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Il teatro della scrittura
Francesco Paolo Botti
1. Se l’opera di Gadda affida alla gestione abnorme della scrittura la sua cifra più tipica entro la costellazione letteraria della crisi novecentesca, al di là delle ipotesi teoretiche, delle sostanze culturali, dei furori polemici, delle idiosincrasie psicologiche che la alimentano, converrà subito accentuare, con drastica parzialità, l’ovvia immediatezza dell’asserto, per derivarne un qualche ordine serrato di considerazioni.
La parossistica efflorescenza figurale, la drammatizzazione eteroclita delle forme, il risalto travolgente della materialità retorica sembrano prevaricare, nel nostro autore, ogni intenzione significativa, affatturare e irridere, alla lunga, qualsiasi ambizione di tenuta conoscitiva, di attendibilità del racconto. La fascinazione verbale fonda la peculiarità più palese di un’esperienza eslege, incongrua, che tuttavia (o proprio perciò) la prudenza della reintegrazione storiografica ha generosamente dotato di riferimenti genealogici (gli ascendenti maccheronici, barocchi, scapigliati, sino al retaggio endemico, identificato con geniale intelligenza sinottica, del «bilinguismo di poesia illustre e poesia dialettale […] assolutamente originario, costitutivo della letteratura italiana», Contini 1989: 29), sicuramente imprescindibili quanto forieri, se malpadroneggiati, di astrattezze metastoriche e di placide ipostasi di continuità. Invece, la caratteristica espressiva dei testi gaddiani, pur nella deferenza quasi settaria alle costumanze di un genere, non va schiacciata poi, ad esempio, sulla vetusta tradizione del pastiche quale costante stilistica dalle traiettorie tutte intrinseche a certi filoni di dotta stravaganza; ma commisurata, com’è naturale, a un complesso storicamente preciso, imparagonabile, di misure teoriche e di contesti socio-politici.
La prassi compositiva di Gadda si adempie, con straordinaria ostentazione, in una sorta di immanenza scritturale: vale a dire che si invera nella propulsione autogena della scrittura, si dispiega sul filo della produttività linguistica e delle sue occasioni, configurazioni, espansioni, torsioni, attrazioni. Le convulsioni creative dei segni plasmano gli arbitrari percorsi del senso con l’intensità della loro concreta, pulsante, palpabile presenza. L’oltranza descrittiva si effonde e raggruma soprattutto in grazia delle peripezie, delle vibrazioni, dei riverberi, ovvero del gioco, del significante. Le collisioni degli eventi coincidono con i sussulti del movimento sintagmatico, i margini delle cose con le increspature dell’orchestrazione superficiale delle parole. L’ipotetica premeditazione del messaggio si disserta soltanto dall’accidentalità, dalla gravitazione perdutamente aleatoria dei simulacri formali, la cui sonorità attuale, flagrante non sa coltivare le latenze ideali che come pura assenza, smagando in luminosi arcipelaghi di apparenza le ardue rotte della significazione. Non si dà disegno logico come preesistenza categorizzante, vincolo trascendentale del testo; la regia del discorso finisce per devolversi all’inconsulto fenomenismo del linguaggio, all’effettualità della sua energia plastica. Il nucleo generativo delle proposizioni non risiede nell’empireo di un’originaria previdenza concettuale, di una purezza e anteriorità indefettibili del concepimento fantastico, ma è disseminato nelle congiunture della dinamica testuale, attivato dai suoi impulsi, attriti, risucchi, connesso alla precarietà delle modulazioni enunciative. Scardinata la saldezza di un governo programmatico e predestinante delle strutture, vige qui l’agone immanente, presenziale, corporeo della scrittura, la contingenza del gesto linguistico, la smagliante follia di una finzione aperta, momento per momento, all’urto endogeno dei propri ordigni.
Uno smemorato genio ludico, quasi un rutilante agnosticismo, sembra trafiggere la fuga orizzontale delle parventi artificiosità, iridare i transiti casuali dell’elocuzione e traviare così nella deriva dei significanti l’eco di reconditi predicati. Ma, ben oltre la letteratissima monelleria di un calligrafo insolente, di un impareggiabile, pirotecnico manipolatore di codici, questa maniera dissipata adombra, in una particolare versione, irripetibile e tendenziosa, gli esiti di quell’apocalisse epistemologica che scandisce, sul fronte della cultura tra le due guerre, un destino epocale delle pratiche intellettuali. Abbiamo anticipato di scorcio: accidentalità, contingenza della scrittura contro necessità della Forma o dell’Idea, fenomenicità delle circostanze verbali contro sostanzialità della coscienza, dissoluta espansività dell’estro «grafico» contro perfetta centralità dell’intuizione metafisica, attualità sconsiderata, in necessaria, profanamente disponibile del gioco contro essenzialità sacrale degli archetipi. E ancora, superficie contro profondità: l’evidenza, l’aggetto, l’ingombro fisico, la corposità «intransitiva» della lettera contro la trasparenza di sommersi paradigmi significativi, la semplice, fulgida, irrecusabile realtà della scorza («l’esaltante buccia delle cose» di Contini – Contini 1989: 20) contro la mania dell’occulto e del suo disvelamento, dell’inabissamento cognitivo nel grembo di una sapienza sepolta, differenza contro ripetizione: l’insorgenza vivida e irriducibile della traccia segnica, le pulsioni, lo scatto produttivo, il lavoro dei significanti che non traducono, non comunicano la trascendenza di una verità chiusa e compiuta, la compattezza di una soggettività assoluta, l’immagine di una sistemazione antecedente del mondo, ma veleggiano nell’esilio dell’infondatezza e dell’alterità, nell’infinita divergenza di un’avventura irrelata, errabonda delle forme. Presenza, non rappresentazione: nel senso che la scena della scrittura (adattandole, con una certa licenza, ciò che Derida dice riferendosi a quella del «teatro della crudeltà» di Artaud) «non ripeterà più un presente, non ri-presenterà un presente che sarebbe altrove e prima di essa, la cui pienezza le sarebbe anteriore» e si costituirà, viceversa, come «spazio prodotto dal di dentro di sé e non più organizzato da un altro luogo assente, una non-località, un alibi o una utopia invisibile». (1)
Fine della rappresentazione, dunque: cioè della disciplina mimetica, riproduttiva, eteronima dell’atto letterario, del suo onere di razionalità realistica o di epifania dell’idealità, del suo sigillo di teleologia semantica. Siamo nell’orbita, ormai lunga ed effusa, del pianeta Nietzsche (2) e della sua inaugurale disdetta degli «dèi dell’Occidente», per dirla con Emanuele Severino. I valori canonici della metafisica occidentale sono stati smascherati, smentiti, capovolti, restituiti al rango di funzioni di un troppo umano arbitrio logico, della nostra impura volontà di costruzione e schematizzazione azione del mondo. Ne risulta dissolta, in conclusione, la coerenza logocentrica, sostanziale, sintetica dell’esercizio intellettuale, la costanza veridica di una soggettività che si appartenga nell’assolutezza di un dominio originario e finalistico.
Anche Gadda deduce le obiettive proporzioni della sua vocazione ereticale dagli argomenti nichilistici della crisi, cui non manca di apportare, articolandoli nei modi della propria mentalità, probanti codicilli di consapevolezza: «La limpidità naturale dell’affermazione più nostra, più vera, è devertita ed è imbrattata in sul nascere. Una mano ignota, come di ferro, si sovrappone alla nostra mano bambina, regge senza averne delega il calamo» (Come lavoro, SGF I 429).
2. Ricollegata alla cornice filosofica del pensiero negativo ritrova appunto densità di ragioni e tempestività storica l’intensificata convinzione, che pervade un’intera cultura critico-estetica, della potenzialità autonomamente instauratrice e condizionante, dell’esclusività tecnica dei processi formali. Le teorizzazioni dei formalisti russi, per esempio, con la rivendicazione, per tanti versi naturalmente irrefragabile, delle attinenze interne del fatto poetico sulla dettatura allotria dei contenuti, restano confitte, malgrado l’intento di definizione categoriale e scientifica, nell’impellente storicità di una stagione ideologica che sconta l’organizzazione inessenziale, disincantata e scissa dei linguaggi e, nella fattispecie, l’irrecuperabilità dell’ordine figurale del testo a garanzie o fondamenti ontologici. La grammaticalità specifica e convenzionale, cui gli studiosi slavi ancorano i tragitti della letterarietà, non fa che riconfermare, seppur fra sublimanti esaltazioni, la qualità dissacrata, inverificabile di uno specialismo capace di autenticarsi soltanto nella prova delle sue nervature funzionali, non in una legittimità, e responsabilità, rappresentativa.
Quasi sotto l’egida di una simile lezione, o comunque in clamorosa sintonia con i suoi postulati, si dispiega, splendidamente ignara, l’operazione gaddiana. Un talento interpretativo della razza di Šklovskij ne sarebbe forse l’esegeta più congeniale. Apriamo la prima pagina del primo volume di Gadda dato alle stampe, La Madonna dei Filosofi (del 1931). Vi leggiamo l’inizio del racconto Teatro:
Rimasi al buio.
Non vidi più Giuseppina, né i Biassonni, né i Pizzigoni, né il grand’ufficiale Pesciatelli.
In preda a un leggero batticuore, mi chiedevo che stesse accadendo, allorché apparvero delle rocce, percorse da un fremito: si gonfiavano come la vela toccata dal marezzo: come per bonaccia poi si abbiosciavano. Qualche metro più in là il cielo dell’alba, con lo zaffìro richiesto dal caso: da un lato aveva assunto un aspetto lievemente verdastro in seguito a una riparazione.
Da dietro le rocce sbucarono, suscitando la curiosità generale, un uomo corpulento e una donna assai pingue, stretta per altro nella ritenutezza d’un robusto fasciame cosparso di vetruzzi.
C’era per aria un vecchio dispiacere.
Presero difatti a rinfacciarsi l’un l’altra i loro diportamenti: ella con lodoleschi trilli e occhi di ex-vipera. Egli bofonchiò truce le più spropositate assurdità. Parevano dapprima un po’ timidi, oh! ma si rinfrancarono tosto.
Inorgogliti dalle luci color indaco, violetto e giallo canarino che gli aiuti-elettricisti proiettavano sopra di loro, eccitati dall’invidia e dall’ammirazione che venivan suscitando in tutti gli altri, rimasti così miseramente al buio, essi tranghiottivano a tratti, nelle pause, la tenue saliva del loro magnifico «io».
Egli, poi, andava giustamente superbo d’un elmo dorato e d’una scimitarra argentata dal tintinnìo metallico come di posateria presso l’acquaio.
Vestiva lo smagliante costume dell’ammiraglio persiano, con calzari di cuoio al cromo riccamente adorni di gemme di vetro: aveva vinto Sardanapalo e i suoi terribili congiunti Agamennone e Pigmalione: si esprimeva concitatamente, mediante settenari sdruccioli e tronchi.
I più significativi provocavano dei violenti starnuti in ottanta uomini ordegni che un signore in frack teneva a disposizione dell’ammiraglio.
La donna, una faraònide, vestiva a sua volta in modo superiore a ogni previsione.
Dodici lunghi pennacchi, rigidi ed aperti a ventaglio, corroboravano di un’aureola tacchinesca il santuario della pettinatura.
Per diademi e collane fascinanti barbagli, come ai bastioni Genova, con altri timpani, quella che il serpente carezza.
Diademi, collane; occhiate bleu. L’abito rosa trapunto di stupende pagliuzze metalliche; lo strascico una scopatrice stradale.
Raccontò del suo crin e ci fornì elementi circostanziati sulle principali peripezie del suo sen; non trascurò l’alma, illustrò le forme più tipiche del verbo gire, coniugandolo al participio, all’imperfetto, al passato remoto e al trapassato imperfetto; propose alcuni esempi di quella parte del discorso detta dai grammatici interiezione, scegliendoli con gusto e opportunità fra i più rari della nostra letteratura, quali «orsù» e «ahi! lassa».
Tutto questo con gutturazioni impeccabili; le ultime, le più acute erano addirittura l’ì, ì, ì d’una porta malvagiamente irrugginita, che si chiuda a scatti, nella beffa d’un ragazzo malvagio. (Madonna dei Filosofi, RR I 11-12)
Ebbene, un brano del genere potrebbe bellamente integrare la rassegna di esempi allegati da Šklovskij a illustrazione del procedimento dello «straniamento», anzi a uno di questi, un’imperturbabile demistificazione tolstojana della liturgia teatrale; (3) lo accosta una curiosa affinità del tema descrittivo. Ma è tutta quanta la creazione gaddiana, in fondo, a configurarsi, nella misura stessa della propria intemperanza espressiva, come un perpetuo straniamento, un’incessante girandola di vedute paradossali, di spostamenti o deroghe agli schemi fossilizzati di identificazione dell’esistente, un’apoteosi della nominazione imprevista, della variazione anomala. Sicché sarebbe davvero difficile intenderne la più assidua manovra inventiva al di fuori di una celebrazione dell’ostranenie (discendente, beninteso, dallo ξενικόν della retorica antica) quale metodo consustanziale all’esperienza artistica:
Ed ecco che per restituire il senso della vita, per «sentire» gli oggetti, per far sì che la pietra sia di pietra, esiste ciò che si chiama arte. Scopo dell’arte è di trasmettere l’impressione dell’oggetto, come «visione» e non come «riconoscimento»; procedimento dell’arte è il procedimento dello «straniamento» degli oggetti e il procedimento della forma oscura che aumenta la difficoltà e la durata della percezione, dal momento che il processo percettivo, nell’arte, è fine a se stesso e deve essere prolungato, l’arte è una maniera di «sentire» il divenire dell’oggetto, mentre il «già compiuto» non ha importanza nell’arte. (Šklovskij 1976: 12)
Il fuoco eccentrico, peregrino, stravagante delle prospettive stilistiche care all’autore milanese deve ascriversi, implicitamente, a carico di un’analoga confidenza nel potenziale rivivificante dell’approccio poetico, nella sua prerogativa di riscatto sensoriale, di «sottrazione dell’oggetto all’automatismo della percezione», (Šklovskij 1976:13) di reinvenzione del dato. Anch’egli partecipa, per buona approssimazione, di una civiltà culturale che, cimentando la tensione conoscitiva con il fattore del tecnicismo, ravvisa la specificità della sfera artistica nell’attitudine a insinuare il demone della metamorfosi in un cosmo pacificato e statico, a distanziare e ribattezzare le più consunte evidenze fino a folgorarne una frontalità straniera, caotica, inassimilabile. Di una giostra di dislocazioni sorprendenti si giova pertanto l’ottica del narratore, provocando lo spiazzamento continuo delle raffigurazione abituali, secondo i tracciati di una poetica intesa a mobilitare l’artificio formale come vettore di ispirazioni germinali ed eterodosse, ossia a demandare, con fertile ambiguità, un mito di alternativa gnoseologia all’impiego specialistico, convenzionalmente calibrato, degli apparati retorici. Questa disposizione straniante collima, in fin dei conti, con la tempra medesima dello stile di Gadda, con le ragioni della sua ribellione alla standardizzazione neutrale e totalitaria dei linguaggi: con quella generale peregrinità – oltre le intermittenze più ermetiche – di escogitazioni linguistiche che, letterariamente preziose o dialettali, iperscientifiche o arcaizzanti, sopprimono comunque ogni congruenza stereotipa di res e verba, («il procedimento della forma oscura che aumenta la difficoltà e la durata della percezione»). (4)
Ma si tratta anche di individuare, entro l’orizzonte solidale che lo include e giustifica, la fisionomia distintiva dello straniamento gaddiano, di notarne, in compendio, le modalità caratteristiche di effettuazione, le movenze predilette e inimitabili, e dunque l’originalità degli esiti ideografici e delle risultanze emblematiche. Intanto, la lontananza dal modello tolstojano, cui si attiene per la maggior parte l’esemplificazione di Šklovskij, appare ben chiara giusto al paragone di una situazione consimile. La discrepanza di chiavi è patente. Nel passo sopraccennato Tolstoj mira a estraniare i rituali scenici investendoli di un assorto stupore analitico, perpetrando la loro riduzione al grado più immediatamente realistico e denotativo, azzerandone le connotazioni invalse attraverso un’anatomia puntuale e insieme disarmata, esorcizzandone l’aura prestigiosa. La sua metodologia si abbevera alla tradizione polemica (di illustre voga settecentesca) della naïveté, della verginità intuitiva: «consiste nel fatto che non chiama l’oggetto col suo nome, ma lo descrive come se lo vedesse per la prima volta, e l’avvenimento come se accadesse per la prima volta» (Šklovskij 1976: 13). Sbrecciato il muro della simulazione, erompono i lineamenti di una primitiva autenticità, che, malgrado le asperità sconcertanti della violenza prospettica, si sottintende attingibile nella specie naturale, lampante, elementare di una semplicità tanto più limpidamente giusta delle nostre inveterate mistificazioni: «Non si può non incorrere alla fine, come in un’eresia, | in un’incredibile semplicità)» – suonano i versi di Pasternàk (il supremo cantore novecentesco, forse, della nostalgia di magnanime purezze primigenie contro la mondanità delle cronache sociali).
Affatto diversa la condotta di Gadda. Solo per brevità espositiva si parlerebbe per Teatro di «una ingenua stupefazione che ha modo di far risaltare il lato grottesco del rituale operistico». (5) Certo, anche qui un impatto diretto, inesperto, attonitamente esterno incide e perfora lo spessore della finzione. Ma all’insegna di un candore assai sornione, che si dà a spremere i vantaggi dell’equivoco, puntando sull’interferenza e la commistione dei piani, contaminando le codificazioni trasfiguranti dello spettacolo con i goffi rilievi della sua tangibile fisicità; che si complica della più confusionaria e rancorosa anamnesi culturale, prodiga di arzigogolerie erudite, di avvertenze grammaticali, di affettate concitazioni mnemoniche tendenti alla babele onomastica, (6) che, indulgendo al registro caricaturale per un’esacerbata impazienza iconoclasta, trasmuta insomma la credula condiscendenza di un noviziato negli spiriti decrepitamente colti di una coscienza troppo gremita, ricolma, perplessa, dispersa per inseguire il miraggio di una rivelazione. Alla meraviglia dello sguardo innocente subentra la più intossicata sazietà della storia, invece della smemoratezza stupefatta una corrotta, buffonesca ipermnesia. La norma inverosimile del palcoscenico viene aggredita e smontata con gli accordi isterici, specularmente lambiccati, di una perversione memoriale che confuta il sogno di un approdo veridico.
è come se Gadda, con i foschi ammicchi, le provocatorie ciurmerie della sua filologia protestasse che la fenomenologia tumida e scomposta, pletorica e discentrata, apocrifa e multiforme del mondo, adombrata dalla metafora teatrale, non è semplificabile, riducibile, risolubile. La sua dismisura artificiosa può solo essere doppiata da un’artificiosità supplementare. Complessità si aggiunge a complessità, grottesco a grottesco. La scrittura non perviene a captare l’ordito diafano dell’esistenza, si volge, invece, a inscenare, per effusione analogica, un paesaggio di debordante ampollosità, a replicare – non imitare né decifrare – la mostruosità sofisticata del reale, ripudiando l’affondo rettilineo della conoscenza per le volute e le rabescature della sovrapposizione, del prolungamento. Donde la mossa prevalente del dispendio perifrastico, ad assecondare e rilanciare la diramazione lussureggiante delle cose, a girare intorno al centro assente dell’autentico. Così, con procedura tipica fra le stranezze del suo magistero trasgressivo incaricate di eludere i tramiti più probabili del dire, lo scrittore inanella minuziose e impassibili circonlocuzioni del genere «culto, serioso o tecnico», (7) intrigando la familiarità sclerotica degli aspetti:
Il signore che, in frack, è sul podio, avrebbe potuto interporre i suoi buoni uffici e la sua autorità per sedare tanto tumulto: e invece si sbracciava ad esacerbarlo, incurante degli insegnamenti del Vangelo e del progressivo rammollimento cui le parti inamidate della persona venivan soffrendo. Si ebbe così un ben meritato castigo, dacché le ridusse impresentabili, macerandole di acidi della serie aromatica e della serie grassa, di amminoacidi, di composti albuminoidi vari e di altre sostanze azotate. (Madonna dei Filosofi, RR I 14)
Su un tenore contiguo di invenzione, sull’ironica impeccabilità della parafrasi scientifica, il collega austriaco del nostro, l’ingegnere Robert Musil, accorda l’incipit del suo capolavoro:
Sull’Atlantico un minimo barometrico avanzava in direzione oriente incontro a un massimo incombente sulla Russia, e non mostrava per il momento alcuna tendenza a schivarlo spostandosi verso nord. Le isoterme e le isòtere si comportavano a dovere. La temperatura dell’aria era in rapporto normale con la temperatura media annua, con la temperatura del mese più caldo come con quella del mese più freddo, e con l’oscillazione mensile aperiodica. Il sorgere e il tramontare del sole e della luna, le fasi della luna, di Venere, dell’anello di Saturno e molti altri importanti fenomeni si succedevano conforme alle previsioni degli annuari astronomici. Il vapore acqueo nell’aria aveva la tensione massima, e l’umidità atmosferica era scarsa. Insomma, con una frase che quantunque un po’ antiquata riassume benissimo i fatti: era una bella giornata d’agosto dell’anno 1913. (8)
Una più impenitente deferenza alla musa comica e al gusto di una pedantesca torbidità sospinge il «calamo» gaddiano, risparmiando al lettore la spaesante vertigine che promana dalla casistica molecolare e interminabile, dall’ascesi infinitesimale di Musil. Ma in entrambi gli autori i congegni della narrazione contemplano l’ambage insieme vorticosa e flemmatica delle proposizioni intorno ai predicati ormai interdetti dell’essere, quasi a testimoniare fino all’esattezza più letterale che «il dire è sempre dire-intorno; il romanzo è saggio – non comprensione totalizzante». (9)
3. Sulla base delle attribuzioni di scabrosità, intralcio, cimento comunicativo pertinenti al linguaggio artistico, un ulteriore momento di forte convergenza riconnette il costume retorico di Gadda agli orientamenti del formalismo russo. «La strada dell’arte è una strada tortuosa, una strada sulla quale il piede sente le pietre, una strada che torna indietro» dice Šklovskij. (10) E – secondo quell’intonazione perentoriamente dottrinale che non va peraltro disgiunta in lui dalla duttilità storicistica e dalla complice attenzione alle poetiche contemporanee – parla «dell’impedimento dell’indugio, come legge generale dell’arte», per dichiarare, poi, più specificatamente:
Il pensiero pratico si muove verso la generalizzazione, verso la costruzione di formule sempre più estese, che abbracciano tutto. Inversamente l’arte «con la sua sete di concretezza» (Carlyle) è basata sulla gradinatura e sullo sminuzzamento anche di ciò che viene dato come generale e unitario. Appunto alla struttura a gradini dell’arte si riferiscono la ripetizione, – di cui un caso particolare è la rima, – la tautologia, il parallelismo tautologico, il parallelismo psicologico, l’indugio, le ripetizioni epiche, i riti favolistici, le peripezie, e molti altri procedimenti dell’intreccio. (Šklovskij 1976: 24 e 37)
Fra le tattiche defatiganti messe in opera dall’elaborazione artistica per ottenere la segregazione icastica di oggetti o accadimenti e restaurare la pienezza delle funzioni percettive assume ovviamente un rilievo primario il trattamento ritardante del messaggio, la sua scansione smembrata e iterativa. Šklovskij registra, e di seguito prende ad esaminare, la vasta tipologia della «costruzione rallentata, a gradini» (Šklovskij 1976: 40), il cui denominatore comune, nell’eterogeneità delle realizzazioni convenienti ai diversi generi, consiste nell’«indugio», nella temporalità inceppata, sospesa, dilatata del discorso. È sempre al «processo di algebrizzazione, di automatizzazione dell’oggetto» (Šklovskij 1976: 11), alla labilità delle relazioni rutinarie e pragmatiche con il mondo circostante, che deve reagire, come già lo straniamento, la ridondanza esornativa o particolareggiante del dettato poetico. Le leggi economiche della normalità prosaica (11) restano sovvertite dallo spreco delle riprese, degli accumuli, delle complicazioni, dei differimenti.
Ora, se di un simile argomentare privilegiamo la genesi e la pertinenza contemporanea sulla pur innegabile efficacia delle istanze sistematiche, di nuovo lo scrittore milanese sembra profilarsi come uno degli esemplari più appetibili e confacenti alle verifiche della scuola formale. L’incontinenza digressiva, l’estro divagante, il decentramento irrisarcibile della vicenda, l’emergenza anarchica e magnetizzante dei particolari appartengono ai referti più scontati della critica gaddiana. Ogni abbrivo ortodosso di racconto è destinato solitamente ad aggrovigliarsi nella corrività fabulatoria delle deviazioni, degli accidenti, degli ingorghi strepitosi. E questa trama di superfluità protratte e di prevaricanti eccentricità, nonché prorogare o rendere sinuosa e spezzata, finisce per interdire, addirittura, la linea evolutiva di qualunque storia.
Ma concediamoci ancora una volta il piacere di un documento «minore», che il registro giocoso, di un’indiavolata festevolezza, preserva da ombre più perturbanti. Ne L’incendio di via Keplero Gadda appare intento a fornire una personale versione della «costruzione a gradini». «Se ne raccontavano di cotte e di crude sul fuoco del numero 14. Ma la verità è che neppur Sua Eccellenza Filippo Tommaso Marinetti avrebbe potuto simultanare quel che accadde, in tre minuti, dentro la ululante topaia, come subito invece gli riuscì fatto al fuoco» (RR II 701): e il preludio già sfiora, a modo suo, l’inevitabile manipolazione che del tempo effettivo degli eventi perpetra quello fittizio della macchina letteraria. Così, dopo un primo resoconto sintetico, l’autore accudisce alle agiate, prolisse incombenze dell’analisi: torna a riproporre l’episodio al rallentatore, scomponendolo in una partitura di cronache simmetriche, anatomizzandolo tramite l’amplificazione dei vari «casi» coincidenti, delle segrete peripezie meneghine degli interni. La compagine dell’accaduto viene disgregata e scandita per segmenti paralleli, ricostruita attraverso l’addizione stratificata dei «gradini».
Senonché, per sottili ma considerevoli slittamenti, Gadda si sottrae, su questo versante, a un compiuto patrocinio della legislazione formalistica. Nei suoi testi la deconcentrazione della tensione narrativa, lungi dall’essere tributaria delle più pacifiche astuzie distributive dell’intreccio, risulta altresì incomparabile alla tecnica rivoluzionaria di arbitri, dislocazioni e viluppi temporali che il grande archetipo sterniano, caro a Šklovskij, del Tristram Shandy aveva impiegato quasi a sfidare e procrastinare (secondo la suggestiva lettura di Carlo Levi) l’imminenza della morte. Si direbbe che, per certi versi, la diramazione indugiante della prosa gaddiana, condannata a dilazionare uno scioglimento impossibile, proceda, piuttosto e oltre che dagli statuti, quanto si voglia labirintici disorientanti o caotici, della dispositio dalla stessa sostanza – sfarzosa, diffusiva, orgiastica – della scrittura: dalla sua gemmazione inesausta, dalla reattività alchemica delle sue impazzite cellule sonore. L’ultimo filo, ormai, di una logica mimetica, epica, ordinatrice, concludente si disperde obliandosi nel delirio metamorfico delle parole:
Sicché l’autolettiga della Croce Verde, al quinto viaggio, si può dire che non era arrivata ancora alla guardia medica di via Paolo Sarpi, che già l’avevano fatta voltare indietro di volata verso l’obitorio della clinica universitaria, là in fondo alla città degli studi di dietro del nuovo Politecnico, macché in via Botticelli! più in là, più in là! in via Giuseppe Trotti, si, bravi, ma passato anche via Celoria, però, passato via Mangiagalli, e poi via Polli, via Giacinto Gallina, al di là di Pier Gaetano Ceradini, di Pier Paolo Motta, a casa del diavolo. (RR II 713)
Insomma, alla paralisi o allo sconvolgimento della dimensione temporale che segnano – su un piano, adesso, affatto diverso dalla istituzionale sapienza, pausata ed elusiva, degli orditi della narrazione – il destino del grande romanzo novecentesco, incapace di scortare verso la meta di un’agnizione finale eroi progressivamente accresciuti dagli umori nutrienti dell’esperienza, Gadda aggiunge, appunto, il «delirare» (anche nel senso etimologico) del magma verbale. Un profluvio di visioni evocate, concatenate dalla propagazione elasticamente incontenibile della materia linguistica sprofonda in una durata ipnotica i valori dinamici del tempo. La misura razionale, storica euclidea del narrare s’incanta negli arabeschi dell’allucinazione descrittiva (per adottare l’antinomia lukacsiana, richiamata dal Baldi in termini francamente ingenerosi per il «gran lombardo») (12): nella saturazione fiamminga della pagina («i Fiamminghi della descrizione, del catalogo» assimilati alla progenie dei maccheronici – Fatto personale... o quasi, SGF I 499), dove, però, le presenze oggettive non paiono più che proiezioni immaginarie dei dissipati giochi produttivi dell’espressione. Ed eccoci ricondotti alla prospettiva del nostro tendenzioso preambolo: lo sperpero figurale, la lussuria fonetica di una dizione che disconosce o eccede paradigmi di pianificazione concettuale e di responsabilità ideologica.
4. La dilapidazione parossistica dei segni è la maniera più tipicamente gaddiana di esperire la perdita di causalità ideale degli itinerari narrativi, di attestare lo scacco dell’universo romanzesco in quanto emanazione di un centro stabile di conoscenza, di un’appercezione signoreggiante della realtà: nell’epoca della «distruzione degli immutabili», «della distruzione di dio e del concetto universale – che anticipa in sé ogni individuazione come dio anticipa in sé ogni evento del mondo– alla distruzione della tonalità nel linguaggio musicale e di ogni “forma naturale” nell’opera d’arte, dalla distruzione dei rapporti di produzione capitalistici alla distruzione dell’autore e del testo scritto nel “teatro della crudeltà” di Artaud». (13)
La correlazione instaurabile fra la catastrofe epistemologica che annienta gli idoli normativi della tradizione metafisica e le proposizioni teorico-critiche intorno alla letteratura germogliate nella temperie formalistica vuole indicare l’avvento, dinanzi alla deflagrazione della totalità teologica del sapere, di una nozione autonoma, specialistica, tecnica delle forme. Che, destituite di autorità semantica, di spessore rappresentativo, esigono di essere considerate esclusivamente per il gioco delle loro alternative tutte immanenti, per così dire autarchiche:
La forma dell’opera d’arte viene determinata dal rapporto con le altre forme, esistenti prima. Il materiale del lavoro artistico viene sempre pedalizzato, cioè sillabato, «vocalizzato». Non soltanto la parodia, ma ogni opera d’arte in genere è costruita in parallelo o in contraddizione a un qualche modello. La nuova forma appare non per esprimere un nuovo contenuto, ma per sostituire la vecchia forma, che ormai ha perduto la sua artisticità. (Šklovskij 1976: 35)
E nel contempo s’infittisce la serie delle scritture sconsacrate, cui non arride più la moralità del «verbo» ma la coscienza, gelida o istrionesca a seconda dei casi, di un’infondata artificialità. La condizione storica di separatezza dell’attività artistica si consuma nella clausura degli adempimenti formali, nella gelosa «intransitività» delle operazioni espressive. L’esercizio letterario, e particolarmente quello narrativo, schernisce la serietà assertiva della mimesi per esibire cinicamente la sua indole fattizia («la messa a nudo del procedimento» di cui parlano i formalisti), tende a doppiarsi, a calcolarsi, a interrogarsi sui propri strumenti e sulle proprie potenzialità, originando quella «vasta nebulosa di procedimenti autoriflessivi che comincia a ritagliarsi uno spazio, nel romanzo europeo, a cavallo tra Otto e Novecento»:
Sono le scritture che ti guidano, come un trovarobe, nella confusione o nel gelo mortuario del proprio magazzino, documentando l’impossibilità di ritrovare l’ordine, la vita, la forma «classica» della scena narrativa, tra tanti utensili alla rinfusa, in altri casi, esse guidano, in forme non sempre immediatamente percepibili, alla scomposizione dei propri stessi procedimenti costruttivi, secondo la linea che (sulla scorta di un «teatro nel teatro», già presente, ad esempio, nell’Amleto) è stata definita del «romanzo nel romanzo» o, come qualcuno vuole, del «metaromanzo». Gli antenati sono […] remoti: si possono ritrovare nell’invenzione speculare barocca (e in alcuni aspetti della figuralità medievale), passando poi attraverso i grandi archetipi di smontaggio e irrisione dell’illusione romanzesca (dal Don Chisciotte al Tristram Shandy) e per giungere ancora a questo vestibolo dei primi decenni novecenteschi, dove molti romanzi sono stati scritti per negare, ironizzare, rovesciare in grottesco la stessa pretesa di sopravvivenza del romanzo, specie nelle sue forme più ingenuamente antropomorfe, pseudo-naturali. (14)
La parola letteraria, nel caleidoscopio gaddiano, rifrange e deforma le trasparenze del reale, ostentando l’ingombro, il disturbo del proprio inusitato aggettare, di un rilievo autonomo che comporta poi, spesso, la più maliziosa sottolineatura metalinguistica dei registri e dei moduli adottati. (15) Si abbandona a un’infeconda schermaglia con la diaspora babelica dei linguaggi; e il manieristico avvilupparsi dentro il dedalo delle sue stesse figurazioni le inibisce l’innocenza di identificazioni o riscontri esterni. Arriva a dichiararsi, per l’istrionismo delle amplificazioni dissonanti, incongrue, e quindi autoironiche, come pronuncia fatturata, trucco esplicito, sublime ciarlataneria. (16) In grazia della mobilitazione burlesca di nomenclature ampollose o antiquate o incredibilmente scientifiche, sempre all’insegna di una differenza, di un intervallo d’irrealtà, accade alla scrittura, quasi, di teatralizzarsi, di lasciarsi vedere, campeggiando con stoica iattanza, sulla ribalta, nello spazio della sua im-pertinenza. E questo cabotinage, questo esibizionismo tormentosamente buffonesco del dettato rimane forse il contributo più originale che Gadda abbia recato alle pratiche introverse della letteratura novecentesca.
Eppure, l’autore rifiuta decisamente l’esilio dei laboratori esoterici, la taccia di un barocchismo capriccioso, di gratuita elezione intellettualistica: «Ma il barocco e il grottesco albergano già nelle cose, nelle singole trovate di una fenomenologia a noi esterna: nelle stesse espressioni del costume, nella nozione accettata “comunemente” dai pochi o dai molti: e nelle lettere, umane o disumane che siano: grottesco e barocco non ascrivibili a una premeditata volontà o tendenza espressiva dell’autore, ma legati alla natura e alla storia» (Gadda 1987a: 480). Che è il modo, per l’appunto, di rivendicare alla propria opera una responsabilità significativa, un vincolo e una virtù di rispecchiamento del reale. Se il formalismo russo – per richiamare un’ultima volta questa avanguardia critica sulla cui metodologia abbiamo tentato di saggiare alcuni connotati macroscopici dell’espressività gaddiana – pure assegnava, come sappiamo, alle proporzioni artificiate dell’evento poetico una valenza antropologicamente cruciale, teneva fermo, comunque, che l’effetto conoscitivo, la corrispondenza realistica potessero accendersi soltanto per la mediazione della diacronia funzionale, relativa degli ordinamenti strutturali: «Nella sua mutazione, nel susseguirsi di generi e convenzioni, l’arte cerca di conservare la concretezza d’una informazione mutevole, giacché una informazione immutabile non è più un’informazione. Il mondo cambia, e l’arte cambia – penso adesso – per conservare un legame con la vita. Ma cambia conservando anche le vecchie forme, come criterio di misura». (17) E invece Gadda, dopo aver suscitato le più plausibili congetture di una sindrome metaletteraria, sembra riscoprire e accreditare, senz’altro, i vieti protocolli della mimesi.
A questo punto, per procurare di risolvere la contraddizione, ci limiteremo a prospettare un’avvertenza appena preliminare e generica. Nelle battute d’esordio del saggio su Schopenhauer del 1938, Thomas Mann discorreva «del piacere, dell’alto e in fondo sempre sereno piacere che l’arte ci dona con la sua azione ordinatrice, col suo potere di chiarire, dominandola, la confusione della vita»: (18) un frammento riemergente dalla casualità dei ricordi di lettura, che qui si cita non certo per incriminare la delicata compagine conservatrice dell’ideologia manniana ma, piuttosto, per comprovare anche presso uno dei maggiori protagonisti della letteratura della crisi una certa pervicace (quanto problematica) mitologia dell’arte demiurgica. Al contrario, la consapevolezza intensa, quantunque in sé non propriamente inedita, dell’elaborazione collettiva della lingua (19) provvede a intorbidare, agli occhi di Gadda, l’idolo siderale, cristallino, intangibile della forma:
La parola convocata sotto penna non è vergine mai, anche se in una ipostasi titillatoria, e narcissica (e nei momenti di più accesa bischeraggine), lo scrittore può tener sé aliato, al creare, dal soffio di una purità primigenia: e sognare che la sua parola la discenda, come diafana ala di libellula, dal disopra ogni azzurro: cioè dall’invisibile increato. Le parole nostre, pazienterete, ma le son parole di tutti, pubblicatissime: che popoli e dottrine ci rimandano. Sono un collutorio comune di che più o meno bravamente ci gargarizziamo, risputandone ognuno in bocca all’altro e finalmente tutti in un guazzo. (Come lavoro, SGF I 436)
L’immane promiscuità della strumentazione espressiva e dei suoi consumi storici e sociali concorre a offuscare, ormai, la prosopopea numinosa del creatore, l’assolutezza trascendentale dei suoi vaticini, il carisma di un cenno rivelatore e coordinante:
L’imagine tradizionale e ab aeterno romantica dello scrittore-creatore, dell’ingegnoso demiurgo che cava di sé liberamente la libera splendidezza dell’opera e nei liberi modi d’un suo stile ne propaga foco alle genti […] è imagine in sul nascere viziata; (SGF I 427-28)
e più avanti:
L’io rappresentatore-creatore veduto nella sua saldezza, e nella fissità centrica che è propria di quel cavicchio ch’egli è, circonfuso d’un tempo stolido e inerte, a versar luce nella tenebra come riflettore nelle paure della notte, è idolo tarmato, per me. Codesto bambolotto della credulità tolemaica, in ogni modo, non ha nulla di comune con la mia identità di ferito, di smarrito, di povero, di «dissociato noètico» D’intorno a me, d’intorno a noi, il mareggiare degli eventi mortiferi, il dolore, il lento strazio degli anni. Il concetto di volere si abolisce, nel lento impossibile. L’oceano della stupidità. (SGF I 431)
Il declino della posizione fondamentale della soggettività e della centralità politica dell’intellettuale umanistico prepara, allora, una nuova attitudine della forma; che rinuncia ad asservire alla sua sintassi «la confusione della vita» filtrandone e immunizzandone anche i contenuti più refrattari, ma si apre alla contaminazione del mondo, all’invasione del suo scomposto corale: si rimodella oscenamente sulla caoticità soverchiante, sul parossismo comunicativo della società di massa («l’oceano della stupidità»). Mentre le identità disintegrate, oscure, polimorfe della storia eludono canoni e strutture tradizionali di interpretazione, al disegno armonizzante dell’artefice succede l’autolesionismo di un linguaggio che frequenta, atteggiandosi analogicamente, ben al di fuori, pertanto, delle illusioni documentarie e delle misure gerarchiche del naturalismo, le determinazioni degradate dell’oggettività. Il discorso narrativo attinge validità diagnostica, garanzia di «cognizione», proprio e soltanto se si aliena nella fenomenologia barocca delle cose.
Dal momento che «il mondo non è affatto come vorrebbe riprodurlo il sistema di linguaggio che giustamente l’artista di “avanguardia” rifiuta, ma si trova proprio scisso e dislogato, privato delle coordinate di un tempo, esattamente come privato delle coordinate canoniche è il sistema di linguaggio che l’artista adotta», l’ultima opportunità di dominio della forma coincide con la sua alienazione:
Ed ecco che allora assume significato definitivo la funzione di una «avanguardia», e le sue possibilità di fronte a una situazione da descrivere. È l’arte che per far presa sul mondo vi si cala assumendone dall’interno le condizioni di crisi, usando per descriverlo lo stesso linguaggio alienato in cui questo mondo si esprime: ma, portandolo a condizione di chiarezza ostentandolo come forma di discorso, lo spoglia della sua qualità di condizione alienateci e ci rende capaci di demistificarlo. (20)
Anche Gadda, come Joyce, «si aliena nella situazione assumendone i modi, ma portando questi modi ad evidenza, rendendoseli consapevoli come modi formativi, esce dalla situazione e la domina». Allora, la riflessione sopra la meccanica dei significanti converte la disciplina della letterarietà nell’unico veicolo di significazione, giacché «il vero contenuto dell’opera diventa il suo modo di vedere il mondo e di giudicarlo, risolto in modo di formare»:
L’arte conosce il mondo attraverso le proprie strutture formative (che quindi non sono il suo momento formalistico ma il suo vero momento di contenuto): la letteratura organizza parole che significano aspetti del mondo, ma l’opera letteraria significa in proprio il mondo attraverso il modo in cui queste parole sono disposte, anche se esse, prese una per una significano cose prive di senso, oppure eventi e rapporti tra eventi che paiono non avere nulla che vedere col mondo. (Eco 1971: 270 e 264)
L’autore mostra di intendere che nel suo caso la testimonianza della realtà, anziché essere delegata alla diafanità direttamente rappresentativa dei segni, o alle logiche esemplari della vicenda, è inscritta nella stessa organizzazione formale, lacerata atonale indefinita, nella discontinuità delle configurazioni di una forma che assume su di sé la demenza e il pasticcio del mondo. È questo martirio l’ambito dell’operare «avanguardistico» di Gadda e insieme il suo autentico riferimento alla «natura» e alla «storia». (21)
D’altronde, nella concezione dello scrittore, l’esoterismo della «maccheronea» non fa che «interpretare» l’esperienza impura, ma anche gioiosamente vitale, delle «genti»:
Università di NapoliDire per maccheronea è dunque, talvolta, un adeguarsi al comune modo e gusto, un rivendicare e un risolvere le istanze profonde contro i piati stanchi, un immergersi nella comunità vivente delle anime, un prevenirne o un secondarne in pagina l’ingenito impulso a descrivere, la volontà definitrice del reale, per allegri segni. Tenui sfumature, sottili vincoli o precipitati trapassi, dalla satira alla maccheronea. Dalla malinconia alla maccheronea. […] Dire per maccheronea è più tosto un deferire che un reluttare, al sentimento dei molti: è interpretare e vivere anzi che rompere anziché dimenticare il meccanismo della fluente conoscenza, della descrizione e catalogazione dell’evento. Maccheronea non è, in quel punto, un esercizio barocco d’una prezioseggiante stramberia, ma desiderio e gioia del dipingere al di là della forma accettata e canonizzata dai bovi: è gioia dell’attingere agli strati autonomi della rappresentazione, all’umore freatico delle genti, atellane o padane che le fossero, delle anime. (Fatto personale... o quasi, SGF I 498-99)
Note
1. J. Derrida, Il teatro della crudeltà e la chiusura della rappresentazione, in La scrittura e la differenza, trad. it. di G. Pozzi (Torino: Einaudi, 1982), 305-06.
2. Gottfried Benn, in un saggio del 1950, lo definiva «la gigantesca figura dominante dell’epoca post-goethiana»: colui che si era votato a «spegnere la sostanza a favore dell’espressione», ponendo così sotto la propria ipoteca tutte le esperienze di un cinquantennio, il primo del nostro secolo, che aveva visto «soprattutto la liquidazione della verità e il consolidamento dello stile» – v. G. Benn, Nietzsche cinquant’anni dopo, in Saggi [trad. it. di L. Zagari] (Milano: Garzanti, 1963), 201, 208, 211. Non a caso abbiamo punteggiato questo paragrafo di allusioni a quell’elogio della gioiosa «superficialità» che è la prefazione alla Gaia scienza; dove il pudore di «non voler vedere tutto nella sua nudità, non volere intrometterci in tutto, tutto comprendere e “sapere”» e la decisione di «arrestarsi animosamente alla superficie, all’increspatura, alla scorza, adorare l’apparenza, credere a forme, suoni, parole, all’intero olimpo dell’apparenza» dischiudono l’auspicio di «un’arte beffarda, leggiera, fuggitiva, divinamente imperturbata», additano l’approdo della «rinuncia» come l’alternativa più rigorosa e profonda all’invasione del problematico. Citiamo dalla versione di F. Masini, in F. Nietzsche, Idilli di Messina, La gaia scienza e Frammenti postumi [1881-1882] (Milano: Adelphi, 1965), 19.
3. Cfr. V. Šklovskij, Teoria della prosa (trad. it. di C.G. de Michelis e R. Oliva) (Torino: Einaudi, 1976), 16-17.
4. Emilio Manzotti acutamente verifica anche dal punto di vista delle articolazioni sintattiche la tendenza gaddiana all’«infrazione della comune prassi percettiva e rappresentativa del reale» (Manzotti 1979: 354).
5. E. Ferrero, Nota, in appendice all’edizione Einaudi del 1973 della Madonna dei Filosofi.
6. Nel modo di una stordita accozzaglia di reminiscenze prelevate alla rinfusa dai musei ormai in frantumi della cultura: «aveva vinto Sardanapalo e i suoi temibili congiunti Agamennone e Pigmalione»; e più avanti: «la pericolante successione al trono d’Egitto, cui portavano inciampo gli amorazzi della ben nota regina Semiramide, veniva a complicarsi ulteriormente per effetto delle mire ambiziose di Giocasta e di Maria Teresa» (Madonna dei Filosofi, RR I 12).
7. è risaputo: «Uno dei modi più tipici di Gadda è quello dell’eufemismo ironico, che nasce dall’applicazione di un lessico culto, serioso o tecnico a oggetti umili o risibili, con deliberata sproporzione, che sortisce ad esiti di epica burlesca, di stridente comicità». Questa la tipizzazione efficace, sebbene forse troppo unilateralmente sbilanciata verso il polo parodistico a scapito dei moventi o dei sottintesi teorici, offerta da Ernesto Ferrero nell’utile Invito alla lettura di C.E. Gadda (Ferrero 1972: 136).
8. R. Musil, L’uomo senza qualità (trad. it. di A. Rho) (Torino: Einaudi, 1972), 5.
9. M. Cacciari, Krisis (Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein) (Milano: Feltrinelli, 1976), 136.
10. Šklovskij 1976: 27. E continua: «Una parola si accosta all’altra, una parola sente l’altra, come una guancia l’altra guancia. Le parole si scompongono, e al posto di un complesso unitario, al posto della parola pronunciata automaticamente, […] nasce la parola-suono, la parola-movimento articolatorio», dove il recupero della corporeità fonica, repressa dalla serietà adulta e civile del comunicare, combacia, come è già stato notato, con le considerazioni svolte da Freud nel Motto di spirito intorno alla propensione, infantile e inconscia, «a maneggiare ancora le parole come cose» – S. Freud, Il motto di spirito [trad. it. di S. Daniele e E. Sagittario] (Torino: Boringhieri, 1975), 144. Si veda il Saggio introduttivo di Francesco Orlando (Freud 1975: 24): «è incredibile quanto Freud vada vicino, con questa intuizione la cui portata trascende così evidentemente il motto di spirito, a opinioni teoriche emesse da altri dopo di lui, ma, a loro volta, indipendentemente da lui. “Questa inclinazione a desumere, dalla somiglianza dei suoni, una connessione dei sensi, è un tratto caratteristico della funzione poetica del linguaggio”: cito una frase da un articolo di Roman Jakobson del 1964, e l’opinione perfettamente riassunta dalla frase si era affacciata presso i formalisti slavi fin dagli anni venti, nell’ignoranza o senza l’influsso del libro freudiano del 1905». Cfr. ancora, ad esempio, F. Orlando, Per una teoria freudiana della letteratura (Torino: Einaudi, 1973), 30-31. La posizione gaddiana (con la matrice trasgressiva della «coazione a non ripetere» di cui parlava Mario Spinella [nell’articolo Carlo Emilio Gadda o della trasgressione, su Rinascita del 25-5-1973, 48]) vede incrementarsi, quindi, il corredo delle sue implicazioni culturali.
11. Cfr. Šklovskij 1976: 24: «La prosa è linguaggio consueto: economica, regolare, facile (dea prosae – dea dei parti regolari, della “giusta” posizione del bambino)».
12. Baldi 1972 – il cenno preciso è a p. 38 n. 77.
13. E. Severino, Legge e caso (Milano: Adelphi, 1980), 27-28.
14. G. Mazzacurati, Pirandello nel romanzo europeo (Bologna: Il Mulino, 1987), 95-96. E si legga ancora, a p. 14, la qualificazione della scrittura «intransitiva» come quella che ha «la tendenza a inarcarsi sopra i suoi oggetti, ad inventare strategie autoriflessive o autorappresentative») e in vari modi «propone la questione di sé come strumento, il problema della propria autonomia, della propria attendibilità o “purezza” come mezzo conduttore di realtà poste al di fuori dell’universo soggettivo del produttore».
15. Cfr. G. Guglielmi 1967: 128 ss.; Gelli 1969: 54; Marinetto 1973: 152-53.
16. E si veda l’interpretazione storico-politica di B. Morchio (Morchio 1979: 348-49): «Gli scarti stilistici, al pari degli altri artifici che Gadda utilizza per esibire la letterarietà del segno e per revocare in dubbio la finzione del testo, tendono a distanziare letteratura e vita, a ridurre al minimo il pericolo di una loro reciproca interferenza. Questa idea della separatezza della letteratura, dell’alterità del linguaggio letterario […] va spiegata storicamente. Credo che non si possa evitare di leggervi, come punto di partenza, un segno del disagio dell’intellettuale borghese nella società italiana entre deux guerres. Il mito dei poeta-vate, a ben guardare, tendeva proprio a mistificare, con l’illusione anacronistica di un primato dell’intellettuale (e in particolare del letterato) nella politica, la nuova realtà, caratterizzata dall’avvento di una società di massa e di una nuova configurazione delle forme del potere in Italia».
17. è un passaggio della prefazione stesa da Šklovskij per l’edizione einaudiana della Teoria, p. XI.
18. T. Mann, Schopenhauer (trad. it. di B. Arzeni), in Saggi (Schopenhauer, Nietzsche, Freud) (Milano: Mondadori, 1980), 3.
19. Cfr. ad es.: «La tecnica d’uno scrittore tallisce in certa misura da uno sfondo preindividuale […]. L’adozione del linguaggio è riferibile a un lavoro collettivo storicamente capitalizzato in una massa idiomatica, storicamente consequenziato in uno sviluppo o, più generalmente, in una deformazione; questa esperienza insomma travalica i confini della personalità e ci dà modo di pensare a una storia della poesia in senso collettivo» (Le belle lettere e i contributi espressivi delle tecniche, SGF I 475).
20. U. Eco, Opera aperta (Milano: Bompiani, 1971), 57 e 272 (dal saggio Del modo di formare come impegno sulla realtà).
21. «Balzac aveva condotto la sua analisi attraverso la disposizione di un soggetto (narrando cioè una vicenda di eventi e personaggi in cui si chiariva il contenuto della sua indagine); la letteratura contemporanea pare poter analizzare il mondo non più in questo modo, ma attraverso la disposizione di una certa articolazione strutturale del soggetto – eleggendo l’articolazione a soggetto e in essa risolvendo il vero contenuto dell’opera» (Eco 1971: 282).
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