Cinema

Bisognava concludere. Manifestai alla contessina Delrio ciò che sentivo di non poterle dissimulare più a lungo. Si rassegnasse all’idea: le diagonali del parallelogrammo si secano nel loro punto mediano. E non è tutto: esse ne dividono l’area in quattro triangoli equivalenti.

Con il devoto rispetto che può germogliare da un animo profondamente cavalleresco, mi permisi di instare una quinta volta presso di lei, affinché si benignasse di accogliere queste due tesi, per suo graziosissimo placet, riconoscendone la validità. Riscuoter esse il plauso plebiscitario delle moltitudini, il favore de’ più meticolosi accademici in tutti i paesi adorni di sistema metrico decimale ed in altri ancora.

La contessina capì che onorandomi d’un suo rapido assentimento, c’era modo ch’io prendessi commiato. Quello sbadiglio che da una novantina di secondi lasciava girar bighellone per i fasci mandibolari, senza curarsi di addomesticarlo, si diede perciò a conchiuderlo precipitosamente.

Prese una busta, messa per segnalibro nel trattato di geometria ad uso del ginnasio superiore, e me la porse dicendo: «Mammà dice se domenica ven-tura… può anzi venir sabato; perché domenica viene papà. E andiamo alla Ca’ merlata».

Il tono della faccenda era un poco nel naso.

Al discendere la scalèa comitale, che un’ora prima avevo salita, vidi che i lampi e coboldi avevano deciso di fregarmi del tutto. Sfarfallando pazzescamente dalle vetrate, quegli altri arrampicandosi ingegnosamente ai seggioloni monumentali dei conti Delrio, avevano inframmesso nel mio penoso assortimento di parallelogrammi i barbagli dello strabismo, le beffe degli zecchini stentati. Ma c’era almeno la speranza d’un rovescio d’acqua.

E tutti insieme, inspirati dall’Esecrando, avevano acceso le brame dei roventi omenoni, dei pulverulenti vescovi che sogliono trascorrere l’estate sui più pregevoli piedistalli barocchi della città. La vecchia pietra odorosa di orina vecchia, aveva rabbrividito nel presagio della tempesta.

Ma ecco cipperimerli li lasciavano con quella voglia e dileguavano sghignazzando verso grecale. I venti ed i per dove il cielo è più aperto e rotolandosi con lazzi loro lungo le guide ferrate e starnutendo i coboldi, genïetti suscitatori del malessere umano, il di cui seme, raspando, lo cavano dalla stanca terra.

Recai quella busta ad una nostra conoscente. Mi chiamava «signorino Maletti» e la sua persona, al tacito dileguare degli anni, si era dolorosamente impoverita.

Teneva un piccolo laboratorio di sarta, senza però le giovani cutréttole che s’incolgono a pispigliare entro simili nidi, e, credendosi presbite, portava degli occhiali che le annebbiavano un po’ quei precisi rapporti cui gli occhi nostri sogliono inoltrarci de’ corpi contundenti.

In realtà non era presbite, ma strabica: sicché se un occhio era al gatto, così morbido e pigro, l’altro le volava di là dai vetri, al di là dai passeri, di là dai tégoli, di là dai comignoli e lo fermava soltanto, tra un garbuglio di fili telefonici, la vetta stellante del Filarete.

Non afferrava subito l’importanza delle questioni tecniche.

Quando glie le avevano spiegate e ben delucidate dicendo: «Vede? Qui, qui e qui», e aveva fiutato le parti più lise e più fruste, allora con la sicurezza del clinico di grido diceva: «Vedo, vedo… eh già: vedo benissimo».

Nel suo quartierino si avvertiva di leggeri la presenza della minestra del giorno prima, il di cui odore, previamente commisto con quello del gas e della lana cotta sotto il ferro da stiro, si aggiungeva al sentore dei panni e robe vecchie accatastati ne’ siti più acconci. Questi panni, gravidi d’un sudore ormai superato, erano completamente asciutti.

I suoi modesti polmoni funzionavano con grande regolarità, sia durante le ore notturne, allorché si chiudono ermeticamente tutte le finestre, sia durante le ore diurne, allorché le non le si aprono, essendo che giova schermirsi dai raggi cocenti del solleone, (quando si voglia ben provvedere alla frescura casalinga), e che tante automobili, aggirandosi scapestratamente per la città, levano oggigiorno grandissima polvere e danneggiano talora anche i passanti e le aiuole.

In una gabbia, dietro un folto di lattuga, due uccelli analfabeti frullavano trepidamente al primo entrare d’alcuno. E di subito quello spavento gli faceva fare delle càccole color calce.

Questa signora nostra conoscente si era coniugata in giovinezza con il colonnello Metjura, non ricordo bene se russo o di qualche nazione limitrofa, del quale conservava uno stupendo ritratto.

Dalla parete di fondo, che occupava quasi per intero con l’appoggio morale d’una cornice di proporzioni inusitate, egli dominava il salotto-laboratorio. Il portamento marziale del valoroso, il suo maschio cipiglio, i bellissimi alamari, la sciabola che gli era stata fedele compagna in ogni luogo, in ogni istante, le spalline intrecciate di grossi fili d’oro, le folte medaglie, croci e stelle, i numerosi bottoni metallici che sembravano medaglie anche loro, senza contare i guanti e poi tutti i cordoni e cordoncini la cui manovra, per un uomo di tal fatta, doveva riuscire la cosa più naturale del mondo; tutti questi nobili segni rivivevano dentro la elaborata cornice in una sintesi di grande efficacia espressiva. Ma ciò a che il ritrattista aveva conferito uno speciale risalto e quasi un sovrumano potere d’imperio, erano i due portentosi baffi: unitamente alle sopracciglia bismarckiane finivano per procurare a chiunque fissasse troppo a lungo quel colonnello una vaga sensazione di malessere: «Non vorrei rimaner qui solo al buio con questo colonnello», era il pensiero che veniva in mente a tutti.

Appeso a un susino, il magistrale ritratto avrebbe potuto rendere servigi indimenticabili alla campagna cerealicola e allo sviluppo economico regionale, incutendo un salutare rispetto ai più spavaldi pregiudicati del circondario. Sorgendo da nebbie ottobrine sogliono questi ingordi beccarsi via ogni chicco che il colono ha lasciato di calcinare. E così anche passero e beccafico, frullone l’uno, esile freccia il secondo contro la polpa delle cosce di monaca. (1)

Mi par di vederli, al primo scorgere il sinistro colonnello altalenante nella tramontana avrebbe ognuno sconclusionato e rappreso il suo volo. E poi girondolare piuttosto al largo, dandosi l’aria d’esserci capitati a caso: e infine mutuarsi una occhiata a doppio senso: «Ehm! Sarà per un’altra volta!»

Ma ai due uccelli della vedova, pur così sensitivi, quell’uffiziale non faceva nessuna paura, tanta è la forza dell’abitudine.

Per tornare in discorso, le si conferiva talvolta un incarico, di metter mano al riparo d’alcuni abiti che, dissepolti, bastava lasciarglieli cinque o sei settimane o al più due mesi: e non andarle troppo d’attorno, non lesinarle quella fiducia e quella libertà d’azione a cui aveva pieno diritto. Era quando, raccolte sagaci informazioni sull’andazzo del figurino, la povera vedova sapeva osare fino alla temerità; sicché tornando per riaverne notizia, quei vestiti ci apparivano sotto un nuovo aspetto, dei più edificanti, quantunque totalmente imprevisto.

«Paiono nuovi», diceva sciorinandoli fra la rassegnazione generale. «Queste vecchie stoffe d’una volta durano eterne».

Le consegnai quella busta, pregandola di constatare che conteneva due rettangoli di carta. Tali sudici rettangoli erano apportatori di gravi notizie intorno ai guai che la Legge, lavorando in silenzio, scatena poi ad un tratto sul capo di chiunque se li fabbrichi per conto suo. Sul recto l’effige parlante della Defunta Maestà del Re Buono aveva a contorno un ottagono, fregiato nel modo del più ottocentesco rinascimento. Due autografi, comprovanti l’alfabetismo di certo signor Stringher e del suo infaticabile collaborator signor Dall’Ara, finivano per dissipare ogni sospetto.

Inoltre vi si erano installati quattordici milioni di microrganismi, i quali scodinzolano senza tregua all’insaputa del volgo, che è scandalosamente avido di siffatti abominevoli veicoli del male, nel mentre i patologi in genere e segnatamente gli igienisti e gli specialisti di malattie cutanee li hanno lodevolmente in orrore.

Tutti questi dettagli passarono inosservati.

La vedova del colonnello Metjura, fattasi ilare e spigliata, mi servì un caffè copiosissimo, sua speciale invenzione. Bevanda che deglutii con bel garbo, mentre diceva: «Sente, signorino, sente?»

Ma lì per lì non sentivo nulla: mi veniva in mente un can barbone, fermatosi una notte alla soglia di casa. Era così malinconico, l’acqua il buio il vento di fuori eran tali, che decidemmo di offrirgli mezzo mestolo di brodo opportunatamente diluito in una catinella. Senza però carezzarlo, perché grondava d’acqua come una boa e poi dicono, quando sono così mogi mogi, che possono diventare idrofobi, improvvisamente, addentando il benefattore ai polpacci: sebbene ciò mi sembri inverosimile.

Mi accomiatai, discesi le scale buie: ero stanco!

Ecco i globi si accendevano prima dell’ora, dondolando nel vento temporalesco, e velocipedastri sopravvenivano: un sibilo, con cui volevano gridarmi: «cretino!»

Dei solidi alpini, rossi nel viso e nel collo, parevano cavar dal vento respiro e salute, certezza di sconfinate possibilità.

Due magroline li trovarono però un po’ imbambolati: «Maledetti scarponi!» «Sono ferrati da mulo».

I fuochi occidentali facevano pensare ad approdi meravigliosi: strisce di cenere, con frange di oro e di croco, tagliavano l’incendio lontano: e i cùmuli di piombo e d’oro, correndo a deformarsi nel cielo, presagivano il divenire, il mutare: sembravano correre verso le rosse speranze.

Pensavo nella pianura il popolo folto e fedele dei pioppi, la dominazione delle nobili torri (mattone bruno che la fiamma in culmine accende); e, perse, nella verde gente, le cupole di taciturne certose.

Quivi, nelle cripte buie si travedevano irremovibili arche: han sepoltura i vescovi e i re coronati di ferro, la di cui forza, celata nel tempo profondo, procurò saluberrime germinazioni.

Da presso fluisce tacita e verde l’irrigua pace: solidi manufatti contengono e guidano il bene comune: sibilando, alle curve si snodano in corsa i neri, celeri treni. Toltisi alle buie spire del San Gottardo, già corrono lungo i salci ticinesi ed i pioppi, lacerando veli di nebbie: e il loro sibilo sfiora i fastigi delle torri, le cupole delle antiche certose.

Pensavo ai miei amici Marco ed Italo: e quell’altro masnadiere buono, il Carugoni. Avevan già risalito a quell’ora la valle dalla cui voragine orrenda lo Scerscen prorompe: e, persosi il furibondo ululato, avvistavano all’alba – lama sfolgorante contro il turchese del cielo di luglio – il crinale dell’alto Bernina.

Mi volevano ad ogni costo con loro: avevo addotto dei decorosi perché. Il più ben cotto era: mancanza di allenamento.

Guardando i bagliori così vividi dell’occidente avrei pianto, – se un ragazzo istruito, appartenente a un famiglia distinta, potesse fare simili cose per strada.

Perciò andavo un po’ a caso per la mia strada, sicuro che la ricetta «studiare, lavorare» mi avrebbe guarito. Tutti mi esortavano alla perseveranza, anche una ricchissima signora che voleva molto bene alla mamma: quando veniva il suo onomastico, non dimenticava mai di regalarle un calendarietto profumato. «Studiare, lavorare!»: il cuore bravo diceva: «Già» – «Poi ci sarà la mia terra, come per i vescovi e i re».

Il destino sovvenne impensatamente al mio male: mentre credevo mi fosse rimasto soltanto quel «nichelino» un po’ storto, come se qualcuno vi avesse morso, al frugar la tasca sinistra m’avvidi invece che gli amici eran due, tant’è vero che giocavan fra loro con un loro tintinno.

Cavatili, oh! rapida gioia! Colui che così familiarmente s’intratteneva con lo sciancatello era della buona lega del Regno, un tondo d’argento! Da un lato l’effigie del tarchiato e conciso Allocutore che, presso il colle di San Martino, cagionò gravi danni ai ricolti, diffidando i battaglioni ammassati per l’attacco dal consentire a trasferimenti funesti, indegni della gioventù piemontese.

Regioni edeniche, forti e nobili azioni si promisero d’un subito alla mia anima ancor fervida di puerile bontà e di altri sentimenti elevati, ma inverosimilmente inutili.

Treni fuggenti nella pianura che a gara il Ponente correva. Aveva bevuto aspramente ai marosi del Leone: ingolfatosi a contropelo nella valle della Duranza; risalito verso la bocca d’Altare: o superato lo stridente pettine dell’Argentera o valicati i prativi del Tenda e del Monginevra. Poi la pianura era sua.

Nell’arzanà le peci spalmate freddavano calafatando le coste e la tuga e il vento Ponente anche quel catrame se lo beveva. Catrame che viceversa era pece.

Caravelle leggere uscivano, la Lanterna non si moveva.

E il Tirreno infinito una radiosa luce lo rischiarava, sotto le sue luminose stelle si poteva eternamente dimenticare!

E il Corso Garibaldi era lì vicino: il mio passo stanco s’era fatto celere e vellutato come quello del leopardo di turno nella jungla. Il nome del provetto cacciatore, cui quaranta baionette a San Fermo più valsero che centomila per i saputi strateghi del Mincio, è legato invariabilmente a una successione fantasmagorica di vivide luci e delizie: tabaccherie con abbeveratoio, vinaî, smacchiatori, posti di pronto soccorso, trattori, biscottai-confettieri e lattai-gelatieri, parrucchieri in bianco avorio: (dove dipoi una volta, nel pieno fervore dello spumone, mi si squagliò tacitamente l’ombrello, né dopo d’allora più mai rividi quel fedelissimo ombrello) e poi calzolaî meridionali, venditori di bretelle celesti, rivenditori di pantaloni usati ma in ottimo stato, ortolani smontabili con attendamento completo, da cui fuorescono enormi cardi, e bancate di pomidoro e spinaci; dozzine di donne con ceste e polpacci come nelle carte de’ tarocchi e vestiti da far imbizzire i cavalli; repentine biciclette commesse alla consumata perizia ed esperimentata prudenza de’ garzoni panettieri, i quali, pur avendo il malvezzo di pedalare a più non posso, servendosi per giunta dei calcagni, dato che le gambe gli crescono di giorno in giorno, con tuniche sciamannate che gli svolazzano dietro, tuttavia ben raramente rovesciano fuor dalla gerla i loro centocinquanta panini fra un tram e un taxi frenati di colpo, rilevandosi poi da sé soli e rimanendo stupefatti a gambe larghe in piedi, con la bicicletta però per terra, sotto: donde le urla, i chiarimenti di posizione, e le trombe o clacksons dei retrostanti bloccati.

Dicevo che è legato, quel nome caro, quella portentosa sciabola, alle più tignose catapecchie che affatichino i piani regolatori destando nei folkloristi iridescenti concupiscenze.

Cento sindaci deve essergli balenato un solo pensiero: «Ah! volevi bene al popolo? Ma che bravo! Fai il savio che vedaremo di contentarti».

Detto fatto, dove c’è muri fradici da diroccare, avendo vecchi luoghi di comodo infradiciato il mattone, e vecchi ballatoi da smantellare con accessi di paurosi archivolti; siccome il più delle volte non si vedono i soldi e intanto sarebbe una vergogna intitolare quei casamenti a S.M. il Re, ai Principi del Sangue, o al grande pensatore e giureconsulto il concittadino Giambattista Ponzoni Indormenti, ecco che l’Eroe dei due mondi può rendere servigi insperati. Si può tirare il fiato. Si può attendere con serenità, confortando l’animo nostro ad alti sensi civili, la prossima epidemia di tifo.

D’altronde l’ inopinato franchetto aveva anestetizzato siffattamente le mie facoltà critiche, la sosta domenicale aveva conceduto di sgomberare il lastrico da tanto di carotame e di cavolame, che il quartiere abitualmente torsolesco mi apparve dolce di luci, e promanava un sottile gaudio e mistero: ignorai le vie laterali donde, come gnente fosse, sbucavano magnifiche donne incipriate, dagli occhi verdastri; dove finivano per incappare, dopo qualche momento di esitazione circospetta, bersaglieri e «finanzieri» in permesso, talora un po’ rossi e bitorzoluti. Sono sfoghi del sangue.

Ciò che non potei ignorare furono le bibite del gelativendolo il quale, accampato sotto il tendone con ghiaccio, pialla da ghiaccio, secchî, e con l’iride nelle bottiglie dell’apoteca, mesceva il colore prediletto in un bicchiere colmo di ghiaccio in briciole, servendosi a ciò d’uno speciale mestolo-misurino di stagno. La coda del ramarro aveva sublimata in uno smeraldo liquido detto menta glaciale, dove la melarancia era un topazio, l’amarena un granato. Con il misurino di stagno mi impartì sgarbatamente la mia razione di sogno – nei limiti della sua razione di realtà.

Ero un «signorino»! Non sarebbe stato logico che egli fosse amico con me quanto coi due velocipedastri a cui, oltre il ghiaccio tritato e il colore, aveva largito in soprammercato una barzelletta cadauno.

Con poveri e svelti calzoni di tela, il didietro color cuoio (avevano fotografato il sellino) installato sul ferro orizzontale della bicicletta inclinata, le gambe tese, calze e poi leggeri scarpini da ciclista, – quasi babbucce che le dita del valido piede forzano e rimuovono dal di dentro, – essi poppavano avidamente ma saggiamente dal suo cucchiarino, con un lungo succhio, ciò che il gelativendolo affermava urlando ai passanti essere il vero gelo, il vero polo Nord.

E così arrivarono prima di me che, apparentemente distintissimo, trangugiai mentre nessuno guardava un tal gnocco di ghiacciuoli conglomerati, da lasciar adito alla terribile puntura del polo Nord, nella tempia destra.

Dopo la gioia dello smeraldo, durante lo svolgimento della quale, come s’è visto, avevo finito per dimenticare la contessina – la mia coscienza fu presa da un vago malessere: quel denaro, di cui m’ero così subitamente allegrato, era bontà e sacrificio: un amoroso, trepido, inesausto pensiero: quello che per ognuno di noi esiste solo nel mondo.

La lira doveva bastare una settimana: e il ventino, ecco, era già compromesso! Eppure avevo bevuto il caffè speciale della signora Metjura: che per quel giorno sarebbe potuto bastare.

Conscio dell’eccesso a cui m’ero abbandonato, una sorta di angoscia mi prese. Per una di quelle subite cadute morali che paiono il venir meno nel corso d’un disperato nuotare, mi feci improvvisamente perverso: entrai risoluto nel Cinema-Teatro Garibaldi, il rutilante trionfatore del gelido e rattrappito Eldorado. Non solo: ma deliberai già dal quel momento (poiché il dèmone della sregolatezza mi accatastava nell’anima le sue perniciose suppellettili) che avrei messo un ventino nella macchina dei sandwiches e avrei deglutito dopo rapidi morsi l’elegante panino e l’oleosa sardina decapitata che quasi regolarmente vi depongono.

E forse, chi sa? per un folle impulso avrei ripetuto una seconda volta quell’atto: né era escluso che comperassi anche delle caramelle al tempietto moresco: e magari una parigina.

Andavo alla deriva, l’anima si portava in cambusa il caffè della signora Metjura, lo smeraldo del villanone e le donne garibaldoidi dal vestito celeste: poi, con vele turgide e nere, doppiato il capo del Rimorso approdava a Nuestra Señora del Consuelo, nell’arcipelago delle Caramelle, dei Gelati, delle Sardine: gittava l’ancora nella Baja dei Sogni, dal cui limpido specchio sono escluse le ondate monotone e stanche di ogni dovere.

Il corso Garibaldi procurava al Cinema Garibaldi l’afflusso più lauto: tortuoso e cosparso di gusci d’aràchidi, di mozziconi di sigarette appiattiti, di scaracchi d’ogni consistenza e colore, c’era il ricordo delle castagne, quel delle arance, per i camminatori degli oscuri cammini luminoso e giocondo segno del Sud: (2) c’era il presentimento dei cocomeri patriottardi. Bucce da marciapede, care ai chirurghi. Una folla, solita a deprecare la pessima organizzazione del mondo, lo percorreva trionfalmente, dimenticando a sprazzi i metodi di cura suggeriti dagli specialisti: come per attimi si dimentica un eterno mal di denti.

Sicché, per tutto quel pomeriggio, il Cinema aveva allentato i suoi cordoni di velluto verde trangugiando frotte di stupende ragazze, alcune però con le gambe leggermente arcuate, e un po’ troppo grasse: fra le gambe delle quali sgattaiolarono tutti gli undicenni del quartiere.

Queste ragazze della domenica, insomma, mi parevano talora un po’ ridicole. Però qualcuna mi piaceva. Sono talora piuttosto gonfie che floride, le più dimesse hanno gonfi portamonete un poco sdruciti: ambiscono sopra ogni cosa di recare una borsetta da passeggio e un cappello, sicché passino inosservate, come una signora qualunque che tutti si volgano ad ammirare. Col gran caldo le borsette finiscono per tinger loro le mani, le quali appaiono alcuna volta un po’ rosse e screpolate, a meno che non siano strette dai guanti.

Sono i guanti un ingegnoso dispositivo inteso a facilitare varî atti del cerimoniale contemporaneo, come la consultazione dell’orario delle Ferrovie dello Stato o la raccolta dei ventini, quando, preso il resto, se ne seminano per terra tre o quattro, suscitando negli astanti vivo interessamento.

Per solito le ragazze in discorso scompaiono dalla circolazione verso le sette: ma il Cinema è un vortice folle, inghiotte anche i più massicci artiglieri.

Il fatto è che due erano assai graziosamente adorne di fenomenali perle, le quali non parevano destare alcuna cupidigia nei cavallereschi marioli che le attorniavano.

Gli undicenni e i da meno pagavano mezzo biglietto o una frazione qualunque, per esempio cinque centesimi d’ingresso, (3) secondo la disponibilità del momento. Il distributore faceva un suo rapido conto, qual’era il massimo che poteva venir fuori da quelle tasche, di quei calzoni. E puntava sull’imponibile. Alcuni di quei calzoni non conoscevano nemmeno le mani riparatrici della mamma e il conto non poteva andar tanto in là.

Spigliati e franchi, e senza lo sguardo implorante del cucciolo che sta per leccarsi i baffi, pretendevano fior di biglietti i giovanotti: piantavan sul banco un tondo fermo, magari un biglietto, e non per ischerzo. E, invece di implorare, condannavano: nella vita non bisogna incantarsi. «Del resto, se fa affari, il Garibaldi, è per noi».

Vestivano dei completi marron o bleu: alcuni dal caldo s’eran però tolta la giacca: le bretelle si rivelavano allora un po’ vecchie e sudate: erano affette da complicazioni ortopediche di spaghi e legamenti, tra i quali e i bottoni superstiti della cintura intercedevano rapporti piuttosto complessi. Entravano rumorosamente, inciampando in qualche imprevisto del Garibaldi, sì che di necessità dovevan finire addosso allo sciame gaietto: («oh! ma dico!»): e le lor mani robuste davano indicazione d’una «settimana» saldamente incastonata nel fenomenalismo economico, le di cui leggi sono, è vero, un po’ dure d’orecchio; e non disdicevole neppure alle esigenze del divenire morale: i di cui canoni, sempre larghi di vedute e soccorrevoli con ogni campana quando si tratta di incanalarci verso le molteplici ricevitorie del bene, si piantano però poi policemen a gambe larghe davanti quella poca minestra, esigendo, uno sguardo fregativo, il vizzo scontrino: lo leviamo con il pianto nell’anima e con un tremendo appetito in corpo e c’è scritto:

«Vale per minestre una».

E abbiamo fatto una fatica da cavallo!

Alcuni giovani erano ancor più eleganti, ancor più disinvolti: scarpe a vernice, piega diritta del pantalone, una mollezza elegante non disgiunta da virile trascuranza per ogni aspetto del mondo che fosse estrinseco al problema fondamentale.

I loro proventi erano sicuramente più lauti: adocchiavano certe belle, sogguardandole in tralice: recidendo con lo sguardo d’un attimo la continuità dell’ora festosa: e quasi recando nella trama ingenua dell’allegrezza la sensazione di un al di là vero e diverso costituente la vita. Le occhiate ràpide sudice e vili destavano l’ammirazione dei minori, che pensavano, divenuti serî ad un tratto: «Questi sì, che sono già uomini».

In taluno degli adolescenti che per ispirito d’emulazione s’eran tolta a lor volta la giacca, colpiva lo sviluppo dell’avambraccio rispetto al torace e alle spalle ancor esili: come il cùcciolo del bracco o dello spinone, che gli son cresciute delle zampe, che pesano un chilo. Sembrava che quello scarno torace un sussulto di tosse fosse la sua idea naturale: ma l’avambraccio aveva la pesante secchia, dondolatala un po’, da caricare in ispalla.

E poi con grosse ciabatte su per la rampa.

Mi ingolfai tra la gente e persuasi a me stesso che quell’odorino era una cosa naturalissima, come pure quei fragorosi «ciàk» che a intervalli di quarantadue secondi un espertissimo fumatore largiva al suolo, con sicurezza da maestro: per un istinto squisito dello sfinctere orale, particolarmente congenito a certi prodotti-tipo ma assai diffuso comunque in quegli ambienti, com’è il nostro, che s’improntano a una civiltà millenaria, la traiettoria evitava miracolosamente le giacche limitrofe. Mi ricordò Buonvicino della Ripa e le sinquanta cortesie ch’ei prescriveva si serbassero almeno a desco: «è vietato nettarsi il naso nella manica dei buoni vicini...»

Primi sprazzi, in terra lombarda, della luminosa Rinascita.

I trasferimenti vocali del dialogato, con accentuazione di scoppi interiettivi, mi segnalarono invece una masnada di rusticoni. Eguali dovevano erompere dai petti villosi degli avi i fonismi di che s’accompagnò l’inizio della biologia umana, quando le selve del pleistocène rendevano impensabile un esercizio ferroviario a largo traffico. Nelle profonde pause del vento la mormorazione religiosa delle abetaie si attenuava e come perdeva in sussurri lontani, il sinfoniale era introduzione solenne alla virtù dell’a solo: così fu che i grilli, in sul primo gelo dell’alba, udirono stupefatti il bisnonno di Calibano, allora, in preda agli umori di giovinezza, egutturare apostrofi monosillabiche contro i maschi concorrenti. Tutta notte aveva grugnito la sua serenata. (Appiattandosi dietro un grosso larice).

Il vento s’era restato. Così fu che gli uomini fecero le prime lor prove, i cari uomini, i diletti amici nostri, quelli che saranno di poi per provarsi nell’agorà, nel foro, nell’arengo: alla Pallacorda, a Montecitorio, al Congresso e dovunque debbasi guidar con voce i cavalli, o loro stessi, in terra lombarda o non lombarda, di festa, di sabato, nel fasto del Cinema, nell’imbratto della carraie.

Quei ragazzotti erano invece un gruppo di rumorosi e robusti foranei, da noi detti «ariosi». Portavano difatti nella pelle e nel viso, l’aria della patatifera campagna e certe zone dei lor panni domenicali, sul dorso e sugli omeri e altrove, erano tese da discucirsi, tanta salute ci stava dentro.

Ma neppur io potevo darmi delle arie difficili: saggiato a un qualunque tasto dello scibile, avrei potuto essere in quel momento poco evasivo. Sebbene la profondità vellutata del mio sguardo rivelasse una mente fervida in ogni pensiero, tre grosse caramelle mi ingombravano a un tal segno la cavità orale, che un idiota si sarebbe spiegato meglio.

Che era accaduto? Uno dei migliori sillogismi del mio repertorio: se una caramella è delizia, tre caramelle sono una delizia tre volte più buona.

C’era, bisogna confessarlo, il pericolo di una deglutizione prematura, di uno «strangolamento», come si dice nella terra inumidita dall’irreperibile Sèveso.

Appunto per questo, nel crogiolare quei tre saporini, crema caracca, menta glaciale e ratafià, (chissà poi che cos’è questo ratafià), nell’allontanarmi seco loro dal fòndaco della geometria rattoppata, appunto per questo mi davo l’aria più naturale del mondo. Finii per dimenticare anche l’elsa del brigadiere a cavallo che nel frattempo si era intensamente affezionata a quattro delle mie migliori costole.

Ricaddi poi di nuovo nel parallelepipedismo del mondo reale: perché la punta d’uno spillone da signora distava alcuni centimetri. Avvistato lo spillone, ritenni doveroso di dare un’occhiatina anche al resto, pur seguitando nel dilettevole proscioglimento.

Era vestita nei toni bleu-verdi prediletti dalle guardie civiche e il cappello avrebbe susciato l’invida cupidigia di Alfonso Lamarmora, tante penne verdi ne rampollavano.

Mi guardava anche lei, a sua volta, e piuttosto maluccio: dai dintorni d’un naso aquilesco e pallido, affilatissimo, mi lanciava occhiate sature d’una viperina perfidia: poi, contraendo le labbra per aspirar lentamente un suo lungo, sibilante fiato, si raccoglieva nelle spalle con un sussiego decoroso e pieno di tragici sottintesi.

«Oh, che cos’ha questa signora?», pensai, arrossendo senza volerlo. Eravamo stipati. E siccome ero un po’ impressionabile, i miei amici mi suggerivano, in simili frangenti, di toccare con due o tre polpastrelli un pizzico di qualche solfuro od ossido o carbonato o silicato metallico come pirite, blenda, calamina, bauxite, siderite, galena, leucite, dolomina, o anche ottone, o meglio ancora ferro omogeneo. Andai dunque in cerca della chiave di casa, che solevo tenere nella tasca posteriore dei pantaloni: nel palparla poi accanitamente, rigirandola in ogni senso, la feci collidere contro intenzione con qualche cosa di duro che pertineva all’impalcatura esterna della distinta signora.

Il fiato che stava aspirando le sibilò allora fra la lingua e i molari. «è inutile fingersi distratti», sembrò significare l’occhiata verde-cloro con cui mi fissò: «Io osservo, noto e giudico. E le manovre dei mascalzoni le indovino in anticipo».

Il mio abito era purtroppo un po’ levigato: privo di quella scioltezza elegante che si ammira nei giovenili diporti, e senza nemmeno la linea della strafottenza sgangherata e spavalda consueta a certi figuri che, trangugiati liquori di seconda qualità, vi squadrano come dicendo: «Sì, proprio: se vi pare è così: se no, è così lo stesso. Avete forse cento lire da rimediarci?»

Adorno invece di cinque o sei buone intenzioni, nessuna raggiungeva il bersaglio psicologico a cui era diretta.

Ora è noto che i pattuglioni della diffidenza fermano volentieri gli spelacchiatelli (mentre certi pessimi figuri, dai calcagni sbilenchi, si sottintende che siano già registrati).

Sicché a quello sguardo, stretto com’ero dalla coscienza d’una situazione molesta, pentito dell’irriverente uso a che avevo adibito la chiave, arrossii anche più.

«Farabutto!», mormorò la signora sprigionando l’occhiata definitiva, con tendenza all’arancione. E mi volse risoluta le spalle, raccogliendosi in un’estrema, degnissima levata del capo. Il cespo delle penne verdi fu corso da un fremito.

Due soldati si volsero: aveva fin là tenuto fra loro un loro discorso, in una parlata ricchissima di zeta e di emme: adesso gli prese il bisogno di manifestare i loro sentimenti cavallereschi. Anche il brigadiere mi guardava cupo. «Ce ne sono davvero dei farabutti», disse il primo soldato esprimendosi in un italiano soddisfacente. «“Si” approfittano delle donne sole», disse l’altro, con accenti di sconsolata amarezza.

In verità io non «m’ero» approfittato che della mia propria chiave del portone di casa mia: atto di gusto discutibile, è vero, ma non tale da motivare un intervento della generosità altrui in difesa del «debole».

Dell’essere così stipati, colpa non ce ne avevo: e se la fiancata della signora, babordo e tribordo, aveva munizione d’una corazzata completa di stecche di balena e fil di ferro, tanto meno ce ne potevo.

Dalla rabbia le avrei strappato giù dalla testa tutto il cespuglio con lo spillone dentro e volevo dire a quei due che la zeta è difatti l’ultima lettera dell’alfabeto: ma non conviene di farne spreco, quando si è cavalieri.

Senonché l’orgasmo della folla mi vietò una qualunque ripresa: dei campanelli sonavano a perdifiato nella sala del mistero, di là dalle tende di velluto frusto. Di qui la musica era più varia: ai camerlenghi del cinema venivan rivolti sgraditi incuoramenti, allocuzioni sguaiate ed appelli, apostrofi assordanti, esortazioni e fischi e barriti d’ogni genere. Un gruppo di ragazzotti si diede a sibilare ed a premere disperatamente: strette frammezzo la maramaglia, le ragazze non sapevano più che pesci pigliare.

Visto allora che in quei paraggi avevo una cattiva stampa, feci roteare a più non posso le tre caramelle, le guance furon corse da sì mobili protuberanze, da smentire qualunque sospetto d’altre intenzioni; e volli avvalermi dei rimescolamenti e bollore del magma per tentare una migrazione, sull’esempio di un antico agnato di mia gente, un irascibile Visigoto, il quale un bel giorno, che è che non è, trasferì le sue tende sulle rive del Tago, con casseruole e tutto.

Così senza parere, e talora con un bel garbo, con qualche spintarella, gomitatina, e con dei simpatici «con permesso», mi diedi a fendere l’impasto bizzarro, dove alcuni sospettosi e ringhiosi droghieri democratici, grossi grumi di ortoclasio, facevano da nocciòle nel mandorlato: (le mandorle autentiche erano più discoste). Il loro sguardo sprizzava Giustizia e Diritto in tutte le direzioni: a giudicare dalla catena dell’orologio, anche le bilance loro dovevano essere apparecchi integerrimi, tarati al milligrammo. Quanto alla carta di barite, si tratta d’una prammatica universale.

Elusi il Diritto, circumnavigai la Giustizia e arrivai con tutti i miei bottoni presso una frotta di ragazze, di cui una, lei!, mi colpì davvero. Cosa non dovette patire la signora dal naso affilato nell’appercepire quelle mie manovre: trangugiò rivoletti di saliva verde, sarcastica come una cucchiaiata di salsa di peperoni e senape. «Ham! Il fintone ne medita una delle sue».

Quella bimba invece non aveva l’annoiato cipiglio della contessina Delrio, né vi era in lei lo sprezzo villano del gelatiere, né il sospetto ingiurioso della pennuta ed affilata isterica, né nobiltà d’animo sonante per emme e per zeta: e né presso lei odorose scansie, colme di diritti conculcati da rivendere al minuto.

Mi guardò con una serenità limpida e fervida: un essere umano trovava finalmente ragionevole di accordarmi il mio ticket per il mio viaggio tra i vivi.

Ella, cara bimba!, non sollevò pregiudiziali nei riguardi della mia giacca, alla quale dopo tutto nessun serio appunto poteva muoversi: né in causa de’ miei probabili alfabeti: né per quel che di faticato e distratto che avevo nel viso.

Una dolcezza buona mi guadagnò e mentalmente commendai la vedova Metjura che, come una vecchia e povera nonna, aveva offerto a me «signorino» il suo caffè speciale, il più speciale de’ suoi barbugliosi caffè. Per queste delicatissime si poteva e doveva fare ogni sacrificio, per queste, pensai, era necessario farsi forza, resistere, morire magari in guerra, sotto la grandine degli shrapnels. Chissà se lo Stato Maggiore Generale dell’Esercito si preoccupava di ciò! Chissà a che punto era l’approntamento dei 75 a tiro rapido, prescritti in dotazione ai reggimenti da campagna! Avrei scelto la specialità degli alpini: un mio cugino, a cui era balenata la stessa idea, s’era voluto spaccar l’anima con quello zaino, per quelle sassonie: quando non ne poteva più, c’era però per fortuna un alpino di Val Malenco, o forse mi sbaglio di Valcamonica, che portava, ufficialmente, il suo zaino e, di straforo, anche quello di mio cugino. Ma mio zio aveva dei fondi.

E io, se non resistevo?

Improvvisamente la sindrome tipica delle frenòsi collettive si manifestò nel magma. Impazzirono tutti. Non furono più che degli accamaònna e orcoìo, fra gomitate e strappi paurosi. Dal foderame de’ panni emergevano volti tumefatti, nel mentre particolari oggetti di rifinimento si allontanavano dal proprio insieme come sciarpe o mezze giacche o qualche ombrello restìo che, tenuto disperatamente da cinque dita e da un pezzo di braccio male incastratosi fra gli omeri di due sconosciuti, seguiva il proprietario un po’ da lontano. Invocazioni disperate dei gracili, degli erniosi, dei denutriti, e così degli asfittici, gelavano i cuori sensitivi. E poi tutto si confuse in un violento torrente il quale, dopo intoppi e gorghi d’ogni maniera, proruppe rigurgitando nella diabolica sala, così come dai valichi retici usò dilagare verso melme padane la paurosa gente, nomine Unni.

I nasuti e colti Insubri che, venusti di spirito giuridico, erano assisi nel clamoroso teatro, accolsero la cavalcata del Re Attila con la muta e dignitosa protesta d’un Tertulliano a cui un Alarico (4) gli dica: «Lo vedi?» e gli metta sotto il naso un nocchiuto paletto di querciolo.

Un’ora prima quegli «humanissimi» erano stati, agli Eruli, Goti.

Richiami frenetici, interiezioni selvagge, indicazioni topografiche radiotelegrafate ai congiunti, cui dalla stretta materna la tempesta divelle e sperde nel mare, gioia barbarica per seggiole conquistate e forsennato trapestìo di bipedi fra quadrupedi seggiole, fecero impallidire i migliori brani descrittivi della Gerusalemme, Rinaldo dileguò dal ricordo – nel mentre i primi cosciotti di fruttivendole quarantenni si assestavano fra i fibrosi lacerti e malcomode baionette degli alpini limitrofi, duri che non si muovono, maledetti muli.

E mentre lei, la bimba, più non vedevo dov’era, la signora Lamarmora veniva riversata nella sala dal mugghio spumoso degli ultimi spaventevoli cavalloni. Date alla tempesta tutte le sue penne: «Villani, villani e villani!» la si sentì strillare: e folgorava Poseidone con così perfide occhiate, da indurre in quel colosso, pur così avezzo all’umidità e alla vita acquatica, dei rèumi di origine psichica.

Nella tenebra liberatrice in cui piombammo ad un tratto ogni urto fu attenuato e il boato delle passioni umane vaniva.

I silenti sogni entrarono così nella sala.

 

1. Così chiamano popolarmente certe grasse e gustose susine.

2. I «düstre Wege» della introspezione; le rinomate «Goldorangen» e lor cupa, verdissima fronda.

3. Prezzi e monete e sindaci d’anteguerra, come il sagace lettore avrà notato.

4. Superfluo notare che fra Tertulliano giureconsulto a Alarico re corrono due secoli di differenza.

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859

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