Il filo della storia. «Tessitura» della trama
e «ritmica» del tempo narrativo
fra Manzoni e Gadda*

Corrado Bologna

Chi sa legare bene non ha né corde né nodi eppure niente può essere disfatto

Tao tê ching, XXVII

Conosco il filo teso su cui questa progenie è infilata: il filo del filo io conosco […]

Atharvaveda-samhita, X 8, 38

«La sorte dei mortali, che solo più tardi conoscono i singoli percorsi, e i presagi e le sofferenze, e il destino che gli dèi preparano loro – il mio “tessuto” la rivelerà»

Oracolo della Sibilla, citato da Flegonte di Tralle

Il mio cervello è ridotto una matassa, un gomitolo […]

Virginia Woolf, Diario

[…] una rete crescente e vertiginosa […] di tempi divergenti, convergenti e paralleli

J. L. Borges, Il giardino dei sentieri che si biforcano

1. La grande «metafora di testo», metafora assoluta (1) che associa per isomorfismo la scrittura e la tessitura cifrando mediante le procedure organizzative della prima i movimenti creativi della seconda, è stata finora portata alla luce in sistemi lirici di alta densità allegorica e complessità struttiva (i canzonieri di Petrarca e dei petrarchisti) (2) come indice o emblema, per mise en abyme, della stessa forma testuale, della sua sistemazione connotata in quanto «storia», diegesi modulata in una trafila unitaria di «tempi narrativi» lungo la sequenza di liriche in sé autonome rispetto alla macrostuttura. (3)

Ma anche al di qua della frontiera diegetica, di per sé le immagini della filatura e dell’intreccio di fili diversi si moltiplicano in veste di metafore del testo, icone del va-e-vieni con cui la spola linguistica dissemina il senso nel doppio registro orizzontale e verticale dei segmenti prosodici che sono i versi imbricati (l’antico entrebescamen provenzale), lungo la «versura», (4) dalla trama variata della loro sequenza. Questo avviene in particolare nella grande poesia classica e manieristica, e finisce per sovrapporre alle idee-figura del telaio, del filo e della trama quelle affini del nodo, della rete, del gomitolo, e in parte anche a quella connessa (come si dirà) del labirinto. Alla metaforica corrisponde altresì, storicamente, la mitologia. E sui due piani la tessitura di una tela può equivalere all’equilibrata, armonica costruzione di un edificio: entrambe, quindi, divengono figure dell’opus tessile-architettonico da cui si genera il Testo poetico, luogo artificiale ove si giocano senza riserve il rischio di smarrire la «diritta via» e la fatica fabbrile di ridisegnare nello smarrimento il franto ma coerente percorso della salvezza, il filo verso il vero. (5)

Si guardi all’allegoria e contrario: non senza ratio anche ideologica griphoi, reti, erano definiti in antico gli indovinelli mortìferi della Sfinge, il cui nome veniva connesso alla radice del verbo sphínghein, legare; (6) così l’amechanía, l’immobilità stuporosa, di Alessandro Magno dinanzi all’enigmatico Nodo di Gordio gli impedisce a lungo di riconoscere l’arché, l’origine e il principio del filo, quindi di adempiere il proprio destino, (7) per il quale «la spada è altrettanto essenziale che il nodo»: (8) giacché non solo alla cosmologia e alla poesia, ma al pensiero e alla prassi della politica vengono estesi metafora e mito «della tessitura e del tessuto». (9) Né di certo è indifferente che il mitologema dedalico coinvolga in diverse, contrapposte modalità il tema del filo: il filo a piombo è fra gli strumenti enumerati da Plinio (n. h., VII 198) tra le innovazioni dovute all’architetto Dedalo dotato di mètis, (10) ambiguo ma retto «inventore di parecchi strumenti utili alla sua arte» (Diod. Sic., IV 76); ed è ancora ideato da lui il filo, luminoso diadema stellare, che Arianna sa svolgere e riavvolgere per accendere il Senso nell’oscurità complicata del Labirinto:

la préoccupation de tirer au cordeauepì stàthmen ithúnein – constitue le souci majeur du tecton daidalos. C’est la notion de rectitude qui est fondamentale dans cette opération. Il s’agit de tailler des poutres droites et de les assembler à la perpendiculaire. […] Créateur de forme et de beauté, l’artisan est fabricant d’illusion. Ses œuvres, qui émerveillent dans leur vérité saisissante, sont artifice et mensonge. […] L’art, qui donne forme à la matière et l’embellit, falsifie. L’artiste est maître en contrefaçons et subterfuges.

Ce constructeur d’engins et d’artifices se qualifie souvent par la rectitude, charpentier qui mène droit son rabot, ou pilote audacieux qui se fraie dans les airs une route rectiligne. Mais il sait aussi tresser des filets ondulants ou tracer les entrelacs d’un dédale tortueux, d’une danse sinueuse, polymorphe lui-même comme le fil dont il invente deux aspects antithétiques, le fil à plomb rigide, le peloton d’Ariane apte à suivre les méandres du Labyrinthe ou les spirales d’un coquillage. (11)

Anche la mitica gara di tessitura fra Aracne e Minerva ricordata da Ovidio (Met., VI 1-145) come esempio di sfida cosmogonica e antiolimpica supremamente arrogante, il cui esito è difatti il suicidio per impiccagione e la metamorfosi teratologica della donna-ragno, si incentra sull’orditura/tramatura in fili dorati di «antiche storie» degli dèi («[…] et vetus in tela deducitur argumentum […]», v. 69): opera visualizzata e descritta in maniera speculare, attraverso la competizione verbale del poeta maestro della maniera, con evidente richiamo alla poetica oraziana dell’ut pictura poesis.

Al pari dell’ingannatrice Penelope (Odissea, II 88), il «buon testor degli amorosi detti» che si è «smarrito» (Petrarca, Canz., XXVI 10-11) ritrova la sua diritta via invertendo la rotta, ricantando proprio lo smarrimento e così ordendo sul palinsesto dell’antica dismessa una «tela novella» (ivi, XL 2). All’ingannevolezza del discorso in ambiguo equilibrio tra finzione e verità, (12) che la poesia svolge piegando la linearità del senso nella rete delle svolte versali, sembra soprattutto annettersi la metafora tessile-architettonica. A questa intrinseca ingannevolezza fa cenno, visualizzandola, il moto labirintico e bustrofedico delle versure che scandiscono il ritmo annodando la rete del testo poetico, e quindi alterano il flusso della narrazione vera, quella della prosa lineare come un filo ininterrotto.


2. Mai finora, se qualcosa non mi sfugge, si è invece tematizzata la presenza e la funzione genetico-testuale della figurazione tessile in àmbito prosastico, ove la sua pertinenza appare in linea teorica ancor più limpida, anche tecnicamente congrua, dal momento che il filo del discorso sembra replicare con plasticità, nella trasposizione retorico-linguistica, l’inattingibile, complessa e molteplice «nuda verità» (13) degli eventi, cioè il filo della storia.

Proprio giustapponendo (almeno nelle intenzioni) grazie alla concatenazione diegetica vero e falso, finzione e realtà, la fabulazione romanzesca vorrebbe garantire la coesistenza dei molti punti di vista e dei molti discorsi in un solo intreccio. Non è affatto casuale che all’allegoria della filatura-e-tessitura come metafora diegetica ricorra, con un’autocoscienza di metodo denunciata dall’impressionante quantità e qualità di puntuali occorrenze, proprio l’autore che più acutamente approfondisce, sulle soglie del moderno, il problema del romanzo come macchina testuale in grado di ri-produrre entro la sua complessa tramatura l’intera molteplicità del “reale”. Si conferma così l’asserto metodologicamente impegnativo di Calvino, che, delineando una linea di continuità filosofico-narrativadepositata nel progetto di romanzo dell’Europa (tardo)otto- e novecentesca inteso «come grande rete» e imperniato, quanto all’Italia, sull’opera di Carlo Emilio Gadda, riconosceva che:

[…] nella nostra epoca la letteratura [è] venuta facendosi carico di questa antica ambizione di rappresentare la molteplicità delle relazioni, in atto o potenziali. (Calvino 1995: I, 722)

Fin dalla «prima Introduzione contemporanea alla stesura dei primi capitoli» del Fermo e Lucia (giugno 1821) e poi nella «seconda Introduzione rifatta da ultimo» (di due anni più tardi), (14) Manzoni, in abito di trascrittore romantico del «dilavato autografo» lasciato dall’Anonimo, delibera d’aprire il romanzo evocando immediatamente in chiave mitologica la macabra e fastosa allegoria barocca dell’intreccio politico-diplomatico come tela funeraria trapunta d’oro con le storie degli dèi. Modulo che non sarebbe improprio ricondurre, oltre che, ovviamente, alle formule di Cervantes e soprattutto a quelle del Mascardi riconosciute da Ezio Raimondi, (15) anche (e la prospettiva coinvolge «un sistema di riferimenti e di stilizzazioni più ampio, che corrisponde […] alla biblioteca che egli serba nella memoria», al pari del suo doppio, l’Anonimo «secentista») alla pagina ovidiana poco fa evocata (Ovidio è difatti citato in chiaro poche righe dopo, per il mito di Atteone trattato nel III libro delle Metamorfosi). Mi sembra poi ipotesi da valutare opportunamente in altra sede che quel modulo ricalchi, riplasmandolo ad altro fine, anche il tema della tela di Penelope («lúgubre ammanto per l’eroe Laerte», tessuto «acciò le fila inutili io non perda»), nel II canto dell’Odissea, letto nella versione di Ippolito Pindemonte che Manzoni conosceva già dall’edizione parziale del 1809: (16)

L’Historia si può veramente chiamare una guerra merauigliosa contro la Morte; perchè togliendoli di mano gl’anni già suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li chiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuouo in battaglia. Ma li illustri Campioni che in tal arringo fanno messe di palme, rapiscono soltanto le spoglie più sfarzose e brillanti, imbalsamando coi loro inchiostri i fatti de Prencipi e Potentati e qualificati Personaggi, tessendo come in feral tela i conflitti di Marte, e trapontando coll’ago finissimo dell’ingegno i fili d’oro e di seta che formano un perpetuo ricamo di azzioni gloriose. (Chiari-Ghisalberti 9; Caretti I 3; miei corsivi)

La scheggia residua dell’Ur-romanzo dilavato nel palinsesto poneva dunque l’idea eroica di una «guerra merauigliosa contro la Morte» alla base della fatica di «ricamo» del sudario funebre («feral tela»), cui è equiparata la scrittura tessuta e ritessuta della Storia e delle storie che la «imbalsaman[o] coi loro inchiostri». Quell’idea diverrà, nei Promessi Sposi, «guerra illustre contro il Tempo», (17) quasi per ribadire che al dominio di quest’ultima figura, fra tutte quelle fatte sfilare nel trionfo barocco dell’incipit, è intesa l’orditura del testo. La scrittura del romanzo storico è fin da subito miticamente autorizzata quale tessitura ingannatrice capace di ridurre con i propri nodi e, in senso etimologico, di irretire metaforicamente il Tempo (quindi la Morte) nella trama scandita dal ritmo di cui è misura il moto dell’«ago finissimo dell’ingegno»: esso «cuce» lungo una sola, attorta linea il filo della storia.


3. Volendo «rifar[e] interamente» la «storia» dell’Anonimo, però «non pigliando dall’autore che i nudi fatti», non solo lo «stile», la «dicitura», dovranno mutare: ma il raccordo fra espressione e ordine del discorso, quindi la selezione dei «nudi fatti» (delle res) e l’organamento del loro nesso con lo «stile» (i verba). Il passaggio (evidenziato ancora, nella «Ventisettana», con l’estinguersi delle virgolette, che nella «Quarantana» scompariranno) dalla «curiosa storia» del secentista alla «bella storia» (18) del romanzo moderno da «scriver bene» è equiparabile, in termini di rapporto fra poetica e retorica, alla scelta di operare il trasferimento del «senso dinamico del reale» (Raimondi 1974: 53) non più in grazia della «struttura ritmica» della poesia, «che contrae per forza il fenomeno naturale in un tempo tutto fantastico di veloci trapassi analogici»; ma inventando una nuova armonia più solidale all’appercezione dei nudi fatti: la «misura docile e aperta della prosa».

Come altrove ho rilevato (19) è sintomatico che, compiuta la stesura dei primi due capitoli e della prima Introduzione, Manzoni interrompa il Fermo e Lucia, evidenziando l’ormai insormontable crisi struttiva, e si applichi soprattutto alla sperimentazione teatrale (Adelchi, con le ricerche storiografiche sui Longobardi, e lo sterile schema dello Spartaco) e alla messa a punto editoriale del suo libro lirico d’autore, gli Inni sacri (oggi nel ms. VS. IX. 3 della Sala Manzoniana alla Braidense) che ai primi quattro pezzi, composti fra 1812 e 1815, allega la Pentecoste, fatta e rifatta nell’autunno 1822. Il romanzo, dopo qualche intervento nella primavera-estate del 1822, viene ripreso senza più pause il 28 novembre di quell’anno, pochissimi giorni dopo l’invio della Pentecoste al tipografo Vincenzo Ferrario: quasi che per uscire dall’impasse del «romanzo filosofico» (20) e dar vita al «romanzo storico», con un’inedita soluzione del difficile rapporto fra intreccio e stile, fosse necessario liberarsi dalle interferenze con cui il lessico e la sintassi della lirica (insomma, l’idillio) (21) continuano a ostacolare una matura risoluzione del problema linguistico della scrittura romanzesca, nel contempo saggiando le varie modalità di dislocazione e coordinamento prosastico delle voci teatrali per avviare la trasposizione di quella polifonia entro la tessitura narrativa.

Ed è altrettanto significativo che il più consapevole erede, custode e liquidatore del progetto manzoniano, Carlo Emilo Gadda, (22) giusto un secolo dopo la svolta dal Fermo e Lucia ai Promessi Sposi con cui s’è aperta la strada del Romanzo moderno, imposti la prima Nota di Composizione (24 marzo 1924) del progettato Racconto italiano di ignoto del novecento (da lui stesso definito «romanzo psicopatico e caravaggesco» (23) con un preciso rimando al necessario, difficile esercizio di elezione e combinatoria stilistica (24) e di genere, in arduo equilibrio di elementi fra lirico, teatrale e romanzesco:

Dal caos dello sfondo devono coagulare e formarsi alcune figure a cui sarà affidata la gestione della favola, del dramma, altre figure, (forse le stesse persone raddoppiate) a cui sarà affidata la coscienza del dramma e il suo commento filosofico: (riallacciamento con l’universale, coro): potrò forse riserbarmi io questo commento-coscienza: (autore, coro). […] Il caos del romanzo deve essere una emanazione della società italiana del dopoguerra (non immediato) con richiami lirico-drammatici alla guerra […] (25)

Nella nota 3, il giorno successivo, con un esplicito rinvio al lavoro manzoniano di rielaborazione tutt’insieme etico-stilistica (il romanzo progettato «è una continuazione e dilatazione del concetto morale Manzoniano» (SVP 396-97; corsivi di Gadda), il termine tragedia è ribattuto a più riprese. E lungo i mesi si chiarirà, sino al fallimento del disegno, che la scelta fra «romanzo […] condotto “ab interiore” o “ab exteriore”» è anche assunzione d’un punto di vista rispetto a due forme di «lirismo» (Nota costruttiva n° 33 del 7 settembre 1924, SVP 460), che comunque impacciano l’affrontamento del vero problema struttivo, chiaramente tratteggiato, ancora una volta, con un ricorso a Manzoni accanto ai sommi modelli della poesia (Dante) e del dramma teatrale (Shakespeare): (26)

[…] Legare i personaggi: per ora è questa per me la maggiore difficoltà; «l’intreccio» dei vecchi romanzi, che i nuovi spesso disprezzano. Ma in realtà la vita è un «intreccio» e quale ingarbugliato intreccio! […] La trama complessa della realtà. –
Un romanzo non può isolare i suoi personaggi. È questa spesso un’astrazione esiziale alla espressione. Certo bisogna ponderare:
a) Che l’intreccio non sia di casi stiracchiati, ma risponda all’«istituto delle combinazioni», cioè al profondo ed oscuro dissociarsi della realtà in elementi, che talora (etica) perdono di vista il nesso unitario. – Idea anche etica! notare. La «dissoluzione» anche morale e anche teoretica è una perdita di vista del nesso di organicità. (SVP 460)

L’intera riflessione gaddiana fra Racconto italiano e Meditazione milanese, e le prove narrative che preludono, agli inizi degli anni Trenta, alla Cognizione (edita su Letteratura a partire dal n° 7, del 1938), si muoverà sul filo sottile che lega e separa la percezione-riproduzione dell’incommensurabile disordine cosmico (si rammenti il celebre asserto nell’appendice alla Cognizione: «barocco è il mondo e il G. ne ha percepito e ritratto la baroccaggine», Gadda 1987a: 482) e lo sforzo conoscitivo-rappresentativo integratore della realtà franta, sia pure attraverso la necessaria «deformazione» («procedere, conoscere è inserire alcunché nel reale, è, quindi, deformare il reale»), (27) che nell’estate del 1928 sembra traguardare, forse coscientemente, l’enunciazione in sede scientifica del principio di indeterminazione di Werner Heisenberg.

Il romanzo è ormai una complicata, autoreferenziale macchina di conoscenza che, scegliendo un linguaggio «mobile, “spastico” e infinitamente allusivo», si dà il compito di «rispecchiare il dramma ininterrotto della convergenza e della disgregazione» (Roscioni 1969a: 46), integrando e tenendo insieme il «nesso di organicità» che deve rendere leggibile, da un punto di vista consustanzialmente etico-poetico, la «trama complessa della realtà». Gadda, in tal modo, risale all’origine della questione, cioè a prima dell’ardita e anche paradossale operazione condotta da Manzoni nel passaggio dal Fermo e Lucia ai Promessi Sposi, «dai fermenti sanguigni di una tumultuosa enciclopedia romanzesca all’ordine di un nuovo organismo narrativo dove lo scrittore ha chiuso tutte le sue partite» (Raimondi 1974: 69).

Il narratore manzoniano è, indubitabilmente, l’ironico orchestratore di «contrappunti a più livelli, su diversi spartiti» (Raimondi 1974: 69) dei Promessi Sposi: nella pluridiscorsività egli ha metabolizzato l’esercizio lirico della Pentecoste (28) e quello drammaturgico (29) del Conte di Carmagnola e dell’Adelchi, ed è «oramai sciolto dagli sdegni, dalle impennate vistose del commentatore del Fermo, non per un processo di attenuazione ideologica ma per uno sviluppo coerente della funzione del personaggio» (Raimondi 1974: 70). Qualcosa della voce narrante del Fermo, ancora avviluppata nel proprio sogno di totalizzazione enciclopedica, rimane nel Gadda che, saldando «euresi» filosofica e scrittura romanzesca, mira a «metter in ordine il mondo» (Meditazione, SVP 735). È molto pertinente una constatazione di Calvino: nella rete di relazioni e quindi di divagazioni narrative che è il romanzo gaddiano «da qualsiasi punto di partenza il discorso s’allarga a comprendere orizzonti sempre più vasti, e se potesse continuare a svilupparsi in ogni direzione arriverebbe ad abbracciare l’intero universo» (Calvino 1995: I, 718). Quella che con Blumenberg diremo la leggibilità del mondo sembra ottenersi, nel romanzo enciclopedico-filosofico che è ancora il Fermo, attirato dalle prospettive e dai punti di vista del teatro tragico, (30) e che torna ad essere la Cognizione sul nuovo scenario del teatro virtuale e relativistico della fisica atomica, sempre mediante la comprensione della totalità. E quest’ultima si realizza nel continuum della narrazione che salda i frammenti e i dettagli, moltiplicando i punti di vista però garantendo la sommatoria dell’esperienza di essi con l’organizzarne la complessità come un filo, appunto, che li lega anche al di là delle spezzature digressive e dilazionanti.

In questo senso, anche, la funzione-Gadda, con il suo antimanzoniano «dire per divagazioni», con il suo assumere il «digredire» a «statuto di un fondamentale strumento euristico» (Gadda 1987a: xxviii), consente di recuperare al moderno la più matura sperimentazione manzoniana, ripensata con l’occhialino barocco (e futuristico!) per riaprire le «partite» chiuse all’altezza dei Promessi Sposi: anche con la mediazione della Cognizione scopriamo che davvero

quella che prende forma nei grandi romanzi del XX secolo è l’idea d’una enciclopedia aperta, aggettivo che certamente contraddice il sostantivo enciclopedia, nato etimologicamente dalla pretesa di esaurire la conoscenza del mondo rinchiudendolo in un circolo. Oggi non è più pensabile una totalità che non sia potenziale, congetturale, plurima. (Calvino 1995: I, 113)

Per non perdersi nel «guazzabuglio» delle cose (il lemma è del Manzoni, prima che gaddiano: ed anzi per questo diviene gaddiano!), la trama, l’intreccio del Romanzo contrastano, tra Fermo e Lucia e Promessi Sposi, le istanze centrifughe dell’ancora sterniana digressione come sistematica compositiva; (31) dislocano la volontà onnicomprensiva dell’avvio nell’andirivieni multivocale della lingua, nella mobilità e varietà dei punti di vista, però assicurano la tenuta d’una bella storia interpretabile (ed è quanto fanno i personaggi come fra Cristoforo e Lucia nei capitoli VI-VII) come un benefico filo provvidenziale da seguire. Al Narratore resta lo sguardo che controlla e sintetizza dall’alto, il movimento prospettico-ermeneutico dell’occhio che s’inerpica sul «pendìo lento e continuo», fra le «strade e stradette» e le «stradicciuole» della passeggiata di don Abbondio, nell’incipit memorabile (che Gadda parodizzerà, con palese mediazione anche lessicale del caravaggesco Roberto Longhi, nell’episodio del tabernacolo dei Due Santi, nel Pasticciaccio, RR II 195-98), come sul «pendìo piuttosto erto, ma uguale e continuato» che conduce al «castellaccio» dell’Innominato, nel cap. XX. È a quella voce-sguardo dall’alto che, nelle ultime righe del romanzo, competerà finalmente di tagliare il lungo, variamente annodato «filo del racconto», traendo «il sugo di tutta la storia».


4. La figura della Storia-Romanzo come Tela, tratteggiata con gesto inavvertito già nella finzione del palinsesto (e l’intercambiabilità delle due categorie è esplicita nella prima Introduzione al Fermo e Lucia), immediatamente dopo la ripresa della composizione, nell’estate 1822, s’irrobustisce nella metafora testuale del filo della storia, che diviene subito anche una costante organizzativa delle connessioni fra le parti e le voci della diegesi.

Giunto all’altezza dell’ultimo capitolo (l’VIII) del I tomo, già perfettamente scandito l’«Addio monti» (e quindi con la traslazione geografica dalle incipitarie «catene non interrotte di monti») ma non avendo ancora pensato, sul piano della diacronia narrativa, al tumulto di san Martino «come a un episodio centrale per la storia di Fermo e per l’economia dell’intero racconto», (32) Manzoni apre nella seconda minuta quello che nel suo progetto dovrà essere il II tomo introducendo, per la storia della Monaca di Monza, la parola più difficile e grave, sulla quale inciamperà ancora a lungo: «Tomo secondo – Capitolo I – DigressioneLa Signora». (33) Quindi così argomenta, collegandosi chiaramente all’avvio dell’Introduzione (difatti il sottotitolo Storia milanese… manca nel Fermo e Lucia, e vedrà la luce solo nella «Ventisettana»):

Avendo posto in fronte a questo scritto il titolo di storia, e fatto creder così al lettore ch’egli troverebbe una serie continua di fatti, mi trovo in obbligo di avvertirlo qui, che la narrazione sarà sospesa alquanto da una discussione sopra principj; discussione la quale occuperà probabilmente un buon terzo di questo capitolo. Il lettore che lo sa potrà saltare alcune pagine per riprendere il filo della storia: e per me lo consiglio di far cosí: giacchè le parole che mi sento sulla punta della penna sono tali da annojarlo, e anche da fargli venir la muffa al naso.

La storia, dunque, già per il Manzoni del Fermo e Lucia, è (ed ha) per sua natura un filo. Essa implica una lineare continuità diegetica non intaccata da digressioni, o «discussioni sopra principj», indotte (come si suggerisce poche righe dopo) dalla «separazione» degli «innamorati» che «sospende» materialmente per un poco «la narrazione». Esalta il valore di metodo diegetico di questo scarto autoglossatorio l’ironico invito a «saltare» lanciato al lettore interessato appunto a «riprendere il filo della storia» (34) a voler egli stesso procurare la saldatura del filo spezzato, annodandone i capi nel reticolo scritturale (non sfugga l’esatta indicazione della misura probabile della dilazione, quasi una cifrazione della segnaletica connessa alla temporalità narrativa).

Si palesa così, nella ripresa ora metaforica del mitologema del Romanzo-Storia-«feral tela», il paradosso della storia che si pretende anche romanzo filosofico perché enciclopedico, totalizzante, onnicomprensivo, digressivo, in potenza espanso all’infinito, abbastanza sagacemente reticolare da tessere le vicende storiche intrecciandole alle discussioni teoriche. Di fatto è il Romanzo stesso, qui, a rideterminarsi, dichiandosi pronto a saltare verso una diversa forma di se stesso, per l’inadeguatezza della lingua a raccogliere e controllare tutte le vicende di tutti i personaggi e di tutti i punti di vista: esattamente al modo in cui, dinanzi all’impossibilità di «significar per verba» l’indicibile, «figurando il paradiso, | convien saltar lo sacrato poema, | come chi trova suo cammin riciso» (Par., XXIII 61-63).

A questo modo intenderemo la celebrazione, tra Fermo e Lucia e Promessi Sposi, del mitologema recupero dei capi (archaí) del filo da intrecciare quale grande metafora dell’attività ordinatrice-costruttrice (dunque cosmogonica) del Narratore nell’universo in espansione del Romanzo-Enciclopedia, in cerca d’un raffreddamento del magma ritmato come sistema di temporalità differenziate e inglobate l’una nell’altra. A qualcosa di simile, mi sembra di poter proporre, fa cenno non tanto l’antica teoria darwiniana dell’evoluzione lineare e costante, ma quella geologico-paleontologica degli «equilibri intermittenti» o «punteggiati» (punctuated equilibria), (35) con successive e discontinue sequenze di inerzie (nell’universo romanzesco del Manzoni, lo sviluppo narrativo con imbricamento di digressioni e variazioni tematiche) e di puntuali catastrofi (le dichiarazioni di ripresa della coscienza enunciativa e gli innovativi annodamenti tematici), le quali saltando le fasi inerziali avviano un nuovo processo metamorfico, fatto di impennate e di arresti improvvisi, di scarti e di dislivelli che è necessario rendere commensurabili perché divengano leggibili. Tali sequenze possono offrirsi alla comprensione mediante l’immagine, appunto, del filo ininterrotto costellato di nodi.

Questa attività di artificiale unificazione del difforme, fondata sull’accostamento (e, con il passaggio dal manoscritto alla stampa, cioè dal Fermo e Lucia ai Promessi Sposi, sulla definitiva sostituzione) di due paradigmi ermeneutici e rappresentativi incompatibili, è intesa a saldare infine Storia e Racconto nel Romanzo-Storia attraverso successivi salti testuali fra loro esplicitamente collegati: ossia determinando una doppia temporalità della narrazione nella dialettica fra il narrare grande del caos digressivo-enciclopedico e il narrare abbreviato del riordino costruttivo-storico.

Questo nuovo ritmo diegetico, che riconosciamo perché Manzoni lo cadenza con il periodico riaffiorare della metafora tessile (facendo cenno alla necessità di «stabilire rapporti inattesi tra personaggi diversi per condurli tutti insieme sulla scena, alla ricerca di avvenimenti che influivano in varie maniere sul destino di tutti»), (36) determina una nuova strategia costruttiva fondata su un diverso senso della memoria narrativa e del tempo peculiare della diegesi. Nella ricapitolazione denunciata dalla metafora del «riprendere il “filo della storia”» (ovvero «del racconto») tale ritmo interpone catastrofi – cioè, secondo lo spirito dell’etimo, versure o svolte narrative – all’altezza degli snodi cruciali sentiti come luoghi critici e che divengono così momenti di sintesi dialettica fra romanzo e non-romanzo (riflessione, enciclopedia, saggio…).

Questi luoghi o punti (37) critici lungo lo scorrimento del testo possono forse essere descritti facendo ricorso alla splendida allegoria di Walter Benjamin che, nell’incompiuto libro sui Passages parigini, interpreta in termini di «immagine dialettica» il nesso fra coscienza e sogno, passato e presente (il primo risultando «immesso» nel secondo «in una apocatastasi storica»), (38) e inventa una «topografia mitologica» (Benjamin 1986: 134, sezione C, framm. C 2a, 3) che nel nostro discorso trascriveremo in topografia mito-cronologica, o cronotopografia:

Nell’antica Grecia venivano indicati i luoghi attraverso i quali si scendeva agli inferi. Anche la nostra esistenza desta è una regione in cui in punti nascosti si discende agli inferi; sono luoghi per nulla appariscenti in cui sfociano i sogni. Ogni giorno vi passiamo davanti incuranti, ma non appena arriva il sonno torniamo indietro a tastarli con mossa veloce, perdendoci in questi oscuri cunicoli. Gli edifici della città sono un labirinto che alla luce del giorno assomiglia alla coscienza; di giorno i passages (queste sono le gallerie che conducono alla loro esistenza dimenticata) sfociano inavvertiti nelle strade. Ma di notte, il loro buio compatto esce fuori spaventoso fra le masse di case: il passante della tarda ora tira diritto in gran fretta, a meno che non sia stato incoraggiato al viaggio attraverso le vie anguste. (Benjamin 1986: 130, sez. C, framm. C 1a, 2; tranne nella parola passages, miei corsivi)


5. L’incitamento manzoniano, nel Fermo e Lucia, a «saltare» la «discussione sopra principj» configura dunque già due lettori ideali: il primo che non rinuncia al disegno onnivoro-enciclopedico, il secondo che ne riconosce ormai il fallimento, e sceglie la continuità, pur complessa, del filo della storia: altrimenti detto, il doppio regime narratologico del romanzo «filosofico» da una parte e dall’altra della storia, incapsulata nel primo e probabilmente riconoscibile, e restituibile a coerenza lineare, in grazia della segnaletica dislocata dal Narratore nella ritessitura del suo palinsesto.

Che questo salto sia anche l’enunciazione del necessario smaltimento dell’«ingorgo di tutti i temi» provocato dall’«ampliamento della prospettiva romanzesca» e dalla «rottura dei reticoli tradizionali» (Raimondi 1974: 68), nell’esecuzione dell’atto di lettura come già implicitamente nell’autocritica e quindi nell’entrelacement premeditato dei luoghi segnati e così connessi a distanza, è dimostrato e contrario, per autoparodia, da un’altra giuntura importante per l’articolazione testuale. Penso alla grave e insieme chiassosamente ironica meditatio del Narratore onnisciente (tanto che vi rintocca il titolo stesso del libro a venire) sulla digressione come caduta (precisamente: «catastrofe», «svolta») e come «rottura del filo della storia» posta in apertura del II capitolo del II tomo, dalla significativa titolazione (pratica ancora attiva nel I tomo e nei capitoli I-II del II del Fermo e Lucia, poi abolita) La signora, tuttavia. Con una contraddizione solo apparente il lettore viene sfidato a rinunciare ad ogni salto, risultando ormai il «contare a modo mio» la sola procedura accettabile nello scrivere (e dunque nel leggere) la «bella storia»:

Che se poi altri volesse censurare queste scuse come inutili, e ci accusasse di cader sempre in digressioni che rompono il filo della matassa, e fermano l’arcolajo ad ogni tratto, egli obbligherebbe chi scrive a fare un’altra digressione, e a rispondergli cosí: – Il manoscritto unico, in cui è registrata questa bella storia degli sposi promessi, è in mia mano: se la volete sapere, bisogna lasciarmela contare a modo mio: se poi non vi curaste più che tanto di sentirla, se il modo con cui è raccontata vi annojasse, giacchè dagli uomini si può aspettar tutto; in questo caso, chiudete il libro, e Dio vi benedica. – (39)

Nell’ultimo capitolo del II tomo, l’XI, prima della nuova dinamizzazione della scrittura della fine novembre del ’22, si attiva un secondo notevole aspetto assunto dal multiforme mitologema tessile: il personaggio-filatore-tessitore-viaggiatore seguíto lungo il suo peregrinare nella cronotopografia testuale con la funzione di Perspektiverträger, «portatore di prospettiva». (40) L’ombra di questa figura (che nei Promessi Sposi si identificherà fondamentalmente in Renzo: cioè nella coscienza narrante del libro, visto che con mirabile chiusura del circolo orale-scritto proprio lui verso la fine del romanzo, nel capitolo XXXVII, si rivelerà l’informatore-narratore dell’Anonimo da cui il Narratore ottocentesco trascrive) (41) nel Fermo e Lucia si proietta ancora sul Narratore onnisciente, consapevole del tempo (narrativo) che passa (nel viaggio del racconto) e in cerca di artificiali oasi da cui rimettere a fuoco il punto di vista: bramoso di chiaroscuri portatori di senso nel paesaggio troppo assolato, quindi indistinguibile per eccesso di luminosità, del vero trascritto con pretesa obiettività nel romanzo-enciclopedia.

Ecco l’apertura della digressione su Federigo Borromeo:

Giunti a questo punto della nostra storia noi ci fermiamo per qualche momento con gioja, come il viaggiatore del deserto s’indugia a diletto alla frescura ristoratrice d’una oasis ombrosa, dov’egli abbia trovata una sorgente di acqua viva. Poiché ci siamo avvenuti in un personaggio, la memoria del quale apporta una placida commozione di riverenza, una nuova giocondità anche alla mente che già stia contemplando, e scorrendo fra gli uomini i piú eletti che abbiano lasciato ricordo di sè sulla terra: or quanto piú un po’ di riposo nella considerazione di lui debb’essere giocondo a noi che da tanto tempo siamo condotti da questa storia per mezzo ad una rude, stolida, schifosa perversità, dalla quale avremmo da lungo tempo ritirato lo sguardo, se il desiderio del vero non ve lo avesse tenuto a forza intento! (FL II, XI, §§ 1-2; Chiari-Ghisalberti 313; Caretti 287; miei corsivi)

La conclusione del capitolo sembra riallacciarsi, in ossequio all’antica struttura circolare inaugurata dalla canso redonda occitanica (e comunque con sensibilità di tipo lirico, vicina a quella di tipo coblas capfinidas che Manzoni – amico intimo del provenzalista Fauriel – sembra applicare nella liasion di alcuni capitoli), all’incipit del tomo II, con la figura del salto del lettore compiuto per evitare di «annoiar[si]» e «per riprendere il filo della storia», e con un’etica dell’impegno nella continuità narrativa minacciato da qualsiasi «ciarla», ossia digressione e deviazione «fuori di strada»:

[…] Una buona ispirazione ci avverte che siamo fuori di strada; che musando cosí in ciarle di discussione mentre si tratta di raccontare, noi corriamo il rischio di perdere, abbiamo forse già perduti i tre quarti dei nostri lettori; cioè almeno una trentina; tanto più che questa fatale digressione è venuta appunto a gettarsi nella storia nel momento più critico, sulla fine d’un volume, dove il ritrovarsi ad una stazione è un pretesto, una tentazione fortissima al lettore di non andar piú innanzi, dove è mestieri di una nuova risoluzione, d’un generoso proposito per riprendere e quasi ricominciare il penoso mestiere del leggere. Noi tronchiamo dunque subitamente questa digressione, pregando quei pochi i quali l’avessero letta fin qui a fare le nostre scuse a quelli che per noja avranno gettato il libro a mezzo di questo capitolo, pregandoli anche di assicurarli che saltando tutto il capitolo avrebbero la continuazione della storia, e di prometter loro in nostro nome, che noi vi ci getteremo in mezzo a piè pari al principio del prossimo volume, che la continueremo senza interruzione, seguendo fedelmente il manoscritto, e mescolandovi del nostro il meno che sarà possibile. (FL II, XI, §§ 39-40; Chiari-Ghisalberti 323; Caretti 296-97; miei corsivi)

La digressione è «fatale», e va troncata subitamente, soprattutto perché la sua collocazione nella strategia evolutiva del racconto trasforma il suo vacuum diegetico, il suo statuto di funzione sospensiva, atemporale, in minaccia per l’intera dinamica costruttiva: la consapevolezza autoironica dell’architettura anche materialmente libraria del testo fa sì che storia, romanzo, libro, scrittura e lettura crescano e s’intrichino insieme con i loro variegati tempi narrativi, e insieme giungano ai momenti critici e ai punti di catastrofe, tutti insieme esigano forme inedite di ricomposizione. Tant’è che le parole riportate sono le ultime non solo del II tomo, ma della stesura desultoria, alternata durante la primavera-estate 1822 al lavoro sulla lirica sacra, sul teatro e sulla storiografia longobardica. (42) Il I capitolo del tomo III, sotto la data «28 novembre 1822», (43) riprende senza indugi e senza dover esplicitare il collegamento interno, proprio in grazia della pseudo-autocritica intorno alla digressione con cui s’è chiuso il tomo precedente: «Il Cardinale Federigo, secondo il suo costume in tutte le visite, stavasi in quell’ora ritirato in una stanza…».


6. Nel Fermo e Lucia il vocabolo digressione si presenta in sei occorrenze: due nelle righe appena citate; quella, pure ricordata, del cap. II del II tomo (ove si parla del «filo della matassa» e dell’«arcolajo» che lo produce); una nel cap. V del II tomo, notevole per la commisurazione narratologica di discorsività e intreccio nella preterizione (44) che recupera il non rievocato, ma implicito «(filo) della storia» («Ma noi invece di avviarci in una nuova digressione, ne abbiamo ora una, e anzi lunghetta che no, da farci perdonare: torniamo quindi alla storia» (FL II, V, § 12; Chiari-Ghisalberti 211; Caretti 191); un’altra (definita «necessaria») nel cap. III del I tomo, legata al «ciuffo» dei bravi nella «grida» letta da Azzeccagarbugli (FL I, III, § 25; Chiari-Ghisalberti 50; Caretti 41); l’ultima nel cap. VII del III tomo (FL III, VII, § 29; Chiari-Ghisalberti 457; Caretti 421), anch’essa basata sulla forma della preterizione («[…] ci dispensano dall’internarci in una digressione la quale sa il cielo quanto avrebbe durato»). Complessivamente, di queste sei occorrenze quattro appaiono nel II tomo; cinque del sei, poi, precedono la ripresa ininterrotta della seconda minuta, collocandosi pertanto nello spazio critico che genera il provvisorio scioglimento dei principali dubbi struttivi.

In almeno un caso (tomo II, cap. II, § 6) al tema della caduta in digressioni è collegata in maniera esplicita la metafora tessile; in due frasi contigue del cap. I del II tomo (quello dal titolo Digressione!) si accenna ad un «filo» nascosto dall’Anonimo, giacché avrebbe potuto «servir […] a trovare le persone» (e non va trascurato il fatto che la fictio della preterizione segue immediatamente la chiusura – «[…] e torniamo alla storia» – della digressione iniziale del capitolo, con l’invito a «saltare alcune pagine per riprendere il filo della storia», FL II, I, § 25; Chiari-Ghisalberti 149; Caretti 133). In altre 17 occorrenze (che qui non si potranno analizzare in dettaglio) il vocabolo filo è tematizzato con varia connotazione senza restringersi all’idea della rottura, ma piuttosto muovendo nella direzione della continuità, di norma per collegamento genitivale con un lemma-chiave.

Nel cap. VI del I tomo, ad esempio, fra Cristoforo riconosce un «filo che la provvidenza [gli] pone in mano» (FL I, VI, § 32; Chiari-Ghisalberti 100; Caretti 87): e la trasposizione nei Promessi Sposi (cap. VI) per bocca di Lucia ribadirà idea e lessico nella ripresa del capitolo successivo (che per rilevarne l’istanza narratologica vorremmo dire, ancora una volta, con lemma provenzale, a coblas capfinidas): «“Avete sentito cos’ha detto d’un non so che… d’un filo che ha [nella «Ventisettana», insistendo sulla visualizzazione metonimica: «ch’egli tiene»], per aiutarci?” disse Lucia» (PS, VII, § 10; Chiari-Ghisalberti 104-05; Caretti 140; Raimondi-Bottoni 112). Un «filo recondito» (FL II, VII, § 44; Chiari-Ghisalberti 241; Caretti 219), invisibile a tutti fuorché al Narratore, «tiene» le idee di don Rodrigo, che ancora nei Promessi Sposi è detto «autor principale della trama», nella quale Lucia percepisce che «c’eran delle parti oscure, inesplicabili affatto» (PS, XXIV, §§ 57-58; Chiari-Ghisalberti 416; Caretti 556; Raimondi-Bottoni 468). Nella descrizione, giusto sul finire del III tomo, delle lettere scambiate tra Agnese e Fermo, ecco un’altra mise en abyme del testo, impostata sulla stessa metafora: «…il lettore diventa allora interprete, e con le sue spiegazioni imbroglia anche di più quel poco di filo che l’altro aveva afferrato…» (FL III, IX, § 62; Chiari-Ghisalberti 510; Caretti 471; miei corsivi).

Ma quel filo, nato nella chiave mitografica della «feral tela» dell’Anonimo, da metaforico torna a farsi mitico sulla soglia d’uscita del romanzo, allorché, smarrito nel «triste labirinto» del lazzaretto (FL IV, VIII, § 58; Chiari-Ghisalberti 651; Caretti 600), Fermo «non aveva alcun filo per dirigersi»: e infine egli incontrerà per l’ultima volta la sua Arianna, Colui che tiene fra le mani il Filo della Provvidenza, fra Cristoforo; (45) non trovando Lucia, poco più tardi, «le braccia gli caddero, quando si vide finire in mano l’unico, o almeno il piú forte filo delle sue speranze» (FL IV, VIII, §§ 16-17; Chiari-Ghisalberti 642; Caretti 592).


7. «Quando un elemento sviluppa una nuova funzione, […] che cosa succede a quella vecchia? Succede, qualche volta, che essa si tolga discretamente di mezzo. Ma accade più di frequente che la vecchia funzione resti in circolazione, e si trasformi facilmente in un vero e proprio ingombro strutturale». (46)

Avviene qualcosa del genere, nel succedersi delle stratificazioni correttorie manzoniane, per la forma-digressione: così cara a Sterne, e dopo di lui a Gadda, da divenire la figura stilistica della loro modalità di costruzione testuale; così nevroticamente rifiutata, esibita e utilizzata da Manzoni come procedimento elaborativo: «imponendolo maestosamente nella prima stesura e mitigandolo fin quasi a sopprimerlo nella definitiva» (Macchia 1989: 31).

Quel «quasi» fa cenno precisamente all’ingombro strutturale che i fossili digressivi rappresentano anche dopo la cristallizzazione del magma-Fermo e Lucia, nella tettonica multipla dei Promessi Sposi. Dall’una all’altra forma-romanzo, nel progressivo restringersi degli spazi (e dei tempi!) digressivi, riassorbendosi pressoché interamente anche il sistema dei richiami e dei connettori a distanza, rimane al centro della riflessione teorica il valore decisivo della testura, e la carica evocativa della metafora tessile.

Testura è il termine che, scrivendo a Goethe una lettera incompiuta Del romanzo storico, intorno al 1828-29, Manzoni impiega a proposito dell’Iliade, (47) quasi a segnalare come subito dopo la pubblicazione della «Ventisettana», mentre incomincia a calarsi nell’«eterno lavoro» correttorio, continua a ritenere decisivo il nesso fra costruzione della trama nel romanzo e nel poema epico: «quel congegno degli avvenimenti, quel subordinarne molti al principale, legandoli insieme tra di loro, è appunto ciò che nel poema epico si riguarda come la cosa più difficile e quasi miracolosa» (Manzoni 1981: 253). Nello stesso testo, poche pagine più tardi, criticando la forma epica a favore della «vile prosa» (è lui stesso a sottolineare), Manzoni torna a fare uso, significativamente, della stessa metafora tessile con cui molti anni prima, in persona dell’Anonimo «secentista», aveva incominciato a tramare la sua romanzesca tela di Penelope:

Chi avesse voluto tessere una tela poetica di verosimili su quel solo e magro ordito della cognizione comune di quel complesso d’avvenimenti, avrebbe delusa miserabilmente una tale aspettativa». (Manzoni 1981: 261-62; miei corsivi)

E sempre di filo nell’ultima pagina messa su carta parla anche a proposito del proprio ragionamento, quando individua «due critiche opposte, che ci hanno dato il filo per fare il processo al romanzo storico» (Manzoni 1981: 282; miei corsivi).

Non diversamente, scrivendo a Claude Fauriel il 29 maggio 1822, nel pieno della crisi legata alla messa a punto della «seconda minuta» del Fermo e Lucia, dopo un generico e apparentemente casuale riferimento al suo sarto (!) parigino come a persona di buon senso e colta trascorreva a problemi di metodo compositivo («Dans tous les romans que j’ai lus, il me semble de voir un travail pour établir des rapports intéressants et inattendus entre les différens personnages, pour les ramener sur la scène de compagnie, pour trouver des événements qui influent à-la-fois et en différentes manières sur la destinée de tous, enfin une unité artificielle que l’on ne trouve pas dans la vie réelle»), (48) e per definire la costruzione architettonica del testo ricorreva al sintagma «consertare gli avvenimenti», con verbo ricalcante il consertare latino, intensivo di con-serere, legare insieme, intrecciare, connesso etimologicamente ad adserere, attaccare a sé, quindi rivendicare, affermare, difendere; disserere (e intensivo dissertare), esporre, spiegarsi. (49)

Parimenti già nel 1820, nella Lettre à M. Chauvet edita poi nel 1823 a Parigi, «un fil […] pour arriver au vrai» era l’immagine che inchiodava il difficile rapporto fra onniscienza dell’auctor che da tutta la Storia delimita una storia, trobar dello scrittore che cerca un percorso di coerenza fra le fonti-idee costruendo e dinamizzando l’azione verosimile, e necessaria limitatezza delle conoscenze trasferibili attraverso la selezione e l’organamento non più solo enciclopedico ma filato del testo al lector:

C’est peut-être faute d’avoir observé ce rapport entre la vérité matérielle des faits et leur vérité poétique que les critiques ont apporté à la règle dont j’ai parlé une exception qui ne me semble pas raisonnable. Ils ont dit que lorsque les principales circonstances d’une histoire n’étaient pas très connues, on pouvait les altérer, ou leur en substituer d’autres de pure invention: mais, ou je me trompe fort, ou cela ne s’appelle pas faciliter au poète la disposition de son sujet; c’est bien plutôt lui ôter les moyens les plus sûrs d’en tirer parti. Qu’importe que ces événements soient ou non connus du spectateur? Si le poète les a trouvés, c’est un fil qui lui est donné pour arriver au vrai; pourquoi l’abandonnerait-il? Il tient quelque chose de réel, pourquoi le rejeter? (50)

è sempre lo stesso filo della storia del quale abbiamo già scovato l’arché nel Fermo e Lucia, filato e tessuto giusto in quei mesi nel Romanzo-Storia il cui intreccio, «feral tela» d’una Penelope della narrazione, era destinato a venire disfatto e ricomposto innumerevoli volte.

Varrà la pena ormai di segnalare che, per quanto incredibile paia la constatazione, il sintagma il filo della storia (con il precedente decisivo dello Yorick sterniano-foscoliano, edito nel 1813) sembra un hapax manzoniano, risultando presente, nell’intero corpus canonico della letteratura italiana pre-ottocentesca, (51) in pratica solo nel passo già ricordato a proposito della digressione sulla Monaca di Monza (cap. I del II tomo di Fermo e Lucia), e in due brani dei Promessi Sposi posti in incroci narrativi strategici, per quanto assolutamente autonomi rispetto alla rielaborazione del luogo che diede origine alla metafora-mitologema. Mitologema e metafora si dimostrano perciò recuperati e riplasmati da Manzoni con autocoscienza metodologica, e dislocati a svolgere una precisa funzione retorico-stilistica di imbricamento narrativo e di segnalazione-chiarimento dell’operazione stessa e del suo fine. La ricucitura delle parti in un patchwork che si stende al di sopra (o al di sotto) del testo fissato autorialmente è in primo luogo un evento mentale dello scrittore, che il lettore è invitato a riprendere e ripetere con un salto.

Il primo dei passi dei Promessi Sposi colpisce per la sua collocazione, la chiusa del capitolo XXII. Si rammenterà che le battute conclusive del II tomo (cap. XI) del Fermo e Lucia, con perfetta autoreferenzialità e mise en abyme, sottolineavano la tensione pericolosa insita nello stato di vuoto narrativo della digressione, che si dichiarava infatti da dislocare più opportunamente «nella storia nel momento più critico, sulla fine d’un volume». Proprio sulla fine (stavolta d’un capitolo, vista la mutata organizzazione testuale) è inserita la figura nota in un contesto concepito per indurre l’idea di perdita di tempo, di dissipazione nociva al vero verso cui il filo (offerto dall’Anonimo-Arianna) deve condurre, nel labirinto della narrazione multipla: «sarà meglio che riprendiamo il filo della storia e che, in vece di cicalar più a lungo intorno a quest’uomo, andiamo a vederlo in azione, con la guida del nostro autore» (PS, XXII, § 47; Chiari-Ghisalberti 381; Caretti 508; Raimondi-Bottoni 421).

La metafora è posta a guardia e garanzia del passaggio critico, la versura prosastica che trasferisce la diegesi nel nuovo capitolo: essa affiora alla memoria di Manzoni (fors’anche, come è stato suggerito, con la mediazione del Tristram Shandy sterniano) (52) proprio là dove, nel Fermo e Lucia, si tematizzava il troncamento della digressione su Federigo Borromeo, finalizzata alla «continuazione della storia». E la stessa allegoria del «viaggiatore del deserto» in cerca di «una oasis ombrosa», con la quale s’era aperto il capitolo nel Fermo e Lucia, viene recuperata nelle prime pagine del capitolo XXII fin dalla «Ventisettana»: con la puntualizzazione (favorevole, con ironia, alla dissipazione temporale-diegetica) che «il viandante, stracco e tristo da un lungo camminare per un terreno arido e salvatico, si trattiene e perde un po’ di tempo all’ombra di un bell’albero, sull’erba, vicino a una fonte d’acqua viva» (segue l’invito al lettore che voglia «andare avanti nella storia» affinché «salti addirittura al capitolo seguente»). (53)

Anche il secondo brano contenente il sintagma metaforico-figurale è allocato in posizione strategicamente elevata. Nell’incipit del cap. XXXI, «condotti dal filo della nostra storia, noi passiamo a raccontar gli avvenimenti principali di quella calamità […]. E in questo racconto, il nostro fine […] è […] di far conoscere […] un tratto di storia patria più famoso che conosciuto», con impegno a identificare nelle fonti un «disegno generale» e un «disegno ne’ particolari», e infine «ritrarne una serie concatenata degli avvenimenti», capace di puntualizzare «un’idea indeterminata di gran mali e di grand’errori», «un’idea composta più di giudizi che di fatti» (PS, XXXI, § 1; Chiari-Ghisalberti 525; Caretti 702; Raimondi-Bottoni 603; miei corsivi). Mi pare evidente che a questo passo puntualmente Gadda si richiamerà nell’avvio dell’Apologia manzoniana, subito prima di introdurre il tema del «barocco lombardo» («Lombardia […] come barocco», a voler sintetizzare continianamente – Contini 1989: 70) come sfondo consustanziale alla progettazione e alla composizione del romanzo:

Con un disegno segreto e non appariscente egli disegnò li avvenimenti inavvertiti: tragiche e livide forme d’una società che il caso trascina per un corso di miserie senza nome. […] Egli fissò con il genio del narratore e più dell’esegeta e dell’analista le autorappresentazioni dominatrici di quegli spiriti: e noi sappiamo che altre rappresentazioni, egualmente passibili di errore, ma egualmente dotate di una forza direzionale quale che sia, conducono lo spasimo vano della nostra vita verso il necessario cammino. (SVP 590-91; mei corsivi)

Ridotte per numero, funzione, ampiezza, smistate in libri autonomi (la Storia della colonna infame), (54) le digressioni sono ormai contornate, e comunque individuate, da precisi paletti segnaletici, il principale dei quali è proprio la metafora del filo della storia o del racconto. Ma è dalla Digressione, non casualmente, che il grande esegeta-erede, Carlo Emilio Gadda, muove per ragionare sull’Etica e sulla Poetica manzoniane, e per impostare il proprio lavoro di scrittura creativa.


8. Credo di poter indicare il probabile nucleo della grande metafora-mitologema tessile intrinseco al progetto romanzesco. Esso è esibito a lettere piuttosto chiare fin dalla stesura inaugurale, nella «prima minuta»: anche in questo caso la conferma dell’intenzionalità struttiva, quindi del rilievo poetologico ed anche ideologico assunto da un elemento apparentemente marginale, è garantita dal confronto tra le due redazioni.

Fin dall’estate 1821 il protagonista principale del romanzo, ovvero il personaggio cui è affidato il compito di tener fermo e guidare il cammino del filo della storia e del racconto (55) è battezzato Fermo Spolino. Non credo si sia sufficientemente riflettuto sulla ragione della scelta di questo come di altri nomi parlanti (ad esempio quello dello spadaio al quale, ubriaco, nell’osteria Renzo confida il proprio nome: Ambrogio Fusella, che era nel Fermo e Lucia – già saldamente annodato alla metafora tessile – Ambrogio Fusotto). (56) La semantica profonda di questo nome si perpetua lungo l’intero processo rielaborativo del romanzo, e si attiva generando immediatamente, nel campo allusivo della filatura-tessitura, il nome definitivo del «filatore di seta» Lorenzo («o, come dicevan tutti, Renzo») Tramaglino. (57)

Dalla Spola che, «dialogando» con il Fuso, tesse il filo sul telaio fino alla Rete (milanese tremagg) stesa, sotto gli occhi di fra Cristoforo, al sole che appare sull’orizzonte, nel celebre incipit del IV capitolo («…un gruppetto di case, abitate la più parte da pescatori, e addobbate qua e là di tramagli e di reti tese ad asciugare», PS, IV, §1; Chiari-Ghisalberti 56; Caretti 36-37; Raimondi-Bottoni 61) Spolino-Tramaglino si conserva e si trasforma, fra spirito dell’etimo e gioco paronomastico, scegliendo per sé non il destino allegorico del pescatore-navigatore, ma quello del filatore-tessitore, dunque dell’intrigato e non del navigato (58) nella trama o intreccio che con il suo ingarbugliarsi e sfilacciarsi digressivo lo coinvolge quale protagonista principale: va così in cerca d’una sua Lucia-dipanatrice, come un baco da seta che si sbozzola e incomincia a filare. Difatti poi tesse e stende sempre lo stesso filo della storia attraverso tutta la scrittura romanzesca…

Come già documentò Antonio Baldini (59) e ancora più acutamente corroborò di nuovi scandagli Gianfranco Contini, (60) l’onomastica manzoniana è parlante: sia nella metamorfosi dei due protagonisti «entrambi così professionalmente “motivati” (nel senso tecnico dei linguisti)», sia in nomi tipizzanti in senso espressivistico, e che pour cause verranno ricalcati da Gadda nelle (de)formazioni della Cognizione, sia infine nella sequenza dei nomi, ipocorismi compresi (Perpetua, Lucia, Agnese, ma anche Tonio e Gervaso, Menico, Ambrogio, Bortolo), derivante dal canone della consacrazione della messa cattolica.

Dopo le argomentazioni fin qui svolte (ma del dossier probatorio, ben più cospicuo, si renderà ragione piena in altra sede) basterà rilevare che il rapporto di Spolino-Tramaglino con il mestiere del filatore non si lega solo al puro momento economico-sociale, per quanto considerevole: (61) ma ribadisce, in grazia della conservazione del campo semantico, che la formula filo della storia, così strettamente collegata alla modalità narrativa e di intreccio del personaggio, è originaria e genetica: nasce, cioè, solidalmente al personaggio, ne rappresenta l’estrinsecazione retorica, quasi che fosse intesa a trasporre in metafora l’elemento metonimico intrinseco alla selezione del nome. Non sfugga d’altro canto il ruolo decisivo che il piano fonetico assume nella doppia serie cronologica: Fermo Spolino > Renzo Tramaglino e Lucia Zarella > Lucia Mondella. I nomi propri Fermo e Renzo, composti da ugual numero di lettere, ne spartiscono tre su cinque (e, r, o), con l’inversione er > re. La permanenza della suffissazione -ino ed -ella – diminutiva, per accrescere, specie nei maschili, i toni «illuministicamente striduli e caricaturali» (Contini 1965: 202) – sembra corroborare, quasi si trattasse di una rima diacronicamente dislocata, l’idea di una volontà di indicazione del contatto e della linea cromosomica. Aggiungerei che nella connotazione baroccheggiante dei dettagli Manzoni potrebbe aver tenuto presente, inventando Spolino, anche il registro vocale buffo della commedia dell’arte, incarnato da personaggi quali Zaccagnino e Passarino (-ino), che diventeranno Leporello (-ello), nei diversi scenari su Il convitato di pietra. (62)


9. Il fatto che Lucia sia a sua volta un nome trasparente, per il contatto immediato rispetto all’universo della luce, così ben misurato da Raimondi specie nel capitolo del castello dell’Innominato, spinge a valutare l’ipotesi che possa esistere, almeno nell’intuizione d’origine, anche un desiderio di contrastività di tipo ossimorico nell’opporre al nomen (che è omen!) Fermo un cognomen quale Spolino, che fa cenno al va-e-vieni della spola sul telaio, e nel contempo all’andare-e-venire di chi davvero fa la spola fra le storie parallele, ricucendole l’una all’altra insieme per così dire tenendo fermo il filo a vantaggio del suo alleato (e avatar) Narratore, del quale Renzo è, sintomaticamente, informatore.

A glossare e sigillare insieme questo suggerimento ermeneutico, anche sfidando i rischi impliciti allorché si imposta la voce sopra le righe e si compiono salti epistemologici di grande ampiezza, mi piace porre quale immagine allegorica (e penso al rapporto dialettico, nella creazione letteraria, tra filo della storia e digressione) una frase con cui viene descritta la dialettica della creazione del cosmo in Il re e il cadavere, il grande pannello erudito e felicemente narrativo di Heinrich Zimmer. Quel libro è dedicato alla cosmologia indiana, grandiosa e beffarda, che si fonda su «un edificio fatto di connessioni» tale che «ciò che la mente vede, quando coglie un nesso, lo vede per sempre», (63) ed è attenta a riconoscere «un filo comune, quello del Soffio, Colonna Solare e Asse dell’Universo», che lega i Tre Mondi; (64) ma si veda come è riducibile per allegoriam, e con rapinosa microscopia, anche allo scrittoio di «don Lisander»:

Il genio della Sapienza Creatrice che proietta se stesso, si è avventurato sì e no per un momento oltre i limiti della propria immagine costituita, che si trova faccia a faccia con il contrario – l’impulso sconsiderato, sotto il sortilegio della bellissima immagine della femminilità […]. E questo impulso si interseca coi progetti che il Creatore nutre per il mondo, come la spoletta coi fili tesi di un telaio. Ma è così che i fili tesi devono essere intessuti per formare una stoffa. Il zigzag volante della spoletta fornisce il tessuto e il disegno. Incrociare di continuo i progetti dello spirito pianificante significa intessere il mondo in modo sorprendente. L’intreccio dei due inconciliabili costituirà l’ordito e la trama fondamentali dell’arazzo di tutti gli avvenimenti. (65)

Anche il secondo personaggio-chiave del romanzo, Lucia Zarella > Mondella, si lega strettamente all’attività della filatura e della tessitura, in primo luogo all’uso dell’«arcolajo». Tant’è vero che in almeno due luoghi, già nel Fermo e Lucia, l’obiettivo la coglie mentre siede allo strumento, quasi sempre per sbrogliare matasse ingarbugliate:

Fra questi tristi discorsi la madre e la figlia si erano sedute insieme presso il suo arcolajo a dipanar seta. (FL I, III, § 36; Chiari-Ghisalberti 52; Caretti 44)

Lucia prese come macchinalmente il suo arcolajo, e sedette a dipanare la matassa di seta che aveva lasciata a mezzo quando Fermo venne a pigliarla per la spedizione del matrimonio clandestino. (FL III, III, § 68; Chiari-Ghisalberti 382; Caretti 351-52)

L’«arcolajo» di Lucia è già, per Manzoni, anche uno strumento metaforico-testuale: infatti, come si ricorderà, è a se stesso in persona di Narratore-Secondo Autore che la stessa figura veniva legata nel passo sulla digressione:

Che se poi altri volesse censurare queste scuse come inutili, e ci accusasse di cader sempre in digressioni che rompono il filo della matassa, e fermano l’arcolajo ad ogni tratto, egli obbligherebbe chi scrive a fare un’altra digressione…

Lucia siede a «dipanare la matassa di seta» riprendendo il filo della storia interrotta, così come l’Autore è attento a riavviare l’«arcolajo» per recuperare «il filo della matassa» spezzato dalla digressione, e dietro a lui va il Narratore… Lucia è portatrice di luce di pentimento e di conoscenza (ella è, per la vecchia che le fa la guardia nel castello dell’Innominato, «…come la rimembranza della luce, in un vecchione accecato da bambino…»): (66) assorbe e svolge così una funzione più radicalmente mitologica, almeno nella stessa misura e nello stesso senso in cui si può dire, com’è stato detto con grande finezza ermeneutica, che «la natura di Silvia è quella degli astri, e la luminosità ne costituisce un segnale». (67)

Con l’«arcolajo» o con l’«aspo» fra le mani, Lucia interpreta un ruolo cosmicizzante, ossia ordinatore, in solido con Renzo; allorché i due si separano, il filo si spezza o si ingarbuglia, e Lucia s’incarica di dipanare la matassa che viene a formarsi, così come Renzo torna a cercare il capo del filo (e in un momento di difficoltà, «cammina cammina», mentre va verso l’Adda, trova, quasi un doppio di Lucia e Agnese, «una vecchia, con la rocca al fianco, e col fuso in mano», PS, XVI, § 21; Chiari-Ghisalberti 279; Caretti 372; Raimondi-Bottoni 298). Allorché fa «girare e stridere» quel mitico «aspo» che sempre le viene associato (insieme con sua madre Agnese) come lo strumento di produzione del filo della storia, (68) Lucia è anche la Parca che tesse il filo della Storia, e può troncarlo o riprenderlo, a seconda delle necessità. (69)

Così pure, quando siede «orlando» e le chiedono se conosca «un filatore di seta, che si chiama Tramaglino», «che se l’è battuta, per non essere impiccato» (PS, XVIII, § 17; Chiari-Ghisalbetti 311; Caretti 416; Raimondi-Bottoni 336), il cucire, il parlare e il pensare, (70) ripercorrendo a ritroso il cammino della memoria lungo le scansioni del tempo diegetico, sembrano attività coincidenti (proprio come per la «vecchierella» che all’inizio del Sabato del villaggio siende a «filare» e «novella[re]»). Tant’è che a proposito delle chiacchiere e delle ciarle diffuse nel paese sul matrimonio mancato Manzoni aveva scritto, qualche capitolo prima, alludendo esplicitamente ad un tappeto-patchwork di congetture, a un romanzo-tessuto intrecciato di chiacchiere-frange:

Con tutti questi brani di notizie, messi poi insieme e cuciti come s’usa, e con la frangia che si s’attacca naturalmente nel cucire, c’era da fare una storia d’una chiarezza tale, da esserne pago ogni intelletto più critico. (PS, XI, § 30; Chiari-Ghisalberti 197; Caretti 263; Raimondi-Bottoni 208)

Dall’altra parte, si vorrebbe dire, sta il gruppo dei personaggi che assolvono la funzione narratologica opposta: quelli che rompono il filo della matassa, e ostacolano, aggrovigliando o ingarbugliando il filo della storia (e del racconto), trasformandolo in una matassa (anche di tempi narrativi!) che occorrerà poi dipanare. Azzecca-garbugli, soprattutto, il garbuglio lo porta già nel nome parlante, essendo un ingarbugliatore di fili e di storie: e mentre Renzo lo fissa a bocca aperta, sembra «un materialone» che «sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai» (anche se poi, con grottesca trasposizione dell’evento fittizio del paragone tutto linguistico entro il reale della narrazione, «quand’ebbe […] capito bene cosa il dottore volesse dire e quale equivoco avesse preso, [Renzo] gli troncò il nastro in bocca…»). (71)

Il lemma garbuglio è usato, nel Fermo e Lucia, tre volte al singolare (72) e otto al plurale, (73) sempre con il senso di caos, di situazione anarchica e pericolosa, ed anche di groviglio, di complicazione: ma soprattutto sempre con perfetta specularità del senso valido nell’universo di organizzazione della trama (incentrato sull’asse semico dei singoli personaggi e dei loro punti di vista che si annodano lungo il filo della storia) e di quello valido nell’universo metaforico-narratologico (cioè imperniato sull’asse semico del Narratore, che guarda al filo del discorso del suo stesso narrare).

Talvolta anche a un personaggio imbrogliatore di matasse e di grovigli giova che si possa ritrovare il bandolo, restituendo ordine ai tempi narrativi: ed è lui, allora, a farsi carico della funzione attanziale di recuperatore del suo antagonistico filo della storia:

Parve a don Rodrigo che la matassa non fosse tanto imbrogliata com’egli aveva temuto, e che il bandolo si potrebbe ravviare senza troppa difficoltà. (74)

Trasferita a forza nel castello dell’Innominato, un orrido impastato di chiaroscuri e di penombre caravaggesche, di «lividori d’un mondo, il di cui pittore potrebbe essere lo Spagnoletto», (75) Lucia

stava più che mai raggomitolata nel suo cantuccio […] (76)

[…] stava immobile in un cantuccio, tutta in un gomitolo […]

[…] s’applicava dolorosamente alle circostanze dell’oscura e formidabile realtà in cui si trovava avviluppata […]

[…] e vide un chiarore fioco apparir e sparire a vicenda: era il lucignolo della lucerna, che, vicino a spegnersi, scoccava una luce tremola, e subito la ritirava, per dir così, indietro, come è il venire e l’andare dell’onda sulla riva: e quella luce, fuggendo dagli oggetti, prima che prendessero da essa rilievo e colore distinto, non rappresentava allo sguardo che una successione di guazzabugli. (PS, XXI, §§ 35-36; Chiari-Ghisalberti 361-62; Caretti 482-83; Raimondi-Bottoni 395-96)

L’inquadratura è la stessa – per i tagli prospettici e luministici espressi in lingua caravaggesca – del notturno degli inganni, nell’VIII capitolo. Anche là, in tonalità alterne fra la grottesca e la malinconica, «il lucignolo, che moriva sul pavimento, mandava una luce languida e saltellante sopra Lucia, la quale, affatto smarrita, non tentava neppure di svolgersi» dal viluppo del «tappeto» che don Abbondio le ha lanciato «sulla testa e sul viso»; e poi «l’ombra lunga ed acuta del campanile», che fa sì che «ogni oggetto si poteva distinguere, quasi come di giorno» (PS VIII, §§ 22-23; Chiari-Ghisalberti 127-28; Caretti 170-71; Raimondi-Bottoni 136-37). Al «chiaro di luna» o al lume d’una «lucerna», proprio come nella Vocazione di S. Matteo di Caravaggio, già da qualche pagina il dito puntato della luce, quasi fosse una lama di coltello, scoccava a dinamizzare e insieme a teatralizzare liricamente il reale, accompagnando «gli sbalordimenti e le angosce di Lucia» (Raimondi-Bottoni 133):

Il chiamato aprì l’uscio, appena quanto bastava per poter passar lui e il fratello, a un per volta. La striscia di luce, che uscì d’improvviso per quella apertura, e si disegnò sul pavimento oscuro del pianerottolo, fece riscoter Lucia, come se fosse scoperta. […] Gli sposi rimasero immobili nelle tenebre, con l’orecchie tese. […] Don Abbondio stava […] al lume scarso d’una piccola lucerna. […] Nel mezzo, come al dividersi d’una scena, apparvero Renzo e Lucia […] (PS, VIII, § 12-21; Chiari-Ghisalberti 125-27; Caretti 167-69; Raimondi-Bottoni 133-35 – miei corsivi).

Questo, anche, significava dunque la lettura di Gadda. Proiettando con paradossale inversione cronologica i «bravi» manzoniani nel quadro caravaggesco essa penetrava, grazie a inattesi e inediti strumenti d’indagine, nel cuore d’un libro troppo a lungo presentato come un classico della pacificazione provvidenzialistica e della classicità rappresentativa: e così riusciva a cogliere la vitalità del barocco (e del realismo o naturalismo barocco) di cui era profondamente intriso quell’immaginario iconologico, (77) avviando la macchina barocca del livre à venir (la futura Cognizione del dolore) proprio con l’Apologia manzoniana. Comprendiamo meglio, allora, perché quest’ultima nasca incastonata nel cuore della riflessione sulla genesi del romanzo moderno a partire dalla difficile, necessaria traslazione dal Fermo e Lucia verso i Promessi Sposi:

Michelangiolo Amorigi veste da bravi i compagni di gioco […] e la luna fa diagonali di ombra e di biancore sui quadri delle case e sui tetti […]. Il Signore comandò che Matteo e lasciasse i dadi e il soldo del mondo <e > lo seguisse […]. (Apologia, SVP 22-23)

(Avrà mai saputo Manzoni che il padre del Caravaggio, autore fra l’altro di un Seppellimento di S. Lucia, si chiamava Fermo Merisi?)


10. «Digressioni che rompono il filo della matassa»; «dipanare la matassa»; «una successione di guazzabugli». Matassa, groviglio, gomitolo, guazzabuglio: il lessico eletto da Carlo Emilio Gadda a mezzo linguistico capace di condensare figuralmente un’ideologia e una poetica (Roscioni 1969a: 82-100) è dunque già tutto manzoniano. Com’è stato ben sintetizzato da Ezio Raimondi, «riconoscere nei Promessi Sposi la realtà combinatoria di una “contaminazione grottesca”, ove il barocco coincideva con l’iperbole ibrida della vita, valeva per Gadda esplorare il senso del proprio rapporto con l’ordine e il disordine del mondo» (Raimondi 1995: 95). A partire dal Giornale di guerra e di prigionia (SGF II 570-71, in data 21 luglio 1916: «il pasticcio e il disordine mi annientano. Io non posso fare qualcosa, sia pure leggere un romanzo, se intorno a me non v’è ordine», miei corsivi), dunque già nel 1916, e poi soprattutto nel Racconto italiano e nella Meditazione milanese, per Gadda è nella chiave identificata da pasticcio, lemma estratto di peso dai Promessi Sposi (78) e adattato a funzione di quasi-sinonimia rispetto a groviglio, (79) che viene posta in luce, sul piano ideologico e insieme poetologico, «la constatata, ineliminabile refrattarietà del reale a ogni tentativo di organica, integrale sistemazione»: risultando così i due concetti assimilabili fino «a confondersi con la nozione di una complicata ma organica struttura, un ordine in cui “tout se tient”», ed anche «il convergere e intrecciarsi di relazioni diverse da cui scaturisce un evento, un oggetto: “ci educheremo a concepire ogni cosa come un groviglio o somma di rapporti nel senso più elato”». (80)

Scopo della scrittura, del Romanzo, è per Gadda la creazione di uno strumento di disintegrazione conoscitiva e di reintegrazione simbolica della realtà inconsciamente percepita: ossia proprio quello che egli stesso attribuiva a Manzoni nelle righe inaugurali dell’Apologia (Bologna 1988: 45 n. 70). «Dipanare il groviglio», «dipanare l’imbroglio», fin dalle primissime pagine scritte dal giovane Gadda (La Passeggiata autunnale) (81) è il fine cui tende il Romanzo, macchina gnoseologica, «memoria coordinatrice» ed euresi eticamente orientata (Bologna 1988: 46-47, e n. 72):

Persuaso che i «più grandi artisti» siano al tempo stesso i «più squisiti dialettici, i chiari separatori della trama complessa della realtà», Gadda ritiene che ogni romanzo debba approdare a una sorta di agnizione: e ciò in virtù dell’individuazione e dell’analisi di reali, oggettivi elementi cospiranti». (Roscioni 1969a: 86, con cit. da Racconto; miei corsivi)

Nel cuore della Cognizione del dolore, grande parodia / ri-cantazione dei Promessi Sposi (Bologna 1993: II, specie 753 ss.), la complessa metafora manzoniana della filatura-tramatura viene riattivata, ma sotto una lente che ne deforma profondamente l’esito narratologico. La figura-base del filo della storia è sostituita, con perfetta solidarietà poetologica al progetto ermeneutico fissato tra Racconto italiano e Meditazione milanese, da quella della rete di digressioni: e quest’ultima si articola ulteriormente, saldando metaforico e allegorico, forma del contenuto e forma dell’espressione, (82) fino ad esaltare la funzione digressiva, anzi direi proprio, quasi in senso musicale, la forma-digressione, come strumento di euresi.

Sigillo il discorso fin qui svolto con l’esempio di più straordinaria evidenza, nel quale non solo la tramatura intertestuale, ma l’inversione prospettica del punto di vista gaddiano relativo ai personaggi è eloquente, e condiziona l’intera operazione parodica.

Nella Cognizione, come s’è detto, il ruolo di Perspektiverträger, portatore di prospettiva (o se si vuole del punto di vista centrale), anche nella perdita di qualsiasi filo di continuità diegetica, è svolto nella prima parte da Gonzalo; il quale – «ultimo hidalgo» che se ne sta «nella sua villa senza parafulmine» a leggere «il fondamento della metafisica dei costumi» – discende «in linea maschile diretta da Gonzalo Pirobutirro d’Eltino, stato già governatore spagnolo della Néa Keltiké» (Gadda 1987a: 98-100, rr. 1496-498, 1500-502 e annotazione): ed è esplicitamente modellato, con deformante contrafactum, sul don Gonzalo Fernández di Cordova, governatore di Milano durante i moti di San Martino nei quali Renzo rimane coinvolto. Il personaggio, che svolge una limitata, comunque non centrale funzione nel Fermo e Lucia (dove è ricordato solo tre volte: FL III, V, § 82; VI, §4; IV, II, § 14 – Chiari-Ghisalberti 431, 434, 533; Caretti 396, 400, 491) e nei Promessi Sposi (qui le citazioni del nome aumentano a ventitre, a partire dal I cap., concentrandosi soprattutto nei capitoli XXVI-XXVIII, quelli della sommossa milanese, e nel XXXI, incentrato sulla peste), nella Cognizione viene proiettato su un fondale assai più ampio. Al contrario, la clonazione di Renzo è sottoposta a quella che definirei pressione cubistico-futuristica: essa lo schiaccia in una digressione legata all’antenato dell’hidalgo, mediante rovesciamento del telescopio in microscopio, entro un doppio grottesco fin dal nome, che a sua volta, come Tramaglino, è parlante. La sua fulminea epifania viene celebrata, dopo ermetico avvio, nel segno della replica parodica, in un patchwork di citazioni manzoniane che in altra sede occorrerà più distesamente decrittare:

Che gracchiano le genti? Non si smagliasse, nella rete dell’idea, lo strappo piscivúlvulo del condono. […] Onta, per lui [don Gonzalo], e rammarico immedicabile per tutto il siderale corso degli anni, non essere arrivato a tempo a far impiccare sulla forca pubblica certo Filarenzo Calzamaglia o, come dicevan tutti, Enzo, sfuggito di mano dalla sua giusta giustizia; che gli aveva messo i manichini intorno i polsi durante certi tumulti di San Juan, del novembre ’88. Costui, da un incendio all’altro, e dopo aver ascoltato a cicalare alcuni cretini, aveva fatto il fesso a sua volta, al di là di ogni pensabile provvidenza d’indulto del Governatore, o benignazione della Sovrana Clemenza. […] La cicala, sull’olmo senz’ombre, friniva a tutto vapore verso il mezzogiorno, dilatava la immensità chiara dell’estate. (Gadda 1987a: 101, rr. 1511-513, e pp. 102-03, rr. 1539-551; miei corsivi)

La ripresa della metafora tessile manzoniana, oltre che dalla sovrapposizione metaparodica dei nomi (che giunge alla moltiplicazione dell’ipocoristico) è resa esplicita dal richiamo intratestuale che riconduce all’indietro con l’esatto ritmo della memoria, verso le primissime pagine del romanzo, nel medesimo tratto inaugurale:

Si smàgliano allora, nella compattezza del tessuto, i caritatevoli strappi della eccezione. (Gadda 1987a: 14, rr. 117-19; miei corsivi)

E ancora, poco dopo, «sciorinando il panno», il dulcamaresco «commerciante di stoffe» induce un collegamento metaforico-testuale dei temi cucire / raccontare che rammenta dappresso (oltre all’osteria della Malanotte, e la notte di Renzo nell’osteria, che qui sembra indurre «l’osteria verso mezzogiorno») la pagina manzoniana già ricordata sui «brani di notizie, messi […] insieme e cuciti come s’usa, e con la frangia che si s’attacca naturalmente nel cucire», con cui «c’era da fare una storia»:

pervenne a sbolognare ai più progrediti un qualche mezzo taglio dei meglio, dei più castagnoni, e verdi, da cucirne fuori una gualdrappona d’una giacca, o un «pantalon», per quanto peloso. Ma quelle mezze frasi e mezze notizie non erano cadute là senza seguito: filate a modino e intessute poi fra loro, fecero già quasi un discorso. E le si arricchirono e compierono all’osteria verso mezzogiorno… (Gadda 1987a: 38-39, rr. 553-560)

Né senza ragione chi per primo, nella Cognizione, diffonde l’imbroglio delle chiacchiere (le «ciarle», le «chiacchiere» manzoniane, il vano «cicalare»), che le donne amplificano «ingarbugliandolo anche più» è un «commerciante di stoffe» (Gadda 1987a: 32-33, rr. 421-23 e 430): attraverso il pantografo deformante gaddiano questi corrisponderà, credo, al «mercante» che «serve di panno» i signori «per le livree della servitù», in cui nel capitolo XVI s’imbatte Renzo entrato nell’osteria di Gorgonzola, dopo aver incontrato la «vecchia, con la rocca al fianco, e col fuso in mano» (PS, XVI, § 43; Chiari-Ghisalberti 285; Caretti 381; Raimondi-Bottoni 304).

Lo «strappo» nella «rete dell’idea», compresso fra metafora e metonimia in arco frastico di formidabile densità, cifra la «smagliatura» della «trama» attraverso la quale Filarenzo Calzamaglia «fila» via: cioè fugge, aprendo la «maglia» della «rete» che lo contiene nominalisticamente (il «tramaglio» che era fin dall’inizio senhal neppure troppo clus di Lorenzo Tramaglino, «filatore di seta»: (83) e già di per sé «aver nome Tramaglino è una disgrazia, una vergogna, un delitto»), (84) e diventa così, alla lettera, un «filatore scappato» (PS, XVIII, § 22; Chiari-Ghisalberti 313; Caretti 418; Raimondi-Bottoni 337). In questo modo, smagliandosi la rete (cioè la trama), Renzo / Enzo Tramaglino / Calzamaglia, fila, scappa dalla trama del romanzo, nel quale è balenato come un fulmine, attraverso il tunnel digressivo (risuona oltretutto la doppia eco del famoso «Scappa, scappa, galantuomo» incipitario del cap. XVI, replicante lo «Scappi, scappi. Non si lasci prendere» gridato nel cap. IV a Lodovico / fra’ Cristoforo). (85)

Il don Gonzalo di Gadda non riesce a liberarsi del «rammarico immedicabile per tutto il siderale corso degli anni» legato al Filarenzo Calzamaglia smagliatore di trame e Perspektiverträger di digressioni, perfetto attante di strutture romanzesche antinarrative; quello di Manzoni, guardando agli intrecci del filo nella trama della storia da un punto di vista antipodico, «non l’ave[va] proprio davvero col povero filatore di montagna», il «filatore scappato» che, inconsapevole come tutte le «genti meccaniche», con il suo «strappo piscivúlvulo» smagliava la trama della grande, impossibile Storia, «traponta[ta] coll’ago finissimo dell’ingegno» in «fili d’oro e di seta»:

Don Gonzalo aveva troppe e troppo gran cose in testa, per darsi tanto pensiero de’ fatti di Renzo; e se parve che se ne desse, nacque da un concorso singolare di circostanze, per cui il poveraccio, senza volerlo, e senza saperlo né allora né mai, si trovò, con un sottilissimo e invisibile filo, attaccato a quelle troppe e troppo gran cose. (86)

Nel capitolo successivo quel Tramatore – che, anche lui «attaccato a un filo», come Penelope tesse e ritesse la tela grande dell’«Historia», e deve perciò molto dimenticare per poter ricucire Quella alle infinite «historie» piccole che continuamente si smagliano – assumerà per similitudine la più stravolta e allegorica tra le forme dell’inavvertito bestiario manzoniano (così pullulante d’una inattesa zoologia figurale, con lupi e agnelli, corvacci e «uccelli di bosco», mandrie di porci e cani barboni usciti dall’acqua, asine e «pezzi d’asino», e cani da pastore-narratori che inseguono greggi di porcellini d’India-personaggi smarriti, (87) e branchi di segugi che van dietro a fuggiasche lepri-Lucie: (88)

[…] don Gonzalo, dopo aver parlato del tumulto […] fece quel fracasso che sapete a proposito di Renzo […]. Dopo, non s’occupò più d’un affare così minuto e, in quanto a lui, terminato; e quando poi, che fu un pezzo dopo, gli arrivò la risposta, al campo sopra Casale, dov’era tornato, e dove aveva tutt’altri pensieri, alzò e dimenò la testa, come un baco da seta che cerchi la foglia: stette lì un momento, per farsi tornar vivo nella memoria quel fatto, di cui non ci rimaneva più che un’ombra; si rammentò della cosa, ebbe un’idea fugace e confusa del personaggio; passò ad altro, e non ci pensò più. (PS, XXVII, §§ 11-12; Chiari-Ghisalberti 461-62; Caretti 617; Raimondi-Bottoni 526)


11. Un bestiario metaforico e allegorico, appunto, ancora quasi tutto da studiare, con filologica zoologia e specialmente entomologia: ragni e bachi da seta; ma anche grilli e cicale…

Nell’intreccio-guazzabuglio della rete di richiami, attorti come la «povera vigna» di Renzo del cap. XXXIII (che è tutta «un guazzabuglio», una «confusione», una «marmaglia», uno «scompiglio», «un intreccio di cose») e caotici come la casa di don Abbondio dopo il passaggio dei lanzichenecchi (cap. XXX), non sfuggirà certo il nodo lessicale-semantico che lega i fili così lontani dei due racconti, ancora una volta trasferendo in metonimia, nella reductio deformatrice gaddiana, la voce metaforica dei Promessi Sposi:

[…] [Renzo] si rammentava poi anche, in confuso, d’aver, dopo la partenza dello spadaio, continuato a cicalare; con chi, indovinala grillo (PS, XVI);

[…] sarà meglio che riprendiamo il filo della storia, e che, in vece di cicalar più a lungo intorno a quest’uomo, andiamo a vederlo in azione, con la guida del nostro autore… (PS, fine XXII);

…dopo aver ascoltato a cicalare alcuni cretini… (Gadda 1987a: 101);

…la cicala, sull’olmo senz’ombre, friniva a tutto vapore… (Gadda 1987a: 101).

Nel libro che si pretende inteso alla linearità e alla trama coerente, Renzo appartiene alla stirpe dei «cicaloni», miranti a «prolungare il discorso» (PS, VII, § 22; Chiari-Ghisalberti 107; Caretti 144; Raimondi-Bottoni 115) e a trattenere (89) il farsi armonico dell’intreccio, ideatori di imbrogli (ovviamente sgraditi a Lucia perché «non son cose lisce», mentre lei, come si sa, insiste per seguire il «filo» di fra Cristoforo), e comunque capaci di «perder il filo» facendo «un guazzabuglio» di discorsi «dall’eloquenza appassionata e imbrogliata» (90) (ad esempio quando si ubriacano nelle osterie in cui troppo spesso entrano) il «filatore» Renzo (e per lui si dice infatti, metaforicamente, «indovinala grillo»). Ma il «cicalìo», specie delle donne, si ramifica per l’intero libro: e «cicalare», s’è detto, significa alla lettera (91) diffondersi in «ciarle» e «ciance» e «chiacchiere» inutili (quelle di Agnese e delle altre pettegole, e le «chiacchiere e cabale» con cui, solo, si esprime Azzecca-garbugli – PS, XXV, § 5; Chiari-Ghisalberti 429; Caretti 572; Raimondi-Bottoni 482), perdendo e facendo perdere al Narratore e a noi il filo della storia in inutili e nocive digressioni, che quel filo di fatto tagliano o ingarbugliano in confusa matassa.

L’altro libro, che dopo il profondo regresso della seconda metà dell’Ottocento (92) al primo si salda in esplicita assunzione di poetica, sceglie la via della digressione e dell’inconcludenza, riprendendo il filo là dove il Narratore trompeur lo annoda «in due parole» con l’happy end buono per lettori semplicioni, (93) e negando la possibilità stessa di intrecciare una storia. La Cicala è trasposta in questa metonimica individuazione figurale attraverso il «cicaleccio degli uomini» (Gadda 1987a: 204, r. 298): essa è, ormai, la solare, canora compagna della Luce, che rappresenta (anche) una nuova forma allegorica di Lucia. E questo, va sottolineato, solo nella prima parte, mai nella seconda, dominata unicamente dall’ombra silenziosa della Madre che «vaga, sola, nella casa», e dove si temono la «trama degli atti», «l’inutile ordito degli atti» (Gadda 1987a: 353, r. 15, e 355, r. 470).

La ritmica, luminosa voce della Cicala (non più quella del mobilissimo cicalone Renzo, distraente, negativa per lo scioglimento della storia) nell’andirivieni di sole e nuvole, di giorno e notte, di stagione e stagione, di generazione e generazione, scandisce un nuovo ondívago fluire (rhythmus) del tempo narrativo, cadenzato, al pari d’una mnemotecnica orientativa nella smisurata proliferazione diegetica, dalle intermittenze della luce e del suono: e tesse un inedito filo luminoso-sonoro simile, vorremmo dire con Didimo Chierico, alle oceaniche onde delle ottave ariostesche, modello gaddiano del «dire per digressione». (94)

è la corrente alternata di questo canto-di-luce, che sgorga dalle chiome degli stessi alberi (soprattutto i càrpini, cui s’aggiungono gli olmi, sempre manzoniani, e le robinie) distribuiti nella vasta tavola dell’incipit del Fermo e Lucia e dei Promessi Sposi, (95) a svolgere il ruolo di periodizzatore e nel contempo di connettore testuale fra le zone digressive organizzate a macchia. Si tratta della funzione che in Manzoni veniva assolta dai successivi annodamenti del filo della storia, districato preventivamente, attraverso la voce del Narratore, dalla matassa cui l’avevano ridotto le digressioni: ossia, sul piano metaforico-spaziale, l’incrociarsi dei cammini percorsi dai vari personaggi per «strade» e «stradicciuole».

Così, iterando parole e figure mentali di alta iconicità visivo-sonora, Gadda delibera di rideterminare il metaforico cicalare manzoniano, indicatore testuale della digressione o comunque della perdita del filo del racconto, nel metonimico personaggio-cicala che consente di riannodare lungo un asse relativamente coerente i molti fili d’una narrazione per se stessa divagante e inconcludente (e difatti inconclusa), smagliata e priva di personaggi davvero portatori di prospettiva, perché costruita sull’interferenza di prospettive temporali-diegetiche multiple ed anche contraddittorie. In questo ritmo l’energia del senso e quella della temporalità narrativa trovano un’almeno provvisoria saldatura:

Oh! lungo il cammino delle generazioni, la luce!… che recede, recede… opaca… dell’immutato divenire. […] La luce, la luce recedeva […] E dolorava il respiro delle generazioni, de semine in semen, di arme in arme. Fino allo incredibile approdo.

[…] La cicala, sull’olmo senz’ombre, friniva a tutto vapore verso il mezzogiorno, dilatava la immensità chiara dell’estate.

[…] Al passare della nuvola, il carpino tacque. […] La robinia tacque, senza nobiltà di carme…

[…] [lo] stridere di tutte le piante…

Il crepitío infinito della terra pareva consustanziale alla luce…

[…] due finestre, di cui una chiara, aperta sulle robinie, sulle cicale, e due letti.

E le cicale, popolo dell’immenso di fuori, padrone della luce.

[…] immersa in quella salamioa di cicale e di luce…

[…] le campane del mezzogiorno avevano messo nei colli […] il pieno frastuono della gloria. […] Vincendo robinie e cicale, e carpini, e tutto, le matrici del suono si buttarono alla propaganda di sé, tutt’a un tratto: che dirompeva nella cecità infinita della luce. Lo stridere delle bestie di luce venne sommerso in una propagazione di onde di bronzo […]

[…] quel campo oltraggioso di non-forme: […] quel caravanserraglio d’impedimenti d’ogni maniera: cicale cipolle zòccoli…

Uscirono sul terrazzo da cui si guardava l’estate, a mezzogiorno e a ponente. Le campane tacevano: le cicale gremivano l’immensità, la luce.

Le cicale franarono nella continuità eguale del tempo, dissero la persistenza: andàvano ai confini dell’estate. (96)


12. «Molti fili si sono intrecciati nel mio discorso? Quale filo devo titrare per trovarmi tra le mani la conclusione?» (Calvino 1995: I, 652). Dirò che non è affatto casuale se a 70 anni d’età, dieci prima della sua scomparsa e quando ormai «la luce recedeva» e incominciava a intuirsi «lo incredibile approdo», Gadda stesso, in una scheda autobiografica destinata a illustrare la sua figura fra «i Contemporanei» della letteratura italiana, tornò a saldare al Manzoni la memoria paterna, ancora una volta sotto il blasone del filo della storia di Renzo Tramaglino: che si dichiara dunque, per lui, una sorta di padre spirituale:

Padre, «filatore di seta» come Renzo, ma in forma leggermente più capitalistica; in dialetto lombardo 1890 «negoziant de seda» o anche «sedirö» […] (SGF II 873; scheda è databile al 1963, SGF II 1131)

In clausola pongo due epigrafi che nella loro densità allusiva mi sembrano sintetizzare tutto il ragionamento epistemologico e poetologico fin qui abbozzato:

Quando ho cominciato a scrivere storie fantastiche non mi ponevo ancora problemi teorici; l’unica cosa di cui ero sicuro era che all’origine d’ogni racconto c’era un’immagine visuale […]. Sono le immagini stesse che sviluppano le loro potenzialità, il racconto, che esse portano dentro di sé; (Calvino 1995: I, 704-05)

L’indice storico delle immagini dice […] che esse appartengono ad un’epoca determinata, ma soprattutto che esse giungono a leggibilità solo in un’epoca determinata. E precisamente questo giungere a leggibilità è un determinato punto critico del loro intimo movimento. […] Solo le immagini dialettiche sono immagini autenticamente storiche, cioè non arcaiche. (Benjamin 1986: 599)

Note

* Questo saggio rappresenta l’ordito essenziale di una più ampia tessitura che spero possa presto venire compiuta in forma di volume, tramata di maggiore documentazione e di argomentazione a maglie più fitte: entrambe qui ridotte per ragioni di spazio. Di simile tela ho srotolato per ora qualche scampolo durante due seminari organizzati per il C.I.D.I. durante il mese di marzo 1998, a Roma da Pino Fasano, e a Napoli da Ugo M. Olivieri: un «grazie» a entrambi per il contributo nella discussione.

1. Nel senso determinato da H. Blumenberg, Paradigmen zur einer Metaphorologie, Bonn 1960 (tr. it. Paradigmi per una metaforologia, Bologna 1969: da qui si cita): «elementi primi della lingua filosofica, traslati irriducibili alla proprietà della terminologia logica» (6); «esse si dimostrano resistenti alla richiesta di riduzione in termini logici», e «non possono venir risolte in forma concettuale» (8). Soprattutto, «l’esibizione di casi di metafora assoluta dovrebbe offrirci l’occasione a riesaminare daccapo il rapporto fra fantasia e logos, e precisamente nel senso di considerare l’ambito della fantasia non soltanto come substrato per operazioni di trasformazione a livello concettuale […], ma piuttosto come una sfera catalizzatoria, alla quale il mondo concettuale certamente si arricchisce, senza tuttavia modificare o consumare questo fondo costitutivo primario» (7). Per un analogo accostamento metodologico cfr. H. Weinrich, Metafora e menzogna: la serenità dell’arte, trad. it. Bologna 1976 (specie cap. I, Moneta e parola. Ricerche su di un campo metaforico, 31-48); P. Ricœur, Temps et récit, 3 voll., Paris 1983 (specie vol. I, L’intrigue et le récit historique). Sulla «trama narrativa» e sull’ordinamento del racconto come sua strutturazione logica di un disegno segreto di carattere letterario, cfr. ora P. Brooks, Trame. Intenzionalità e progetto nel discorso narrativo, trad. it. Torino 1997.

2. Cfr. G. Gorni, La metafora di testo, in Strumenti critici 38 (feb. 1979): 18-32.

3. Cfr. soprattutto R. Antonelli, «Rerum vulgarium fragmenta» di Francesco Petrarca, in Letteratura italiana. Le Opere, a cura di A. Asor Rosa, I, Dalle Origini al Cinquecento, Torino 1992, 379-471 (specie 400-10), anche per la bibliografia pregressa.

4. Così G. Agamben (La fine del poema, in Categorie italiane, Venezia 1996, 115) definisce il punto di snodo dei versi nel quale, con la rima e il bianco dell’a-capo, si produce «lo scollamento tra un evento semiotico (la ripetizione di un suono) e un evento semantico, che induce la mente a esigere un’analogia di senso là dove non può trovare che un’omofonia» (114); e cfr. 118: «non vi sono […], nel poema, due serie o due linee in fuga parallela, ma una sola, percorsa nello stesso tempo dalla corrente semantica e da quella semiotica; e, tra i due flussi, quel brusco stacco che la mechané poetica si applica caparbiamente a mantenere. (Il suono e il senso non sono due sostanze, ma due intensità, due tónoi dell’unica sostanza linguistica)».

5. Faccio uso immediatamente d’una formula manzoniana: cfr. n. 50 e il testo manzoniano ricordato a quell’altezza argomentativa.

6. Cfr. C. Bologna, Mostro, in Enciclopedia Einaudi, IX, Torino 1980, 556-80 (specie 557-59).

7. Cfr. C. Bologna, Alessandro e il Nodo di Gordio, in Nodi, a cura di M. Belpoliti e J.-M. Kantor [=«Riga», 10], Milano 1996, 182-216 (specie 191 ss. e 199 ss.; 202 ss. per l’adempimento ingannevole del destino).

8. A. Sofri, Il nodo e il chiodo. Libro per la mano sinistra, Palermo 1995, 50.

9. Una ricca documentazione accompagnata da sottili analisi filologiche e antropologiche si troverà nel libro più fine, a mia conoscenza, su questo complesso tema: J. Scheid – J. Svenbro, Le métier de Zeus. Mythe du tissage et du tissu dans le monde gréco-romain, Paris 1994 (su textus cfr. i capp. 5, Le manteau de Phèdre. Préhistoire du «texte» en pays grec, 119-38, e 6, La naissance d’un idéogramme. La métaphore du textus en pays latin, 139-62).

10. Cfr. M. Detienne - J.-P. Vernant, Les ruses de l’intelligence – La mètis des Grecs, Paris 1974 (trad. it. Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, Roma-Bari 1977: specie 30 ss., sul potere di legare come «progetto meditato» che si realizza mediante plessi, annodamenti, legami, esplorazioni multiple nel labirinto delle infinite potenzialità precedenti ogni scelta).

11. F. Frontisi-Ducroux, Dédale. Mythologie de l’artisan en Grèce ancienne, Paris, 1975, 122 e 191-92.

12. Così F. De Sanctis in una sua lezione torinese sulla Commedia: «La poesia non s’era ancora potuta sciogliere dall’allegoria. Il cristianesimo in nome del Dio spirituale facea guerra non solo agl’idoli, ma anche alla poesia, tenuta lenocinio e artifizio: voleva la nuda verità. E verità era filosofia o storia: la verità poetica non era compresa. La poesia era stimata un tessuto di menzogne, e poeta e mentitore, come dice il Boccaccio, era la stessa cosa; i versi erano chiamati, come dice san Girolamo, cibo del demonio» (F. De Sanctis, Corso torinese sopra Dante. Anno primo (Inverno-primavera del 1854), in Id., Lezioni e saggi su Dante, a cura di S. Romagnoli [«Opere di Francesco De Sanctis», V], Torino 1985, 109 (nella Lezione VI, Vittoria del genio sulla critica).

13. Cfr. Blumenberg 1969: IV, La metaforica della «nuda» verità, 57-71: «La scoperta della storia nel pieno dell’Illuminismo e in contrasto col suo corso è la scoperta della illusione della nuda verità o della nudità come illusione, il superamento della metafora e il suo rinnovamento orientato a vedere i travestimenti della verità […] non più come apporti accidentali da eliminare, ma tali che costituiscono il modo di manifestazione della verità» (67).

14. Le si leggano ancora in Tutte le opere di Alessandro Manzoni, a cura di A. Chiari e F. Ghisalberti, vol. II, t. III, Fermo e Lucia, prima composizione del 1820-1823, Milano 1954, rispettivamente alle pp. 3 e 9 (d’ora in poi il testo manzoniano sarà siglato: FL). Per praticità del lettore si farà riferimento anche all’edizione a cura di L. Caretti 1971, Torino 1971, t. I, Fermo e Lucia – Appendice storica su La colonna infame. Sul contrasto delle due Introduzioni, anche in rapporto ai materiali coevi, e sulla crisi struttiva connessa alla seconda, si veda M. Dell’Aquila, Le introduzioni al «Fermo e Lucia» e il groviglio non risolto della lingua, in Italianistica – Rivista di letteratura italiana 14 (1985): 347-63.

15. E. Raimondi, Il romanzo senza idillio. Saggio sui «Promessi Sposi», Torino 1974, 148.

16. Manzoni possedeva una copia (oggi a Brera) della Traduzione de’ due primi canti dell’Odissea e di alcune parti delle Georgiche con due epistole una ad Omero l’altra a Virgilio edita da Gambaretti a Verona nel 1809: si veda, negli Annali Manzoniani 6 (1981): 185-233 (218), il catalogo sommario della raccolta di Brusuglio, preceduto (59-64) da una Preliminare informazione sulle raccolte manzoniane, a cura di C. Pestoni (alle pp. 65-159 il catalogo della raccolta di Via Morone; alle 161-184 di quella di Brera). La versione completa dell’Odissea curata dal Pindemonte uscì a Verona nel 1822 (uso la mia copia della 2a edizione, sempre in due voll.: Ciardetti, Firenze 1823). Non sfugga il dettaglio che la «tela sottile, tela grande, immensa» (I, 37), «tela ingannatrice» tessuta con «frode» (I, 38) da Penelope per «le [sue] nozze indugiar» dovrà essere il sudario funebre del padre di Ulisse: «lúgubre ammanto per l’eroe Laerte» (I, 37). Si noti altresì che l’aggettivo ferale (frequente in autori cari al Manzoni giovane, quali Alfieri e Monti), compare, entro il quadro d’un notturno orrido-funerario, nel Lamento d’Aristo in morte di Giuseppe Torelli (XVII, 1) fra le Poesie campestri del Pindemonte, con il sintagma «feral pompa»: cfr. le Prose e poesie campestri, a cura di A. Ferraris, Torino 1990, 197 («pompa feral» è anche nel Mezzogiorno del Parini: cfr. l’ed. critica a cura di D. Isella, vol. I, Milano-Napoli 1969, 53, v. 176).

17. Cfr. Tutte le opere di Alessandro Manzoni, a cura di A. Chiari e F. Ghisalberti, vol. II, t. II, I Promessi Sposi […] Testo critico della prima edizione stampata nel 1825-27, Milano 1954, 1 (miei corsivi; d’ora in poi il testo manzoniano sarà siglato: PS). Cfr. anche, nella citata ed. a cura di L. Caretti 1971, il t. II, I Promessi Sposi nelle due edizioni del 1840 e del 1825-27 raffrontate tra loro – Storia della colonna infame (qui p. 3). Ci si richiamerà anche, per l’importanza del commento continuo, all’edizione del romanzo a cura di E. Raimondi e L. Bottoni, Milano 1987 (qui p. 1). Per la «Ventisettana», in vista d’una nuova edizione, cfr. D. Isella, Le testimonianze autografe plurime, in Id., Le nuove carte mescolate. Esperienze di filologia d’autore, Padova 1987, 19-36.

18. FL II, II, § 6; Chiari-Ghisalberti 161; Caretti 144. E cfr. più tardi (FL II, VIII, § 62) Agnese, in dialogo con il portinaio del convento di padre Cristoforo: «Oh la bella storia!» (Chiari-Ghisalberti 266; Caretti 242).

19. Cfr. C. Bologna, Tradizione e fortuna dei classici italiani, 2 voll., Torino, 1993, II, Dall’Arcadia al Novecento, 657-69 (anche per i dati sui manoscritti e sulla bibliografia critica relativa).

20. Così D. De Robertis, L’antifavola dei «Promessi Sposi» (1973), in Carte d’identità, Milano 1974, 315-40 (319); precisa l’autore: «nel senso che la Commedia è, o piuttosto non è, un poema filosofico».

21. Nel senso di Raimondi 1974, e di Isella 1994a: 5-34.

22. Mi permetto di rinviare alle argomentazioni che ho già svolto in Tradizione e fortuna dei classici italiani, II, specie 745 ss. e 773 ss. Sul rapporto fra teatro e romanzo in Manzoni si veda, inoltre, almeno l’ampia ricerca di C. Annoni, Lo spettacolo dell’uomo interiore. Teoria e poesia del teatro manzoniano, Milano 1997, specie i capitoli Lessing e Manzoni, 3-74, e Dall’«Adelchi» al «Natale del 1833», 139-215.

23. Cfr. Racconto, SVP 411 (nota compositiva n° 15, 14 aprile 1924). Si rifletta a come il barocco Caravaggio sia il dedicatario della «dedica: (bizzarra)» che nell’aprile del ’24 sarà ipotizzata per il romanzo («Al mio grande ed inarrivabile maestro | Michelangelo Amorigi da Caravaggio», 590-99) e venga ancora evocato, il 2 agosto di quell’anno, nella grande «Nota» che verrà pubblicata autonomamente nel ’27, su Solaria, come Apologia manzoniana. È sulla base di questa decisiva «gaddizzazione di Manzoni», estrema ed estremistica estensione della continiana funzione-Gadda, che si muovono la Premessa su Gadda manzonista con cui lo stesso Contini introdusse la ristampa dell’Apologia in L’Approdo letterario, n.s., 19 (dic. 1973), nn. 63-64: 50-61, e numerosi interventi di Raimondi (per tutti si veda Un romanzo milanese europeo, apparso come introduzione alla sua citata ed. dei PS, v-xiv; quindi come Una voce milanese europea quale terzo capitolo del suo La dissimulazione romanzesca. Antropologia manzoniana, Bologna 1990, 31-44).

24. Si veda soprattutto la pagina del Racconto successiva a quella appena citata (anch’essa del 24 marzo 1924), sulle cinque «maniere» che egli stesso riconosce nel proprio cibreo stilistico, sigillata dall’importante conclusione: «Bisognerà o fondere (difficilissimo) o eleggere. Vedrò in altra nota» (SVP 396): il tema sarà ripreso nella nota n° 33 del 7 settembre 1924. Credo che alla base si debba individuare ancora una volta un passaggio manzoniano, dall’Appendice storica su la colonna infame allegata al Fermo e Lucia (§§ 104-05: Chiari-Ghisalberti 699; Caretti 649): «scegliere; rifondere; cangiare la tesi […]. Erano dieci storia, e non una» (miei corsivi).

25. Racconto, SVP 395; miei corsivi. Altre note costruttive (ad es. la 9 del 28 marzo, SVP 406-08), richiamandosi proprio a queste riflessioni, insisteranno sull’«istinto della combinazione» che «è nell’universo», e che impone «l’equilibrio», pena lo scivolamento nell’«irreale» (tema che diverrà dominante nella Meditazione milanese e nella Cognizione del dolore).

26. Per la bibliografia sull’«asse Shakespeare-Schiller» nel «rinnovamento letterario» intrinseco alla stesura del romanzo manzoniano, cfr. A. Bruni, Controfigure di Lucia Mondella: Giovanna d’Arco o Elena di Troia?, in Operosa parva per Gianni Antonini, a cura di D. De Robertis e F. Gavazzeni, Verona 1996, 245-55 (specie 248-49, n. 4). Inoltre Annoni 1997: 129 ss.

27. Cfr. SVP 863; corsivi dell’autore. Mi permetto di rinviare a quanto ho già scritto in proposito – Bologna 1988: 19-68 (specie 42 ss.), e Bologna 1993: II, specie 747 ss.

28. Per il trattamento del tema della luce nel passaggio dalla Pentecoste alla scena di Lucia nel castello dell’Innominato si veda Raimondi 1974: 53 ss., e la nota alle rr. 262-68 nel cap. XXI del romanzo nell’ed. Raimondi e Bottoni, 396.

29. Sull’imbricamento tragedia-romanzo e sull’influsso del grande teatro coevo sulla genesi dei Promessi Sposi, cfr. Bruni 1996.

30. Sul problema si leggano le importanti pagine di C. Segre, Teatro e romanzo. Due tipi di comunicazione letteraria, particolarmente il cap. VI, Punto di vista e polifonia nell’analisi narratologica (1981),85-101.

31. Si vedano Raimondi 1974: 249 ss. (L’antitesi romanzesca) e 1990: 96 ss. (nel capitolo L’osteria della retorica), e G. Macchia, Nascita e morte della digressione. Da «Fermo e Lucia» alla «Storia della colonna infame», in Id., Tra Don Giovanni e Don Rodrigo. Scenari secenteschi, Milano 1989, 19-56 (specie 40 ss.).

32. L. Toschi, Si dia un padre a Lucia. Studio sugli autografi manzoniani, Padova 1983, 13.

33. FL II, I, § 1; Chiari-Ghisalberti 143; Caretti 127 (da qui anche la citazione seguente, con cui si apre il capitolo: là, i corsivi sono miei).

34. Martine Van Geertruyden mi segnala che «je reprendrai le fil de mon histoire» è in Jennie di Voltaire, testo (attribuito a un «M. Sherloc») probabilmente non ignoto a Manzoni (fine del cap. V; cfr. l’ed. dei Romans et contes volterriani nella «Bibliothèque de la Pléiade», Paris 1979, 618).

35. Penso soprattutto all’opera, ormai ben nota anche in Italia grazie all’utilizzazione che ne ha fatto Franco Moretti, di Stephen Jay Gould e di Niles Eldredge: mi permetto di rinviare all’uso che ne ho fatto come modello storiografico (quindi con diversa finalità ermeneutica, nell’ottica di una storia della tradizione testuale) nella Premessa (con epigrafi) del mio Tradizione e fortuna – Bologna 1993: I, vii-xxv (xvii-xviii). Si veda, da ultimo, F. Moretti, Atlante del romanzo europeo (1800-1900), Torino 1997, 154-55.

36. Macchia 1989: 29 – si tratta d’una parafrasi puntuale di un famoso brano della lettera al Fauriel di cui qui, n. 48.

37. In un’opera in cui la combinazione dell’elemento lirico e di quello narrativo pone numerosi problemi struttivi e poetologici, qual è la Commedia dantesca, come ho mostrato in un libro in corso di stampa presso l’editore Salerno di Roma (Il ritorno di Beatrice. Simmetrie dantesche fra «Vita Nova», «petrose» e «Commedia»), il lemma punto si carica, rispetto allo sviluppo diegetico e al sovrasenso allegorico, d’un valore strategico-ricapitolativo affine a quello dei nodi intrecciati sul manzoniano filo della storia.

38. Cfr. W. Benjamin, Das Passagen-Werk, a cura di R. Tiedemann, Frankfurt am Main 1982; trad. it. Parigi, capitale del XIX secolo, a cura di G. Agamben, Torino 1986, 594, sezione N, Teoria della conoscenza, teoria del progresso, framm. N 1a, 3.

39. FL II, II, § 6; Chiari-Ghisalberti 161; Caretti 144. Si noti che proprio all’inizio del t. IV (I, § 5; Chiari-Ghisalberti 514; Caretti 473-74) la stessa metafora serve a riavviare il discorso: «Noi abbiamo fatte molte ricerche negli atti pubblici e nelle memorie degli scrittori, per tener dietro alla storia di quei provvedimenti annonarj; ma il filo che a gran fatica abbiam potuto prendere da quella matassa scompigliata appena ci ha condotti per un breve tratto, ci ha fatti raccapezzare gli effetti piú prossimi» (miei corsivi).

40. L’espressione è stata coniata, con riferimento alla narrativa cortese medievale, da I. Nolting-Hauff, Die Stellung der Lieberkasuistik im höfischen Roman, Heidelberg 1959, 99; è interessante che da qui la riprenda Segre, con riferimento a Gonzalo nella Cognizione gaddiana – Segre 1991: 27-44 (33). Specificamente su Renzo e il suo punto di vista, decisivo per l’intreccio, cfr. S.B. Chandler, Point of view in the descriptions of «I promessi Sposi», in Italica 43 (1966): 386-403.

41. PS, XXXVII, § 714; Chiari-Ghisalberti II, t. II («Ventisettana»), 647, vol. II, t. I («Quarantana»: da cui sempre si citerà, salvo diversa indicazione), 644; Caretti 863; Raimondi-Bottoni 738. Renzo «soleva raccontar la sua storia molto per minuto, lunghettamente anzi che no (e tutto conduce a credere che il nostro anonimo l’avesse sentita da lui più d’una volta)»: con affine espressione Gertrude (PS, IX, § 28; Chiari-Ghisalberti 151; Caretti 202; Raimondi-Bottoni 161) chiederà al padre guardiano maggiori dettagli narrativi («Lei sa che noi altre monache, ci piace di sentir le storie per minuto»), motivando anche, con perfetta mise en abyme, la liceità della digressione entro cui la frase è pronunciata (peraltro ampiamente ridotta rispetto al FL); e come si dirà, in FL II, V, § 2 (Chiari-Ghisalberti 211; Caretti 190), entro la stessa ampia digressione sulla Monaca di Monza il Narratore dichiara di doversi far perdonare una digressione «anzi lunghetta che no».

42. Cfr. G. Cavallini, Nota sulle liriche e sulle tragedie, in Id., Un filo per giungere al vero. Studi e note su Manzoni, Messina-Firenze 1993, 18-43.

43. Sia l’edizione Chiari-Ghisalberti (325), sia la Caretti (299), riportano erroneamente «29 novembre»: la correzione è introdotta da Toschi 1983: 17 e n. 11.

44. Cfr. A. Illiano, Morfologia della narrazione manzoniana dal «Fermo e Lucia» ai «Promessi Sposi», Firenze 1993, cap. X, Preterizione, 108-11 (e cap. XI, Digressione, 112-24).

45. FL IV, VII, § 27; Chiari-Ghisalberti 1954: 626; Caretti 1971: 576 (e cfr., nei PS, XXXIII, § 74: «quello era l’unico filo che avesse, per andar in cerca di Lucia» – Chiari-Ghisalberti 1954: 582; Caretti 1971: 780; Raimondi-Bottoni 1987: 667).

46. F. Moretti, Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal «Faust» a «Cent’anni di solitudine», Torino 1994, 20-21.

47. Cfr. A. Manzoni, Del romanzo storico e, in genere, de’ componimenti misti distoria e d’invenzione, in Id., Scritti di teoria letteraria, a cura di A. Sozzi Casanova, Milano 1981, 195-282 (254).

48. A. Manzoni, Tutte le lettere, a cura di C. Arieti, 3 voll., Milano 1986, I, n° 60, 264-72 (271).

49. Cfr. A. Ernout – A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine. Histoire des mots, IVe éd., Paris 1967, s. v. 2. sero, 618-19. Non sarà casuale, forse, che nel cap. XXIV (§ 47; Chiari-Ghisalberti 413; Caretti 552; Raimondi-Bottoni 464) in bocca del sarto sia posto il costrutto «andavan dietro al filo del discorso» (il corsivo, ovviamente, è mio).

50. A. Manzoni, Lettre à M. C*** sur l’unité de temps et lieu dans la tragédie, in Id., Scritti letterari, a cura di C. Riccardi e B. Travi [= Tutte le opere di A. M., a cura di A. Chiari e F. Ghisalberti, vol. V, Scritti linguistici e letterari, tomo III], Milano 1991, 73-211 (con gli abbozzi), 125; una versione italiana si legge nei citati Scritti di teoria letteraria a cura di A. Sozzi Casanova, 55-153 (115-16). Si veda anche Cavallini 1993: 7-17.

51. Cfr. il Viaggio sentimentale di Yorick lungo la Francia e l’Italia, traduzione di Didimo Chierico, in U. Foscolo, Opere, II, Prose e saggi, ed. diretta da F. Gavazzeni, Torino 1995, 213 (Didimo Chierico a’ lettori salute: « un sorriso [può] aggiungere un filo alla trama brevissima della vita»), 256 (cap. XXVII: «M’ingegnai […] di ritessermi com’io poteva la storia dello sconsolato tedesco, e dell’asino; ma il filo mi s’era rotto»), 303 (cap. XLIX). Ininfluente invece mi sembra l’esempio di G. Basile, Lo cunto de li cunti, ed. M. Rak, Milano 1986, 368. Ho basato la verifica sulla consultazione di LIZ 2.0, «Letteratura Italiana Zanichelli», II edizione, CD-ROM dei testi della letteratura italiana, a cura di P. Stoppelli ed E. Picchi, Bologna 1995, banca dati contenente 500 testi da S. Francesco a G. d’Annunzio.

52. Cfr. Raimondi-Bottoni 421. Per Sterne (l. V, cap. XXV) il lettore, «purché segua il filo del suo racconto, […] può andare avanti e indietro a suo piacimento».

53. Questa, ovviamente, la lezione della «Quarantana»: cfr. PS., XXII, § 12; Chiari-Ghisalberti 371; Caretti 495; Raimondi-Bottoni 408 (miei corsivi).

54. Per ricostruire (con documentazione e bibliografia) l’intera vicenda del distacco dell’Appendice storica in Storia della colonna infame, cfr. almeno G. Tellini, specie capp. III, Le promesse disattese. Cronistoria della «Colonna infame», 47-61, e IV, Dall’«Appendice» alla «Storia», Roma s. d., 62-80.

55. Rimane peraltro valida la bipartizione strutturale proposta da Raimondi 1974: 175, sulla base di un doppio asse semico: su quello di Lucia «si incontrano Gertrude, l’innominato, il cardinale Federigo, e magari donna Prassede o don Ferrante; mentre su quello di Renzo, fatta eccezione per il vecchio Ferrer, si dispongono gli uomini della strada e della piazza: osti, avvocati, vagabondi, mercanti, poliziotti, compagnoni, artigiani, monatti, contadini in miseria. Come si vede, tanto l’uno quanto l’altro portano a un’immagine stratificata ed esemplare della società lombarda. Ma solo Renzo si trova a compiere un’autentica esperienza pubblica […]. Egli è l’antieroe della tradizione picaresca, un pover’uomo gettato in un mondo imprevisto di insidie e costretto, nel suo viaggio fra il contado e Milano, a una sorta di paradossale Bildungsroman dove, sovente a sua insaputa, sembra quasi rivelarsi il mistero dell’esistenza. E tocca a lui in fondo, per adoprare […] i paradigmi del Propp, la parte di protagonista vittima e cercatore nei confronti di quella realtà complessa, ma insieme così terribilmente semplice, che è la giustizia».

56. Cfr. FL III, VII, § 74 (Chiari-Ghisalberti 466-67; Caretti 430), e PS, XIV, § 45 (Chiari-Ghisalberti 252; Caretti 336; Raimondi-Bottoni 270).

57. PS, II, §§ 7-8; Chiari-Ghisalberti 22; Caretti 36-37; Raimondi-Bottoni 29: «la professione di filatore di seta» era oltretutto «ereditaria, per dir così, nella sua famiglia». Anche Lucia Mondella, d’altro canto, è stata adocchiata da don Rodrigo «mentre tornava dalla filanda» (PS III, § 3; Chiari-Ghisalberti 40; Caretti 54; Raimondi-Bottoni 43).

58. Prendo nel senso allusivo-allegorico con cui mi sembra sia stato scritto e che si spinge fino alla mise en abyme l’incipit di FL I, VI, §§ 1-2 (Chiari-Ghisalberti 92; Caretti 81), sul quale ha richiamato l’attenzione già C. Ossola, Manzoni e Mozart, in AA.VV., Omaggio a Gianfranco Folena, 3 voll., Padova 1993, II, 1719-738 (1720, e n. 4), in un fine saggio che sento assai cònsono al tema di fondo di questa mia tessitura: «Ognuno può avere osservato che, dalla peritosa sposa di contado fino a… fino all’uomo il più disinvolto e imperturbabile e per dirla in milanese il più navigato, tutti hanno certi loro gesti famigliari […]. La differenza che passa tra gl’intrigati e i navigati (son costretto a prendere entrambi i vocaboli dal dialetto del mio paese, il quale non manca d’uomini dell’una e dell’altra specie) la differenza è che i primi coi loro moti incerti, e vacillanti e goffi mostrano sempre più il loro imbarazzo, e vi si vanno sempre più affondando, mentre negli altri questo disimpegno è nello stesso tempo un esercizio di eleganza e di superiorità» (miei, ovviamente, i corsivi).

59. A. Baldini, Soprannomi dei bravi, in Id., «Quel caro magon di Lucia». Microscopie manzoniane, Milano-Napoli 1956, 140-44.

60. G. Contini, Onomastica manzoniana (1965), in Id., Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino 1970, 201-05 (le parole virgolettate che seguono sono a p. 201). Più di recente cfr. M. Barenghi, Cognome e nome: Tramaglino Renzo. Osservazioni sull’onomastica manzoniana (1985), in Id. Ragionare alla carlona. Studi su «I Promessi Sposi», Milano 1993, 57-72 (ma il suo ragionamento sulla «inessenzialità del cognome nella caratterizzazione dei personaggi», p. 61, mi pare troppo limitativo, e assolutamente non condivisibile).

61. Come fa notare P. Fasano, Renzo: il capitale e l’industria, in Letteratura e industria. Atti del XV Congresso A.I.S.L.L.I. – Torino, 15-19 maggio 1994, a cura di G. Barberi Squarotti e C. Ossola, Firenze 1997, vol. I, Dal medioevo al primo Novecento, 275-82, il mestiere di Renzo è in crisi, e alle risorse della «professione» egli aggiunge quindi «la condizione di piccolo proprietario terriero, in grado persino di assumere braccianti» (277); la sua rinuncia conclusiva all’agricoltura non solo segna allusivamente «lo straordinario passaggio storico della economia borghese nascente»: ma come ogni altro momento di «costituzione di significati generali e attuali», anche questo «incrina la saldezza dell’impresa romanzesca, trasferisce verso le modalità della narrazione, e verso la stessa opportunità della decisione di narrare, i dubbi sul lieto fine della storia di Renzo» (281). «Il rifiuto dell’idillio tocca contemporaneamente il lieto fine della storia di Renzo e il termine del racconto […]; l’ironia inquieta della conclusione del romanzo intacca contemporaneamente il trionfo della rivoluzione borghese e le pretese del genere che ambiva a costituirsi come sua epopea» (282).

62. Cfr. G. Macchia, Vita avventure e morte di Don Giovanni, Bari 1966, 153-79 e 183-226 (da Il convitato di pietra). Sui probabili debiti che Manzoni ha contratto con i libretti dell’opera settecentesca tornerò in altra sede, per non aggrovigliare il filo di questo discorso, già pieno di nodi.

63. R. Calasso, Ka, Milano, 1997, 43.

64. A. Coomaraswamy, Selected Papers, I. Traditional Art and Symbolism, Princeton 1977 (trad. it. Il grande brivido. Saggi di simbolica e arte, a cura di R. Lipsey, ed. it. a cura di R. Donatoni, Milano 1987, 446: miei corsivi).

65. H. Zimmer, The King and the Corpse. Tales of the Soul’s Conquest of Evil, New York 1957 (trad. it. Il re e il cadavere. Storie della vittoria dell’anima sul male, Milano 1983, 285; miei corsivi).

66. PS, XXI, § 6; Chiari-Ghisalberti 354; Caretti 473; Raimondi-Bottoni 386; nella «Ventisettana» (Chiari-Ghisalberti, vol. II, t. II cit., 354) era «il ricordo della luce»: ipotizzabile che la mutazione possa legarsi in qualche modo alla lettura dei Canti leopardiani, apparsi a Napoli nell’ed. Starita del 1835: «rimembranza» è al v. 70 de Il Sogno, al v. 173 de Le Ricordanze (in un contesto che dal v. 154 in poi s’incentra sugli «occhi» e sul «lume di gioventù»), al v. 110 della Ginestra. Nei PS le occorrenze sono quattro, sempre nel significato generico di ricordo.

67. C. Colaiacomo, Cadere per durare: tema e immagine in «A Silvia», in Id., Camera obscura. Studio di due canti leopardiani, Napoli 1992, 139-46 (140).

68. FL I, IV, § 63 (ultimo del capitolo: Chiari-Ghisalberti 74; Caretti 63) > PS, IV, § 67 (ultimo del capitolo: Chiari-Ghisalberti 71; Caretti 96; Raimondi-Bottoni 76); FL I, VI, § 63 (Chiari-Ghisalberti 107; Caretti 94). Nei PS, oltre al luogo citato, cfr. anche VI, § 28 (nel § 26 fra Cristoforo riconosceva il «filo [della] provvidenza» da seguire: Chiari-Ghisalberti 94; Caretti 126; Raimondi-Bottoni 101); XVII, § 49 (Bortolo ricorda, parlando a Renzo, che «quando si passava da quella [scil. di Lucia e Agnese] casuccia, sempre si sentiva quell’aspo, che girava, girava, girava» [nella «Ventisettana»: «che andava, che andava, che andava]: Chiari-Ghisalberti 303; Caretti 406; Raimondi-Bottoni 327); XVIII, § 25 («ma, come i pensieri dolorosi si caccian per tutto! cucendo, cucendo [«Ventisettana»: «agucchiando, agucchiando»], ch’era un mestiere quasi nuovo per lei, le veniva ogni poco in mente il suo aspo»: Chiari-Ghisalbetti 314; Caretti 419; Raimondi-Bottoni 338).

69. Ancora nel penultimo capitolo dei PS sua madre Agnese va «in cerca di seta da annaspare; e lavorando ingannava il tempo»: cioè, metaforicamente, davvero lo ingannava trasformandolo così come fa il Narratore-epitomatore, in un tempo narrativo che compendia «in un momento» il Tempo grande della Storia (PS XXXVII, §§ 35, 42; Chiari-Ghisalbetti 650 e 652; Caretti 872, 874; Raimondi-Bottoni 746-47). Che il fuso sia fin dalle origini tratto pertinente dell’iconografia delle tre Parche (o tria Fata) è garantito almeno da Isidoro di Siviglia, Etymologiae, VIII 11, 92-93, ed. a cura di W. M. Lindsay, Oxford 1911 (senza indicazione di pagina): «Tria autem fata fingunt in colo et fuso digitisque filum ex lana torquentibus, propter tria tempora: prateritum, quod in fuso jam netum atque involutum est: praesens, quod inter digitos neentis traicitur: futurum, in lana qua colo inplicata est, et quod adhuc per digitos neentis ad fusum tamquam praesens ad praeteritum traiciendum est. Parcas kat’antíphrasin appellatas, quod minime parcant. Quas tres esse voluerunt: unam, quae vitam hominis ordiatur; alteram, quae contexat; tertiam, quae rumpat. Incipimus enim cum nascimur, sumus cum vivimus, desiimus cum interimus». Si vedano anche le fonti e la bibliografia raccolte da L. Harf-Lancner, La fée au Moyen Age. Morgane et Mélusine. La naissance des fées, Paris 1984 (trad. it. Morgana e Melusina. La nascita delle fate nel Medioevo, Torino 1989, specie cap. I, Parche, ninfe e fate, 9-19).

70. Così, ad esempio, nei PS, XXIV, § 11 (Chiari-Ghisalbetti 404; Caretti 538; Raimondi-Bottoni 452), la «vecchia» che nel castello dell’Innominato è di guardia a Lucia, impietositasi, «le disse quanto poteva trovar di più atto a distrigare, a ravviare, per dir così, i suoi poveri pensieri» (commentano Raimondi e Bottoni, nella nota al luogo: «La sua opera di chiarimento viene rappresentata come un distrigare, un ravviare i pensieri quasi fossero capelli in disordine»). Allorché l’Innominato, convertitosi, si ritira in camera, «trovò […] in un cantuccio riposto e profondo della mente, le preghiere ch’era stato ammaestrato a recitar da bambino; cominciò a recitarle; e quelle parole, rimaste lì tanto tempo ravvolte insieme, venivano l’una dopo l’altra come sgomitolandosi» (PS XXIV, § 95; Chiari-Ghisalberti 426; Caretti 570; Raimondi-Bottoni 480).

71. PS, III, §§ 36-37; Chiari-Ghisalberti 49; Caretti 66; Raimondi-Bottoni 52 (traggo la fine osservazione dal commento di quest’ultima edizione).

72. FL III, V, § 33 (le riflessioni di Fermo sull’inizio dei tumulti: Chiari-Ghisalberti 419; Caretti 386); VI, § 13 (l’assalto ai forni: Chiari-Ghisalberti 436-37; Caretti 402); FL IV, II, § 35 (il Conte, che diventerà l’Innominato, è capace di risolvere qualsiasi «garbuglio» che possa «nasce[re]»: Chiari-Ghisalberti 537; Caretti 496).

73. Le occorrenze sono quasi tutte concentrate nel III tomo, successivo alla ripresa del lavoro: FL II, V, § 16 (due occorrenze: «i garbugli e il macello» non amati come fine, ma come mezzo necessario, da Egidio, di cui s’è detto: cfr. Chiari-Ghisalberti 212; Caretti 191); FL III, III, § 76 (i tumulti milanesi: Chiari-Ghisalberti 384; Caretti 353); VI, § 30 (Chiari-Ghisalberti 440; Caretti 405); VI, § 47 (genericamente, per «situazione confusa e pericolosa»: Chiari-Ghisalberti 443; Caretti 409); VIII, §§ 75 e 77 (Chiari-Ghisalberti 490; Caretti 453); tomo IV, cap. V, § 70 (idem: Chiari-Ghisalberti 601; Caretti 554).

74. FL II, VII, § 54 (Chiari-Ghisalberti 243; Caretti 221); poco prima (§ 44, Chiari-Ghisalberti 241; Caretti 219) si parla del «filo recondito» che «tiene» «la serie delle idee» di don Rodrigo. E si veda, nei PS, il discorso di Agnese a Renzo e Lucia per convincerli a sentire «il dottor Azzecca-garbugli»: «A noi poverelli le matasse paion più imbrogliate, perché non sappiam trovarne il bandolo» (PS, III, § 10: Chiari-Ghisalberti 42; Caretti 57; Raimondi-Bottoni 45).

75. SVP 598 (la frase si apre con: «Luci salubri succedono finalmente ai lividori […]», e continua con: «La sana vita di un popolo sano si rinnova nella credente donna»). Cfr. SVP 594: «Nei chiusi palazzi vi sono sale con volte dipinte, tubi di penombra […]. Quivi, dietro grate ingiuste e irremovibili, pallidi visi, occhi cerchiati di rinunzie distruggitrici scrutano la sana vita degli altri e la luce, la perduta luce del mondo polveroso e rivoltolato […]. Negli atroci silenzi la legge si fa irreale, perché nessun termine di giusto riferimento le è conceduto. Nulla esiste più, nulla è più possibile socialmente» (miei corsivi).

76. PS, XXI, § 17; Chiari-Ghisalberti 356; Caretti 476; Raimondi-Bottoni 389. Si noti che, con precisa connessione intratestuale, alla fine del cap. XXIV, § 95 (Chiari-Ghisalberti 426; Caretti 570; Raimondi-Bottoni 480), dell’Innominato che sta convertendosi si utilizzerà la stessa metafora, e con il ricorso allo stesso lessico».

77. Cfr. Raimondi 1995: specie 87-109, Gadda e le incidenze lombarde della luce; lo stesso Raimondi, pur senza richiami a Caravaggio e a Gadda, aveva impostato il tema del rapporto fra Manzoni e il realismo scientifico-galileiano del Seicento, secolo prescelto per la base della trama dei Promessi Sposi (Raimondi 1974: 3-56). Sul naturalismo caravaggesco come anticipazione pittorica delle principali istanze della rivoluzione scientifica galileiana, e sulle scelte di Caravaggio di fronte alle radicali posizioni anti-iconologiche della Controriforma si vedano, pur con diverse posizioni: M. Calvesi, La realtà del Caravaggio, Torino 1990 (specie 3-79, Caravaggio o la ricerca della salvazione) e F. Bologna, L’incredulità del Caravaggio e l’esperienza delle «cose naturali», Torino 1992. Quanto all’immaginario iconologico gaddiano e al suo recupero di quello manzoniano, con la forte mediazione di Longhi, rinvio anche a quanto ho già scritto in «Officina Ferrarese» di Roberto Longhi, in Letteratura italiana, a cura di A. Asor Rosa, Le Opere, IV. Il Novecento, II. La ricerca letteraria, Torino 1996, 3-58. Sul paesaggio barocco in Manzoni e in Gadda si legga anche (con opportuni richiami a Le pli di G. Deleuze) Manganaro 1994a: 125 ss.

78. Cfr. p.e. PS, I, § 31 (Chiari-Ghisalberti 14; Caretti 19; Raimondi-Bottoni 16) – don Abbondio risponde ai bravi: «Il povero curato non c’entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi…» (nella «Ventisettana» era «piastricci»); anche Azzecca-garbugli, compreso l’equivoco in cui è caduto con Renzo, reagisce: «Che pasticci mi fate?» (PS, III, § 38: Chiari-Ghisalberti 49; Caretti 67; Raimondi-Bottoni 53). La terza occorrenza nei PS è legata ancora una volta a don Abbondio: PS, II, § 46 (Chiari-Ghisalberti 35; Caretti 48; Raimondi-Bottoni 38).

79. Cfr. Roscioni 1969a: 83 e n. 2, alle pp. 83-84, con l’elenco dei principali «vocaboli che esprimono questo concetto»: arruffío, babele, babilonia, bailamme, baraonda, caos, cataclisma, confusione, dedalo, disordine, finimondo, garbuglio, groppo, groviglio, guazzabuglio, imbroglio, impiccio, intrico, intruglio, inviluppo, inviticchiamento, labirinto, magma, meandro, pandemonio, pasticcio. Molti di questi lemmi si ritrovano nelle tre redazioni del romanzo manzoniano (almeno caos, babilonia, confusione, disordine, garbuglio, guazzabuglio, imbroglio, impiccio, intrigo / intrigato, labirinto, pasticci, ma anche intreccio, viluppo, avviticchiare); tuttavia solo il ricorso alle concordanze gaddiane del CNR pisano (DTB4 Gadda 2000), consentirà l’esaustiva elencazione di tutti i luoghi testuali coinvolti nella rete sinonimica.

80. Roscioni 1969a: 82-83 e 85. Cfr. SVP 870 – per le occorrenze di groviglio nel testo, cfr. Gadda 1974a: 449; e 430 per caos; 432, combinazione e complessità; 434, costruzione; 435, deformazione; 448, garbuglio; 457, molteplice-molteplicità; 457-58, mondo; 459, ordine; 460, pandemonion; 474-75, totale-totalità.

81. «dipanare il groviglio delle cose e delle persone e del suo proprio cervello…»; «dipanare l’imbroglio» – Passeggiata, RR II 935; miei corsivi.

82. Manzotti, a proposito dell’«antinarratività della Cognizione» (Gadda 1987a: xxxiii) rileva in Gadda non tanto la forma-digressione in senso rigoroso, «vale a dire escursione circoscritta e riconoscibile fuori da un organismo indipendente, quanto piuttosto un insensibile declinare tematico in direzioni nuove […], un declinare che si fa pervasivo soprattutto al livello, narrativamente microscopico, del paragrafo e del periodo […]. Accade […] che un simile digredire assuma lo statuto di un fondamentale strumento euristico, di un veicolo insostituibile di progressione e scandaglio nella molteplicità dei significanti e dei significati». Cfr. anche p. xxxi, dove Manzotti sottolinea come «la estrema elaborazione formale del periodo e del paragrafo […] è in certa misura funzionalizzata ai contenuti ed alle scelte rappresentative».

83. Rinvio a quanto ho già scritto in proposito – Bologna 1993: 755 ss.; e cfr. già E. Raimondi, Dal formalismo alla pragmatica della letteratura, in Lingua e stile 14 (1979), nn. 2-3: 381-93 (specie 392-93).

84. PS, XVIII, § 3; Chiari-Ghisalberti 308; Caretti 411; Raimondi-Bottoni 332. Su «le nom propre et le propre du nom» nell’opera gaddiana (in particolare nel Pasticciaccio) si veda il richiamo a Jalousie di Sainte-Beuve («où l’auteur fait naître le destin d’un personnage à partir de la réflexion que celui-ci fait sur son propre nom ou sur le nom des autres») in Manganaro 1994a: 279.

85. PS, IV, § 28 (Chiari-Ghisalberti 62; Caretti 85; Raimondi-Bottoni 67; nella «Ventisettana» era: «Scappate pover uomo, scappate!») e cap. XVI, § 1 (Chiari-Ghisalberti 274; Caretti 366; Raimondi-Bottoni 293).

86. PS, XXVI, § 64 (sono le ultime parole del capitolo – Chiari-Ghisalberti 458; Caretti 612; Raimondi-Bottoni 521).

87. PS, XI, § 49; Chiari-Ghisalberti 202; Caretti 270; Raimondi-Bottoni 213 (nella pagina precedente, il lupo che, secondo il verso di Tommaso Grossi, «leva il muso, odorando il vento infido»).

88. PS, XI, § 1 (è l’inizio del capitolo); Chiari-Ghisalberti 190; Caretti 254; Raimondi-Bottoni 201).

89. Così come, nelle ultimissime parole di PS VII, § 85 (Chiari-Ghisalberti 122; Caretti 163; Raimondi-Bottoni 130), Tonio messosi a «ciarlare» con Perpetua, la «tratt[iene] un momento», interferendo con il corso del destino narrativo fino a quel momento prevedibile e previsto.

90. Rispettivamente: PS, VI, § 41; VII, § 10; XIV, § 49 (nella «Ventisettana» era «avvilupata»); XIV, § 59 (Chiari-Ghisalberti 98, 104-05, 252, 255; Caretti 131, 140, 337, 341; Raimondi-Bottoni 104, 112, 270, 273).

91. Non sfuggirà che, sul piano fonetico, ciarle è paragrammaticamente connesso a cicalare e a cicale: pienamente contenuta nel verbo, con cicale condivide 5 lettere su 6. Nelle sue postille linguistiche al vocabolario dell’«Accademia della Crusca» (cfr. Postille al Vocabolario della Crusca nell’edizione veronese, a cura di D. Isella, Milano-Napoli 1964, 82, n. 134a), accanto al lemma: «cicalare. Parlar troppo, ed è per lo più neutr. assol.» Manzoni glossava: «Star sulle volte, e farle cicalare».

92. Non è assolutamente nel progetto di questo breve studio l’analisi dei comportamenti, intorno al ricorso alla metafora testuale tessile, della letteratura fra Manzoni e Gadda: essendo accepito, quest’ultimo, quale estremo polare del primo, suo imitatore-deformatore teoreticamente cònsono, pragmaticamente antipòdico.

93. Rispettivamente: PS, XXXV, § 16; Chiari-Ghisalberti 611; Caretti 818; Raimondi-Bottoni 700; PS, XXVII, § 1; Chiari-Ghisalberti 459; Caretti 613; Raimondi-Bottoni 522). Sulla contraddittoria e professorale conclusione del romanzo cfr. S. Nigro, La tabacchiera di don Lisander. Saggio sui «Promessi Sposi», Torino 1996, specie cap. VII della parte II, Il sugo della storia, 148 ss.

94. Mi permetto di rinviare al mio La macchina del «Furioso». Lettura dell’«Orlando» e delle «Satire», Torino 1998, specie 113 ss., 216 ss. (217, e n. 19). Quanto al ritmo narrativo e alla scansione dei tempi del Manzoni, cfr. G. Lanyi, Plot-time and rhythm in Manzoni’s «I promessi sposi», in Modern Language Notes, XCIII (1978), 1: 36-51.

95. Cfr. FL I, I, § 6 (Chiari-Ghisalberti 18; Caretti 12): «[…] gli ulivi; al disopra di questi e sulle falde antiche dei monti cominciano le selve dei castagni, e al di sopra di queste sorgono le ultime creste dei monti in parte nudo e bruno macigno in parte rivestite di pascoli verdissimi, in parte coperte di carpini, di faggi, e di qualche abete […]»; Manzotti ha buon gioco, commentando l’«antico sognare dei faggi» della Cognizione (Gadda 1987a: 113-14, rr. 14-15), a sostenere che la descrizione gaddiana «si pone sotto il segno del Manzoni», rinviando proprio a questo passo (e con richiamo anche a pp. 18-19, rr. 182 ss., ove – rr. 195-96 – il Serruchón è definito «qualcosa di simile, per il nome e più per l’aspetto, al manzoniano Resegone»). Si noti che, diffrangendosi fra Cognizione e Pasticciaccio, la parodia-riscrittura dell’incipit memorabile darà vita a numerosi luoghi e figure di alta iconicità: per tutte cito qui solo l’«oro e porpora sotto ai cieli d’autunno» (Gadda 1987a: 114, r. 16), che, con probabile mediazione longhiana (cfr. Bologna 1996: 3-58, specie 39 ss. e 46 ss.) risalirà (probabilmente anche attraverso le «lunghe falde ineguali» delle nuvole nell’alba di PS, XVII, § 29; Chiari-Ghisalberti 297; Caretti 398; Raimondi-Bottoni 321) alle «larghe e inuguali pezze di porpora» di PS, I, § 9 (Chiari-Ghisalberti 9; Caretti 12; Raimondi-Bottoni 10). Un passaggio importante del Pasticciaccio, come ho dimostrato nel saggio longhiano (47-48), è riplasmato in calco parodico su queste prime pagine dei Promessi Sposi. Quanto agli olmi, cfr. PS, XI, § 71 (Chiari-Ghisalberti 208; Caretti 278; Raimondi-Bottoni 220). È interessante, in senso generale, leggere le riflessioni linguistico-naturalistiche che Manzoni affidò al Saggio di nomenclatura botanica (ora edito criticamente dall’autografo negli Scritti linguistici, a cura di A. Stella e L. Danzi [= Tutte le opere di A.M., a cura di A. Chiari e F. Ghisalberti, vol. V, Scritti linguistici e letterari, tomo II], Milano 1990, pp. 137-65. Sul «virtuosismo botanico» manzoniano cfr. ora la trascrizione d’un intervento orale del 1974 di G. Contini (I «Promessi Sposi» nelle loro correzioni), in Id., Postremi esercizî ed elzeviri, Postfazione di C. Segre, Nota ai testi di G. Breschi, Torino 1998, 113-30, specie 127 ss. (con richiami alle «erbe quotidiane nella vigna di Renzo» e al nesso fra nomenclature e «sistema di compenso» nella variantistica).

96. Tutte le occorrenze di cicala saranno indicate nel volume di prossima pubblicazione. Le frasi qui citate sono tratte da Gadda 1987a: 97-98, rr. 1486-495; p. 105, rr. 1566-568 (è una delle pagine conclusive del lunghissimo I tratto della Parte prima); 111, r. 1 (è l’inizio del II tratto della Parte prima); 128, r. 309; 129, rr. 318-19; 139, rr. 5-6 (è l’inizio del III tratto della Parte prima); 144, rr. 87-88; 148, rr. 189-90; 150-151, rr. 225-27, 232-35; 157, rr. 348-50; 159, rr. 367-69; 171, rr. 605-7 (miei corsivi). E cfr. ancora, contrastivamente: «Qui si è soli, al buio, sperduti nella campagna… giusto… come lei ha detto poco fa… Soltanto che i grilli non contano…» (215, rr. 531-33); «Sicuro… le ranocchie non servono…» (217, r. 573). Infine, all’inizio del primo tratto della Parte seconda (V complessivo): «la buia voce dell’eternità la seguitava a chiamare» (257, rr. 18-19).

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