Carlo Emilio Gadda:
«L’incendio di via Keplero»

Pietro De Marchi


1. «So in some sense everything that happens in it is simultaneous. But writing is sequential, it unfolds over time». Questa affermazione dello scrittore americano Paul Auster, riferita a un suo testo, The Book of Memory, (1) potrebbe servire da introibo a quello straordinario campione di narrativa «simultanante» che è L’incendio di via Keplero, uno dei più celebri e antologizzati racconti di Carlo Emilio Gadda.

Scritto all’inizio degli anni Trenta, rielaborato nel 1935, ma pubblicato per la prima volta solo nel 1940, sulla rivista milanese Il Tesoretto, dove figurava come Studio 128 per l’apertura del racconto inedito: L’incendio di via Keplero, il racconto venne poi raccolto da Gadda, senza la didascalia iniziale del titolo, (2) nelle Novelle dal ducato in fiamme (1953) e quindi negli Accoppiamenti giudiziosi (1963). Dell’Incendio di via Keplero esiste ora anche un’edizione critica, a cura di Paola Italia (1995), che permette di ricostruire l’elaborazione del testo sulle tre redazioni superstiti, risalenti al 1930-1931. (3)

Al posto di un riassunto del racconto, se ne riproduce qui l’incipit che contiene l’esposizione del tema, l’enumerazione di alcuni personaggi e un parziale sommario della fabula. Si noteranno subito anche lo spessore metaletterario del testo, l’alternanza delle voci narranti e dei punti di vista, la varietà dei registri stilistici, le invenzioni verbali, le movenze della sintassi che vuole mimare appunto la simultaneità dei fatti narrati:

Se ne raccontavano di cotte e di crude sul fuoco del numero 14. Ma la verità è che neppur Sua Eccellenza Filippo Tommaso Marinetti avrebbe potuto simultanare quel che accadde, in tre minuti, dentro la ululante topaia, come subito invece gli riuscì fatto al fuoco: che ne disprigionò fuori a un tratto tutte le donne che ci abitavano seminude nel ferragosto e la lor prole globale, fuor dal tanfo e dallo spavento repentino della casa, poi diversi maschi, poi alcune signore povere e al dir d’ognuno alquanto malandate in gamba, che apparvero ossute e bianche e spettinate, in sottane bianche di pizzo, anzi che nere e composte come al solito verso la chiesa, poi alcuni signori un po’ rattoppati pure loro, poi Anacarsi Rotunno, il poeta italo-americano, poi la domestica del garibaldino agonizzante del quinto piano, poi l’Achille con la bambina e il pappagallo, poi il Balossi in mutande con in braccio la Carpioni, anzi mi sbaglio, la Maldifassi, che pareva che il diavolo fosse dietro a spennarla, da tanto che la strillava anche lei. Poi, finalmente, fra persistenti urla, angosce, lacrime, bambini, gridi e strazianti richiami e atterraggi di fortuna e fagotti di roba buttati a salvazione giù dalle finestre, quando già si sentivano arrivare i pompieri a tutta carriera e due autocarri si vuotavano già d’un tre dozzine di guardie municipali in tenuta bianca, ed era in arrivo anche l’autolettiga della Croce Verde, allora, infine, dalle due finestre a destra del terzo, e poco dopo del quarto, il fuoco non poté a meno di liberare anche le sue proprie spaventose faville, tanto attese!, e lingue, a tratti subitanei, serpigne e rosse, celerissime nel manifestarsi e svanire, con tortiglioni neri di fumo, questo però pecioso e crasso come d’un arrosto infernale, e libidinoso solo di morularsi a globi e riglobi o intrefolarsi come un pitone nero su di se stesso, uscito dal profondo e dal sottoterra tra sinistri barbagli; e farfalloni ardenti, così parvero, forse carta o più probabilmente stoffa o pegamoide bruciata, che andarono a svolazzare per tutto il cielo insudiciato da quel fumo, nel nuovo terrore delle scarmigliate, alcune a piè nudi nella polvere della strada incompiuta, altre in ciabatte senza badare alla piscia e alle polpette di cavallo, fra gli stridi e i pianti dei loro mille nati. Sentivano già la testa, e i capegli, vanamente ondulati, avvampare in un’orrida, vivente face. (RR II 701-02)

Un breve indugio sulla storia della fortuna e della ricezione attuale di Gadda consentirà di comprendere meglio alcune delle riflessioni che suscita la lettura dell’Incendio. La nostra interpretazione si svilupperà infatti essenzialmente come un dialogo e una discussione con la critica precedente.

2. Chi ha procurato una ragionata rassegna dei più recenti studi gaddiani fuori d’Italia si è sentito autorizzato a dire che Gadda ha fatto finalmente ingresso nel canone dei classici internazionali del Novecento (Cortellessa 2001b: 133). Eppure l’importanza di Gadda nella letteratura italiana del secolo non è riconosciuta da tutti con la stessa convinzione. È vero infatti che l’autore dell’Adalgisa, della Cognizione del dolore e di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana non è mai stato tanto studiato come oggi: dopo l’edizione in cinque volumi delle Opere di Gadda, e dopo i numerosi convegni occasionati dal centenario della nascita, continuano a moltiplicarsi gli articoli e i volumi sulla sua opera. (4) Ma se Dante Isella, il principale promotore delle edizioni e degli studi gaddiani in Italia, continua a non avere dubbi in merito (Gadda è a suo giudizio «il maggior scrittore in prosa del Novecento italiano» – Isella 2001: 105), e se a dargli man forte arrivano anche interpreti stranieri come Robert S. Dombroski, il decano della gaddistica americana, per il quale Gadda è «perhaps the greatest Italian novelist of the twentieth century» (Dombroski 1995: 527), non mancano voci diverse o dissenzienti, che di Gadda mettono in questione non tanto la statura di scrittore o prosatore, quanto la «tenuta» di narratore.

Pier Vincenzo Mengaldo, ad esempio, proprio in occasione del centenario gaddiano, si è chiesto se «abbia ancora diritto di predominio un’estetica basata sul concetto novecentesco di sperimentalismo», dove è ovvio che il bersaglio qui taciuto è Gianfranco Contini, il più importante supporter di Gadda e l’inventore della «funzione Gadda» nella letteratura italiana. Quanto poi al caso specifico, il dubbio di Mengaldo è se «non sia proprio la costante accensione stilistica [di Gadda] a impedire che la sua narrativa abbia il vero “passo” del racconto, e non sia ingorgo ma sviluppo, non giustapposizione ma crescita dall’interno, non incompiutezza ma anche compiutezza. Si può narrare quando alla tensione non segue mai distensione?» Fu un vero narratore? s’intitola, eloquentemente, l’intervento di Mengaldo (Mengaldo 1999: 116-19). L’interrogativo nasce, però, oltre che da legittimissimi e insindacabili gusti di lettore, da un’idea di racconto (= sviluppo + crescita dall’interno + compiutezza) non sappiamo quanto adeguata a comprendere la narrativa gaddiana, forse non così poco «moderna» come vorrebbe Mengaldo, e questo indipendentemente dalle intenzioni o dai propositi iniziali di un Gadda attratto dalle solide tradizioni narrative ottocentesche. Anche in questo senso, Gadda potrà essere definito il «Manzoni anti-Manzoni del Novecento». (5)

3. Ma veniamo all’Incendio di via Keplero. Tra i numerosi interventi dedicati al racconto, (6) meriterà una segnalazione particolare la recente tesi di dottorato (ginevrina) di Andrea Sarina (1999) (L’incendio di via Keplero. «Studio 128» e «racconto inedito») uscita nella serie monografica della rivista telematica The Edinburgh Journal of Gadda Studies (2001).

Il contributo di Sarina è di notevole interesse perché, oltre ad usufruire dei materiali forniti dall’edizione critica (e in parte già messi a frutto da Paola Italia), confronta il racconto con quello che egli ha individuato come lo «spunto di cronaca» a cui Gadda con tutta evidenza si ispirò: l’incendio verificatosi a Milano, l’11 giugno 1929, in via Boltraffio 1, e che costò la vita a quattro persone di una stessa famiglia. Ne riferì per molti giorni di seguito il Corriere della Sera, tra il 12 giugno e il 3 luglio di quell’anno. La ricerca di Sarina getta una nuova luce sulla «preistoria» del testo gaddiano. Ma proprio la tavola sinottica da lui diligentemente preparata mostra che gli articoli di cronaca del Corriere della Sera e L’incendio di via Keplero sono, nella loro più intima essenza, oggetti imparagonabili: una cosa è il resoconto giornalistico, da cui Gadda trasse indubbiamente vari spunti, un’altra è, per statuto, la finzione letteraria gaddiana, che è costruzione di un significato metaforico e non solo racconto di un accadimento.

Tra i contributi critici precedenti a quello di Sarina, ci pare in più punti condivisibile quello di Kurt Ringger (Ringger 1982: 2-10, poi 1991: 467-75), mentre quelli di Paola Italia e di Emilio Manzotti forniscono lo stimolo per qualche osservazione o correzione del tiro (se non fossimo provvisti di autoironia quanto basta, diremmo che qui vogliamo difendere Gadda come Gadda difese Manzoni «dal bisturi di Moravia»).

Nella critica gaddiana permane, a nostro giudizio, un’ambiguità. Non ci si rassegna a considerare i racconti di Gadda come dei racconti tout court. Le formule con cui li si definisce hanno infatti spesso un carattere in parte limitativo. La lezione continiana, che riconduceva Gadda prosatore al frammentismo e al lirismo della sua generazione e in particolare al clima di Solaria, è ancora fertile, e continua ad agire su gran parte della critica contemporanea, anche se questa si sia volta a nuove direzioni di ricerca.

Così Paola Italia, che ha studiato quanto resta degli abbozzi dell’Incendio, si riferisce al nostro racconto come al «risultato di un fallimento narrativo», anche se poi si affretta a dire che quel «fallimento» si traduce in «un capolavoro di letteratura “comico-realistica” e “simultanante”» (Italia 1994: 283). In un’occasione precedente, nell’articolo del 1993, accanto a una serie di osservazioni assai giuste e pertinenti, e sulle quali torneremo, la stessa Paola Italia aveva parlato di una «struttura narrativa quasi assente» e aveva affermato che l’Incendio «patisce […] il suo destino di perfetto frammento descrittivo» (Italia 1993b: 13-14), dove accanto al sostantivo (frammento, sia pure perfetto) è il secondo aggettivo (descrittivo) a lasciarci perplessi, ma più ci stupisce il verbo usato (patisce). Dal canto suo Manzotti, che è tornato ad occuparsi più volte dell’Incendio di via Keplero, soprattutto dalla sua prospettiva di studioso di linguistica testuale, considera il racconto «il capolavoro della narrativa breve gaddiana», ma parla di un «Gadda descrittore, […] non Gadda narratore» (Manzotti 1999: 649-50).

4. Cominciamo con la questione del «fallimento narrativo». Ora, tutti sappiamo che ogni testo è il risultato di una serie di rinunce, e che uno scrittore trova la soluzione più felice o meno insoddisfacente attraverso una serie di progetti rientrati, un mare di approssimazioni, di rifacimenti, di faticose riscritture. L’opera è sempre perfettibile, e un poeta del rango di René Char ha potuto scrivere: «Le poème est l’amour réalisé du désir demeuré désir». (7) Ma anche ammesso che questo discorso valga per Gadda in misura maggiore che per altri, la protratta attenzione rivolta alla più rigorosa disamina degli avantesti non deve comunque distrarci da un sereno giudizio sul prodotto finito. «Inscì avèghen», avrebbe probabilmente sbottato lo stesso Gadda, come fece quando le Novelle dal ducato in fiamme non vinsero il premio Strega del 1953 (Gadda 1974c: 82; RR II 1240). Ce ne fossero in maggior numero, di tali «fallimenti narrativi», se portano a scrivere racconti come L’incendio di via Keplero. In questo senso, ci sembra che spieghi meglio il testo «così com’è», e non «come avrebbe potuto essere», il saggio di Kurt Ringger del 1982, che fin dal titolo, La trama e il caleidoscopio, allude al carattere narrativo dell’Incendio.

A un primo livello di lettura, il racconto si presenta come lo spaccato di un caseggiato milanese alla fine degli anni venti, per qualche verso paragonabile al palazzo romano di via Merulana, spazio deputato del «pasticciaccio» che dà il titolo al più famoso romanzo di Gadda. Ma se la «novella – come scrive Kurt Ringger – […] inizia con la costituzione di uno spazio: spazio geometrico “casa”», esso «si trasformerà però quasi immediatamente in uno spazio narrativo» (Ringger 1991: 467) mobilissimo. Anche lo spazio «non kepleriano», per dir così, e cioè la Milano che il racconto ci mostra al di là di via Keplero, è tutt’altro che uno spazio statico, attraversato com’è da frenetici movimenti orizzontali e incrociati: è un intrico di vie dove sfrecciano le autopompe dei pompieri, gli autocarri delle guardie municipali, le autolettighe della Croce Verde – e questo all’inizio e alla fine del racconto, nel primo e nell’ultimo paragrafo.

Paola Italia, nel suo articolo del 1994, sostiene che il racconto di Gadda sarebbe «assolutamente aperto: non inizia e non conclude, restando del tutto ignorate le cause dello scoppio e le sorti dei personaggi rappresentati» (Italia 1994: 283). Diversamente pensava Contini, quando, prescindendo dagli avantesti, e dalle redazioni superate, su cui non si pronunciava in assenza (allora) di documentazione, scriveva che «il prodotto ha un aspetto perfettamente rotondo e irrelato» (Contini 1989: 49).

Quanto all’inizio e alla conclusione, essi ci sono, e sono perfettamente marcati: s’incomincia con l’incendio che si scatena dentro casa e si finisce fuori, sulla strada, con scarso addobbo indumentario, in ciabatte e in vestaglia, in mezzo alla piscia e alle polpette di cavallo; oppure si è trasportati in infermeria, alla guardia medica; oppure ancora all’obitorio. E la sorte dei personaggi? Si salvano tutti, tranne uno. Che cosa si vuole sapere di più? Se non sono morti, saranno ancora vivi, come si dice alla fine delle fiabe tedesche (Und wenn sie nicht gestorben sind, so leben sie noch heute). Ogni racconto che non si concluda con la morte di tutti i personaggi (compreso il narratore, sia chiaro) è un racconto che potrebbe continuare. Ma la letteratura ha appunto questo privilegio, o vantaggio, sulla vita: non deve necessariamente concludersi con la fine di tutto e di tutti.

L’incendio, frammento narrativo o racconto che dir si voglia, rappresenta per Ringger, che riecheggia concetti gaddiani, un «momento-pausa della fluenza temporale» (Ringger 1991: 474). Per farci conoscere il destino degli altri personaggi, scrive ancora Ringger, l’autore avrebbe dovuto o potuto «riscrivere il suo testo […] puntando però su un altro personaggio, e via discorrendo per ognuno dei protagonisti» (473). La scrittura gaddiana, circolare e caleidoscopica, anticiperebbe, a giudizio di Ringger, «un tipo di scrittura narrativa realizzato molto più tardi negli svariati giochi dell’oca e dei tarocchi di Sanguineti e di Calvino» (473-74).

è vero che anche Ringger parla di «opera aperta» (473), ma senza dare al sintagma quella connotazione lievemente negativa che ci par di cogliere nelle parole di Paola Italia. Nessuna incompiutezza, per Ringger, e al posto di uno scioglimento tradizionale una dissolvenza finale su un labirinto di vie in cui si esaurisce o, piuttosto, si smarrisce il discorso. L’explicit del racconto, semaforicamente segnalato dal verbo «finire», è altrettanto celebre dell’incipit:

Finì che anche lui [Carlo Garbagnati] fu colto dall’asfissia, o da un qualche cosa di simile, e lo dovettero andar a portar via i pompieri anche lui, se vollero salvargli la pelle, a rischio di lasciarcela loro. Ma le cose purtroppo precipitarono, data anche l’età, ottantotto anni!, e il vizio di cuore, e un penoso restringimento uretrale di cui soffriva da tempo. Sicché l’autolettiga della Croce Verde, al quinto viaggio, si può dire che non era arrivata ancora alla guardia medica di via Paolo Sarpi, che già l’avevano fatta voltare indietro di volata verso l’obitorio della clinica universitaria, là in fondo alla città degli studi di dietro del nuovo Politecnico, macché in via Botticelli! più in là, più in là! in via Giuseppe Trotti, sì, bravi, ma passato anche via Celoria, però, passato via Mangiagalli, e poi via Polli, via Giacinto Gallina, al di là di Pier Gaetano Ceradini, di Pier Paolo Motta, a casa del diavolo. (RR II 713)

A conferma della chiusura e circolarità del testo, o di quella che per Contini è la sua «rotondità», vale la pena ricordare, come è già stato fatto anche da altri, il raffinato legame che stringe incipit e explicit, giocati su due idiomatismi semanticamente coerenti e impiegati con tutta la malizia e l’umorismo di cui Gadda era capace («Se ne raccontavano di cotte e di crude sul fuoco del numero 14. […] a casa del diavolo»). E si pensi anche, a livello di fabula, al viaggio di andata e ritorno, ripetuto cinque volte – come cinque sono i casi raccontati – dalla autolettiga della Croce Verde.

6. Riguardo poi al fuoco e alle sue cause – troppo rapido e poi non sviluppato è l’accenno che vi si fa negli abbozzi (Gadda 1995: 235 e nota 13) –, e sempre continuando a giudicare il racconto «così com’è», diremo che qui è il fuoco la causa, e il racconto è il racconto degli effetti di quella causa. È vero che per il leibniziano Gadda – come ci ha insegnato il gran libro di Roscioni, La disarmonia prestabilita – occorre risalire, dalle cause, alle cause delle cause, ma qui evidentemente non gli interessava più di tanto. Non si parla più delle cause del fuoco, come invece fa ad abundantiam la cronaca giornalistica dell’incendio di via Boltraffio, perché qui interessano piuttosto gli effetti («Gli effetti dell’incendio, lì per lì, furono terrificanti»).

Ringger scrive che il fuoco, efficace catalizzatore, «“disprigiona fuori” gli “intrecci” ed i “pasticci” che covavano all’interno della casa» (Ringger 1991: 468). E molto giustamente Paola Italia, nel suo articolo del 1993, richiama l’episodio della peste manzoniana come modello di elemento narrativo scatenante:

un fatto esterno […] irrompe nella vita privata di un condominio milanese colto verso la fine degli anni venti e ne mette pubblicamente a nudo le miserie, le idiosincrasie, le piccole meschinità, le dolorose solitudini, per solito così abilmente occultate. Il formicaio scoperchiato rivela le sue grettezze e la vuota scorza del suo moralismo, che il narratore ha buon gioco a rilevare: incontri clandestini, amori leciti e illeciti, storie di ordinaria povertà e miseria si coagulano intorno a un incendio catartico che, come la peste dell’antico modello manzoniano, dissolve le vuote parvenze mostrandone impietosamente l’inconsistenza. (Italia 1993b: 13)

Il fuoco fa uscire dalla casa di via Keplero i suoi abitanti senza maschera sociale (le vecchiette di solito composte nel vestire e qui seminude e scarmigliate), coi loro vizi e le loro virtù, la ridicola vanagloria erotica dei maschi, l’avidità delle damazze «portiane», l’insensatezza dell’attaccamento ai gioielli e alle pellicce, così come ai cimeli e alle cianfrusaglie, l’egoismo di alcuni (l’amica del Pedroni Gaetano fu Ambrogio), ma anche la generosità di altri: i furfantelli, i giovani, i pompieri. Il fuoco ha l’effetto cinematografico di metterci davanti agli occhi una verità nascosta: che molti dei casigliani sono spregevoli, avidi, gretti e meschini; ma anche che un vigilato speciale può benissimo essere generoso fino a salvare gli altri, e lo stesso si dica di un bellimbusto galante; che un magütt (manovale) di diciassette anni, e cioè il Balossi, un ragazzo di provincia, l’Ermes di Cinisello, può diventare un eroe civile.

L’incendio di via Keplero è una sola grande metafora, come suggeriva già Arbasino (Arbasino 1971: 190). Il fuoco del racconto è la letteratura stessa di Gadda, questo grande incendiario che vuole mostrare il lato nascosto della realtà accompagnando il gesto con una clamorosa risata, di scherno e insieme di pietà. Letteratura, quella di Gadda, ben diversa sia da quella «ufficiale» del Marinetti futurista e poi accademico d’Italia, come pure da quella dell’altro autore citato nel racconto, Virgilio Brocchi, romanziere molto popolare negli anni Trenta, e beniamino della borghesia lombarda.

7. Torniamo all’inizio, e alla questione della descrizione/narrazione. Si potrebbe sostenere, paradossalmente, che non esiste una «descrizione» che non sia già «racconto», se è vero che la scrittura è un fatto di diacronia, dispiegandosi nel tempo, oltre che nello spazio della pagina. Questo vale a maggior ragione per L’incendio gaddiano. La sfida a cui Gadda vittoriosamente si sottopone è quella di raccontare con il linguaggio, che per natura è successivo, come avrebbe detto Borges, fatti che accadono simultaneamente: tre minuti, questo è il «tempo della storia» dichiarato in esordio, o se si vuole il tempo che impiega il fuoco a mettere in fuga o in stato di angoscia i casigliani. La causa scatenante, e il motore del racconto, cioè il destinatore (per usare il gergo critico di Greimas), è il fuoco («gli riuscì fatto al fuoco»). Il fuoco, che muove i personaggi spingendoli a cercare una via di scampo, di salvazione, è anche ciò che immette dinamismo narrativo nella «descrizione» dei singoli personaggi, trasformando dunque la descrizione in racconto.

L’incendio di Gadda fa pensare a una eroicomica «rassegna» di anti-eroi, o di eroi per caso (Il Pedroni che salva una donna incinta; il Balossi in mutande con in braccio la Maldifassi, ecc.). Gadda insuffla nel genere letterario della rassegna un elemento di dinamicità, il fuoco dell’incendio, appunto; si potrebbe dire che il narratore appicca il fuoco a un immobile (lo stabile di via Keplero), trasformando le descrizioni dei personaggi (con tanto di nome, cognome, stato civile, precedenti penali, ecc.) in una serie di microracconti tra loro contemporanei, e in qualche caso intrecciati.

8. Il tema comune dei cinque microracconti è quello della salvezza, che viene variato più volte come un motivo musicale. E come in una sinfonia ad ogni movimento il tema viene ripreso «da capo». Anzi, nell’Incendio gaddiano tutto o quasi viene già detto o anticipato all’inizio, nell’ouverture del primo straordinario paragrafo. Indi, dopo una breve digressione sulla città percorsa dalle trasvolanti sirene delle autopompe che bloccano automobili e tram e carrozze trainate da cavalli, si riprende a parlare degli «effetti dell’incendio», con gioco etimologico rispetto all’enunciato iniziale («gli riuscì fatto al fuoco»). Ed ecco allora l’elenco di alcuni casi pietosi, e penosi, e in ultima, per qualcuno, ferali, con evidente climax o crescendo, anche per l’età dei personaggi coinvolti: si va da una bambina (in compagnia di pappagallo centenario) a un vecchio ex garibaldino ottantottenne. Per quattro volte è declinato il cronotopo della fine felice, nell’ultimo caso quello della fine infelice, con implicito effetto di sovrasenso: ci si «salva» molte volte, ma non l’ultima.

Il tema è la salvezza: ma si potrà parlare, come fa Aldo Pecoraro, dell’Incendio gaddiano come di un «giudizio universale» (Pecoraro 1998a: 5)? Sì, se lo intendiamo soprattutto come affresco: con tante storie parallele raffigurate; e forse anche se lo intendiamo alla lettera: come il momento della verità, di qua i buoni di là i malvagi. Forse invece non è necessario affermare, come fa Pecoraro, che il racconto è al tempo stesso «l’allegoria della guerra mondiale, di una condanna al rogo e dell’inferno cristiano» (53). Certo, fin dall’inizio, e fino alla fine compare il diavolo; a cui si oppongono i trasvolanti pompieri e alcuni «angeli» involontari; Dio e la Madonna, e un paio di santi, sono debitamente invocati quando la situazione lo richiede.

9. Torniamo di nuovo da capo. Come anticipato, la prima frase del racconto mette in scena umoristicamente la situazione comunicativa: «Se ne raccontavano di cotte e di crude…». L’incendio è anche un racconto che riflette sull’arte di raccontare, con digressioni, pause, soste, riprese. Ringger ha individuato non meno di cinque narratori, tra cui quello che dice io e il coro della strada. Anche L’incendio sarà allora come un «pasticcio verbale», e via Keplero, non meno di via Merulana (Fratnik 1990: 138), il luogo di un discorso collettivo. Il fuoco, che trasforma uno stabile in una ululante topaia, è oggetto di un bachtiniano discorso a più voci. Se all’inizio del testo l’azione del fuoco è presentata con un linguaggio alto (ma mai privo di correttivi comici), e Gadda come detto sciorina tutta la sua maestria linguistica e sintattica e narratologica («Ma la verità è che neppur Sua Eccellenza Filippo Tommaso Marinetti avrebbe potuto simultanare quel che accadde, in tre minuti, dentro la ululante topaia, come subito invece gli riuscì fatto al fuoco»), verso la fine (e precisamente alla fine del quarto episodio) l’effetto del fuoco è raccontato con una sentenza in milanese: «[Il vecchio Zavattari] Lo salvarono i pompieri, con le maschere. “Se ved ch’el foeugh el gh’à dàa la movüda”, sentenziò il capo drappello Bertolotti a salvataggio avvenuto». Lo stile allude all’opposizione alto/basso (dall’aulico neologismo simultanare al dialettale movüda), ma questa opposizione è anche quella che governa il racconto. Il movimento è in quasi tutto il testo un movimento dall’alto verso il basso, e da dentro verso fuori.

10. Se Ilario Domenighetti ha studiato attentamente, e ottimamente, il paragrafo iniziale del racconto, e se d’altro canto una dettagliata analisi dei paragrafi quattro e cinque (l’episodio della bimba e del pappagallo) è stata offerta proprio da Manzotti nel suo articolo del 1993 (Manzotti 1993c), in questa sede ci vorremmo appunto soffermare sulla parte finale dell’episodio dello Zavattari (il penultimo), che si legge nei paragrafi 14-16, perché Gadda scrive stereofonicamente, invitando il lettore a cogliere i doppi sensi:

Questo Zavattari, consocio della ditta Carabellese Pasquale, in via Ciro Menotti 23, esercivano tra tutt’e due un negozio di pesce atlantico a buon mercato della Genepesca, pescato coi motopescherecci «Stefano Canzio» e «Gualconda» e qualche volta il «Doralinda»; ma tenevano a prezzi molto convenienti anche le ostriche di Taranto, e frutti di mare in ghiaccio di entrambe le sponde. E la gli andava anche abbastanza mica male, rifilando quei pezzi di mostri verdi delle profondità marine alle massaie esterrefatte del Cir Menott; le quali, tutte prese dentro l’idea del risparmio, erano poi assolutamente sprovviste de’ più pallidi requisiti necessari a poterli cucinare come che fosse, dei liocorni simili.
Ma tutto questo non c’entra: quel che si voleva dire è che il vecchio, al primo sopravvenire dell’idea del brucio e alle prime grida di spavento su dalle scale e dal cortile, il vecchio Zavattari, per quanto arrivato oramai alla stupefazione e al torpore più consolanti, aveva tentato anche lui, in una sorta d’allucinata angoscia del fisico, di dirigersi verso la finestra per tentare di aprirla, perché nella raggiunta ebetudine la credette chiusa, mentre era sempre stata aperta durante tutto il pomeriggio: un’angoscia fisica, primordiale, che gli aliava come una fiamma fatua d’attorno a quel moncone d’istinto: ma non gli riuscì se non di rovesciare il fiasco del Barletta, semivuoto e imbecillito anche lui; e gli si erano invece spalancate tutt’a un tratto le cataratte dei bronchi e allentati, nel contempo, i più valorosi anelli inibitivi dello sfinctere anale, sicché fra urti di tosse terribili, mentre un fumo acre, nerissimo, gli principiò a filtrare in casa dalla toppa della serratura e da sotto l’uscio, nello spavento e nella congestione improvvisa, preso dall’orrore della solitudine e del sentirsi le gambe così di pasta frolla proprio nel momento del maggior bisogno, finì, anzitutto, con l’andar di corpo issofatto dentro la veste notturna: a piena carica: e poi per estromettere dalle voragini polmonari tanta di quella buona roba, che son sicuro che non ce la farebbe di certo neanche il mar di Taranto, con tutte le sue ostriche, a poterne pescar fuori di compagne.
Lo salvarono i pompieri, con le maschere, abbattuto l’uscio a colpi di accetta. «Se ved ch’el foeugh el gh’à dàa la movüda», sentenziò il capo drappello Bertolotti a salvataggio ultimato. (RR II 711-12)

Ci limitiamo a commentare due punti. Cominciamo con il primo. La sentenza del capo drappello dei pompieri non è, come è parso a qualcuno, «solo una delle fulminee battute conclusive care all’autore» (Manzotti 1999: 650). La movüda è in milanese la «mossa», cioè la diarrea provocata dalla paura; ma dopo quanto detto fin qui, sul movimento narrativo, la movüda potrà benissimo essere intesa – per metafora –, come la «mossa», il movimento che il fuoco introduce nello stabile di via Keplero costringendo gli inquilini a fuoriuscirne. La frase milanese del Bertolotti cela allora una splendida mise en abyme, con la quale il racconto si rispecchia da un altro punto di vista, cioè dal basso e dal fondo. Il narratore dell’incendio verso la fine cede la parola a uno dei pompieri, che l’incendio sono venuti a spegnere. E dagli «effetti» si risale alla «causa»: dalla diarrea al fuoco.

L’altro punto è quello della frase con cui il narratore trapassa da un capoverso all’altro: «Ma tutto questo non c’entra: quel che si voleva dire è che…». Giustamente Ringger ci mette in guardia: «non saranno che i lettori sprovveduti a dargli retta [allo scrittore]» (Ringger 1991: 470). E infatti non bisogna dargli retta, perché quello che il narratore dice c’entra, c’entra eccome. La digressione sull’attività professionale dello Zavattari serve a introdurre nel testo «le ostriche di Taranto». Ora, è noto (anche se non segnalato nel Glossario di Carlo Emilio Gadda «milanese» di Paola Italia – Italia 1998) che in dialetto milanese i ostregh sono gli «sputi catarrosi», come è attestato sub voce dal Vocabolario milanese-italiano di Francesco Cherubini. (8) Per cui, quando, nel momento culminante e parossistico dell’angoscia e dell’asfissia, allo Zavattari si spalancano le cataratte dei bronchi, il narratore può recuperare con consapevole doppio senso le ostriche-ostregh:

finì […] poi per estromettere dalle voragini polmonari tanta di quella buona roba, che son sicuro che non ce la farebbe di certo neanche il mar di Taranto, con tutte le sue ostriche, a poterne pescar fuori di compagne.

L’episodio dello Zavattari è decisamente il più rablaisiano del racconto. Ma una postilla ancora meritano la movüda e le ostriche. Come Zanzotto ha scritto di Montale, forse anche per Gadda scatologia ed escatologia non sono concetti troppo distanti. Lo stesso Zanzotto, proprio in quel saggio famoso su Montale – Sviluppo di una situazione montaliana (Escatologia- Scatologia) – accenna a una scatologia gaddiana, «goliardica», ma non solo. (9)

Lo stupendo racconto di Gadda va letto come il racconto di una molteplice evacuazione: quella dello Zavattari che va («nel contempo», cioè simultaneamente) di corpo e di bocca; quella, generale, di uomini e cose, dallo stabile di via Keplero 14; quella infine in cui consiste ogni vita: si è evacuati dalla vita, e l’ultima sosta, è, fu, sarà quella verso la quale è trasportato il Carlo Garbagnati, il vecchio garibaldino che col suo medagliere a un certo punto rischiò persino di ribattezzare il racconto. (10) Ma poi Gadda ci ripensò e il titolo rimase per sempre L’incendio di via Keplero.

Université de Neuchâtel

Note

1. P. Auster, The Art of Hunger. Essays, Prefaces, Interviews, and «The Red Notebook» (New York: Penguin Books, 1997), 277.

2. Come è noto, per il Gadda dei Cahiers d’études che contengono il Racconto italiano di ignoto del novecento (1924-1925) il termine «studio» indicava: «tentativi della composizione, pezzi della composizione, da inserire nel romanzo o da rifiutare o da modificare. […] Uno studio è già una cosa completa, finita, se pur riveste i caratteri di tentativo». Si è quindi discusso a lungo sul significato del sintagma Studio 128. Che con esso si alluda alle varie redazioni del racconto, o al suo status di «disegno» (al modo dei Disegni milanesi dell’Adalgisa) o di «cartone» da inserire nell’affresco, o di «pezzo» sinfonico, o altro ancora, poco importa. Più conta invece che tutta la didascalia sia poi stata abbandonata da Gadda: che volle quindi sottolineare l’autonomia del racconto, oltre che la sua compiutezza. Semmai, mi sembra interessante che fin dal 1945 Gadda meditasse di pubblicare una raccolta di racconti intitolata L’incendio di via Keplero (per tutto ciò e per le citazioni gaddiane si veda la «nota al testo» di Raffaella Rodondi, RR II 1233-234).

3. Gadda 1995. Il testo dell’Incendio si legge alle pp. 41-49; gli apparati critici a cura di P. Italia alle pp. 229-90. Per comodità dei lettori, le citazioni (con semplice rinvio alla pagina) non saranno tratte da questa edizione (non commerciale), bensì da quella delle «Opere di Carlo Emilio Gadda» diretta da D. Isella (RR II 701-13). Gli Accoppiamenti giudiziosi (e quindi L’incendio) sono a cura di R. Rodondi, della quale si veda la Nota al testo alle pp. 1229-291.

4. Si veda al riguardo Cortellessa 2001c: 233-84. Due iniziative recenti andranno segnalate: la nascita (settembre 2000) della già ricordata rivista telematica di studi gaddiani, The Edinburgh Journal of Gadda Studies, diretta da Federica G. Pedriali; e la pubblicazione (dicembre 2001) del primo numero di una rivista tutta dedicata a Gadda e diretta da Dante Isella, I Quaderni dell’ingegnere. Testi e studi gaddiani (2001), no. 1.

5. A. Giuliani, Il mistero dei bisogni, in La Repubblica (6 ottobre 1993) (cit. Cortellessa 2001b: 118).

6. A cominciare dalle pagine di Contini, che antologizzò l’Incendio di via Keplero nella Letteratura dell’Italia unita (1968) e ne parlò in un’introduzione agli Accoppiamenti giudiziosi stesa nel 1985, per arrivare ai saggi di Kurt Ringger (1982), Ilario Domenighetti (1982), Emilio Manzotti (1993c, 1999), Paola Italia (1993b, 1994), e al libro di Aldo Pecoraro (1998).

7. R. Char, En trente-trois morceaux, et autres poèmes (Paris: Gallimard, 1983), 49.

8. Del celebre vocabolario di Cherubini Gadda possedeva l’edizione del 1814 (Italia 1998: 367). Per un uso già settecentesco della metafora cfr. F. Bellati, Poesie milanesi, a cura di P. De Marchi (Milano: All’Insegna del Pesce d’oro, 1996), 230.

9. A. Zanzotto, Sviluppo di una situazione montaliana (Escatologia – Scatologia), in Scritti sulla letteratura, Vol. I: Fantasie di avvicinamento, a cura di G. M. Villalta (Milano: Mondadori, 2001), 27.

10. Nel 1951, in vista di una progettata edizione in volume dei suoi racconti, da stamparsi da Vallecchi, Gadda aveva meditato di intitolare il racconto Medagliere del garibaldino. In compenso, L’incendio di via Keplero era fin dal 1945 il titolo di una raccolta di racconti che Gadda aveva promesso all’editore Bompiani. Per queste informazioni cfr. la Nota al testo di R. Rodondi (RR II 1233-242).

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