanto odiata da Gadda. Capovolgendone i termini, si avvicinano per converso al modello storiografico auspicato, e delineato nella sua pars destruens, nell’appena citato testo autocritico:

La storiografia, poi, che sarebbe lo specchio, o il ritratto, o il recupero mentale di codesta «storia», adibisce plerumque all’opera i due diletti strumenti: il balbettio della reticenza e la franca sintassi della menzogna.

Su chi ricorda di Napoleone la sequenza trionfale di vittorie e lo celebra come inarrivato fulmine di guerra cade la condanna, e l’analisi gaddiana, ben altrimenti implacabile, ne vuole messi in luce altri aspetti, contemplanti l’immane macello di vittime umane, che dovevano giungere in onde di straziata memoria all’attore e spettatore di una guerra mondiale. Il mito napoleonico, come la costruzione di qualsiasi altro mito sul sangue dei sacrificati, non può che essere oggetto di disperata negazione da parte di Gonzalo. E la prosa autocritica ne registra lucidamente, senza la partecipazione troppo coinvolta dello hidalgo, l’opposizione:

La carica idolatrante di molti autori (in senso latissimo e nel confronto de’ pochi o molti lor idoli) la carica idolatrante de’ varî ambienti del mondo, delle varie culture, de’ varî ammassamenti di persone o di genti, delle varie opinioni o delle varie condizioni di vita o di fatto che sogliono condizionare il giudizio umano, viene a conferire un supervoltaggio ausiliare alla bugia e alla reticenza storiografica. (RR I 761-62)

Ancora una volta, pur non nominando Napoleone, se ne sottende chiaramente l’esempio.

Quanto la polemica fosse sentita, traspare fra l’altro dalla recensione a Gagliarda del cugino Piero Gadda Conti, rimproverato di un’irrisione leggera e quasi scherzosa al Bonaparte invece della doverosa bestemmia verso chi ha dissanguato l’Italia (e non solo) di vite e di ricchezze (Gadda 1974c: 30). Si ricordi che Gonzalo «sarebbe trasceso alle bestemmie ch’ella non poteva udire: ad accuse troppo vere, forse, per essere udibili» (RR I 686) contro il generale Pastrufacio, parente parodico di Napoleone, mentre in Impossibilità di un diario di guerra l’autore vedeva le «orrende bestemmie trasfigurare gli emunti e i sacrificati» (RR I 135).

Un passo del libro del Barbiera procede oltre la configurazione tradizionale e fa di Napoleone, con l’autorità di una consecuzione reale di eventi, il colpevole indiretto di tutte le vittime della prima guerra mondiale, ingigantendone la paradigmaticità di condottiero-carnefice. Già la sua figura possedeva i requisiti per simboleggiare la perversa razza dei generali italiani, come traspare fra le linee della consueta antonomasia in Impossibilità di un diario di guerra, quando Gadda giudica che molte sofferenze si sarebbero potute evitare con «meno Napoleoni sopra le spalle» (RR I 142). Con l’ulteriore connessione, poi, diventa l’assassino del fratello dello scrittore e di tutti i caduti:

Napoleone volle battezzarla col nome di Repubblica Cisalpina il 29 giugno là nella villa di Mombello sulla pianura milanese, proprio dove errano ora raccolti i pazzi della provincia. E in quella villa lo stesso Bonaparte ordì l’infame trattato di Campoformio, che gettò la Venezia, l’Istria, la Dalmazia tra le braccia dell’Austria; quel trattato cagion di tante guerre nostre, di tanti lutti, lutti anche di ieri, anche d’oggi. (14)

I due tempi di morte delle campagne napoleoniche e della guerra mondiale si fondono in uno, preludendo a uno schema tipicamente gaddiano, perché, come recita l’Apologia manzoniana, «il continuo riferimento del male antico al nuovo aumenta la risuonanza tragica di ogni pensiero» (SGF I 679).

Liceo scientifico «F. Buonarroti», Pisa

Note

1. Medesimo orientamento nella «Beppina sans-culotte» (Cognizione, RR I 643).

2. Maria Antonietta è presente col rilievo antonomastico di regina in I ritagli di tempo dell’Adalgisa (RR I 412).

3. Una commossa agnizione dei diari di guerra svela una lunga consuetudine con la musica di Beethoven (SGF II 793). Nell’incompiuto e postumo Racconto italiano Beethoven compare come indiscusso esempio di grandezza (SVP 470). In Novella seconda il personaggio di Denira, parzialmente esemplato su alcuni caratteri autobiografici, si arricchisce della conoscenza del pianoforte e della vita dei grandi musicisti. Con l’allusione al genio e al dolore di tanti compositori, s’impone al ricordo l’archetipo beethoveniano, che rivive anche in un personaggio della Meccanica, «buon suonatore di pianoforte» (RR II 539) e dolorosamente prossimo alla sordità. La musica come la letteratura. Se la scrittura prima di passare alla pagina dev’essere vissuta, come afferma più volte programmaticamente Gadda, essa forma un binomio inscindibile con la vita da cui è sorta e quindi va conosciuta e approfondita come un’opera parallela alle scritte. Inoltre, la comprensione dell’opera, senza la complementare conoscenza della vita, rischia di riuscire superficiale, e viceversa. La biografia dei musicisti, come quella degli scrittori, è oggetto di vivo interesse. Nella stessa Novella seconda, in una pagina di suggestivo incontro tra musica e letteratura, affiora un brano musicale della quinta sinfonia a commento e simbolo di una disastrata condizione esistenziale (RR II 1065). Il disegno milanese Un concerto di centoventi professori illumina, tramite lo spiraglio di una similitudine, la competenza tecnica di Gadda in materia beethoveniana: «Né il solitario e lirico amico, una specie di clarinetto-cucùlo in tanta abbondanza di mano d’opera, in simile pluralità di stabilimenti sull’Oglio, e di anonime concatenate» (RR I 467). E alla nota: «Clarinetto-cucùlo». Nel secondo tempo della sesta sinfonia di Beethoven, le due note del cucùlo sono sostenute dal clarinetto, il chioccolìo della quaglia dall’oboe, il canto dell’usignolo dal flauto» (RR I 479).

4. La monumentale biografia di Beethoven, a cui fanno riferimento tutte le successive e da cui è dedotto l’evento in questione, è di A.W. Thayer, The Life of Ludwig van Beethoven, edited, revised and amended from the original English manuscript and the German editions of Hermann Deiters and Hugo Riemann, concluded and all the documents newly translated by Henry Edward Krehbiel (New York: Beethoven Association, 1921), 3 voll.

5. La lirica citata qui di seguito è tratta da C. Rebora, Le poesie 1913-1957, a cura di V. Scheiwiller, con una nota di G. Mussino (Milano: Scheiwiller, 1982):

Dall’intensa nuvolaglia
giù – brunita la corazza,
con guizzi di lucido giallo,
con suono che scoppia e si scaglia –
piomba il turbine e scorrazza
sul vento proteso a cavallo
campi e ville, e dà battaglia;
ma quand’urta una città
si scàrdina in ogni maglia,
s’inombra come un’occhiaia,
e guizzi e suono e vento
tramuta in ansietà
d’affollate faccende in tormento:
e senza combattere ammazza.

Un altro condottiero della Cognizione, il generale Pastrufacio, si comporta in fondo come il fulmine di Rebora, definito, con immagine carducciana, come «il libertador delle pampe ventose, dove ci scavallava come un monsone, con il fazzoletto al collo, e di tutta la piana preandina» (RR I 663).

6. Il componimento La borrasca fa parte (XVII) delle Romanzas del buon invierno nella raccolta Las horas doradas. Le citazioni sono tratte da L. Lugones, Obras poeticas completas (Madrid: Aguilar, 1959):

Tinieblas, campaña, aposento,
Abisma en su helada pavura
El ámbito enorme del viento.
Bajo una haraposa negrura,
Con ayes sobrenaturales
Se lamenta la noche en tortura.
Flota un lampo entre densos raudales:
Parpadeo de lívido arrasa
De llanto los tenues cristales.
El ímpetu asalta la casa
Con más furia. Sacude más fuerte
De pronto, un silencio. Algo pasa…
Nada… Sombra… Quizá era la muerte.

7. Nell’ultima proposizione ho corretto «sì bene e realtà barocca» in «sì bene a realtà barocca». La correzione più economica sarebbe «sì bene è realtà barocca». A favore della soluzione sintatticamente più fluida sta però la simmetria argomentativa e stilistica con «la grinta dello smargiasso, ancorché trombato, o il verso “che più superba altezza” non ponno addebitarsi a volontà prava e “baroccheggiante” dell’autore, sì a reale e storica bambolaggine di secondi o di terzi, del loro contegno, o dei loro settenarî» (RR I 760) di tre periodi prima.

8. Anche a quest’errore alludeva Gadda (cfr. SGF I 601) dicendo del fascino esercitato sul Manzoni dallo spagnolo giusto e dallo spagnolo sbagliato (SGF I 1174). Per le inesattezze dello spagnolo del Manzoni cfr. A. Morel-Fatio, L’espagnol de Manzoni, in Bulletin italien, I (1901): 207-12; E. Mele, Spagnolo, spagnolismi e Spagna, in Fanfulla della Domenica (19.7.1908).

9. G. Carducci, Confessioni e battaglie, in Edizione nazionale delle opere di G. Carducci (Bologna: Zanichelli, 1937), xxiv, 15.

10. La citazione è tratta dalla quarta edizione di T. Carlyle, Gli eroi, trad. e note di M. Pezzè Pascolato, con prefazione di E. Nencioni (Firenze: Barbèra, 1907), 318.

11. Le citazioni sono tratte da V. Hugo, Les Châtiments. Les Contemplations, in Oeuvres poétiques, édition établie et annotée par P. Albouy (Paris: Gallirmard, 1967), ii.

12. Le opere sono in ordine di pubblicazione:

a) J. Bainville, Napoléon (Paris: Fayard, 1931);
b) L. Madelin, Napoléon (Paris: Dunod, 1934);
c) H. Lowe, Il contromemoriale di Sant’Elena (Milano: Bompiani, 1938);
d) L. Salvatorelli, Leggenda e realtà di Napoleone (Roma: De Silva, 1944);
e) P.-P. Ségur, Napoleone in Russia (Milano: Rizzoli, 1950);
f) V. Hugo, Napoleone il piccolo (Milano: Feltrinelli, 1952).

Se queste monografie coinvolgono Napoleone direttamente, costituiscono comunque solo un piccolo sottoinsieme dei testi di cui è protagonista, fatto riguardo anche alla massiccia presenza di opere sulla storia francese.

13. I testi in questione sono:

a) Il Salotto della Contessa Maffei (Milano: Treves, 1895);
b) Immortali e Dimenticati (Milano: Cogliati, 1901);
c) La Principessa Belgiojoso (Milano: Treves, 1902);
d) Carlo Porta e la sua Milano (Firenze: Barbèra, 1921);
e) Passioni del Risorgimento (Milano: Treves, 1929);
f) Diademi (Milano: Garzanti, 1940).

14. La centralità rivestita da Campoformio fra i tempi semantici della storia scelta da Gadda si traduce in termini di scrittura un una nota di Al parco, in una sera di maggio: «Aveva firmato, rimpetto al secùro, i “preliminari di pace” di Leoben […]. Questi s’erano perfezionati nel trattato di Campoformio, (17 ottobre 1797), oggi Campoformio, alt. s. m. metri 77, a 8 chilometri da Udine» (Adalgisa, RR I 503). La nota si diffonde ampiamente sui perniciosi effetti del trattato.

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859

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framed image: after a detail from El Greco, View of Toledo, The Metropolitan Museum, New York.

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