Pocket Gadda Encyclopedia
Edited by Federica G. Pedriali
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Abruzzo
Errico Centofanti
Abruzzo-Gadda: un reiterato intrecciarsi. Abruzzese era d’Annunzio, non solo antico modello letterario di Gadda ma anche destinatario, nel Maggio 1915, della focosa lettera, firmata insieme con altri due studenti del Politecnico milanese, con cui si perorava un’accelerazione di quell’invio sulle trincee che avrebbe poi segnato indelebilmente un tratto fondamentale dell’avventura umana gaddiana. Abruzzese era Ermanno Amicucci, Direttore della torinese Gazzetta del Popolo, che nell’Ottobre 1934 gli aprì le pagine d’uno dei principali giornali dell’epoca, subito mandandolo proprio in Abruzzo nella veste di debuttante inviato speciale. Abruzzesi erano Giovanni Del Pizzo, fine giornalista-scrittore suo compagno di stanza negli anni della Rai, e Antonio Piccone Stella, che in quegli stessi anni fu il suo capo, in quanto Direttore del Giornale Radio. Abruzzese era il banchiere-mecenate Raffaele Mattioli, che gli assicurò sostegni decisivi e al quale dice, nella lunga dedica di Verso la Certosa, «devo a Lei conforto, ed esempio se pure inimitabile».
Con altri abruzzesi Gadda ebbe occasione di contatto: certamente tra i suoi Alpini, negli anni di guerra e di prigionia, e successivamente (ma anche prima della Grande Guerra) a Milano, dove furono studenti il compositore Bonaventura Barattelli e il pittore Domenico Cifani, e dove autorevolmente agivano giornalisti-scrittori quali Giovanni Titta Rosa, alla cui non occasionale frequentazione Gadda accenna negli abbozzi della Meccanica (RR II 1187), Massimo Lelj, che era una delle penne eccellenti al Corriere della sera, Silvio Spaventa Filippi, fondatore del Corriere dei Piccoli e aquilano d’adozione.
Numerosi lampi abruzzesi brillano qui e là nel Pasticciaccio, dove l’Abruzzo appare variamente evocato (per esempio, in RR II 22, 127, 142, 190, 191). Tuttavia, non si tratta solo di moventi connessi alla materiale prossimità tra l’Abruzzo e gli scenari in cui Gadda situa la narrazione. C’è qualcosa di più, forse collegabile a un più o meno inconscio echeggiare delle sintonie che Gadda assaporò nei giorni del viaggio abruzzese: si veda l’insistito metonimizzare con i nomi di luoghi d’Abruzzo i nomi del brigadiere Pestalozzi (Fara Filiorum Petri) e del suo milite accompagnante (Cocullo); si veda il patronimico tipicamente abruzzese del brigadiere Di Pietrantonio; si veda l’accostamento dell’abominevole Zamira ai sortilegi fumiganti dai versi dell’abruzzese Publio Ovidio Nasone (RR II 148); si veda una qualche implicita abruzzesità dello stesso protagonista del romanzo, il molisano don Ciccio Ingravallo, se si tien conto che, in fondo, Gadda non aveva modo di doverla pensare diversamente da un molisano doc quale Giose Rimanelli: «Mio padre […] è nato dove sono nato io, un villaggio tra le colline appenniniche del Molise meridionale, […] nonostante che viva in America, i suoi piccoli occhi italiani sono rivolti non al Molise, ma all’Abruzzo. “Di dove sei?”, “Sono abruzzese”, lui risponde». (1)
Infine, nel mezzo del cammin di nostra vita, in Abruzzo Gadda ci va e scrive quanto a nessun altro paesaggio umano e naturale ha mai dedicato, fatte salve le sue Alpi, la sua Lombardia e Roma, sua d’elezione.
Forse, sarà stata proprio una affinità elettiva con l’Abruzzo delle montagne, da lui inconsapevolmente antiveduta fin dalla fanciullezza, quando s’era autoproclamato Duca di Sant’Aquila, a incardinare in Gadda quella tensione particolare evidenziata da Pancrazi nel recensire Le meraviglie d’Italia: «Tra i capitoli di tema morale e poetico, i più forti e centrati sono quelli sull’Aquila e l’Abruzzo [… perché…] L’Aquila e l’Abruzzo, quel forte nodo di natura e di storia, gli muovono la memoria e la fantasia». (2)
Un’affezione decisamente particolare, quella del Duca di Sant’Aquila per le montagne, metafora di desiderio d’elevazione spirituale. Un’affezione che lo avrebbe portato a inalberare orgogliosamente la penna degli Alpini, un’affezione che veniva da lontano, come attesta Roscioni (Roscioni 1997: 77): dalla cima montana da lui stesso disegnata nello stemma di Sant’Aquila come pure da qualche verso giovanile («Alla montagna salire, | Pietra su pietra | Una torre sulla montagna volevo levare», Gadda 1993a: 13). Un’affezione insopprimibile se, nonostante la proverbiale parsimonia d’effusioni sentimentali, Gadda s’abbandona a dire, in una lettera d’inizio 1938 a Bonaventura Tecchi: «gli articoli milanesi e abruzzesi, che curai molto a suo tempo, e a cui ci tengo un po’» (Gadda 1984b: 127). Tanto ci teneva che, quando la Cognizione non aveva ancora assunto la forma di romanzo e negli aggrovigliati pensieri dell’autore essa viaggiava in parallelo alle Meraviglie, Gadda aveva progettato d’includervi un blocco di testi raccolti sotto l’etichetta La filovia del Gran Sasso e altre Meraviglie d’Italia. E d’America (Roscioni 1995a: 225).
L’Abruzzo di Gadda è un polittico di 7 tavole, (3) diseguali quantitativamente e ritmicamente, ciascuna autosufficiente e tuttavia saldamente coerenti l’una con l’altra: 7 tavole che sommano 14 tra inizi e chiuse. Eccola, un’altra misterica assonanza Gadda-Abruzzo!, auspice quel numero considerato sacro e benefico. 14 fu il giorno della sua nascita e 14 quello in cui discusse la tesi di laurea in ingegneria. Del resto, al 14 Gadda s’impegnava a ricondurre tutto il riconducibile: «nato a Milano 14 giorni avanti la caduta del Ministero Giolitti, del primo, […] vive nella capitale della Repubblica a 14 chilometri dal centro» (SGF II 872). Nelle 7 tavole abruzzesi, la vigile arte combinatoria gaddiana in un solo incipit e in un’unica chiusa (non ubicati nel medesimo testo) ha tralasciato di spargere il collante che connette ciascun testo a tutti gli altri e tutti insieme li collega alla dominante fisica del territorio narrato, cioè alla montuosità: «montagna», «monte d’Italia», «gregge nebuloso de’ gioghi», «altissime nevi», «Val de’ Varri», «si apre oggi la valle», «alti monti», «gronde calcaree», «salivamo lungo la muraglia», «buia valle», «rocca di Alatri», «bocca montana» (SGF I 127, 132, 133, 138, 139, 144, 145, 151, 152, 159, 166, 325).
Il polittico, com’è giusto che sia per un’entità costituita da numerosi elementi giustapposti, racchiude in sé quella sorta di compiuta incompiutezza che lo ascrive al novero dei materiali non ulteriormente metamorfizzabili: si tratta di testi dai quali Gadda non attingerà sezioni più o meno vaste da intarsiare altrove, come fa in tanti altri casi. Le 7 tavole mostrano il respiro ampio, il fraseggio elastico e divagante di lacerti d’una più vasta raffigurazione, d’un affresco che vuol mettere in scena inesplorate profondità delle raccontate apparenze del reale; esibiscono, insomma, la tipica frammentazione con cui la ben ingegnerizzata incompiutezza gaddiana racconta dell’irraccontabilità del mondo.
Ne risulta una rappresentazione d’eloquente e articolata ricchezza, sebbene asimmetrica rispetto all’estensione della regione, riguardando essa soltanto qualche porzione del solo segmento montano del microcosmo Abruzzo. Eccone, qui di seguito, un regesto, frammentario ma vividamente rappresentativo della ricchezza di topoi inconfondibilmente gaddiani, dell’atmosfera che in quella rappresentazione è infusa, della «tensione magica» (4) che l’innerva e, «incancellabile», del «richiamo alla terra» che la sostanzia.
Alti monti, con disegno e nomi d’una gravità chiara ed antica… La notte, poco a poco, dilagò nella pozza, giù, giù, dal cerchio dei monti, salvando, alle prode, lontani lumi; come alle riviere d’un lago… L’autunno indora le piante. Il silenzio è fatto d’empietà e di paura… Com’era vasto il monte!… La rugginosa macchia dei faggi: cespi uniti e rotondi, popolo dorato dell’autunno… Ecco, ora, la valle. Su clivi e su colli sereni… Grigi palazzi rinserrarono l’esiguità lontana del cielo… L’ora di sera volse a una gran luce i miei passi… Vigeva nel solitario silenzio per me, per me disperso… Andasse, il vento, a vagabondare la notte, la buia valle! Andasse dove diavolo voleva… Lasciatemi sostare nel mio sogno e nella mia devozione, se pure urgano il tempo e le cose… Una sollecitudine architettrice ch’è nobilmente urbana e sensatamente razionale... Le buie infilate dei cunicoli, dove la paura e la tenebra hanno domicilio… Vidi i monti, le brune arature dell’autunno… Fulgida la prima ora, grandi e torpide l’altre… Mandorli di rada ombra, scarmigliate viti. Le tre rose ad occhio, dal musaico del fronte, mi guardano con la limpidezza d’un pensiero giovanile... L’aridità pura del monte ti ha preso, la roccia affiora dal pàscolo: e la montagna è davanti come il bastione della solitudine… Sono vani i discorsi: meglio è ascendere il monte d’Italia, guardare dal suo vertice i mari… Poc’anzi i folti dei pini, nere falangi all’assalto, ci avevano accompagnato verso la solitudine… Gli uomini sono lontani… Bosco e bel cielo mi delizia sotto cui vadano i sogni con l’autobus… Geme ivi forse la fontana incantata, dove bere è perdizione, e l’altra, dov’è salute d’amore… (SGF I 127-64, 235-36)
Quel che nel Pasticciaccio sarà protagonista (valga, uno per tutti, il caso della vertiginosa deformazione narrativa riguardante il tabernacolo dei Due Santi, in RR II 195-99), già adesso appare nitidamente pensato: architetture e paesaggi di rara bellezza, insistitamente atemporali e non raramente dalle liriche sfumature, che, nell’evocare per conclamata latitanza di racconto la reboante pochezza dei consorzi umani ivi installati grazie all’esorbitanza donativa di lontani progenitori, disegnano interminati orizzonti d’esistenziale disperazione.
Gadda sente svanita «l’attitudine mentale del singolo, il genio (cioè l’inclinazione, la tendenza) all’ordine, quel medesimo genio che leggiamo nelle operazioni di natura» (SVP 1156). Le operazioni di natura son quelle che gli fanno amare il «nobile popolo degli alberi» (SVP 262), nel quale non distingue mai una singola pianta. Vi vede la silente ma operantissima solidarietà di gruppo, la potenza generativa e la dignità dell’insieme, la fiera lotta collettiva per l’affermazione della comunità, forse il manifestarsi di lari «miti e silenti […] serenamente stanchi […] saggi, pacati ed eterni»»; (5) vi vede, sopra tutto, una «società senza frode» (SGF I 53). Tutte qualità che, a suo modo di vedere, sono di rado e scarsamente rintracciabili nella prole degli umani, nel cui seno dilaga invece l’arroganza di un individualismo profanatore dell’etica comunitaria: «gli alberi sacri erano spenti: erano stati recisi: perché desse albergo, la terra, alla nanificata prole degli umani» (SGF I 439).
Anno importante il ’34, per Gadda, l’anno del viaggio in Abruzzo e dello svalicamento verso la seconda metà del suo ottantennio d’esistenza in vita: manda in libreria Il castello di Udine, che gli frutterà il Premio Bagutta e la prima recensione d’alto spessore, quella di Gianfranco Contini, che del prestigio di Gadda sarà il maggior promotore; comincia a prendere le distanze dal suo giovanilistico accostamento al Fascismo e comincia a concepire qualcosa che, di lì a un paio d’anni, catalizzatrice la morte della madre, farà germinare la Cognizione.
Qualche snodo concettuale lo teorizzerà soltanto nell’ultima parte della vita: «i viaggi […] costituiscono per gli intelletti più pensosi o più eccitabili strumento squisito e immediato (cioè non mediato) di conoscenza e di perfettibilità» (SGF I 1116-117). Tuttavia, quando arriva in Abruzzo, Gadda ha già affidato alla carta certe fondamentali convinzioni: «Se fosse possibile sapere ogni cosa! […] E se ancora, ed oltre, si potesse sapere!» (SVP 541). Del resto, egli non è di quelli la cui «vita si dissolve nella illusione di poter conoscere tutto», perché «chi vuol “provare tutto”, finisce col non provare il più importante, che è la “sua” vita» (SGF I 564). Fa finta di mettere in bocca a Orazio, forse per fraterno omaggiare da sublime stilista a sublime stilista, quel che il cantore dell’Aurea Mediocritas mai avrebbe potuto realmente concepire e che invece è autentico e intensissimo pensiero tutto gaddiano: «non fu una corsa traverso lo spazio, ma una costruzione “storica” e uno sviluppo nel tempo. Se abbiamo camminato e navigato, non era a cercare immagini e sogni, ma per mettere in ordine il mondo» (SGF I 578).
Da quel voler mettere in ordine scaturisce non altro se non la rappresentazione della non ordinabilità del mondo e dunque l’evidenziazione della «palingenesi dell’impossibile» (SVP 568), cioè dell’impossibilità di portare il mondo a perfezione e dunque il riconoscimento dell’insensatezza di qualsiasi pulsione che, tentando di mettere nel corretto ordine ogni cosa, aspiri a rendere tutto giusto e perfetto.
La rappresentazione della non ordinabilità del mondo porta all’apertura d’una finestra sul succedaneo possibile delle ormai impossibili Rivoluzioni, su quella perfezionabilità che non ambisce (che non può e non desidera ambire) a traguardi escatologici e che invece si sostanzia di itinerari realistici, di itinerari che sono insicuri, imprecisi e ingarbugliati proprio quanto è disgregato labirintico e caotico il mondo, renitente a lasciarsi mettere in ordine. Percorsi che, avviando il «procedimento conoscitivo» del dolore, qual è il caso della Cognizione (ma non solo), tracciano nella modernità quella via alla conoscenza attraverso la sofferenza che fu già conquista della lucidità eschilea. Percorsi che li si può intravedere e coltivare soltanto in quell’umanità popolare mai irrisa, mai satireggiata, mai dileggiata da Gadda, il quale, invece, ferocemente infierisce contro i suoi borghesi, «petto in fuori, busto eretto; incartonati nell’arnese d’amido dello smoking quasi nel cerotto e nel turgore supremo della certezza e della realtà biologica» (RR I 694). Umanità, quella popolare, che Gadda, non amandola (e non potendo, per sua appartenenza e formazione, amarla), tuttavia rispetta, intuendo in essa l’unica portatrice di una possibile approssimazione al mettere in ordine il mondo. Infatti, «nei poveri, negli umili, negli incorrotti o nei fatalmente oppressi» egli vede, scrivendo di Manzoni in replica a Moravia, «i risorgenti protagonisti della storia umana, della salvezza biologica» (SGF I 1178).
C’è tutto questo e, ovviamente, c’è dell’altro, nei testi abruzzesi di Gadda. Ci sono la magnifica fisicità e l’anima plurimillenaria dell’Abruzzo, ci sono luoghi e personaggi mirabilmente disegnati. Sopra tutto, c’è Gadda. Il Gadda che non ebbe bisogno di raccontare l’agnizione assai più tardi intuita da Borges (che a Gadda fu consentaneo quanto pochi altri, financo per certi aromi titolatorî): «un uomo si propone di disegnare il mondo […] poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto». (6) Quella scoperta-riconoscimento, che è esperienza di tutti noi umani, se sappiamo percepirla, Gadda l’ha colta e ce la mostra nei testi abruzzesi, come del resto quotidianamente nell’arco di tutti i suoi anni.
L’Abruzzo, per lui, metonimicamente, è la montagna che quella terra sovrasta e innerva, «superba e chiara» come un «bastione della solitudine» (SGF I 127): immagine che s’addice pure a se stesso e pure alla madre (la quale, quando Gadda è in viaggio attraverso l’Abruzzo, non è ancora morta e dunque non è stata ancora avviluppata nel titanico sforzo di rimozione che verrà infruttuosamente intrapreso dal figlio).
«Non aveva mai acceduto alle conversazioni, alle tinnule conglomerazioni della buona società» (RR I 683) annoterà Gadda in una delle confliggenti tessere dalle quali s’ingegna di sussumere i tratti per un’impossibile icona ordinata della madre: altra immagine in cui, in aggiunta alla riconoscibilità di se stesso, v’è quella della montagna e dell’Abruzzo. Il cerchio si chiude, apparentando in un unico «bastione della solitudine» Gadda e Abruzzo, nessuno dei quali ama indulgere alle tinnule conglomerazioni della buona società, nessuno dei quali è veramente conquistabile se non attraverso una conoscenza profonda, che, sotto la scorza scabra e spesso logorante delle apparenze, sappia scovare irresistibili tratti da amare.
Al Gaddus bastione della solitudine avrebbe giovato il sapersi svincolare da quel gusto d’inizio Novecento che, col «non si capiva bene se a Brahms o a’ suoi applauditori milanesi» (RR I 455), dentro L’Adalgisa, gli ha fatto esprimere il suo unico, distratto e ironizzante contatto con il maestro amburghese. Se si fosse affrancato, avrebbe riconosciuto in Brahms parecchie adiacenze spirituali; per esempio, avrebbe goduto della sintonia con quei versi del Deutsches Requiem che sembrano l’emblema delle assonanze Gaddus-Brahms: «Das Gras ist verdorret | und die Blume abgefallen», «Ach, wie gar nichts sind alle Menschen | die doch so sicher leben».
Ma, Gadda preferì Beethoven, per il quale ebbe «un amore idolatra, in ragione di una speciale congenialità» (SGF II 1042), dalla cui musica ricavava «una vera ebbrezza mista di gratitudine» (SVP 805). Con tutta probabilità, dunque, avrebbe potuto essere il Dona nobis pacem, protagonista serenamente stanco, saggio, pacato ed eterno dell’ultima parte della Missa Solemnis, a echeggiare dentro le circonvoluzioni gaddiane, nell’ultima notte abruzzese, con la sicurezza dei suoi vertiginosi crescendo, la pietosa densità dei pianissimo, la dolcezza dei monumentali silenzi: (7) «Disteso in quella nuova sicurezza, verso il perdono e l’oblio… Dunque era dolce, era sicura la notte… La camera era colma del suo silenzio… Quella suppellettile del dolce silenzio… Le pietose ossa dei lari… Poco prima dell’Olio Santo» (SGF I 236-37).
Direttore Archivio di Sant’AquilaNote
1. Giose Rimanelli, L’Abruzzo e Io, in Discanto di Pasquale Scarpitti (s.i.l.: Editrice Sarus, 1972), 287.
2. Pietro Pancrazi, Le Meraviglie di Carlo Emilio Gadda, in Ragguagli di Parnaso – Dal Carducci agli scrittori d’oggi, a cura di Cesare Galimberti, vol. III (Milano-Napoli: Ricciardi, 1967), 164-68.
3. Dei 7 testi abruzzesi, 6 sono stati pubblicati originariamente nella Terza Pagina del quotidiano torinese Gazzetta del Popolo, tra il 13 Novembre 1934 e il 28 Marzo 1935; gli stessi sono stati poi raccolti, con modifiche, in Gadda 1939a: Gadda 1934h-k, 1935b-c (SGF I 127-66). Il settimo testo, Verso Teramo, è stato stampato la prima volta in Gadda 1943a (SGF I 235-37).
4. Da un annuncio editoriale, di mano di Gadda, apparso in Letteratura no. 5, anno 1938 (SGF I 1238).
5. Dal frammento della Cognizione citato in Roscioni 1995a: 130.
6. Jorge Luis Borges, L’artefice (Milano: Adelphi, 1999), 195.
7. Per approfondimenti sui temi abruzzesi v. Centofanti 2001: 61-145.
* L’autore calorosamente ringrazia Gian Carlo Roscioni per i preziosi consigli.
Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-00-0
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