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Genius Loci

Alberto Arbasino

Carlo Emilio Gadda aveva già più di sessant’anni, scriveva da più di trenta, e non aveva ancora pubblicato in volume il Pasticciaccio, ormai praticamente dimenticato o ignorato, forse, quando i ventenni degli Anni Cinquanta scoprirono la sua posizione centrale nella nostra letteratura contemporanea. E sull’entusiasmo per la stupenda Adalgisa, per le mirabili Novelle dal Ducato in fiamme, lo dichiararono massimo autore italiano del mezzo secolo, con immenso dispetto di tutti gli altri.

Già. I letterati del Trenta e del Quaranta persistevano a considerarlo un outsider, un «eccentrico… arrivato tardi alla letteratura», un «umorista» molto «faticoso» e «cincischiato»: come se il caso Svevo non insegnasse mai nulla. Taluni raffinati gourmets (Contini, Devoto) assaporavano con delizia la sua prosa furente e squisita: ma privatamente, nelle più ritrose trappe o oubliettes dell’iniziazione stilistica. Tuttavia, per decenni, il grande Ingegnere apparve costantemente confuso alla pari fra decine di nomi irrilevanti o lamentevoli, nei tristi famosi repertori d’articoli critici della generazione anziana che ravvisava i più veri e raccomandati sviluppi della patria letteratura non già negli scarti geniali rispetto a un’Arcadia comune, bensì nella graduale continuità della minestrina collettiva. «Ironia oziosa», «Scherzo a vuoto», «Aggrovigliata tessitura», «Prose ricche, troppo ricche», sentenziavano pigolando e caccolando i più celebrati Arcadi e Accademici; e poi: «Non ha leggerezza di movimenti», «Non sa fondere bene le parti», «Non vede le varie arti fondersi in un’una, le vede disgregarsi», «è un Barilli a cui manca tutto quello che è di Barilli!» Il Tesoretto, «Almanacco dello Specchio 1942-XX», non lo rammenta neanche, nel suo indice dei nomi, tra Fumagalli Giuseppina, Funi Achille, Galli Luigi, Gargiulo Alfredo.

In compenso, Gargiulo Alfredo, recensendolo nella sua Letteratura Italiana del Novecento fra Nino Savarese, Umberto Fracchia, Ain Zara Magno, Giovanni del Pizzo e Giuseppe Mormino, riconosce: «Non sempre egli scherza». Ma la trovata mirabolante sembra appartenere a De Robertis, negli Scrittori del Novecento: «Libri avventurosi, diari nudi e distaccati, paragrafi di saporitissima scrittura, rappresentazioni frescamente epiche, confessioni coraggiose e crudeli non c’erano mancati che sopravanzassero il livello mediocre delle false cronache, o della letteratura male spesa, o della rettorica eroica: bei nomi tutti, Mussolini, Soffici, Baldini, Comisso, Stuparich, Stanghellini…: ma questi cinque capitoli di Gadda?» Hic Rhodus! Su! Su! Allez hop! E invece, la morale del mirabolante brano è questa: «Solo la guerra, e la mortale fatica, sanno sprigionarlo da sé; altrimenti egli non sa guardarsi dall’indulgere ai mille richiami e, così indulgendo, un poco perdersi».

Un poco perdersi! Eppure, in quella mesta pratica letteraria di paginette «ben scritte» e di giardinetti ordinatini, di velleità rientrate e di reverenze funzionali, di animucce belle e di candeline spente, la derisoria violenza della sua scrittura esplodeva esasperata, contestando insieme il linguaggio e la parodia, tra il ron-ron rondesco-neoclassico-fascistello e il pio-pio crepuscolare-ermetico-pretino, in schegge di incandescente (espressionistica) espressività… Proprio come per Rabelais e per Joyce che gli sarebbero poi stati accostati, «a braccio» e «a orecchio», i suoi messaggi fanno a pezzi ogni codice, spiritate e irritate, le sue invenzioni verbali dileggiano significati e significanti; devastano ogni funzione o finalità comunicativa; rappresentano innanzitutto se stesse, e i propri fantasmi, in un foisonnement inaudito e implacabile di spettacolari idioletti…

Ma da questi spezzoni affettuosamente inventariati e tesoreggiati vocaboli dialettali e stranieri, termini scientifici e triviali, vezzi eruditi, definizioni tecniche, deformazioni macaroniche, neologismi saporitissimi, stilemi personalissimi, omofonie-calembour, grotteschi ossimori, onomatopee sgangherate, tautologie barocche e brianzole, inimitabili invettive ipocondriache… – una critica più giovane e sofisticata (Citati, Gramigna, Guglielmi…) sarebbe risalita attraverso un’appassionata analisi stilistica e ideologica alla vertiginosa complessità dei macchinosi interessi intellettuali dell’Ingegnere: la Storia e il Positivismo, Einstein e Leibniz, Spinoza e Michelet, e le matematiche e una filologia selvaggia e una psicanalisi meccanica e un’oscura fenomenologia dell’Inconscio «umiliato e offeso»… E una concrezione palpitante e dolente della nostra fisiologia culturale: Parini e Dossi, Manzoni e Marinetti, i Verri e D’Annunzio, Porta e Rajberti e il Romanticismo e il Positivismo e la Scapigliatura e il traumatico impatto con due realtà atroci quali la Grande Guerra e Roma… Così, nel magma delirante dove anche molti recensori «di mezzo» scorgevano tutt’al più coacervi o congerie di tipo neurotico o materico, un nuovo saggista sapienziale come Gian Carlo Roscioni arriva piuttosto a individuare nel groviglio e nel pasticcio un’oscura tecnica conoscitiva e un’arcana fisiologia dell’Universo.

Appunto. La complessa ricchezza linguistica e tematica dell’opera gaddiana, così visceralmente composta e tramata, e sardanapalesca, e pantagruelica, continua a sollecitare una pluralità di letture, a diversi livelli, lungo differenti parametri, secondo i più svariati presupposti e pregiudizi: a costo di razionalizzare fin troppo lucidamente attraverso nitidi procedimenti di schede e di referti quel suo atrabiliare viluppo di fantasticate irrisioni e di furie «compossibili»… Addirittura, i mirabili «disegni milanesi» dall’Adalgisa alla Cognizione del dolore possono presentarsi ai nuovi lettori d’oggi come una disperata morfologia crepuscolare-espressionistica della decadenza della borghesia illuministica e poi romantica e poi nazionalistica (e sempre patriottica) in Lombardia.

Non per nulla, gl’interessi enciclopedici dell’Ingegnere coincidono (fino al delirio di riversare tutta la Funzione nell’Espressione) coi manifesti tracciati due secoli fa dagli impeccabili fratelli Verri e da Cesare Beccaria, risoluti a insultare programmaticamente la Crusca in nome di Galileo e di Newton, cioè a sviluppare una cultura extraletteraria cosmopolita e un pensiero intellettuale «assolutamente moderno» a dispetto della grammatica arcaica dei Pedanti, trasgredendo al purismo imbecille che caldeggia l’impiego di qualsiasi grulleria del Piovano Arlotto per definire prodotti e nozioni del nostro tempo; e approva l’uso del greco antico per indicare un qualche cosa che non c’è (il nettare, l’ambrosia), mentre respinge qualunque termine inglese moderno relativo invece a qualche cosa che c’è (come il gin-and-tonic), senza avvedersi che qualunque parola poteva suonare scandalosamente moderna quando venne usata per la prima volta da un Autore Classico poi approvato dal Tommaseo-Bellini… e finendo, poi, col preferire «prova di selezione attitudinale» a «test»… Insomma, «c’era già tutto» in quel progetto del «Caffè», che invece di sublimare la Letteratura chiudendola a chiave in una soffitta-Parnaso, le riservava una sua piccola area accanto alla Musica e al Commercio, all’Inghilterra e alla Storia e al Progresso, però tenendo tutte le porte aperte fra i diversi istituti della Cultura, e che doveva funzionare come struttura portante nelle idee della società civile lombarda fino al 1914, sottesa, al Romanticismo e al Manzoni, al Porta e al Positivismo e alla Scapigliatura, al Socialismo e al Lavurà.

Tuttavia, la grande tragedia dell’Ottocento italiano – prima, la catastrofica ondata di rincoglionimento verso la metà secolo, poi, la costante mancanza di continuità e di ricambio fra le generazioni successive – finisce per colpire, con sconcertante crudezza, fra i veleni del Decadentismo e i massacri della Grande Guerra, soprattutto questa classe paleo-borghese illuminata e imprenditoriale, ma evidentemente molto meno vitale e più stupida dei ceti che le corrispondono in Francia e in Inghilterra, capaci invece di perpetuarsi energicamente, industriosamente, da un secolo all’altro, attraverso il culto della tirchieria o mediante la pratica della spregiudicatezza, ma anche con una propria cultura seria, scuole ben fatte, libri letti… Da questo drammatico sabordage nasce – eminentemente fin de race – il Gadda ingegnere manqué e trionfale stilista.

La panoplia della sua vocazione letteraria si apre certamente coi nonni di Parini e Manzoni; e l’antecedente immediato rimane l’incantevole, tragico, ambiguo Carlo Dossi: dunque, non soltanto (secondo Cattaneo) «prima lombardi, e poi italiani», ma tanto più lombardi in quanto viaggiatori eclettici destinatari insieme di due legati incomparabili e incompatibili – la curiosità enciclopedica degli illuministi, l’abbandono romantico più deliquescente – e spinti da queste due pulsioni desideranti fino in fondo alla più frastornata neurosi Jugendstil milanese…

Le Note Azzurre già registrano tutti i sintomi della grande crisi del Geist lombardo attraverso ammirevoli espedienti di struttura frammentaria e di parola espressiva (a monte della pratica gaddiana dell’incompiutezza, cioè drammatica messa in opera del principio per cui non esiste già la Stesura Definitiva, bensì, fra le tante fasi successive, o strutture aperte o in progress possibili, una fase o struttura o stesura più giusta, per l’autore, provvisoriamente). Ma bastano pochi anni, dopo Dossi, e il giovane Gadda si affaccia a una «grande Milano» ancora tradizionale (e tutta positivista) e già futurista (e interamente industriale): operosissima, smaniosissima, e intensamente Liberty, e travagliata da una crisi di transizione, e di crescita tragicamente ambigua. Non ne conoscerà che il dolore.

I discendenti degli Illuministi e dei Romantici abitano ormai certi macabri appartamenti padronali o atroci villette a torrette dove ardono costantemente i lumini davanti ai Ritratti fra il tanfo e la polvere, e nessuno oserebbe spostare gli oggetti appartenuti alla nonna morta. I prodotti freschi arrivano direttamente in casa dalla campagna, per orgoglio di piccoli proprietari terrieri, per sordida taccagneria borghese, per diffidenza alimentare verso le mani altrui; però nei meandri dei corridoi e delle camere buie, il feticismo del «potrebbe venire ancora buono, mettiamolo da parte» accumula tananà e tanavèi, vecchie bottiglie e spicchi d’aglio e scampoli di pigiami e scatoline vuote, riempiendo accuratamente di spaghi riavvolti e di turaccioli usati angoli e ripiani dietro tendoni pesanti: ripostiglio e magazzino e repertoyre come la Librairie de Sainct Victor visitata da Pantagruel. Di che cosa si parla, a tavola? di spese fatte, e di economie da fare; di parenti, generalmente da disapprovare, o da compatire; di matrimoni disgraziati, di figli malcresciuti, di carriere fallite, di malattie dolorose e inguaribili; di loculi, tombe, cappelle, urne, lapidi, monumenti, lumini. E soprattutto, gran signorilità: che coincide con gran tirchieria. Anche emotiva, e morale. E lo schema d’ogni conversazione ripercorre pedantemente, da capo, le strutture immutabili della rassegnazione sventurata: siamo venuti a questo mondo per soffrire, poveretta ha finito di soffrire, sarà il Buon Dio che l’avrà voluta punire per qualche mancanza, in questo mondo bisogna aver pazienza… e intorno, chicchere, cuccume, federe, fodere, ghingheri, gangheri, giuggiole, vanvere, traveggole; e gramaglie, medaglie, e santuari, e sacrari, e ossari; e le medesime strutture ripetute nella vita pubblica: eretta la stele, posta la lapide, consacrato il cippo; e simmetricamente, poco dopo, abbattuto il cippo, infranta la lapide, lordata la stele, profanato il memento…

L’opus dell’Ingegnere nascerà dunque dagli interdetti agonici e dai tabù tetanici delle famiglie appiccicate e recluse che borbottano meccanicamente rosari, al buio per economia, e considerano ogni spesa una calamità, ogni scampanellata un annunzio di sventura, ogni viaggio uno sperpero inammissibile, ogni divertimento una vergogna insensata; e tengono come solo metro di giudizio che cosa ne penserebbero gli altri, i vicini, le vicine, le zie, le cugine, le vecchine, e una certa famiglia di conoscenza che funziona (da decenni, reciprocamente) come esempio, come controllo, come giudice; e giudicano sommamente sconsiderato e colpevole chi segue una propria vocazione artistica o umana, invece di sacrificarsi com’è doveroso, di soffrire giacché è prescritto, di ubbidire a chi ne sa più di te, di mostrare finalmente con privazioni dolorose e inutili un po’ di riconoscenza a chi ti ha messo al mondo e ha fatto tanti sacrifici per te, di dare un po’ di soddisfazione ai tuoi cari che avranno i capelli bianchi anche per colpa tua, di pensare al futuro, di non star con la testa fra le nuvole, di ragionare coi piedi per terra, di non essere maleducato e inopportuno chiamando sempre le cose col loro nome, e poi di riflettere seriamente, lo scribacchiare ha sempre dato tanti dispiaceri e soddisfazioni nessuna, e poi perché voler fare a ogni costo gli originali, i diversi dagli altri, quelli che si vogliono far notare ad ogni costo? Dunque, abbracciare una professione solida. Le soddisfazioni, verranno poi. In quanto ai dispiaceri, si sa, ce n’è per tutti. E i sacrifici? Quelli verranno ricompensati nell’Altro Mondo, si sa… Gli incunaboli della Cognizione del dolore verranno sviluppandosi fra il monotono ricatto sentimentale degli affetti domestici esasperati dalla convivenza, lungo l’iterata convinzione che il Buon Dio sospenda i castighi soltanto quando si soffre per fargli un piacerino con tanti sacrifici, sprofondando nel culto ossessivo per i defunti, praticato come rituale perpetuo, giacché mentre i vivi vengono trattati malissimo, con angherie, rifiuti, sarcasmi, il lutto per i congiunti spinge a gremire d’immagini di nonne cattive e di nonni perfidi e di lumini perpetui perfino la sala da pranzo, lo studio, l’ufficio, il negozio, la cucina, con fiori che costano evidentemente molto di più di quanto sarebbe costato qualche regalo, sempre negato, «per non abituarli male», ai medesimi congiunti quando erano vivi… Don Gonzalo si aggirerà intorno ai meccanismi immutabili dell’autopunizione, al rifiuto di ogni ipotesi diversa dall’«in casa nostra si è sempre fatto così», al ripiegamento sconsolante sui gesti meschini consacrati dalla consuetudine, sulle frasi fatte della saggezza di un ceto medio-alto completamente paranoico, sugli orari imbecilli imposti dai riguardi per la povera mamma e per i suoi disturbi… dovrà attraversare una diffidenza sistematica per qualunque estensione possibile della personalità o dell’attività fuori di casa, insieme all’istintivo orrore per tutto ciò che possa apparire bello o comodo o piacevole – e dunque colpevole! (non per niente l’invettiva della condanna moralistica suona costantemente sarebbe troppo comodo!) – nell’esistenza borghese lombarda…

La vera grandezza dell’Ingegnere consiste nell’aver risolto i suoi possibili Buddenbrook milanesi rifiutando ogni naturalismo crepuscolare, ogni elegia autunnale, ogni Come le foglie, ricorrendo invece con gusto esplosivo e disperato all’uso parossistico della madornale figura retorica dell’Enumerazione. Smaccatamente distrugge tutto ciò che nomina nei ripostigli-sacrari: «seggiole, cuscini, tavolini, lettini; la chincaglieria del salotto e il bazàr del salone, e la pelle d’orso bianco con il muso disteso e gli unghioni rotondi (che solevano gracchiare sul lucido appena pestarli), e i comò e i canapè e il cavallo a dòndolo del Luciano, e il busto in gesso del bisnonno Cavenaghi eternamente pericolante sul suo colonnino a torciglione: e bomboniere, lari, leonesse, orologi a pendolo, vasi di ciliege sotto spirito, orinali pieni di castagne secche, il tombolo di Cantú della nonna Bertagnoni, rotoli di tappeti e batterie di pantofole snidate da sotto i letti, e tutti insomma gli ingredienti e gli aggeggi della prudenza e della demenza domestica…» mentre «neppure Sua Eccellenza Filippo Tommaso Marinetti avrebbe potuto simultanare quel che accadde, in tre minuti, dentro la ululante topaia, come subito invece gli riuscì fatto al fuoco: che ne disprigionò fuori a un tratto tutte le donne che ci abitavano seminude nel ferragosto e la loro prole globale, fuor dal tanfo e dallo spavento repentino della casa, poi diversi maschi, poi alcune signore povere e al dir d’ognuno alquanto malandate in gamba, che apparvero ossute e bianche e spettinate, in sottane bianche di pizzo, anzi che nere e composte come al solito verso la chiesa, poi alcuni signori un po’ rattoppati pure loro, poi Anacarsi Rotunno, il poeta italo-americano, poi la domestica del garibaldino agonizzante del quinto piano, poi l’Achille con la bambina e il pappagallo, poi il Balossi in mutande con in braccio la Carpioni, anzi mi sbaglio, la Maldifassi, che pareva che il diavolo fosse dietro a spennarla, da tanto che la strillava anche lei…». Così Carlo Emilio Gadda, milanese, «ribalta» e «scaravolta» un intero deposito (un patrimonio!) di valori domestici stratificati; o addirittura brucia su un rogo fulmineo e cannibalesco un catalogo totale di emblemi ingombranti, sotto miserabili sembianze antropomorfiche, in due grandiose e rabbiose metafore (la lucidatura dei parquets in casa Cavenaghi, l’incendio di via Keplero) impressionanti come i più maestosi elenchi di Bouvard-Don Chisciotte e Pécuchet-Don Ferrante… «e cicíc e ciciàc… sofèghi!…»

Il nuovo dopoguerra fu per Gadda una stagione frastornata e feconda. Dopo Firenze («gli anni belli, quand’era venuto il bello»… ma perché andò a Firenze? confesserà mai che stava tampinando la Gloria Letteraria, appassionatamente, insistentemente, nella sua tana ufficiale?…), l’Ingegnere si trasferisce a Roma, abita prima in Prati e poi sui colli della Camilluccia, ancora aperti sulla campagna; lavora alla radio, burocraticamente incompreso; mangia nelle trattorie fra Piazza Cavour e la Passeggiata di Ripetta, di buon appetito e col suo mezzo litro davanti; vede qualche amico vecchio e nuovo; si concede qualche grossa pasta da Berardo e da Ruschena, e forse qualche grosso panettone, portato con cura alla Camilluccia in autobus, e assaporato da solo, a grosse fette, con qualche rimorso, però soltanto «sotto Natale»; rilegge Belli e Villon e Jean-Paul; chiacchiera con Cattaneo, Piccioni, Parise (avrà passeggiato fra Santa Maria Maggiore e San Giovanni, curiosando fra i portoni e le portinerie del Pasticciacci0); va perfino a teatro per scrivere qualche recensione occasionale.

Dalla Madonna dei Filosofi alla sublime Adalgisa alcuni fra i suoi libri più grandi sono già usciti, anche un po’ lodati; ma pesantemente misconoscuti. Sempre quell’etichetta di «umorista», magari in compagnia di Achille Campanile… Sempre quegli appellativi di «barocco», «macaronico», «espressionistico», nati per definire tutt’altri fenomeni, e adesso appiccicati a qualunque sua prosa… Da scaffali e bauli, però, nelle sue stanze d’affitto, mescolati ai testi non letterari che hanno nutrito la formazione del nostro scrittore più straordinario (volumi di storia europea e di filosofia, di pedagogia e di metrica, di matematiche e di psicanalisi, volumetti di classici o di ermetici, volumoni della Treccani nelle loro scatole) traboccano fogli e quaderni e quinterni e dossiers; tronconi e lacerti di lavori cominciati o tentati, disparatissimi nell’indole, incredibilmente precisi e unici nel tono, spesso ricoperti dalla tetra polvere del Trenta, sovente pigiati nelle casse mai aperte dal reduce del ’18… In un cestino, il Pasticciaccio incompiuto; in una scatola, mezza Cognizione del dolore; valige e valigette piene di racconti e mezzi-racconti che finiranno negli Accoppiamenti giudiziosi; sopra un armadio, Eros e Priapo, storia sessuale del fascismo; in fondo a un cassetto, i taccuini folti di note per il «romanzo sul lavoro italiano 1922-1924» di cui parlava, ancora nel ’40, sulla Nuova Antologia

Ma accanto ai cospicui spezzoni di carattere narrativo su cui verrà a esercitarsi con persecuzione affettuosa e tormentosa fermezza la pingue pesca degli editori negli Anni Sessanta, trucioli e ritagli d’intenzione saggistica continuano a testimoniare la ricchezza e la varietà degli interessi dell’Ingegnere, le sue geniali e fissate curiosità extravaganti. Riflessioni sulla lingua e ricordi di viaggio si alternano a divagazioni tecniche e appunti descrittivi: si accompagnano a evocazioni di episodi storici marginali e aneddotici, a invenzioni fantastiche e critiche intorno al Duomo di Como e alla rappresentabilità della Celestina, al culto di Narciso e all’arte del Belli, all’Agostino di Moravia e all’Amleto con Gassman, al risotto alla milanese, alla fonologia longobardica, all’alluminio, alla Manzini, alla pittura di Ensor, alla poesia di Baudelaire e Rimbaud

Nessun autore nostrano ha mai mostrato un più stupefacente istinto di gazza ladra nel sottrarre alle discipline più extraletterarie (o antiletterarie) dello Scibile tanti spunti smaglianti e frammenti opachi, da tesoreggiare in funzione anti-illuministica e anti-divulgativa, e poi trasformare in schegge di luccicante letteratura. «Nel suo rococo» (come dice lui stesso), l’immaginazione ingegneresca trascorre dalla fisica all’architettura alle Vite dei Papi; assaggia la geografia; attraversa la pittura del Cinquecento; si nutre di ballate francesi, della teoria dei quanti, dei chroniqueurs del Basso Impero, di pittoresche scappate alla Fiera di Milano. Mai «lavoratore normale», regolare, «equilibrato», né tanto meno «scrittore su misura»: finirebbe magari per somigliare a quei leggendari accumulatori da romanzo che sono l’Arnheim di Musil, i bibliotecari deliranti di Borges… ma una massiccia auto-ironia lo soccorre nei confronti d’ogni «carica narcissica», anche quando i «tossici laicali e catechistici» assorbiti nel «duro carcere d’un educatoio borromeiano-tridentino» sembrino ridurlo «inetto a vivere, nonché a comprendere, la piattitudine del rituale cotidiano», indifeso alle «misericordi sfumature d’ogni gentilezza, e del sottile pensiero».

La pubblicazione del Pasticciaccio, con la straordinaria crescita successiva di ogni sua dimensione fu indubbiamente un evento capitale per la cultura del nostro nuovo mezzo-secolo, giacché liberava di colpo la letteratura da ogni soggezione servile per altri ordini o altre sfere, e la restituiva alla sua dignità di operazione linguistica assoluta, in relazione soltanto con i propri fini, il proprio senso, il proprio progetto. Ma dopo il successo stesso del Pasticciaccio, l’assedio editoriale e le meschinità della Fama non dànno pace all’Ingegnere. Accanto ai volumi narrativi ora più volte ristampati, oltre alle splendide collezioni de I viaggi la morte e Verso la certosa, arrivano presto nei nostri scaffali altre avventure del Gadda saggista: il delizioso pamphlet arrabbiato contro il Foscolo, e la scorribanda spiritata e maliziosa dei Luigi di Francia, tagliata à la diable e fitta di sardonici umori, dove s’incontrano e s’intrecciano le diverse attrazioni dell’Ingegnere – per la storia segreta e la psicologia applicata, per la riflessione di moralità e gli agganci con le arti figurative… Il capriccioso ritratto del Cardinal Mazarino; i suoi occhioni e i suoi rossori di fronte alla regina Anna, ingorda e golosa; le picaresche sciagure della Fronda; il Re Sole al fronte con le dame dietro che dormono vestite e affondano nel fango nutrendosi di brodini; l’educazione di Luigi XV, e i maneggi intorno al suo matrimonio; la seria e divertente discussione sullo stato delle finanze francesi alla metà del ’700; e quel bizzarro intermezzo sul Bourgeois Gentilhomme; e soprattutto, l’appassionato lettore di Retz e di Saint-Simon, di Montpouillan e Bainville, di Mme de Sévigné e del Duca di Richelieu, affascinato alla Camilluccia dalle splendide e corpose trame del Grand Siècle…

Ma ora l’Ingegnere appare sempre più angustiato dagli impegni editoriali, angosciato dalle conseguenze più fastidiose del successo, bersagliato di richieste balorde, perseguitato da noiosi, da matti, da perditempo, da rompiscatole… Si chiude in casa; e respinge l’attualità, rifiuta qualunque contatto coi mass media, non desidera discepoli… Però il recluso pare maldifeso contro l’invadenza del sottobosco pseudoculturale romano; e finisce per subire i più petulanti, i più indiscreti, con raccapriccio, forse con qualche inconfessata fascinazione di fronte alla volgarità d’animo e di modi. Così, cresce smisuratamente il ritegno di fronte alla telefonata, da parte degli amici che solevano andare a prenderlo, accompagnarlo a pranzo. E intanto (angariato, aggravato), l’Ingegnere non scrive – praticamente – più, nelle giornate afflitte da visite intempestive e da domande uggiose, infinitamente stanco.

E se il Contini si era compiaciuto di aprire la bella prefazione alla Cognizione del dolore con la contrastatissima (da Don Gonzalo) figura «che si rivela a Marcel auprès de Montjouvain», bastano (nuovamente) pochi anni perché l’Ingegnere venga assomigliando sempre più a un altro drammatico emblema: la formidabile figura che vigila the Aspern Papers in «varie scatole di cartone ammucchiate, ammaccate, rigonfie e scolorite, che potevano avere almeno cinquant’anni» e in «un bauletto basso che stava sotto un sofà dove c’era appena posto per esso, e pareva uno strano forziere decrepito, di legno dipinto, con elaborate maniglie e cinghie accartocciate e la vernice quasi interamente scrostata», reclusa e dilapidata nella magione veneziana fatiscente, ma «appassionata, furiosa», nella celebre invettiva «Ah, you, publishing scoundrel!»… Eppure, proprio qualche effrazione di specie probabilmente asperniana doveva sottrarre a quei leggendari scatoloni lo stupendo notturno posto a concludere la Cognizione, quale tragica summa di tante Notti attonite o incantate o di «cattiva gente» – consegnata «a chi di dovere», cioè al Domaine Public del capolavoro gaddiano e dei suoi lettori.

Verso la fine degli anni Cinquanta scrivevo uno sketch molto generazionale con un titolo abbastanza fortunato (I Nipotini dell’Ingegnere) e un omaggio ben presto inservibile, ma involontariamente analogo alla notazione di Sklovskij per cui le genealogie letterarie non operano per filiazione diretta, bensí «da zio a nipote» (per quel certo procedere angolare del Geist formalista che si ritrova anche nella Mossa del Cavallo, e nello Scarto Rispetto alla Norma). Né l’Ingegnere ha mai proliferato direttamente, infatti; non si è mai curato di intrattenere una progenie, e meno che meno di far scuola, neanche per una qualche tentazione pedagogica pariniana: chi lo potrebbe immaginare intento a correggere i compiti dei discepoli, organizzare un piccolo clan di fedeli intorno a una rivista di tendenza, trafficare circondato da piccoli subalterni e infilarne uno in una casa editrice, altri nei giornali o alla televisione, e ad altri ancora ottenere docenze, o supplenze, o cattedre, in uno svolazzío di recensioni reciproche? Allora com’è singolare che questo professionista ostinatamente celibe, questo vecchio elefante deciso a morir solitario, si trovi a un tratto carico malgré lui di nipotini adoranti, ingombranti, imbarazzanti, addirittura testardi in una loro devozione certamente affettuosa ma probabilmente persecutoria…

In realtà, sarebbe bastato osservare: i veri nipotini dell’Ingegnere sono stati pochi e in gran ritardo, forse addirittura pronipoti; hanno formazioni extravaganti e interessi anomali rispetto alla Bellettristica dominante; questa irregolarità così ascendente nei confronti del gesto linguistico gaddiano spiega subito ogni affinità o entusiasmo; e senza il conforto del Paragone longhiano, si potrebbe anche fantasticare sugli esiti possibili dei nostri singoli casi. Si capisce dunque che continuo a parlare (come tanti anni fa) di Pasolini e di Testori e di me, nonché di Gramigna e Citati. Notavo, insomma, allora: «oltre alla divorante ossessione per una deformazione linguistica omologa delle passioni umane più scatenate e vissute (e necessaria, ogni volta che la lingua diventa più stretta della vita), l’unica caratteristica comune dei tre nipotini dell’Ingegnere sembra oggi una specie di vitalità frenetica e imprudente, sempre allo sbaraglio, partendo sempre da zero e rimettendo in giuoco tutto, come se dovessero davvero morire tutti domani (è una cosa che Pasolini ripete volentieri di se stesso). Ed è proprio un tale contrasto con i suoi ritegni, rossori, pudori, tremori e terrori, con tutta la sua circospezione, probabilmente, la prova negativa che l’Ingegnere stesso potrebbe sempre impugnare per disconoscere la propria ascendenza diretta, e desiderare in cuor suo che queste attività troppo spericolate e intense si svolgano extra muros o almeno il più lontano possibile…»

Poi, la crescita di eckermannismi e boswellismi intorno ai suoi detti leggendari finiva per rendere sempre più difficile tributare un omaggio giusto alla sua ritrosia e al suo riserbo, evitando che un qualche connotato di genere pittoresco inquinasse il rigore della testimonianza: come restituire l’affascinante mélange di contraddizioni quale risultava dalla sua figura stessa? reduce soprattutto sofferente per le fissazioni traumatiche riportate dalla guerra sul dopoguerra e sulla vita stessa, ferito da un sentimento di provvisorietà che affligge il ritorno a un’esistenza civile sentita come precaria, estranea, instabile, tra quei favolosi bauli forse mai disfatti, e il rovello per gli anni smarriti in una giovinezza murata, irrecuperabile… Pietro Micca in abito di Quintino Sella, con l’orgogliosa modestia e l’ironia dolorante e la verecondia esplosiva di grande scrittore rivoluzionario travestito da commendatore vieux jeu in costante reverenza davanti alle Sedi delle Istituzioni – dal Castello Sforzesco alla Stazione Nord alla Edison al Corriere della Sera alle Banche all’Idioma… – nell’atto stesso di mobilitare a dilapidarle strepitose risorse emotive e culturali e stilistiche e di sense of humour… tanto che davanti all’originalità quasi sconcertante di ogni sua osservazione, a quell’arrivare comunque alla verità profonda delle cose, impressionante da parte di qualcuno che vive così palesemente distaccato, «fuori delle cose», si veniva continuamente afferrati dal dubbio: è vero? o è possibile che l’Ingegnere, appena al sicuro in casa, nella sua logica sapiente e folle rida divertito o pietoso delle nostre scioccaggini? Così riusciva difficilmente descrivibile ogni esperienza eccitante e consolatoria dell’intelletto ingegneresco… Eppure vorrei davvero concludere Certi Romanzi con questo tentativo, questa conversazione preparata con l’aiuto di Giulio Cattaneo e poi apparsa sul Verri: riguarda la formazione dell’Ingegnere, l’iter spirituale attraverso il quale si è venuta componendo una personalità culturale e umana per cui Contini ha parlato di «eminente dignità riflessiva».

«I successivi miei choc di carattere riguardanti la tematica conoscitiva sono stati saltuari e sporadici, non per mia malavoglia o poltroneria, ma perché sono stato boicottato negli anni giovanili», dice subito l’Ingegnere; e accusa il tempo, la stanchezza, la «estrema povertà»; e prima ancora i genitori che hanno «sabotato» la sua vocazione letteraria, l’ingegneria «non alta, ma faticosa»; e la mancanza di libri e di esperienze di viaggio; la scarsa esperienza della vita, «la esperienza non sempre lieta che avevo fatto degli esseri umani». «Mi sono mancate allora, come a un prigioniero, eccitazioni, fermenti, suggerimenti intellettuali, eccitazioni alla ricerca…» E negli anni successivi, l’estrema fatica: «costretto agli studi d’ingegneria, a Milano, non mi hanno lasciato il tempo e molte volte neppure la voglia, le possibilità fisiche di ricerche curiose…»

«Ulteriori gravi traumi sono stati quelli derivanti dalle guerre che la mia generazione ha attraversato: alla prima delle quali ho partecipato con una passione positiva, mentre ho subíto come civile la seconda con una orrenda e lunga sofferenza, anche fisica».

Formazione perciò lacunosa, «a macchie, a chiazze». Negli anni dell’adolescenza sono prevalsi interessi letterari, prevalentemente italiani e latini, con qualche puntata su autori greci (Omero). Poi Dante, Ariosto. «Negli anni ulteriori dopo il liceo ci sono stati momenti di cultura, ricerca, e di eccitazione derivanti da indirizzi logico-matematici della eccitazione stessa (Einstein, la teoria della relatività, più tardi la teoria dei quanti, De Broglie)».

«Dopo i contatti letterari di Firenze, tutto il grosso repertorio di idee che si può brevemente designare col nome – se non di psicopatologia – di psicanalisi». Negli Anni Trenta l’Ingegnere si interessa soprattutto di fenomeni «proibitissimi dal fascismo… venuti dal di fuori… esterofilo: parola cara al duce, carica di condanna…» Studia per esempio («per quanto senza possibilità di approfondire… costretto dal lavoro…») la matematica di Einstein, appunto, e la psicanalisi: «Quando molti ritenevano l’idea volgare che Freud fosse un pervertito… e neanche a parlare di Breuer, Charcot…» Rivolge cioè la sua attenzione ad alcune fondamentali discipline scientifiche moderne ignorate o trascurate dalla maggior parte dei letterati di quell’epoca, e praticamente mai integrate sul serio nella nostra cultura umanistica.

«Avevo già frequentato a Milano come socio di una biblioteca molto bene – e milanesemente – organizzata (il Circolo Filologico) i precursori: appunto Charcot, Breuer… molti altri… e anche gli psicologi positivisti; ricordo L’intelligenza nel regno animale di Tito Vignoli, psicologo lombardo.

«Si tenga presente che l’impegno degli studi d’ingegneria comportava otto ore di attività giornaliera, compreso il disegno; e a certe esercitazioni, per esempio di mineralogia, occorreva presentarsi alle sette della mattina.

«Questi milanesi col loro lavurà mi hanno dato una bella mazzata sulla testa…»

E Roma? «Ne sono amareggiato, stanco; se potessi me ne andrei subito; se avessi forza, denaro… Ah, il romanesimo…»

«… A proposito di psicanalisi devo dire che mi sono avvicinato ad essa negli anni fiorentini dal ’26 al ’4o quando l’insieme delle dottrine e delle ricerche di questa grande componente della cultura moderna era visto popolarmente come operazione diabolica e quasi infame, per la crassa opaca ignoranza di molti grossi tromboni della moraloneria e della cultura ufficiale dell’epoca».

Ma perché è andato a Firenze?

«Manzonianamente… e anche un po’ come un inglese (senza quattrini) del ’700… Per imparare la lingua e frequentare le biblioteche fiorentine (e pensare che poi non ne ho avuto quasi mai il tempo!)… Il Vieusseux e la Marucelliana hanno sostituito nel mio positivismo illuministico la vecchia organizzatissima biblioteca milanese».

Sembra straordinario andare ancora a Firenze per sciacquar panni lombardi in quel fiume, e come risultato distruggere il fiorentino con l’esplosiva operazione linguistica del Pasticciaccio; ma l’Ingegnere ne sorride, non vuol dir niente.

«Alla psicanalisi mi sono avvicinato e ne ho largamente attinto idee e moventi conoscitivi con una intenzione e in una consapevolezza nettamente scientifico-positivistica, cioè per estrarre da precise conoscenze dottrinali e sperimentali un soprappiù moderno della vecchia etica, della vecchia psicologia, e della cultura che potremmo chiamare parruccona e polverosa di un certo tardo illuminismo lombardo.

«Col comprendere la fenomenologia dell’inconscio mi è sembrato di fare un passo avanti nella mia struttura di apprenti sorcier. E devo dire che ho incontrato negli studi di filosofia fatti presso l’Università di Milano (nel ’25, nel ’28, nel ’3o, allora si chiamava ancora Accademia scientifica e letteraria, però conferiva lauree regolari) un docente di psicologia, Casimiro Doniselli, che mi ha condotto alla possibilità di pensare a una specie di traduzione in termini psicologici di molte posizioni di filosofia teoretica: alcune posizioni teoretiche kantiane potrebbero essere oggi registrate in chiave psicologica, per esempio». E fra le esercitazioni fatte in questo periodo l’Ingegnere ne ricorda soprattutto una sull’apparecchio dell’udito, in cui la coclea (che ha la forma della spirale di Cartesio) funziona come estrattore di logaritmi delle scale sonore.

«Molto hanno impressionato la mia giovane e ancora inesperta ricerca formativa quei necessariamente limitati avvicinamenti, o approssimazioni, ai maestri della filosofia moderna… Ho letto Spinoza, Leibniz, Kant… La lettura dei Nuovi saggi di Leibniz (tradotti da Cecchi) e della Teodicea stessa, si può dire che siano stati nettamente formativi per il mio sviluppo e i miei interessi logico-teoretici posteriori… Ancor oggi sento di dover molto a Leibniz: e di riviverne oscuramente i suggerimenti e i pensieri nella ormai declinante vita intellettuale, avviata alla chiusura…

«A questo proposito sarebbe mio estremo desiderio di poter lasciare almeno una affrettata e sintetica operetta di esegesi da un lato e di apology (nel senso di giustificazione) dei miei momenti di pensiero e degli inevitabili errori (od eccessi) a cui la mia affaticata ricerca è andata incontro, come ogni ricerca… per successivi tâtonnements… come ognuno di noi… forse anche la natura stessa… si avvicina alle sue idee per tátonnements… e incontrando la dolorosa esperienza di inevitabili impasses…»

Ma la sezione forse più larga della sua libreria è affollata di volumi di storia…

«L’interesse per gli studi storici può dirsi innato in me; o se no, ha ricevuto eccitazioni che chiamerò ginnasiali con grande amore e rispetto per gli studi ginnasiali che ho potuto seguire (Cesare, Tacito, non molto Erodoto), i minori latini, più tardi Svetonio… e perché ho avuto da taluni di questi storici latini (Tacito, Svetonio) e dai poeti… la sensazione che ci sia stato un grande momento della conoscenza umana in cui la storiografia non è stata una menzogna… senza compromessi, né reticenze… La stessa sensazione mi è stata data più tardi dagli storici francesi e inglesi... da Macaulay a Strachey, come specimen... e Lavisse, Michelet, Lefebvre, Bainville... e memorialisti, altrettanto validi annotatori della realtà e della verità... Saint-Simon, Retz… gli epistolari, e le lettere… mi hanno condotto a interessarmi ai fatti della grande storia francese…»

E il Rinascimento?

«Sì, ho avuto interessi culturali e letterari e di giudizio storiografico… per gli storici letterati… la potenza d’espressione, il senso della verità… Guicciardini, Machiavelli, Jacopo Nardi… Però non credo a un Rinascimento politico… non credo che possa aver dato all’Italia quello che il valore delle armi e della nobiltà francese ha dato alla Francia… sempre in esercizio nell’incontrare la morte… magari in duello, quando non v’erano guerre… Il mio giudizio necessariamente generico per la storia dei Comuni e delle Signorie non ha insomma un carattere idolatra né per gli uni né per le altre, pure ammettendo il carattere di indipendenza eroica del Comune borghese e tessile rispetto all’ancoraggio all’idea imperiale».

E la filologia? Qui l’Ingegnere raccomanda di tenere un tono modesto e serio per riguardo agli studiosi specializzati. «… Uno dei momenti tormentosi della mia modesta e frantumata carriera di scrittore… Contini per il caso mio molto giustamente parla di letteratura perduta, rifacendosi a Proust… e di un sentimento di frustrazione che starebbe e sta di fatto alla base del mio lavoro e del giudizio che faccio di me stesso… un fine non raggiunto…»

Ma perché? Ma come? Ma l’Ingegnere scuote la testa, parla di brogliaccio, di macchie d’inchiostro, di minute confuse e indecifrabili, tossisce, batte le mani sulla tavola, mormora «avevo in mente un programma… e invece… solo un avvicinamento a quello che speravo… tarda riparazione… citazioni impreciso… mancato adempimento del compito… la questione dell’espressione… come un bambino che si preoccupa esclusivamente di far bene il suo compito, mi sono sempre preoccupato di raggiungere non tanto l’optimum formale routinier (i plurali giusti, le camicie scritte con la i…) quanto l’optimum espressivo… è chiaro questo, no?…

«è stata infatti usata per me talora con tono d’accusa o rimprovero la qualifica di espressionista… Ma io credo che il dovere di un optimum espressionistico incomba a ogni artigiano se non a ogni artista… al pittore, al sarto, al compositore, e in primis allo scrittore, che maneggia uno strumento assai difficile a possedere e ad usare e cioè l’idioma…

«Ma io ho sentito che in ogni idioma… lingua o dialetto… la lingua, che ha dietro di sé una cultura, una scuola, una formazione, un’accademia, una provenienza da altra lingua madre… e il dialetto talora con egual provenienza da una lingua madre, come il latino per il dialetto lombardo… ciò che interessa è la potenza, la tensione espressiva, il voltaggio espressivo… e indipendentemente dal perbenismo accademizzante a cui si possa essere più o meno vicini… Non importa se si è prossimi al Rigutini, importa la potenza espressiva!

«Quel che accade al dialetto lombardo o alla parlata napoletana rispetto al latino… e facite ’a faccia feroce è latino… da cui entrambi derivano la loro tematica… gli etimi… accade anche ad alcune lingue neolatine, le più vive e stupende, il francese e lo spagnolo… lasciamo il provenzale, che m’interessa meno… anche se, vero, per alcuni argomenti, certi discorsi, è ovvio che potrà essere usata solo una lingua colta (il francese, lo spagnolo), anziché un dialetto… I Nuovi saggi di Leibniz non possono essere scritti in dialetto…

«Colloco il dialetto a una stessa possibilità espressiva… o voltaggio, o altezza… della lingua… limitatamente agli argomenti di sua pertinenza: il linguaggio di Ruzante o Goldoni non potrebbe essere adatto per un’opera filosofica… E mi permetta di chiudere con una piccola chicca… per usare il suo elegante e italianissimo termine: per dire vino, i successivi etimi sono stati nell’ordine oinos, vinum, vino, vin (milanese), vi (bresciano)… mentre si dice in bergamasco semplicemente i, spaventosa erosione della matrice vinum, opera dell’abominevole dialetto bergamasco, secondo i tromboni moraloni accademici della moralità linguistica… Senonché nella gloriosa e stupenda lingua del grande La Fontaine e anche di quel Saint-Simon che come dice Sainte-Beuve «écrit à la diable pour l’éternité» per dire agosto attraverso le successive erosioni di augustus mensis si passa da aoust a août; e finalmente alla fonazione u che come erosione fonetica equivale allo i dell’abominevole bergamasco…»

«Il Carducci, prosatore e poeta, è stato la mia lettura per molti anni dell’adolescenza, dopo il Manzoni e prima del D’Annunzio», ha scritto una volta l’Ingegnere. «I tre nomi stanno fra loro come tre schegge d’una bomba, lo so: e tuttavia le cose andarono così. Noi non scegliamo mai i nostri padri e raramente i maestri. Dove il destino ci ha deposto, nello spazio e nel tempo e nel costume, ivi cominciamo a vagire…»

Ma per difendere il suo primo autore, il Manzoni, anni fa attaccava l’interpretazione data da Moravia in una prefazione ai Promessi Sposi: «incriminando, sia pure tra sostanziali riconoscimenti, un signore milanese nato nel 1785 e operante fra il congresso di Vienna e il quaranta, di non aver condotto il suo romanzo avendo riguardo alle istanze mentali o alle situazioni di diritto del 1959; quando proprio quel signore milanese ha romanzato per primo nei poveri, negli umili, negli incorrotti o nei fatalmente oppressi i risorgenti protagonisti della storia umana, della salvezza biologica: e li ha immaginati a dire (in battute inimitabili) e a sentire e patire e volere come tali: in un seicento lombardo, spagnolesco, lanzichenesco, e borromeiano e sinodale e cattolico; (cattolico era, lui non poteva farlo turco)». E aggiungeva: «Il censo del Manzoni e il di lui quietismo e conservatorismo pratico e vorrei dire provvisorio (casa, sposa, Brusuglio, parco, riservatezza di vita) non sono più gretti né più incriminabili degli analoghi censo e automobile e pennichella di tanti buoni araldi d’un miglior domani che battono, pour le moment, le buone e consuete strade dell’oggi…»

«Rispetto il romanziere dei Promessi sposi per le stesse ragioni per cui lo avversa Moravia», conferma ora l’Ingegnere: «in pratica non è affatto un moralista cattolico».

«Non amo invece il Manzoni del 5 maggio e degli Inni sacri: non per un qualche sentimento di oltraggio alla religione; ma perché non credo che lì ci sia veramente un pathos religioso; semmai, un barocco cattolico derivato dai predicatori del Seicento, di cui però Manzoni non ha mai raggiunto la finezza espressiva: di Bossuet, per esempio».

Don Abbondio…

«Se un Dio… non il Padreterno morale, intendiamoci… ma se un Dio estetico mi domandasse in quale personaggio dei Promessi sposi vorrei identificarmi… risponderei subito: in Don Abbondio!… per la sua povertà disarmata, la sua paura fisica, la sua ragione stessa d’aver paura…»

Soltanto?

«… Per la confessione che fa a se stesso della sua reale condizione umana. È quello che vede più chiara la sua posizione, al di fuori d’ogni esornazione teatrale… vera mancanza di spirito esibitivo, narcissico, gratuito… il più vicino alla mia mancanza di teatralità, di messa in scena…»

E il Cardinale? Il dialogo fra i due?

«Apprezzo il lato borromeiano-romano del Cardinale, i suoi antenati erano buoni osti che curavano il traffico di pellegrini e romei, e se ne sono arricchiti. Credo che provenissero da San Miniato al Tedesco, di cui era originaria anche la famiglia Bonaparte, del resto: lo stesso San Miniato al Tedesco del Carducci, quello dove frinivano le cicale

«Ma non si chiama più così. Si chiama San Miniato al Monte, mi pare. Il Tedesco è stato abolito dopo che i tedeschi hanno fatto saltare la torre di Federico II… Abitava lì una buona borghesia d’origine fiorentina, a cui dovevano appartenere i Borromeo… mentre i napoleonidi probabilmente hanno origini pisane, o sarde, da uno dei giudicati pisani della Sardegna… Poi si sono trasferiti nel Veneto, fra Treviso e Padova, dove si sono imparentati coi marchesi Vitaliani, ereditandone fra l’altro anche il nome, che ricorre così spesso nella famiglia Borromeo… E poi finalmente nel Milanese… migliorando continuamente la loro fortuna topografica… ed economica e terriera… E a Milano, verso la fine del ’700, si sono alleati per matrimoni coi marchesi d’Adda… donde Febo d’Adda, il giovanotto dell’ode Alla Musa del Parini… di cui il Parini tanto amava le elette doti umanistiche, tanto vero che appena si sposa rimprovera la moglie: “Giovinetta crudel, per che mi togli | tutto il mio d’Adda, e di mie cure il pregio | e la speme concetta, e i dolci orgogli | d’alunno egregio?”

«I Borromeo hanno tentato di sostituirsi ai Visconti e agli Sforza nella déconfiture sforzesca dopo Ludovico il Moro, tentando di costituire un baluardo lombardo nella rocca d’Arona… La differenza coi Trivulzio è che Giangiacomo per esempio era fuoriuscito, mentre i Borromeo sono sempre rimasti in Lombardia, dando prova d’ossequio formale verso la Spagna dopo la battaglia di Pavia…»

E Federigo?

«Il Cardinale per me rappresenta con un certo fascino la presenza fisica della Chiesa cattolica di rito ambrosiano nel contado, in occasione della visita pastorale stupendamente descritta: la visita al sarto, ecc.… Solennità che non s’abbassa neanche stilisticamente… Moravia mi pare fin troppo perentorio nella sua diatriba… Nel colloquio con l’Innominato sono di fronte due pari grado… L’Innominato, si sa, probabilmente è un Visconti rifugiatosi sulle montagne, uno spezzone della potenza politica spagnola… Nel duetto col Cardinale, sono due giansenisti raciniani di fronte… stupendo: il “delirio passeggero”, lo scampanio all’alba… “ho l’inferno nel cuore!”… e poi, “eppure provo un refrigerio, una gioia”… Mentre fra il Cardinale e Don Abbondio: “il cielo me la mandi buona”… “adesso sto fresco”… “adesso vien la grandine”…

«Il Cardinale vince con la sua altezza di conoscenza, vince come Racine e Pascal, come mente. Ma come diretto conoscitore della propria vicenda, della propria realtà senza fronzoli, Don Abbondio ha ragione. E la sua ragione è già nella sua stessa posizione indifesa, sperduta, di fronte alla nobiltà terriera prepotente. Per Moravia, rappresenta la corruzione della borghesia. Ma che borghesia c’era in quegli anni! (A meno di non ricordare il cugino Bortolo, che ha fatto fortuna nel Bergamasco…) E quale corruzione? Semmai, una povertà dimessa, un bicchiere di vino di tanto in tanto…

«Insomma: sia la presenza e la passione di Don Abbondio (non attivo, non pragmatico, non Corneille, tutt’altro che un romantico tedesco, incapace di agire in difesa di un ideale), sia il più grande e drammatico patimento di Virginia di Leyva, non possono essere veduti come propaganda cattolica nel senso che si dà oggi a questo bruttissimo vocabolo di propaganda (stampa e propaganda…) Semmai, due rospi che ha dovuto ingoiare la Chiesa… o meglio, una fitta nel cuore della chiesa romana, così come furono storicamente una fitta nel cuore del Cardinale… Sia Don Abbondio sul piano della paura, sia Virginia di Leyva sul piano dell’amor sensuale incoercibile dànno molto fastidio alla Chiesa, proprio perché la Chiesa ha l’aria di dire, attraverso il Cardinal Borromeo: “Questo vostro dramma è un dramma animalesco, e la vostra forza d’animo secondo me non basta a resistere!”

«Ma le istanze fisiche, ormoniche, nervose, uterine, della nostra felicità, sono collocabili a un livello più basso del sistema organato della ragione platonica; e in certo senso una etica consapevole dei suoi mezzi e fini dovrà tener conto di questo fatto. Le istanze fisiche ci sono date dalla natura, compresa nell’opera di Dio. Le istanze logiche profonde di un alto livello ci sono date dal Dio supervisore della Natura stessa. Né un livello né l’altro possono essere ripudiati da un’etica nostra, sono entrambi celle realtà… Uno nella realtà… inferiore… L’altro nella realtà superiore, a sua volta inferiore rispetto a un’altra… E sono infinite! Già gli alessandrini lo sostenevano… e Leibniz… Diversi piani di conoscenza, uno sopra l’altro… e il secondo piano diventa primo rispetto a un terzo, e in futuro forse se ne aggiungeranno altri…

«No! Non si possono assumere i Promessi sposi come testimonianza di una propaganda cattolica da parte del Manzoni… Potrebbe forse essere curioso notare che in genere i personaggi cattivi sono spagnoli o con nome spagnolo, come Don Rodrigo: quindi sono i dominatori e i tiranni. E non per nulla il libro è stato subito inteso anche dai suoi contemporanei come un “dire di nuora (Spagna) perché suocera (Austria) intenda”: un espediente pratico per poter fare nei limiti della possibilità e della prudenza una propaganda nazionale e italiana…

«I Promessi sposi riverberano la cultura illuministica e per così dire libertina (nel senso settecentesco di liberale), e quindi un punto di vista popolarmente libero dell’espressione… “Lorsignori son uomini di mondo, e sanno benissimo come vanno queste faccende. Il povero curato non c’entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi… e poi, vengon da noi, come s’anderebbe a un banco a riscotere; e noi… noi siamo i servitori del comune”… Frase risicata, popolare, di un curato che denuncia come a se stesso il caso di due col bambino in viaggio… Non era vero: ma può dar l’impressione che Don Abbondio cerchi di suggerire una scappatoia ai bravi… (Lucia già col pancino… quindi per Don Rodrigo inutile cercar di cogliere una primizia…)… E altre frasi popolari: Renzo ubriaco con l’oste, Renzo col coltello sul carro dei monatti…

«E il linguaggio è continuamente elegante, ma popolare, lombardo-toscano. Nel linguaggio dei Promessi sposi la frase toscana impeccabile (o risciacquata) si alterna ai momenti per così dire espressionistici germinati dalla vitalità espressiva lombarda: poveri, curati, e le donne, Agnese e Perpetua (“lei, signor curato, è sempre disposto a calare le brache”…)».

Il vecchio, le donne, gli affetti… la gentilezza, l’eleganza poetica del Parini… dice abbastanza contento l’Ingegnere. «è innegabilmente uno dei primi inventori di una lirica colloquiale narrativa di suprema, seppure cronologicamente barocca, eleganza della nostra poesia, sia nel Giorno sia nelle Odi… Dove è da tener presente che ciò che noi sogliamo chiamare barocco o grottesco (e in questo caso, un grottesco elegantissimo), può essere insito nella cultura letteraria e linguistica del tempo, nelle idee del tempo, e quindi ascrivibile ai personaggi e all’ambiente, e non al caratterizzatore poetico, a chi raffigura l’ambiente. La sciocchezza è del tempo, non del pittore…»

… Era snob il Parini? «No, non snob. La società gli dice (dalla zona logica, platonica, alta): “questa è una marchesa, ricca, elegante, profumata”… E lui, povero, vecchio, tabaccoso, si adegua a questi valori e si innamora della marchesa. L’altra zona, inferiore, considera invece il ragazzo e le sue possibilità… La necessaria pratica di vita dell’abate lo porta a benvolere l’alunno, il pupillo, che dà prova di un certo umanesimo letterario e poetico, e che arriva forse a imitare il maestro nella redazione di una saffica maggiore… Nel caso del Giorno, così, il pedagogo ama contemporaneamente il ragazzo e la sua mamma.

«Ma a questo proposito si noti che il giovin signore è incriminato dal Parini di reati assolutamente tenui: gioco al tappeto verde, rincasare alle tre, una certa albagia signorile verso i dipendenti… per quanto i rapporti fra il padroncino e i valletti gentili, i damigelli, i meniños, siano tutt’altro che duri… anzi affabili, pieni di simpatia forse eccessiva… come cura leziosa di fratellini minori… E non è escluso che in un momento di debolezza il Parini voglia adombrare una simpatia davvero eccessiva fra padroncino e damigelli… Però, se un critico specializzato in studi pariniani facesse l’elenco dei reati, o dei vizi (o piuttosto delle goffaggini) che il giovin signore perpetra nel corso del suo Giorno, si vedrebbe che sono tutti infinitamente meno gravi delle analoghe colpe estetiche e morali che si potrebbero ascrivere a un giovin signore degli anni nostri».

Siccome l’Ingegnere qui si rabbuia e borbotta «ah, gli operai di Pasolini… assaltare le donne e le banche!…», pare un po’ troppo severo contro i giovin signori attuali. Quelli che conosciamo tutt’al più corrono scioccamente in macchina, stanno su tardi a ballare, tutte le sere: divertimenti banali… «E con tutto questo, però, meno lombardescamente vitali, anche sensualmente, che nella metà del Settecento, anche dal lato economico. E cioè, il giovin signore d’oggi spenderà somme anche maggiori di quelle del Parini per divertimenti magari più futili e inoffensivi… Comunque quello del Parini non sarà mai più colpevole di questi d’oggi… Le sue colpe comunque non sono infamanti!»

E le colpe del Parini? «è noto che gli sono stati attribuiti anni, di relativo libertinaggio, e cioè gli anni giovanili, in cui giovane prete libero professionista era disceso dalla Brianza a Milano. Cantú, nel Parini e la Lombardia, sembra ritenere che frequentasse i templi di Venere Pandemia, e forse vi ha anche contratto qualche regaluccio di Venere Pandemia»…

Ma quali peccati commette, per esempio, nei confronti del giovin signore e della sua mamma? «Confessa l’innamoramento per l’una e la simpatia per l’altro, chiaramente. Non appare pensabile che il vecchio e brutto prete dall’occhio ancora vivo… ancora energico, seppure tabaccoso… per quanto, secondo il Cantú, col diavolo in corpo… abbia mai avuto soddisfacimenti dalle contesse e dalle marchese idolatrate… Bisogna tenere presente che il povero prete libero professionista era un abate senza abbazia, viveva di messe e lezioni…

«Due giovani occupano però la musa del Parini in due odi notevoli: l’undicenne Giancarlo Imbonati, futuro consorte in uno scandaloso concubinaggio (come direbbe il Vescovo di Prato) con donna Giulia Beccaria vedova Manzoni. La quale poi compose per se stessa uno stupendo epitaffio funebre riferito da Don Cesare Angelini: «Giulia Manzoni – figlia di Cesare Beccaria – madre di Alessandro Manzoni». Senza titoli nobiliari, senza ricordare il marito, ma solo il padre e il figlio famosi; come in una interpretazione che dica: sono su questa terra come una creatura genetica che prende la vita dal Beccaria e la dà al Manzoni; il marito Don Pietro è tutto quello che ho avuto dalla società, e di lui non m’importa nulla… All’affetto del Parini per l’Imbonati dobbiamo se non altro la stupenda strofa d’apertura de L’Educazione: “Torna a fiorir la rosa”…

«L’altro è Febo Borromeo d’Adda, prossimo a diventar padre. La Musa del Parini (nell’ode Alla Musa) s’appressa al boudoir della sposa prossima madre, “mentr’ella il vago crine annoda” e le fa una amabile scena di gelosia (“e t’oda anche il marito!”), incolpandola di prendere per sé tutto l’amore del marito e di non lasciar nulla al Parini. L’ingegnoso brianzuolo – e intellettualmente vitale…» (l’Ingegnere non ama affatto la Brianza, dove i suoi possedevano una terra, e i contadini gli facevano dei dispetti) «…ben comprendendo che una scena di gelosia diretta di lui prete pedagogo alla sposa di Febo Borromeo sarebbe caduta immediatamente nel ridicolo, incarica la Musa, che nominalmente è donna, di sobbarcarsi alla fatica della scenata. Donna contro donna, gelosa di un’altra donna, in un boudoir, niente di male, non dà scandalo… per di più la Musa è vergine, ma nella realtà chi è vergine d’amore è lui, il vecchio… mentre vecchio prete tabaccoso geloso di giovane sposa diventerebbe subito ridicolo.

«Poi, si passa al mondo greco. E il ragazzo Achille sale sul Centauro Chirone, e mentre quello volta la testa gli pettina la barba con le manine, “scorrea con giovanile | man pel selvoso mento”… Ma cosa penserà il Centauro sentendosi dimenar sulla “irsuta schiena” un ragazzetto che si presume poco vestito?» (L’Ingegnere, di fronte a centauri, chimere, ippogrifi, si immedesima, subito nell’animale mitologico e si chiede che vita fa e che sensazioni prova). «Per forza l’ode deve finire tentando di salvar tutto: il giovane diventerà un buon soldato di Maria Teresa, permettendo ai professori del futuro di salvare col Parini anche se stessi».

Ma questo rapporto fra pedagogo e discepolo rimane insistente in mente all’Ingegnere, che negli Appunti per il Vespro e la Notte trova la nota del Parini stesso, «Ercole uccise Lino battendogli della cetra sul capo»; e una preoccupante chiosa del Caretti: «Voleva forse il Parini sviluppare il tema dei rapporti fra il giovin signore e il suo precettore?»

«è probabile, – dice. – In tal caso si tratterebbe di una rivolta del pupillo di tipo filiale edipico contro un padre pedagogo che l’ha deluso». E se la rivolta fosse invece del padre pedagogo? «In questo caso il carme si sarebbe risolto in un giudizio-confessione del poeta. Non per nulla questo giudizio-confessione gli è rimasto nella penna, e il Giorno non è stato terminato».

Nessun poeta italiano è più antipatico all’Ingegnere del Foscolo contro il quale ha composto un crudele pamphlet per il quale Contini parla di «risentimento ridimensionatorio». Ne rispetta «il dolore e l’opera, nelle parti in cui merita d’essere rispettata». Ma «come uomo furbo e scaltro e innegabilmente commediante» lo giudica «uno dei personaggi meno accattivanti della letteratura italiana». Lo chiama il Basetta, gli dà dello scimpanzè, del roditore, dello scoiattolo, del piteco. Gli nega «ogni più pallido senso della forma, del costume, dei momenti figurativi, degli atteggiamenti spirituali, degli stili, direi dei colpi di scarpello, de’ diversi tempi o secoli o cinquantenni della storia, o dei materiali edilizi adibiti ad opera. L’Eretteo e la Chiesa di Polenta, il marmo pentèlico o il mattone romanico e visconteo, per lui fan tutt’uno. Firenze, per lui, è una città neoclassica, pietrosa e intonacata com’è. Il Biancone lo vorrebbe femmina; ma purtroppo è un facchino; e i reumatismi non gli danno pace».

Non solo: «nella cosiddetta poesia del Foscolo tutto si riduce a una ricerca onomastica ellenizzante o comunque classica, a un macchinoso e inutile vocabolario, a una sequenza d’immagini ritenute greche e marmorine, a un vagheggiamento di donne di marmo in camicia, o preferibilmente senza, da lui dette “vergini”. Mi sa che gli piacessero di quattordicianni, anche se in pratica, a scanso di grane, le sue amanti ultraconiugate ne ebbero un po’ di più…»

E poi: «In Ugo Foscolo io non odio il poeta: se mai, odio l’istrione, il basettone. Non odio l’innamorato. Odio, caso mai, quello che si finge tale per tirare il colpo alla figlia diciottenne dell’ospite babbeo: il quale ospite, facitore di versi, ha una opinione iperbolica del creduto Poeta Iperbolico… Vantarsi del pelo! è un’opinione da parrucchiere!… Una volta nudo, era sicuro di riuscire irresistibile. Avanti, signore e signori! Una lira, una misera liruccia! Per vedere il petto a Ugo Foscolo…»

Ma perché lo odia a tal punto? «Questo risentimento ha origini in me bassamente moralistiche, – dice l’Ingegnere. – In questo senso: non mi sento di moralizzare nessuno, ma sospetto in Foscolo in qualche modo una teatralità sprezzante cattivona che non gli competeva. Ha cercato di imporsi nelle lettere e con le donne a base di basette, col pelo, con questo largo petto, nudo petto, irsuto petto: come se fosse merito suo quello d’avere un irsuto petto! E come se fosse vero che molto pelo vuol dire molta musica! è un narcisismo da torero! Senza contare che il narcisismo dell’irsuto petto è sbagliato anche come narcisismo, perché il Narciso classico è appetibile a se stesso perché è glabro…

«Inoltre l’abuso che fa di alcuni vocaboli rivela in lui una fissazione probabilmente edipica per la femminilità della madre. Fra questi vocaboli, “sacerdotessa” ricorre in misura crescente in tutte le testimonianze del suo Gradus ad Parnassum: Caduta da Cavallo, Amica risanata, Sepolcri, Grazie, sempre con aumento di frequenza. Sempre la donna promossa a sacerdotessa!

«Poi, l’abuso della parola “vergine”, e anche della parola “diva”… L’abuso di virtù sempre riferita alla donna senza ca- micia (o che sta per togliersela) pone il poeta talora moralista in contraddizione con se stesso. Non rimprovero che gli piacessero le donne: ma in quanto la vergine in camicia è destinata a diminuire nella società umana il pourcentage di vergini che sembrano inebriare lo spiritato poeta. Rapito da un vaporare di fantasime femminili in camicia, scopre delle “vergini” perfino sull’aereo poggio di Bellosguardo! Tutte vergini, per lui! Ci sono più vergini nei millenovecento versi del Foscolo che in tutta la storia di Roma antica. Nelle Grazie, poi, sono vergini anche i quadrupedi. Vergini gli uomini, vergini le donne, vergini che si salvano a nuoto, vergini i cavalli, vergini le cavalle, vergine la cerva di Diana. E Diana stessa. E le Muse. E Minerva. Nessuno si salva dalla verginità. Però il Foscolo non par mai voler incontrare il martirio (coltellata del rivale) per la vergine. Ha sempre tentato di adire donne maritate, e soprattutto malmaritate, di condizione agiata, per conquidere il cuore delle quali non occorreva pagare scotto né di buona entrata né di buona uscita».

E le britanne vergini, quelle che nei Sepolcri pregano i Geni per il ritorno del prode Nelson «che tronca fé la trionfata nave | del maggior pino, e si scavò la bara»? «Per il Foscolo sono tutte vergini, anche quando sono britanne. La sua specialità era di inneggiare alle vergini e andare a nanna con le maritate. Ma nel caso dei Sepolcri, le vergini non hanno portato fortuna al prode, con le loro preghiere. Il prode torna sì all’isola natia, ma vi approderà cadavere».

Viene poi il rimprovero civico. L’Ingegnere rinfaccia al Foscolo «l’ambiguità da lui tenuta verso l’eroico esercito francese oltre che verso Napoleone, di cui avrebbe voluto captare la grazia mantenendo una strada aperta per la posteriore premeditata fuga in Inghilterra. Si noti che i soli complimenti a stranieri nei Sepolcri sono rivolti al grande Newton e al valoroso Nelson, mentre non meno nobili e grandi eroi sono caduti in guerra nell’armata repubblicana francese, senza contare i morti francesi di Rivoli e di Marengo, i Marceau, i Desaix…»

Ma l’Ingegnere, che odia le imprecisioni, riprende il Foscolo anche sul terreno delle espressioni poetiche che risultano ridicole per «mancanza di controllo». «L’inizio delle Grazie è una sciarada… “Entra ed adora”… Ma che verso è? chi entra ed adora, si troverà col naso all’altezza dei tre cocò…» Oppure: «Il Foscolo è capace di scrivere in una lettera “Ho passato un’intera notte a piangere”. È fisiologicamente impossibile!» E ancora: «“Vorrei coprire di rose la tua tomba e sedermi sopra in perpetuo pianto”. In questo caso, la prima cosa che gli sarebbe capitata sarebbe stata di pungersi». Conclude perciò che «il Foscolo, col Carducci, è il più grande strafalcionista del lirismo italiano ottocentesco».

L’Ingegnere ha amato il Carducci molti anni fa, e ancora oggi si commuove per i cipressi di Bolgheri: «in fuga davanti a lui povero», gli fanno venire in mente sensazioni vissute assai simili. «Rispetto profondamente il Carducci, la sua povertà letterariamente felice, la malinconia dei suoi giovani anni maremmani, i suoi versi tirrenici. Ma… Ma è indubbio che il suo verso ci propone a tratti dei veri e propri errori espressivi o sbagli derivanti da non sufficiente riflessione nei confronti della propria ispirazione e dei fatti di conoscenze specifiche: storiche o politiche, per esempio».

Una collezione tipica delle imprecisioni deplorate dall’Ingegnere è la famosa Ode al Piemonte, cominciando là dove si tratta del caso dell’Alfieri. «Non si può lasciar passare una grossièreté estetica simile!» afferma l’Ingegnere. I versi sono: «Venne quel grande, come il grande augello | ond’ebbe nome; e a l’umile paese | sopra volando, fulvo, irrequieto | Italia, Italia | egli gridava a’ dissueti orecchi…»

«Qui si pone il problema che il poeta non si è posto, mentre sarebbe stato tenuto. Come volava il grande Alfieri? E questo Alfieri che vola sarà stato così entusiasmante da vedere per chi se lo vedeva passar sopra? Qui, prima di tutto, un individuo che vola sopra di noi ci dà fisicamente la sensazione che ci possa lasciar cadere qualche cosa sulla testa, può essere pericoloso; che so, un sasso, una bomba». L’Ingegnere sembra anche perseguitato dal ricordo di quando fu portato per la prima volta dai suoi parenti al Savini; e dopo avere aspettato e desiderato tanto quella occasione festiva, appena seduto al tavolino col suo gelato, subito un piccione da un cornicione della Galleria gli sciupò tutto.

«Insomma, sono del parere che far volare la gente è sempre pericoloso, e sbocchi in situazioni impoetiche per eccellenza; grottesche-barocche; anzi di tipo grottesco-grullo. Secondo poi il commento di Guido Mazzoni, quell’augello significherebbe portatore di aquila. Non necessariamente sabauda; ma aquila in genere, magari imperiale. Io ho visto però il manoscritto originale dell’Ode, dove si trova la parola “uccello”, poi biffée e sostituita da “augello”. Segno che già il Carducci doveva aver capito che era una situazione ridicola».

E poi, perché l’Alfieri dovrebbe essere «fulvo»? «Allora anch’io!» protesta l’Ingegnere. E spiega: «L’Alfieri aveva contratto la tigna da giovanetto alla scuola militare dei cadetti, ed era calvo come un ginocchio». Ma il problema più grave è un altro. «In che toilette vola l’Alfieri secondo il Carducci? In quella di Icaro? E che spettacolo offrirebbe allora a chi guarda di sotto in su? E se volasse invece con abiti del suo tempo? In ambedue le ipotesi, la cosa è grottesca!»

Più avanti, nella stessa ode, muore Carlo Alberto in esilio a Oporto: «…e nel crepuscolo dei sensi | tra le due vite al re davanti corse | una miranda visïon: di Nizza | il marinaro | biondo che dal Gianicolo spronava | contro l’oltraggio gallico…» E qui prima di tutto all’Ingegnere non pare serio che un re, sia pure in esilio, muoia sognando un marinaio, per di più a cavallo: tanto più che un marinaio a cavallo è sempre una contraddizione in sé, non meno che un cavaliere in barca. E tanto più nel caso di Garibaldi, che spronava dal Gianicolo; cioè a molti chilometri dal mare. «Perché mai avrebbe dovuto abbigliarsi da marinaro, per spronare dal Gianicolo? Senza contare che quando spronava si era già nel ’49, non era più né giovane né biondo, aveva più di quarant’anni, soffriva di reumatismi dolorosi…»

E Carducci in prosa? «Quando rispondendo ai rimproveri e alla huée in aula degli studenti repubblicani per il suo passaggio alla monarchia da un giorno all’indomani, il Carducci scrive “Non sarà mai che la democrazia passi davanti alla bellezza senza salutare”; e raffigura dunque in se stesso la democrazia e in Sua Maestà la personificazione della bellezza, le due espressioni ci appaiono alquanto visibilmente iperboliche…»

Ora il Pascoli. Lo si sa bene come gli interessa sia lo sperimentatore filologico sia il ghiotto viluppo freudiano del vecchio scapolo che va avanti per tutta la vita a far cupi giochi bambineschi con le sorelle, tra vezzeggiativi e gelosie, fiaschi di vino meridionale e strazianti visite al cimitero… Ma non vuol dir niente. Si limita a far notare che «la psicologia e la storia del personaggio Zvaní e delle sue gentili sorelle m’interessa piuttosto come mia ricerca e possibile documentazione psicologica e come atto mio di commemorante pietà». Da mesi desidera comprare il «prezioso volume» di Mariú: «ma per stanchezza fisica e mancanza di possibilità di moto topografico non sono ancora riuscito a procurarlo».

Però osserva che «le persone vittime di atroci delitti e sofferenze sono state molte altre, nella storia della criminologia italiana, ed esse non hanno strascicato per tutta la vita il loro pianto e il loro processo contro la società, e la relativa imposizione di un guidrigildo… Nel caso di Pascoli, guidrigildo cristiano, da lui imposto alla società che lo ha offeso, ai presunti offensori».

Aggiunge che «Pascoli ha suggerito qualche eccitazione a un eventuale plurilinguismo (attualmente negatissimo) del grande Montale, che odia sì i dialetti, comprendendovi ogni gergo e parlata di mestiere, ma almeno nomina precisamente uccelli ed alberi – onomatopeico con misura – senza degenerare come il Pascoli nella scioccaggine infantile. Non rifà cioè il verso agli uccelli; ma ne rappresenta leonardescamente la rapidità folgorante e il movimento, specialmente la caduta: “il saliscendi del balestruccio”, “il falchetto che strapiomba”…»

Nel Pascoli l’Ingegnere apprezza comunque «l’eroica e geniale ricerca di una possibile innovazione artigiana populista della espressione poetica italiana; e psicologicamente, moralmente, il suo avvicinamento alle sofferenze e alla purezza degli umili, dei lavoratori della campagna, degli emigranti – e della espressione che il poeta può dare al loro discorso quando ne raccolga il grido».

E qualche esempio di scioccaggine?

Nel Fanciullo mendíco (dai Canti di Castelvecchio), un bimbo che deve aver dormito in un fienile, povero e macilento, bussa all’uscio del Pascoli, che è solo in casa, in ciabatte, senza sorelle. «Ha ancora delle paglie nel parruccone di ispidi riccioli. Ma si presenta con un aspetto precocemente virile… E senza dir nulla stende la mano al Pascoli» . L’Ingenere è profondamente scandalizzato per il contegno del poeta, «che di fronte alla richiesta d’elemosina, invece di dare il suo obolo senza tante storie, indugia cercando tirchiamente la monetina più piccola. Stringe il bimbo a sé, e questo è già ridicolo, perché il bimbo si suppone molto più piccolo di lui. Dove gli sarà arrivato? Al cuore? Impossibile. Comunque la posizione è grottesca. Intanto il Pascoli si commuove. Così gli tende l’obolo piangendo; ma prima della monetina arriva al bambino una lacrima del Pascoli sul parruccone ispido».

Il Pascoli si affretta a tergerla con un bacio. «E io quasi chiedendo perdono | gli tersi la stilla smarrita | con un bacio, e ponevo il mio dono | tra quelle sue povere dita». Ma a questo punto il bambino più fiero del poeta esonera il Pascoli dal contributo assistenziale, non lo vuol più. Rinuncia all’obolo, che il tirchio poeta è ben contento di rintascare; e se ne va via a mani vuote, dicendo «non li voglio: non voglio, signore | che scemi la vostra pietà». E il Pascoli, che non ne ha ancora abbastanza, aggiunge: «Io sentii che il suo greve fardello | godeva a portarselo dietro». «Per giustificare la rintascata moneta, attribuisce cioè una sorta di felicità masochistica al povero bambino, o desiderio di martirio. È una storia tutta molto strana».

E i pasticci che fa il Pascoli sulla storia d’Italia? Ridicolissimi, li definisce l’Ingegnere. E aggiunge che lo ha già osservato a suo luogo il Contini. Quando per esempio cerca di inseguire contemporaneamente la retorica di Carducci e di D’Annunzio…così l’Inno a Torino, per l’Esposizione del Cinquantenario dell’Unità d’Italia, risulta una scemenza: «Toro divino ch’oltra due fiumane… –… sbalzando al piano, corneggiando al vento…»

E Garibaldi, vecchio a Caprera, nella poesia omonima: «Prima “cova il fuoco, cova il suo pensiero”: così gallinesco, così poco dignitoso. E poi rimemora i suoi anni giovanili sotto forma de “lo stallone e la sua gioventù”. Ma è vagamente ridicola questa epopea dello stallone. Ed è leggermente comico che il Pascoli pretenda di rappresentare i ricordi di gioventù di uno stallone. Però la lirica è particolarmente efficace sia nella terminologia marinaresca e sudamericana con la quale il ricordo viene espresso, sia nei rapidi versi finali: “Più veloce sei tu del pampero, | più del tempo… del tempo che fu…”»

è molto difficile che i fedeli dell’Ingegnere riescano a estorcergli qualche giudizio sul D’Annunzio. Interpellato direttamente, si limita a rispondere: «Il complesso e importante fenomeno D’Annunzio è passato attraverso la mia giovinezza, ma per precisare l’eccitazione culturale e morale da esso ricevuta occorrerebbe una fatica e una pena (studium) che non sono in grado di affrontare in questo momento».

Però qualche opinione trapela attraverso la riluttanza. Lo trova esibitivo, narcissico; trova fastidiosa la sua «municipalistica»: per l’Abruzzo, per le montagne… Prova tuttavia un senso di grande rispetto per il suo studio della lingua, «anche se compiuto sui vocabolari». E ha una grande stima per la sua capacità di lavoro. «Uno di questi giorni vorrei ritirarmi anch’io come lui in solitudine, nutrendomi di succo d’arancio».

E la vita sensuale? «No, aveva anche dei momenti ascetici…»

E Fiume? «A quei tempi non ho potuto, lavoravo come ingegnere per guadagnarmi la vita; avevo mia madre e le mie sorelle. Forse, più libero e disoccupato, avrei commesso anch’io la sciocchezza di raggiungere Fiume; magari per stupidaggine di nazionalista».

Di Fiume, un’idea piuttosto orgiastica: «Si devono essere divertiti molto, quei legionari».

Qualche riserva invece sull’aspetto eroico. Imprese valorose, sì, certo. Ma anche vita piuttosto «elegante», comoda, «mentre altri marcivano nel fango delle trincee o sotto i bombardamenti della Hermada».

Una cosa poco nota è forse che i soldati ritenevano D’Annunzio uno iettatore. «Non lo nominavano mai nelle loro canzoni, e al sentirlo nominare si toccavano le stellette. Del resto amava circondarsi di decori funebri, di urne, sarcofaghi, lampade votive…»

Ma di solito l’Ingegnere è frenato nei giudizi dal timore del «nome italiano che possa andarne di mezzo». Per esempio, raccontando la storia della resa. «A Fiume D’Annunzio era alloggiato nel palazzo del governo; e quando fu sparato il primo colpo di cannone dall’incrociatore S. Giorgio si precipitò in basso; e attraverso un sotterraneo si rifugiò in un convento attiguo di suore, travestendosi immediatamente da educanda. Finché la badessa, o la direttrice, fece capire con le buone maniere ma anche con una certa decisione che non poteva rimanere lì, non era il caso. Allora si rivestì da Comandante; e in tale veste subito s’arrese».

«Questo popolo di mangiatori di maccheroni non riesce a distinguere il sano dall’amente» afferma l’Ingegnere preoccupandosi del fatto che nessuno volesse capire come D’Annunzio, da un certo momento in poi, sia stato appunto «amente». «Aveva collocato una prua di nave su un mucchio di sassi, e faceva sparare col cannone sull’altra riva del Garda. Va bene che era a salve; ma qualche volta lo caricava a palle, rischiando di uccidere i contadini nei vigneti…»

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