La scienza del dolore
Il linguaggio tecnico-scientifico nel Gadda narratore

Paolo Zublena

1. Il nesso lingua-conoscenza secondo l’ingegnere-filosofo

Nel 1953 Gadda – come collaboratore del Terzo Programma radiofonico della R.A.I. – si trova a compilare un prontuario di Norme per la redazione di un testo radiofonico. In questo bizzarro documento l’ingegnere ormai in pensione offre un catalogo antifrastico dei modi del suo stile. Ecco il punto dedicato al lessico:

Evitare le parole desuete, i modi nuovi o sconosciuti, e in genere un lessico e una semantica arbitraria, tutti quei vocaboli o quelle forme del dire che non risultino probabilmente e sicuramente afferrabili. Figurano tra essi:
a) i modi e i vocaboli antiquati;
b) i modi e i vocaboli di esclusivo uso regionale, provinciale, municipale;
c) i modi e i vocaboli, talora arbitrariamente introdotti nella pagina, della supercultura (p.e. della supercritica), del preziosismo e dello snobismo;
d) i modi e i vocaboli delle diverse tecniche; della specializzazione;
e) i modi e i vocaboli astratti. (SGF I 1090)

Nel raccomandare ai suoi colleghi della R.A.I. una lingua dalla monastica veste denotativa – con una sorta di ironica autofustigazione punto per punto, ma non senza la fiducia nella funzione comunicativa della lingua d’uso –, lo scrittore esclude dal lessico utilizzabile nella comunicazione radiofonica anche i tecnicismi (punto d). Ma questa esclusione-inclusione non è che uno dei capitoli finali di una storia lunga e articolata.

La familiarità di Gadda con il lessico delle scienze e delle tecniche va posta in ovvia relazione con i suoi studi da ingegnere elettrotecnico presso il Politecnico di Milano e con la successiva pratica lavorativa. (1) Parallelamente, fin dai primi tempi il linguaggio tecnico-scientifico è stato uno dei componenti della prosa gaddiana sul piano del lessico. La miscela lessicale trova il suo impiego in quella operazione stilistica cui gli studiosi attribuiscono concordemente il nome di espressionismo, (2) e che consiste nella mescidazione dei tanti ingredienti in una prosa dalla sintassi costantemente complessa e spezzettata – «il pianto dura, ma il singhiozzo è intermittente», ricorda Gianfranco Contini (Contini 1989: 20) –, sovente ellittica e brachilogica, sostenuta da una «qualità lirica del temperamento» che costituisce la «ragione più radicale del frammento narrativo» (Contini 1989: 19). E – sempre secondo Contini – l’inconcludenza diegetica di Gadda e la sua strenua ricerca stilistica sono in stretto rapporto di interdipendenza: «la sua narrativa tiene meno del romanzo tradizionale, inclusa l’appendice neorealistica, che del poème en prose» (Contini 1989: 19). Occorre d’altronde considerare allo stesso tempo la costante tendenza dell’autore a porre in rilievo la sostanza al fondo naturalistica della sua narrazione, (3) che rimane comunque lontana dal divertissement adagiato sull’uso di meri espedienti stilistici.

Il pigmento tecnico-scientifico nella ricetta espressionista segna anche la riflessione saggistica dello scrittore: già nel ’29 Gadda era intervenuto a proposito delle potenzialità mitopoietiche della tecnica nell’universo letterario con uno scritto su Solaria, Le belle lettere e i contributi espressivi delle tecniche. Questo saggio, per altro la sua prima pubblicazione teorica di peso dopo l’ugualmente solariana Apologia manzoniana, non si sofferma soltanto sull’apporto direttamente lessicale dei linguaggi speciali, ma più in generale sulla «questione de’ materiali, cioè delle figure espressive, che le diverse tecniche apportano spaventosamente al magazzino del povero diavolo: dello scrittore: come se al buio botteghino d’un allampanato bouquiniste arrivassero a un tratto quaranta furgoni di Gondrand carichi d’ogni montagna di casse e di cubi, da non saper più dove incantonarli (Le belle lettere, SGF I 477-78). La lingua delle tecniche è da Gadda sentita precipuamente come veicolo di precisione espressiva, sicché lo scrittore che ne facesse uso soverchio potrebbe esporsi al rischio di diventare «Enciclopedia», lo «scrittore Larousse» (SGF I 478). A dimostrare l’infondatezza di questa ipotesi è destinato tutto il resto dello scritto gaddiano, impostato su una dialettica hegeliana scandita da passaggi non tutti di eguale perspicuità.

In sintesi Gadda mette in rilievo, prima, la natura collettiva dell’elaborazione di quanto egli chiama «materiale espressivo» nel comune sforzo indirizzato a un fine di utilità comunicativa: «Le parole tecniche attraccare, ipoteca, rotóre sono accettate non da molti: da tutti» (SGF I 479). Dal momento poi che «L’elaborazione espressiva, nell’ambito proprio d’una tecnica determinata, morde in corpore veritatis – e cioè lavora sui fatti, sugli atti, sulle cose, sulle relazioni, sulla esperienza insomma», essa – organizzandosi in codice di comunicazione – si muove «con avanguardia degli sforzi euristici verso il nuovo, il più esatto, il più proprio, il più rapido, il più conveniente». Ogni linguaggio speciale ha dietro di sé una storia che deriva dalla sua prossimità all’esperienza concreta, e di tale storia, con i suoi echi incrociati, l’utente del linguaggio è in genere ignaro, in conformità con i suoi interessi di immediata utilità, che seguono il veloce progresso della tecnica: ne deriverà dunque una scrittura magari priva di armoniche, ma contraddistinta da una vivida nitidezza che lo scrittore mediocre potrebbe persino invidiare. Ma come agisce il vero scrittore, di fronte al materiale grezzo della tecnica? Così Gadda: «l’artista può ricreare la materia delle tecniche (materia come pesantezza concreta di situazioni espressive già definite e accettate, epperò in senso platonico e forse un tantino bergsoniano) annichilandola e rifacendola per conto suo» (SGF I 485). Naturalmente questa disgregazione deve essere sostenuta da adeguate ragioni, per non riuscire in un tour de force squisitamente stilistico. Lo scrittore può quindi «assumere posizione estetica volutamente, consciamente evasiva rispetto a quella medesima tecnica [quella di cui aveva deciso di servirsi], posizione che o ne riemendi i risultati, o li riassuma nello scorcio della prospettiva, o li releghi nell’indistinto, o loro deneghi validità nell’affermazione di contrastanti valori. Uno xilografo che rappresenti una locomotiva, non la disegnerà certo chiodo per chiodo, quale è consegnata nelle tre proiezioni ortogonali dentro l’archivio dell’ufficio tecnico, presso la casa costruttrice. Potrà lo xilografo non vedervi le ruote, ma un’omerica nebula, preso com’è nell’impeto di raffigurare la corsa trasvolante. Non potrà però munire quella trionfante macchina di ruote quadrate» (SGF I 486). In questo caso l’attività rielaboratrice dello scrittore è governata da un fine conoscitivo, lo stile procede dallo sforzo interpretativo, come viene ribadito nella proposizione saliente del saggio: «il compito del disintegrare e del ricostruire l’espressione emana dalla funzione stessa della conoscenza: è euresi, è attività connaturata alla costruzione gnoseologica» (SGF I 487). E il vocabolo-spia euresi ritorna in forma aggettivale nella conclusione dello scritto che ribadisce con più solenne icasticità la tesi appena esposta: «Tutta la questione d’altronde, come da qualche accenno s’è visto, si riconnette e subordina ad altre e diverse e prima forse ad una, ch’è grama quant’altre: se l’attività estetica sia realmente prescissa, come da taluni nobilmente è stato affermato, dai momenti che sogliamo chiamare prammatici dell’esser nostro o se nel fondo cupo d’ogni rappresentazione sia ritrovabile ancora quello stesso germine euristico che è la sintesi operatrice del reale» (SGF I 488).

Nel saggio solariano, dunque, si può cogliere allo stato embrionale quel programma di deformazione stilistica che solo più avanti muoverà compiutamente la scrittura gaddiana, a quei tempi ancora per molta parte invescata nella temperie bellettristica di cui proprio Solaria è una delle palestre più frequentate. (4)

Quanto alla natura euristica della rappresentazione letteraria, Le belle lettere e i contributi espressivi delle tecniche va messo in rapporto diretto con la posizione filosofica di Gadda rintracciabile nei quaderni della Meditazione milanese, (5) l’atipica opera speculativa che Gadda affianca nel 1928 agli abbozzi per la tesi di laurea in filosofia su Leibniz. (6) La Meditazione intende dimostrare che «il flusso fenomenale si identifica in una deformazione conoscitiva, in un processo conoscitivo. Procedere, conoscere è inserire alcunché nel reale, è, quindi, deformare il reale» (SVP 862-63). Il processo di euresi, pur nella sua autonomia, comporta che l’atto conoscitivo modifichi la realtà: sicché, data la costante naturalistica insita nella narrativa gaddiana, lo scrittore impegnato nella rappresentazione del reale (e quindi, per previa necessità, nella sua conoscenza) è condotto alla deformazione consustanziale all’atto conoscitivo, attivo intervento sui realia che assume sulla pagina evidenza stilistica (e si comprendono così meglio le radici gnoseologiche della deformazione stilistica teorizzata nel saggio su Solaria). Anni dopo, nel saggio Come lavoro uscito su Paragone nel 1949, Gadda fornirà una felice sintesi del processo sopra descritto, maggiormente orientata sul piano dello stile. Anche in questa occasione l’attenzione è puntata sull’iceberg di relazioni storiche che sottostà a ogni parola (si direbbe – bachtinianamente – che se ne metta in luce la pluridiscorsività), (7) per poi ribadire la possibilità per lo scrittore di giocare con la molteplicità storica dei significati: «Le frasi nostre, le nostre parole, sono dei momenti-pause (dei pianerottoli di sosta) d’una fluenza (o d’una ascensione) conoscitiva-espressiva» (Come lavoro, SGF I 437; corsivo mio). L’azione deformante dello scrittore-soggetto conoscente conferisce alle parole un «novo incarico», tanto che «La nova utilizzazione le strazia: la lor figura si deforma, comparativamente all’usato, come d’un elastico teso. Orazio, nell’epistola Humano capiti, ha indicato esser pensabile, attuabile un siffatto impiego della parola già nota: lo spasmo, l’impiego spastico, può comportare una dissoluzione-rinnovazione del valore. L’impreciso ma, nella stessa imprecisione, ricreante uso del popolo non più e non meno che la preziosità meditata dei barocchi, ha tolto a mano bandiera: fiamme in chiesa, diavolo al convento: s’è sfondato il setaccio [in nota: «De’ Cruscanti»]. Non è immanente ai millenni, il vocabolo: non è querce, è una muffa: è un prurito dei millenni» (SGF I 437). Ancora più avanti questa posizione verrà ribadita ed estremizzata nel dialoghetto premesso alla prima edizione in libro del 1963 della Cognizione con il titolo L’Editore chiede venia del recupero (dello stesso anno 1963, e quindi successivo di circa vent’anni alla prima redazione della Cognizione), dove la deformazione stilistica del testo viene sempre meno attribuita all’azione distorcente dell’autore sulla realtà conosciuta e ritratta, trovando piuttosto origine in una perenne disfunzione e asistematicità insita nel reale stesso (ovvero le due ipotesi, scemando la fiducia nella razionalità del soggetto conoscente, tendono a identificarsi, esponendo sempre più la narrazione alla casualità e alla dispersione nel dedalo dei possibili): «il barocco e il grottesco albergano già nelle cose, nelle singole trovate di una fenomenologia a noi esterna: nelle stesse espressioni del costume, nella nozione accettata comunemente dai pochi o dai molti: e nelle lettere, umane o disumane che siano: grottesco e barocco non ascrivibili a una premeditata volontà o tendenza espressiva dell’autore, ma legati alla natura e alla storia […] talché il grido-parola d’ordine “barocco è il G.!”, potrebbe commutarsi nel più ragionevole e più pacato asserto “barocco è il mondo e il G. ne ha percepito e ritratto la baroccaggine”» (Gadda 1987a: 480-82). (8)

Risulta ormai evidente come l’espressionismo gaddiano sia radicato in un groviglio gnoseologico, sul quale le armi congiunte delle risorse stilistiche lanciano il loro assalto interpretativo, destinato a selezionare una catena di significati, destando – nel rispetto della molteplicità del reale – il maggior numero di «armoniche, cioè riferimenti profondi» possibili (Le belle lettere, SGF I 480). A questo tentativo concorre, tra gli altri fenomeni, – ed eccoci tornare al primo obiettivo – il ricorso al lessico tecnico-scientifico, usato da Gadda proprio in direzione contraria alla auspicata (dagli scienziati) nudità denotativa, e sfruttando invece tutta la sua carica di pluridiscorsività radicata nella storia, e in particolare nella concrezione dei paradigmi scientifici e filosofici.

L’impiego di materiale scientifico nel calderone lessicale che anima il tentativo di rappresentazione dell’infinita molteplicità del reale (9) operato da Gadda si inscrive dunque in quel procedimento lucidamente individuato e descritto da Gian Carlo Roscioni, alla definizione del quale lo studioso ha devoluto due espressioni cartesiane, «singula enumerare» e «omnia circumspicere», e che si potrebbe altrimenti indicare come la sindrome linneiana di Gadda. Gli oggetti della narrazione vengono accatastati in serie prive di un ordine intelligibile: «lo spirito classificatorio e fondamentalmente asintattico dell’enumerazione […] prende il sopravvento sulla schematicità astratta della ricostruzione causale» (Roscioni 1995: 34). Cedendo all’impulso sistematico presente ad esempio nel Leibniz del Tractatus de arte combinatoria, Gadda tenta di esperire tutte le sfaccettature del reale, talvolta in modo esplicitamente parodico, come nell’Adalgisa, sfruttando vistosamente le risorse del linguaggio scientifico fino all’estremo della notazione simbolica (ma in contrasto con le formule vacuamente borghesi appena precedenti e sfigurata dal punto esclamativo che segue il denominatore):

la contessa Giulia, dicevo, era donna di elevato sentire, stando alla enunciazione più frequente, e talora invece, eletta gentildonna lombarda di squisito sentire, mentreché vi farò grazia delle

varianti che il calcolo combinatorio ci attesta realizzabili dopo le suddette, dalla permuta di n parole senza senso prese a cinque e cinque. (Adalgisa, RR I 365)

Ma in genere i cataloghi consistono in catene di termini eterogenei, sovente anche cumulati per indicare un solo referente, non senza l’intervento di frequenti glosse epesegetiche nel testo corrente o in nota. Si veda un esempio: «il povero Carlo aveva meticolosamente infilzato gli Scarabei e i Ditischi infiniti della natura, i Cebrioni, i Curculioni, i Cerambrìcidi, Buprèssidi, gli Elatèridi: le fuggitive Cicindèle odorate di rosa e di muschio, lucide come Giovanna d’Arco nella loro corazza di acciaio chiuso, brunito; poi gli infaticati Ateuci e le Silfi, e tutta la genìa salutare dei beccamorti agresti e silvani» (Adalgisa, RR I 520). Le specie di coleotteri si ordinano secondo giochi fonici, suscitano memorie letterarie giocando con il titolo di una commedia plautina (Curculio) e con la mitologia nordica (le Silfi-silfidi), promuovono il paragone irriverente con Giovanna d’Arco, incorrono infine nell’occasionale iperonimo dialettale «beccamorti». Sempre secondo Roscioni, «Il catalogo degli oggetti e dei nomi tende ad arricchirsi indefinitamente, e a diventare il catalogo di tutti gli oggetti e di tutti i nomi: a trasformarsi cioè in un’intera fabbrica, in un completo teatro del mondo. “Singula enumerare” […] postula di necessità un obbiettivo irraggiungibile e continuamente fuorviante: “omnia circumspicere”» (Roscioni 1995: 56). Già nella Meditazione milanese, dopo aver lodato le propensioni sistematicamente tassonomiche di Aristotele e del «sommo Linneo», Gadda teorizzava la necessità per l’artista di non censurare la molteplicità del reale: «Occorre aver attenzione a tutta la realtà complessa per operare buone sintesi. Volendoci restringere a un campo, l’inventore è uno che non trascura rapporti apparsi agli altri insignificanti. Il genio letterario o artistico intuisce cioè lega e sintetizza ed esprime comprendendo dei minima che lo zoppicante scribacchino o il pinturicchio aveva creduto di poter trascurare o non aveva raggiunto» (SVP 843).

Alla luce di tale dichiarazione, non dovrebbe stupire un elenco, risalente ai primi anni ’30, riportato da Roscioni, che è solo piccola parte di una lista di argomenti e problemi da studiare:

Scienze

Mi occuperò prevalentemente:
Fisica. Elettrofisica. Atomistica et ultra. Struttura della materia. Energia. Chimica generale. Biochimica generale.
Geografia. Geologia.
Botanica; flore; climi; ecc. Zoologia – ma con intenti descrittivi. Astrofisica e astronomia. Sistemi stellari.
Soprattutto: Biologia. Medicina. Neurologia. Psichiatria. Psicanalisi. (Psicofisica. Psicotecnica). (Roscioni 1995: 58)

Sarebbe sin troppo facile, data l’abbondanza, riconoscere proprio in queste discipline il serbatoio lessicale cui Gadda attinge per la lingua della sua opera narrativa. È comunque importante notare come il lessico afferente alle discipline studiate dall’autore a livello universitario non goda – anche se cospicuamente rappresentato – della maggioranza assoluta nell’ambito dei vocabolari settoriali, trovandosi esso a convivere con una forte presenza di tecnicismi provenienti dalla medicina, dalla biologia, dalla zoologia e dalla botanica. Come precisa ancora Roscioni: «Che anche nelle pagine più ariose e più liriche di Gadda sia possibile individuare le tracce degli anni trascorsi nelle aule del Politecnico, nei cantieri e nelle centrali elettriche, è certo. Ma un attento esame del lessico, delle metafore e, in generale, dell’imagerie gaddiana rivela che il peso di queste esperienze non è certo esorbitante, e non supera, per esempio, quello di scienze come la medicina o la fisiologia. Il contributo della filosofia è senz’altro più rilevante di quello dell’ingegneria idraulica, così come quello della gastronomia supera, forse, quello di tutte le tecnologie» (Roscioni 1995: 57). Pertanto «Più che di duplicità di formazione o d’interessi, si dovrebbe parlare di tendenza all’assimilazione di tutto lo scibile», come infatti dimostrava la tabella citata poco sopra. È necessario dunque indagare l’incidenza relativa e il ruolo nell’impasto stilistico del lessico tecnico-scientifico, con la consapevolezza che tale ruolo non può essere astratto dalla tensione enciclopedica e dalla gemmazione plurilinguistica, ma deve essere considerato in combinazione con le altre componenti del sistema per evitare il rischio di un’eccessiva arbitrarietà interpretativa: «Qualsiasi approccio univoco rischia infatti di essere drasticarnente e arbitrariamente selettivo, mentre il pastiche ammette soltanto una comprehensio di tutti i suoi ingredienti, una presa di possesso globale. Chi voglia isolare nell’opera di Gadda, gli elementi linguistici o tematici che servano di base a un’interpretazione troppo rigidamente orientata, se ha proceduto a un inventario un po’ sistematico del proprio materiale di studio, si troverà, a lavoro ultimato, il tavolo ingombro di schede che infirmano le sue conclusioni, che confutano la sua tesi» (Roscioni 1995: 144).

2. Umorismo facile e impossibile specificazione del caos

Non è facile affrontare un autore come Gadda eseguendo un’analisi diacronica della sua produzione narrativa. I testi si incrociano tra di loro, vengono accantonati e ripresi a lacerti, passano da libro a libro, e non sempre per iniziativa dello scrittore, ma magari con un suo infastidito avallo. Ritengo pertanto che sia utile procedere isolando due blocchi cronologici considerati come sincronici al loro interno: un primo periodo che va dai primi scritti fino al Castello di Udine, e un secondo che si muove dal ’37-’38, gli anni decisivi che segnano il turning point della scrittura gaddiana con la prima redazione della Cognizione, per giungere alle edizioni in volume del Pasticciaccio (1957) e Cognizione (1963). (10) La decisione si giustifica anche per la naturale sincronicità della scrittura gaddiana, continuamente traversata non solo da nuclei tematici ricorrenti, ma anche da tic stilistici, da ossessivi ritorni lessicali (si pensi a tutta la serie pasticcio, groviglio, gnommero, ecc., e – per il lessico scientifico – alla ricorsività di epigastro/epigastrico, lùnula, volendo citare soltanto alcuni casi), in modo tale che una trattazione del problema per exempla conviene più di una serie di elenchi con anodina ambizione di esaustività.

Nei primi esperimenti narrativi, il lessico tecnico-scientifico è presente in misura assai labile. Nel Cahier d’études per il Racconto italiano di ignoto del novecento, l’unica occorrenza notevole consiste in un lungo excursus a proposito del trasporto di elettricità, occasionato da un episodio del racconto, un colloquio sull’elettrificazione delle ferrovie, da cui si snoda un’illustrazione che potrebbe benissimo comparire negli scritti di divulgazione tecnica dello stesso autore. Se ne riportano l’esordio e alcuni stralci:

Quanto alle condutture terrestri, (nel caso che il nostro lettore si interessi dell’argomento e desiderosi di servirlo prontamente a domicilio senza scartabellamenti ulteriori) possiamo fornirgli i dati seguenti, sufficientemente aggiornati: (1924)
Un trasporto trifase di cinquantamila kilowatt, effettuato a centotrenta kilovolt, costa circa centosessanta mila lire per kilometro in terreno di pianura (Lombardia).
[…]
Le magagne del cos φ si guariscono inserendo nel circuito, alle stazioni ricevitrici, degli alternatori che girano a vuoto e che si sovreccitano. In tali condizioni essi forniscono le così dette correnti dewattate in anticipo che, unitamente alle correnti derivanti dalla capacitanza della linea, servono a migliorare il fattore di potenza.
[…]
Per linee ad altissima tensione, come le citate, è abbastanza notevole anche il cosiddetto effetto pellicola (o skin effect) per cui la sezione utile del conduttore viene diminuita di un notevole percento. Il coefficiente di rendimento dovuto a tale inconveniente è di 0.96. Le equazioni che interessano il fenomeno sono di primo grado e sono state dettate da Lord Kelvin.
[…]
Galileo aveva pensato che la curva descritta dai conduttori fosse una parabola. L’analisi infinitesimale ci dimostra che è in realtà una curva di grado superiore al secondo: e venne chiamata catenaria (chaînette). Praticamente però si trascurano i termini infinitesimi superiori al secondo, e si fanno i conti alla Galileo. Sicché non aveva tutti i torti e, per quanto era in lui, aveva fatto anche troppo. (Racconto, SVP 454-56)

Si può notare come qui la prosa gaddiana, già intrisa dall’ossessiva ansia del dettaglio, sia però priva di intemperanze espressive, come d’altronde la massima parte degli appunti narrativi del Cahier d’études.

Un caso apparentemente simile si può rinvenire anche nella Meccanica, dove viene dato per esteso il responso di una visita medica. Questa volta però la funzione del linguaggio scientifico non è pragmaticamente referenziale, bensì esso rappresenta un pauroso geroglifico per il personaggio oggetto della visita, Luigi, destinato a morire per tisi:

E il responso fu degno dell’oracolo: un foglietto intestato dove, subito dopo le sue proprie generalità poté leggere:

Reperto microscopico all’esame degli espettorati:
a) Decolorazione all’ac. nitrico 33% e rinvenimento alla fucsina secondo Ziehl-Neelsen per il b. di Koch: Non eseguito
b) Decolorazione alla potassa caust. e rinvenimento alla eosina secondo Balzer, per le fibre elastiche: Non eseguito

Reperto radiologico: Non eseguito

Referto medico:
Statura: 1.62 – Peso: 60 – Capacità polmonare allo spirometro di Hutchinson: 2.69.
Polso: normale. Temper.: normale.
Stato fisico generale: discreto.
Condizioni del cuore: normali. Ipertensione arteriosa: 165.
Accusa leggera traspirazione notturna, facile stanchezza, inappetenza; inquietudine, abbattimento.
Alla visita, lieve punta dolorifica da pressione digitale in corrispondenza fossa sopraclavicolare sinistra. Tosse intermittente, secca. Voce risonante, appena egofònica. Alla percussione digito-digitale lieve oscurità apicale sinistra. Murmure vescicolare quasi normale: respirazione più rude ed espirazione prolungata in corrispondenza apice sinistro. Dubbia parvenza di rantolo sottocrepitante.

Esame delle orine:
Albuminuria (tracce) – Fosfaturia (tracce).

Diagnosi: Sospetto di infiltrazione tubercolare iniziale all’apice sinistro. (Meccanica, RR II 523-24)

E infatti itermini medici, le scarse cognizioni scientifiche si intrecciano nella mente di Luigi come un groviglio irrisolvibile: «Sapeva il parenchima, il miocardio, i leucociti. E aveva letto che l’aneurisma di Rasmussen è, talvolta, la tragica fine del processo morboso, quando la caverna scopre un’arteria e il male dissolvitore la intacca» (RR II 524). La scrittura si tende espressivamente, anche in virtù di effetti fonici (la ripetizione del nesso occlusiva + vibrante alveolare, l’abbondanza delle sibilanti seguite da altre consonanti) per significare il rovello mentale di Luigi: «certe designazioni imparucchiate dallo studente o scartabellando ne’ libri, ripetute poi a memoria, nella solitudine, da solo, per curiosità e vanagloria d’autodidatta, gli si rimescolavano dentro il cervello in una sarabanda paurosa di suoni e d’imagini: le caverne, i tubercoli, i rantoli, i suoni anforici, il timbro egofonico [notare la successione di sdrucciole], cioè la voce di capra, gli espettorati, la gelatina di lamponi, il rumore di pentola fessa di Laënnec, lo stadio necrotico-caseoso, lo sfacelo del parenchima, Rasmussen, il galoppo di Potain: gli pareva che fosse un galoppo vertiginoso, verso un baratro nero» (RR II 525). Le denominazioni scientifiche si mescidano con metafore zoologiche, culinarie, meccaniche, per sfociare nell’immagine lirica di chiusura. Nel finale del romanzo, un analogo destino subiscono termini matematici, questa volta con tono ironico verso il giovane Franco, rampollo della borghesia milanese, che ha abbandonato gli studi con la benedizione dei genitori: «E dimenticò subito nell’esultante vigore della sua pubertà, i logogrifi di Neper di Carnot e di Briggs e i funambolismi bombati di un certo Ippòcrate, il quale, escogitate certe lùnule, sostenne (e sostengono ancora) equivaler elleno all’area del triangolo retto, di che germinarono» (RR II 546). La figura geometrica della lunula (molto cara a Gadda, sì da essere ripresa con tanto di definizioni nel Castello di Udine e nell’Adalgisa, poi nella Cognizione) viene indicata dalla fantasiosa espressione «funambolismo bombato», mentre l’enunciazione del teorema è punteggiata da arcaismi, «elleno», «di che» (che Gadda faccia il verso all’amato Galileo?).

Nei primi libri di Gadda non manca (ma neppure è frequente) un impiego metaforico dei tecnicismi. Si veda un esempio: «capii che [un pompiere] si era sporto per errore, forse attratto dal campo magnetico rotante di alcune danzatrici, i cui piedi sembravano volersi disfare, ora al nostro indirizzo ora al suo, di una modesta ciabatta» (Teatro, RR I 13). La celebre invenzione di Galileo Ferraris (sulla quale ancora oggi sono basati la maggior parte dei motori elettrici, in particolare degli elettrodomestici) serve a rendere il tipo di movimento circolare delle danzatrici. (11) Altrove la metafora proviene dalla geometria, innestandosi su un termine geologico: «tetraedri e romboedri di dolomia, cubi dal bianco calcare» (Manovre di artiglieria, RR I 28), oppure «Le carte di tiro recano gli òvuli rossi, intersezioni del conoide [di deiezione] lungispruzzante con la falda della pianura, o del monte» (RR I 31). Si noti come al tecnicismo «conoide» segua il monstrum «lungispruzzante», parodicamente modellato sui composti aggettivo/avverbio-participio tipici del greco antico e talvolta imitati nelle traduzioni italiane, per esempio dei poemi epici.

Assai più spesso però il termine scientifico, quando non ha un’immediata efficacia referenziale (12) (e sarà il caso dei tecnicismi meno specialistici, ad esempio di quelli, piuttosto frequenti, legati alla pratica militare), si innesta da solo o in serie su un oggetto della narrazione per specificarne metastaticamente – in un delirio di precisazione – caratteri sempre meno necessari all’economia del plot, oppure semplicemente si moltiplica a partire da un primo termine di cui viene scandagliata la contigua area lessicale, come si può dimostrare grazie ad alcuni esempi. In un caso, i tecnicismi descrivono la sudorazione del direttore d’orchestra in frack: «Si ebbe così un ben meritato castigo, dacché le [«le parti inamidate della persona»] ridusse impresentabili, macerandole di acidi della serie cromatica e della serie grassa, di ammino-acidi, di composti albuminoidi varî e di altre sostanze azotate» (Teatro, RR I 14). La realtà viene spezzettata con iperbolica precisione, qui con intenti ironici. E ancora ironica, ma più gratuita, è l’intenzione di questa altra serie, un autentico elenco – per la verità – di metalli con cui rimediare al malocchio: «E siccome ero un po’ impressionabile, i miei amici mi suggerivano, in simili frangenti, di toccare con due o tre polpastrelli un pizzico di qualche solfuro od ossido o carbonato o silicato metallico come pirite, blenda, calamina, bauxite, siderite, galena, leucite, dolomina, o anche ottone, o meglio ancora ferro omogeneo» (Cinema, RR I 64). Altrove i termini tecnici sono inglobati in una sintassi arcaica e in un generale tono aulico (apocopi postvocaliche delle preposizioni articolate, troncamento del verbo) di stampo eroicomico: «Fu allora che anche però, mi duole di non poter omettere d’un così volgare incidente, che ne’ tamburi de’ freni le potenti molle schiacciarono dilatandosi le ciabatte loro contro il cavo della puleggia, e inchiodaron le razze» (Madonna dei Filosofi, RR I 103). Nella prosa lirica di Tendo al mio fine, in apertura al Castello di Udine, tra gli arcaismi e gli aulicismi trovano spazio due tecnicismi botanici, in un estremo di mescidazione, ulteriormente rilevata dalla congiunzione et che li separa: «Lodarò la spica e ’l corimbo, et il frùtice, e ’l pane» (RR I 121) (13). In Polemiche e pace nel direttissimo, l’abbandono alla lista di termini tecnici, dereferenzializzati dal vortice numerico (e infatti il mondo è «trasfigurabile»), precede il delirio onirico dell’ingegnere costruttore di aquedotti, che sta prendendo sonno: «E sotto al torbido vaporare delle nùvole, erano fughe di pilastri e d’archi. – Ma via! Non c’erano soltanto pompe e tubi Mannesmann nel trasfigurabile mondo, curve di sei pollici, riduzioni di tre a due, saracinesche di quattro, flange di otto» (RR I 258).

Il tecnicismo può anche trovarsi isolato: così avviene nel Castello di Udine per diversi termini (sette), poi spiegati in nota dall’autore stesso. Le note di tipo tecnico sono comunque in netta minoranza nel complesso della discreta mole di annotazioni fittiziamente attribuite al pedante Feo Averrois. Secondo Manuela Bertone «le glosse in cui si traducono espressioni attinte dall’italiano arcaico, dal latino, dal greco e dal francese e poi dai linguaggi speciali delle scienze e delle tecniche […] diventano luogo di chiarificazione e di ristabilimento dell’equilibrio pregiudicato dalla deviazione linguistica contenuta dal testo a rappresentata dall’uso di codici eccentrici rispetto alla norma. Paradossalmente, inoltre, la nota funziona da riequilibratore del senso di un testo di cui essa stessa aveva turbato la stabilità strutturale, interrompendolo». La nota (di questo tipo) risulta dunque a un tempo «elemento di complicanza e di semplificazione del testo narrativo». (14) In effetti la funzione epesegetica è sufficientemente rispettata: le note tecniche non sono più di tanto divaganti e soccorrono nell’interpretazione del testo (dove però stava, dunque, una effettiva difficoltà). Di fronte a una frase di difficile intelligibilità come «Nuvoli d’incenso rotondo si moruleranno verso i profeti e i pontefici grassi» (Imagine di Calvi, RR I 168), la nota (a «si moruleranno») viene in aiuto spiegando: «Morulazione (t. tecn.) è nella biogènesi il processo de’ consecutivi sdoppiamenti d’una cellula fecondata. Da una due, da due quattro, ecc. ecc. È una fase dello sviluppo del feto. I nùvoli d’incenso o di fumo vengono a morularsi in quanto un globo ne dà due, e due ne dàn quattro, ecc. ecc. (Fumo delle ciminiere, neri incendi de’ pozzi petroliferi). Etimologicamente da mora, ch’è una sorta di frutto: (p.e. del gelso)» (RR I 177). Come si può vedere, l’autore chiarifica anche l’uso metaforico del termine, come pure avviene in quest’altro caso: «Il lungo tragitto de’ sibili […] dopo un’indecifrabile pausa, fading d’arrivo, si sfasciava fradicio sulle ridotte nemiche» (RR I 174). E la nota: «fading d’arrivo: t. tecnico in radiofonia = attenuazione del suono. Il sibilo del proietto viene a cessare negli attimi che precedono lo scoppio e cioè per quanto dura il tempo della penetrazione nel terreno, o comunque il termine infinitesimo della percussione» (RR I 178). Da citare è anche la nota a lunula, termine già incontrato nella Meccanica, e che tornerà, di nuovo – seppure più brevemente – annotato, nell’Adalgisa e – più volte – nella Cognizione: «Lùnula, detta di Ippocrate, è la porzione del piano definita da un arco di circonferenza e dalla semicirconferenza che curerai tracciare prendendo a diametro la corda di quello. Questa figura è quadrabile (per comparazione e diffalco) senza il sussidio del calcolo integrale. E la sua quadratura occupò anche Leonardo nel De ludo geometrico» (Note a Crociera mediterranea, RR I 216). Si noti come qui la spiegazione eccede le necessità del testo (cui per altro la nota nemmeno si riferisce direttamente, a differenza di quelle appena viste che illustrano la funzione del termine nel testo), dove il termine era impiegato semplicemente per definire un tipo di decorazione.

Un ulteriore impiego del linguaggio tecnico-scientifico nel Castello di Udine si riscontra quando termini legati allo studio universitario dell’ingegneria si ripresentano negli scritti riferiti alla guerra o al periodo di prigionia in Germania dell’autore, acquisendo così valore sentimentale. In un primo tempo, per la verità, i tecnicismi segnano piuttosto il distacco dalla società in tempo di pace: «Dimenticai perfino le aule del Politenico […]. Dimenticai le tavole di proiettiva coi loro inviluppi di linee: o gli inviluppi divennero dei gomitoli, ingarbugliati dal gatto. – E alcuni de’ miei più rari e cari integrali» (Dal castello di Udine, RR I 151). Ma passato l’entusiasmo per la guerra, e sopraggiunto il tempo doloroso della prigionia, i tecnicismi ritornano, pregni di malinconia e dignità, legati a una figura di tenente moribondo: «Parlando gli dissi che mi spiaceva di non aver nota ancora la formula cardànica per la risoluzione generale dell’equazione di terzo grado». E più avanti: «Vedo ancora quella mano tremare sul foglio e con dignità pura quei poveri occhi dirmi, dirmi dietro le lenti, della risoluzione di Cardàno» (Imagine di Calvi, RR I 172).

Complessivamente, l’impressione è che nel primo Gadda l’uso dei tecnicismi, come degli altri ingredienti della miscela plurilinguistica, dia miglior esito quando muove verso una sia pure impraticabile precisazione della realtà caotica da rappresentare sulla pagina, aumentando la carica pluridiscorsiva fino alla dispersione, e conseguendo talvolta effetti di contrastato lirismo. Non altrettanto efficace si rivela invece la prosa gaddiana quando mette le sue risorse espressive al servizio di un umorismo bilioso e sostenuto, polemico verso i vizi di quella classe borghese cui l’autore stesso appartiene. Una vena satirica che si colora spesso di eccessiva faciloneria, di freddurismo ottocentesco, come nella prosa di Cinema (La Madonna dei Filosofi) o di Polemiche e pace nel direttissimo (Il castello di Udine). Resta qualche felice eccezione, come il seguente spassoso passo tratto da Teatro, dove l’ironia si abbatte sull’appuntamento mondano del melodramma – e sull’idea allora assai in voga del melodramma totale, di origine wagneriana –, viaggiando sulle ali tra l’altro – di diversi tecnicismi:

Perché un piacere alla volta?
Qui l’occhio vede, l’orecchio sente, il muscolo freme, preso nell’émpito della mimesi terpsicorea. Oh! ma l’olfatto e il gusto e il tatto e tutto il resto, perché assisteranno negletti al tripudio dei favoriti?
In un ulteriore stadio evolutivo del glorioso melodramma a questo vizio sarà fatto riparo. Per il tatto un bagno tepido ai piedi, con rubinetto di regolazione; a richiesta, un apparecchio cinesiterapico, giovevolissimo alla salute. Per l’olfatto, un odorino iniziale di cetrioli sott’aceto darà la stura a una successione fantasmagorica di altri odorini. Essi verranno dal basso: una batteria di potenti aspiratori li tirerà di cucina, un gioco di valvole li immetterà nella sala secondo schemi sinfonici: esaleranno poi dall’alto, a lor comodo, in virtù della nota legge fisica del tiraggio. (Teatro, RR I 116)

3. Il plurilinguismo come processo euristico e l’individuazione del dolore

Nei tre principali libri di Gadda, l’Adalgisa, il Pasticciaccio e la Cognizione, il linguaggio tecnico-scientifico è presente in misura un poco più cospicua rispetto alle opere sinora considerate. (15) Cambia però soprattutto – almeno in buona parte – la natura del suo impiego: diminuisce ulteriormente il grado di referenzialità dei tecnicismi, che sono sempre più spesso metaforici; aumenta la furia espressiva che trascina accostamenti imprevedibili, portando spesso alla creazione di pseudotecnicismi (come di molte altre invenzioni verbali di origine invece dialettale); acquisisce ulteriore importanza la componente fonica che spesso determina la scelta del vocabolo in ordine a una almeno apparente autonomia del significante (si pensi anche soltanto al celebre sogno del brigadiere nel Pasticciaccio, con le mutazioni del «topazio»).

Si può iniziare l’analisi censendo una caratteristica peculiare all’Adalgisa, che non s’incontra – se non in minima misura – altrove: ci si riferisce alla presenza di note sovente lunghissime, (16) spesso riguardanti termini scientifici. Queste note acquisiscono non di rado una totale autonomia, prolungandosi per pagine e pagine pur essendo partite da un minimo accenno contenuto nel testo (esemplare è la smisurata nota su Napoleone), tanto da palesarsi come artifici centrifughi destinati a suggerire la sfuggente molteplicità del reale, l’inestricabile groviglio conoscitivo, con una rinuncia pressoché totale all’intento epesegetico ancora presente di quando in quando nelle note del Castello di Udine. Rispetto a esse, le note dell’Adalgisa – dal punto di vista della misura – possono risultare di analoga estensione, ma anche superarle di molto fino a giungere al paio di pagine. Di dimensioni modeste è per esempio la glossa a cracking, usato metaforicarnente nel testo: «Cracking: rottura, frantumazione (degli idrocarburi pesanti nella raffinazione dei petroli: da to crack = spaccare, frantumare con romore: e intr. spaccarsi con romore, andare a pezzi, come in franc. craquer» (Adalgisa, RR I 336). Più lunga invece la nota a estrusione kimberlitica, che oltre a fornire spiegazioni scientifiche, si dilunga in ragguagli di carattere storico (RR I 337). La massima ampiezza viene raggiunta da una nota al seguente passo (che contiene per altro diversi termini scientifici) dell’ultimo racconto dell’Adalgisa: «Quelli [i ditischi] intanto bucarono via l’acqua come siluretti felici, scampati nei roridi e verdi regni, fra i capegli dell’erbe e dell’alghe: salvi dal loro profilo ellittico o parellittico, che offre, credo, un minimum di resistenza, che segna un optimum della forma natante. E devono aver raggiunto quest’ottimo nella pertinace evoluzione della discendenza, in un loro amore del meglio e poi del perfetto, educendo dalla grossolanità primigenia il garbo del capo, del corsaletto e dell’èlitre, sforzandosi di tendere, tendendo all’elisse, entro paludi, o gore morte nelle golene de’ fiumi: ogni acqua ferma un bacino da esperimenti, ogni specchio livido un mondo da perforare col pensiero: traverso generazioni e millenni raggiungendo il loro laborioso integrale isoperimetrico» (RR I 519). Partendo dal termine scientifico finale Gadda costruisce una nota che definisce il suo oggetto, ne delinea la storia e quindi si intrattiene nella discussione di altri problemi algebrici, non mancando di fornire dati biografici su diversi scienziati (RR I 558-59). In altri casi la nota si invischia addirittura nella risoluzione di problemi con tanto di formule, come accade nel commento di un termine inserito nel testo con funzione metaforica – e con tono piuttosto ironico –, in questo passo: «La groppa [del cavallo], col filone della schiena, faceva una corda molla da non dire, una catenaria, se più vi piace: ma ladina molto, però» (RR I 483). Ed ecco la nota:

«Catenaria» è la figura di equilibrio della catena sospesa per i due capi: (franc. chaînette, ingl. catenary curve).
è la curva secondo cui si dispone un filo pesante, omogeneo, flessibile, inestensibile, tenuto per i due estremi A e B, nel campo della gravitazione terrestre. L’equazione della catenaria è cos iperb. , ove si denomina a la distanza, dall’asse x, del punto centrale ed imo, sedente sull’asse y. È curva simmetrica rispetto ad y. Galileo, in un geniale errore, aveva assimilato la catenaria fisica all’arco centrale della parabola. E di fatto, se te tu sviluppi la y in serie di Stirling-Mac Laurin, e te tu trascuri i termini (trascurabilissimi ne’ computi applicativi) di grado della x superiore al secondo, te tu ne cavi l’equazione , che è l’equazione d’una parabola. Il che si pratica appunto nel calcolo meccanico delle funicolari e delle linee elettriche aeree, cioè sospese. (Adalgisa, RR I 502-03) (17)

Si può vedere come la nota risulti non poco turbativa per la lettura del testo corrente, ammesso che il lettore abbia intenzione, e sia in grado, di tenere testa alle formule. La volontà dell’autore non è qui certo quella di chiarificare un testo d’altronde facilmente comprensibile con un minimo dispendio ragionativo, ma di allargare l’obiettivo della scrittura fino ad abbracciare il più alto numero possibile di sfaccettature del reale, senza rinunciare per di più, anche nell’ambito di una prosa di stampo manualistico, a qualche intemperanza linguistica, come il toscanismo «te tu».

Sempre restando ai tecnicismi nell’Adalgisa, un certo numero di essi viene impiegato nell’ambito di ironiche stigmatizzazioni dell’aura culturale del Politecnico di Milano (il «noster Politeknik»), luogo deputato degli studi dei rampolli di quella borghesia sulla quale cadono gli strali satirici di Gadda: «I politecnici sgranavan fuora i loro diplomabili fagoli, inturgidite sìlique a ogni rinnovata stagione: il laborioso quinquennio si sfaccettava hegelianamente in un poliedro di esatte: oggi la teoria degli errori e domani la teoria dell’elasticità.... e dopodomani il lavoro.... il lavoro» (RR I 412). Ed ecco il profilo psicologico di un giovane ingegnere: «Neppure la Biblioteca Linguistica ebbe virtù a mutare o attenuare, nell’ingegnere Valerio Caviggioni, la determinatezza severa dello sguardo, l’attitudine risoluta, i modi indaffarati, precìpiti verso un appuntamento o un telefono, come di uomo che cammini diritto alla su’ strada, gli occhi e il pensiero intenti, e direi polarizzati, ad un fine. Il suo fine era il più luminoso dei fini: la luce elettrica» (RR I 415-16). Il tema torna nel racconto Un «concerto» di centoventi professori, dove protagonista è sempre il neoingegnere Valerio, ragazzo di «forbitezza logaritmica» (RR I 459), della cui ossessiva attitudine al calcolo viene dato il seguente divertito ritratto:

Dal taschino della giacca, oltre che il casto angoluccio d’un suo fazzoletto color albicocca, gli sporgeva un piccolo regolo calcolatore, ch’egli non dimenticava mai d’introdurvi, o di lasciarvi, nemmeno quando dava licenza ai fantasmi di pistoni e di manovelle aventi lor nido nel suo bel cranio ragionativo di dolicocefalo biondo, dai folti e lisci capelli. È noto che gli ingegneri, di tanto in tanto, sentono il bisogno di calcolare qualche cosa: la spinta trasmessa dal pistone di un compressore, ad esempio: o la resistenza di un fondo di cilindro, a due o a quattro tempi: i consumi di carburante, la durata della fase di lavaggio.... e di qualunque altra fase del resto....: altre volte si tratta di eccitazione, tensione, capacità, reattanza, impendenza....: e per calcolare, è chiaro, hanno bisogno del regolo. Solo ai bagni di mare, a Spotorno, Valerio si separava dal regolo: dato che i tuffi, la salsedine, potrebbero ledere la scala: o ingranare il cursore. Difficilmente, poi, si arriverebbe a cavare un taschino dalla mammella sinistra. (RR I 450-51)

Se, nel passo appena visto, il plurilinguismo era limitato al settore della scienza, è invece vero che solitamente la lingua di Gadda orchestra una caotica contaminazione dell’eterogeneo materiale impiegato. Un fenomeno in cui tale contaminazione può essere facilmente rinvenuta è la creazione di pseudotecnicismi. Tornando al 1933, nel racconto I viaggi di Gulliver, cioè del Gaddus, in tangenza tematica con la Cognizione – di cui anzi costituisce un incunabolo –, si trova un ottimo esempio del fenomeno in questione: «Altri infetidirono nel commercio del borbonzola, sorta di odorosissimo e pedagno escremento venato d’un suo borbomiceto verde-azzurro che ne fa ghiotti i deglutitori sua» (RR II 955). Attaccando con ferocia il detestato gorgonzola, come poi accadrà nuovamente in un noto passaggio della Cognizione (dove il formaggio diventa, con travestimento ispanizzante, «croconsuelo»), Gadda escogita la neoformazione borbomiceto, composto dal già deformato borbonzola – con il quale si attua un gioco di richiamo fonico – e di micete, termine botanico per fungo, ottenendo una creatura linguistica in cui l’odio gaddiano per il fetido formaggio anima e motiva l’oltranza formativa.

Tanti altri potrebbero essere gli esempi. Lo pseudotecnicismo è spesso trascinato da un termine scientifico proprio che lo accompagna nel testo, come in alcuni dei casi elencati di seguito: «Iperasparago» («cuberà mentalmente l’inusitata cilindratura dell’Iperasparago, del Nembroth degli asparagi», Adalgisa, RR I 309); «ittide» («sia l’ittide che l’echinoderma», Gadda 1987a: 86: ittide è un grecismo alla maniera scientifica – per pesce – di conio gaddiano, anche se in zoologia è attestato nel significato di donnola, martora); «Boletus Atrox Linnaei» («Escluso infallibilmente dalla colta il Boletus Atrox Linnaei, che somiglia il Boletus Edulis come un farabutto alla propria carta d’identità», Gadda 1987a: 403: invenzione gaddiana, modellata sul vicino «Boletus edulis» e indicante probabilmente il Boletus satanas); «Peronospera banzavoisi» (Gadda 1987a: 7) (lieve pseudolat. indicante una malattia del per altro fittizio «banzavois», modificazione di peronospora con effetto di camuffamento se è vero che la fenomenologia descritta da Gadda riporta più ad altre malattie che al noto fungo parassita); «capillotomica» («capillotomica dialessi» in Pasticciaccio, RR II 185: scherzoso composto del lat. capillus e del gr. temno, «che spacca un capello in più parti»); «criptorutto nasativo» (Pasticciaccio, RR II 189); «facies basedowoide» (Accoppiamenti giudiziosi, RR II 799) (pseudolat. medico: «aspetto di chi è affetto dal morbo di Basedow»). In un caso l’invenzione è segnalata, con antifrastica ironia, come un prodotto della più aggiornata terminologia: «si seguitò a credere e a sostenere, a Lukones, fosse stata la spada del pesce-spada a perforargli la parete del duodeno, all’incontro di una svolta pericolosissima, che i notomisti la gabellano, come sogliono, per ansa duodenale o lobo duodenale del gastrico, o collo anseàtico del perigurdio, questo nella terminologia più recente» (Gadda 1987a: 95-96). L’ironico prodotto della terminologia più recente, «perigurdio» (per altro attribuita a scienziati definiti con vocabolo arcaico «notomisti») è invece detto in un appunto d’autore «Vocabolo gaddiano maccheronico», ideato, secondo Emilio Manzotti, «forse sulla scorta dei Périgourdins di Diderot in Jaques le fataliste et son maitre […]: non gli “abitanti del Périgord”, ma gli “adoratori della gourde o fiasca (in attesa della dea, attorno alla tavola (péri-); donde in C[ognizione] gurdio come metafora di “stomaco” e perigurdio, sul modello di pericardio, per la “regione attorno allo stomaco”» (Gadda 1987a: 96, r. 1473).

Non di rado, i tecnicismi si presentano pressoché totalmente disimpegnati dalla referenzialità, serializzati in catene giustificate da giochi fonici o dalla propagazione semantica – magari originata da un primo uso metaforico –, coinvolti in un vortice di altri termini deputati a sminuirne la capacità denotativa. Ad esempio è la suggestione astronomica a sostenere questo passo dell’Adalgisa: «Talché, nere [le zie «insalivatrici»], dopo qualche prima incertezza gravitazionale sui più timorati esagoni d’anticamera, (indi gabinetti), erano oggimai pervenute a orbitare con regolarità copernicana nel proliferante piano dell’eclittica demarpiònica» (RR I 359). E poco più avanti si assiste allo scambio tra le attribuzioni metaforiche dei locali dell’appartamento (visti come un corpo umano, con l’aggiunta di una metafora elettrotecnica) e le parti reali del corpo della domestica: «E quella specie di tromba d’Eustachio che era il passaggio fra latrina e cucina fungeva da condensatore in stazione d’arrivo, e ingigantiva il messaggio provocando repentini sbalzi nel regime di circolo (sanguigno-respiratorio) della conturbata Giovanna, la quale soffriva di arteriosclerosi, e bloccando la peristalsi d’un esofago piuttosto delicato, alle prese con una patata» (RR I 360). In una occasione Gadda giunge, con la mescolanza di registri e la fusione-incrocio delle parole, a rendere quell’idea di propagazione caotica insita nella stessa metafora dominante: «Talché il gambero, come sempre i suoi confratelli, fu costituito in totem: quindi in dogma: e per quella capacità iperbatica e permeatrice di ogni tessuto, ch’è d’ogni nuovo dogma o neoplasma o neo-gambero, ovverosia carcinoma, o canchero, si propagò e divulgò in breve tempo, e in modo mirabile nel soma della somaresca tribù» (RR I 491). Altrove la metafora algebrica, originata da una vicinanza tematica (lo studente è alle prese con studi aritmetici, con i «rognosi radicali») illustra ironicamente le imprese poco ortodosse di un ragazzo di dubbie buone maniere: «Una terza caratteristica di Luciano, indagare con un ditino, ai momenti di più affligente aritmetica o di più sconturbante “amore – ’e chisto core”, nel segreto ricettacolo dell’una o dell’altra delle cavità nasali, da tirarne auspici ed oroscopi di sempre più rognosi radicali: oroscopi che dopo un accurato trattamento, un po’ da speziale omeopatico, proiettava con occhio ad infinito in una dimensione astratta dello spazio, raggiungibile forse, dalla componente immaginaria del quaternione di Hamilton» (Accoppiamenti giudiziosi, RR II 910).

Bisogna comunque osservare che non sempre le propagazioni o gli accostamenti inusitati di tecnicismi con materiale lessicale apparentemente incompatibile sono di natura metaforica. Spesso il punto di partenza è denotativamente legato a un qualche oggetto concreto della narrazione (magari minimo, invisibile o imprevisto), ma non per questo il testo guadagna in referenzialità, come si può vedere da diversi esempi. Ecco che un discorso del medico, nella Cognizione, alterna verbi pittoreschi o inusitati con espressioni scientifiche pronunciate però in una frammentazione sintattica che le rende glossolaliche, anche per il rincorrersi di cellule foniche: «Il gastrentèrico è poi condannato a maciullare, gramolare, espellere.... La peptonizzazione degli albuminoidi!.... E il fegato!.... E il pancreas!.... l’amidificazione dei grassi!.... la saccarificazione degli amidi e dei glucosi!.... una parola!.... Vorrei veder loro!....» (Gadda 1987a: 84-85). Analogo materiale lessicale si trova più avanti, con l’aggiunta di una comparazione sempre di ambito scientifico: «lo stomaco era tutto messo in giulebbe, e andava dietro come un disperato ameboide a mantrugiare e a peptonizzare l’ossobuco. La peristalsi veniva via con un andazzo trionfale» (Gadda 1987a: 347). Si noti l’accostamento dei tecnicismi all’arcaismo letterario mantrugiare e alle locuzioni andare dietro a e venire via, tipiche del parlato. Nell’Adalgisa poi è il nome di un prodotto farmaceutico a variare in virtù di continue trasformazioni combinatorie dei suoi componenti, qui anche mimetiche delle improprie vociferazioni del parlante borghese semicolto: «Il peptojodone, cioè no, lo jodopeptone Robin (jodio colloidale organico) era quello che faceva al caso». E poco sotto: «[Elsa] Aveva il cervello che le fumigava di vapori jodici: “jodio colloidale, jodio colloidale”, si ripeteva a ogni passo, con martellante insistenza, come il naufrago che non vuol mollare un momento la luce di salvezza. “Jodio organico.... proteine jodate.... peptone jodico.... peptojodine.... jodopeptone Robin”» (RR I 322). Per il Pasticciaccio, accanto ai «peptoncelli» (RR II 161) e ai «corrucciati elettroni» (RR II 261) – cui tiene degna compagnia «la sizìgie vongole-vermicelli» (Accoppiamenti giudiziosi, RR II 793), (18) con il nesso tra spaghetti e vongole che assurge metaforicamente a congiunzione tra pianeti –, si può citare questo passo: «Il corindone, pleòcromi cristalli, si appalesò tale di fatto sul bigio-topo dell’ambienza, venuto di Ceylon o di Birmania, o dal Siam, nobile d’una sua strutturante accettazione, o verde splendido o rosso splendido o azzurro notte, anche, un anello, del suggerimento cristallografico di Dio: memoria, ogni gemma, ed opera individua dentro la memoria lontanissima e dentro la fatica di Dio: verace sesquiossido Al203 veracemente spaziatosi nei modi scalenoedrici ditrigonali delta sua classe, premeditata da Dio» (RR II 231). In una sorta di delirio sulla teleologia del cristallo, complessi termini geometrici e addirittura la notazione chimica simbolica si situano in una sintassi procedente per balzi nominali dai labili nessi logici (forse con una citazione dal Credo: «verace […] veracemente»). Un caso estremo ancora nella Cognizione, dove il testo risulterebbe di ben ardua comprensione senza la lettura della nota d’autore: «Il grido meraviglioso, fastosissimo, pieno d’ossequio e d’una toccante premura, più inebriante che melode elisia di Bellini, rimbalzava di garzone in garzone, di piastrone in piastrone, locupletando di nuovi sortilegi destrogiri gli ormoni marchionici del comittente» (Gadda 1987a: 339). E la nota: «Giuoco fra marchese e Marchionn, personaggio portiano. L’A. immagina che gli ormoni del committente, deliziato dall’ossequio [del cameriere], si arricchiscano di nuove meravigliose combinazioni chimiche: (sortilegi). Destrogiri, sinistrogiri: termini della chimica strutturale, della geometria e della cristallografia: e diconsi in genere, di due strutture molecolari simmetriche, cioè metricamente uguali ma non sovrapponibili. (Vite destra e vite sinistra)». Si osservi anche qui la miscela tra l’arcaismo letterario («locupletando»), i tecnicismi e l’allusione letteraria che è insieme funambolismo verbale («marchionici»).

Tornando ai tecnicismi impiegati metaforicamente, si può dare il caso che essi appaiano talvolta, specie se isolati da altri consimili, diretti a una chiarificazione dell’oggetto cui si applicano. Ma il più delle volte il filtro metaforico risulta invece fuorviante e digressivo, sia per ragioni pragmatiche (la presumibile rarità di un lettore reale dotato di buona cultura scientifica), sia perché l’oggetto glossato dalla metafora gode già di per sé di una perfetta comprensibilità. Esemplare un caso nell’Adalgisa: «Questa rottura, questo cracking della nenia e querimonia procedurale, esercita un fascino incredibile sull’animo delle donne» (RR I 305). La metafora chimica (chiarita in nota dall’autore, come si è già visto sopra), è più strumento di depistaggio che di comprensione, giacché il figurante si sovrappone al figurato senza metterne in luce alcun particolare. Altrove, la precisazione è meno gratuita: «Le meravigliose notizie si diffusero allora nell’albero della collettività per il naturale processo dell’assorbimento, reso possibile da un’attiva endòsmosi: l’avidità fresca e mordente degli incorrotti, il lavorío vitale delle cellule che non abbino miglior epos da elaborare» (Gadda 1987a: 29). Gadda sceglie comunque il composto endosmosi, e non l’assai più comune – proprio nell’accezione metaforica osmosi (come invece fa nel Pasticciaccio, ma per contaminarlo ironicamente con un dialettalismo, e forse non senza un intento ironico nei confronti di certe viete immagini giornalistiche: «una sorta di osmosi polizzia-carabinieri», RR II 141). Più spesso però il tecnicismo risulta di non facile intelligenza, come si constata in questi due esempi: «il tentennamento [del capo, in senso di diniego], ostacolato dal gozzo, le riuscì con elongazione ridotta» (Gadda 1987a: 125); «Gonzalo, in quel suo essere a diagramma pendolare con elongazione spinta» (Gadda 1987a: 217). Ricorrendo all’identico termine della meccanica, l’autore non fa particolare luce sui tentennamenti (fisico l’uno e morale l’altro) dei due personaggi, tanto che nel secondo caso la metafora iniziale si trova ad essere ulteriormente e lungamente illustrata.

L’opera più ricca di lessico tecnico-scientifico con funzione metaforica, è – vistosamente – il Pasticciaccio. Una prima importante occorrenza la si incontra nel noto passo iniziale sulla filosofia del commissario Ciccio Ingravallo. L’importante ruolo di significare la pluricausalità del reale, concetto chiave per Gadda (svolto lungamente già nella Meditazione milanese), è affidato a una similitudine meteorologica, questa volta pienamente felice e gnoseologicamente efficace: «Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti» (RR II 16). Ma l’immagine meteorologica e il successivo preciso linguaggio giuridico vengono immediatamente reduplicati da una grandinata di emblemi del caos: «eva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico “le causali, la causale” gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia». Una doppia condotta linguistica che, girata sull’autore, potrebbe significare la compresenza tra strenua volontà definitoria di derivazione positivista e consapevolezza dell’inadeguatezza della lingua, intesa come strumento conoscitivo, a rappresentare il reale. Procedendo nell’opera si incontrano casi abbastanza neutri – ad esempio un «“campo di forze” del destino» (RR II 31), segnalato dalle virgolette –, e altri in cui si avverte la superfluità dell’immagine, mossa dall’ansia di specificazione: «Ma la Storia è una sola! Be’, sono capaci di spezzarla in due: un pezzo per uno: con un processo di degeminazione, di sdoppiamento amebico: metà me, metà te» (RR II 146). In altre occasioni la comparazione scientifica è accompagnata da un’immagine banale di vita quotidiana, che ne depotenzia la vis conoscitiva: «maestra, a volte, nel suggerire un’idea senza neppur disegnarne verbalmente il contorno: per accenni, per prove e controprove laterali, per mute attese: dandole un avvio d’induzione, come lo statore all’indotto: con la stessa tecnica onde suol circondare e proteggere (e dirizzare al bene) i primi passi al primo barcollare d’un parvolo: incanalandolo però dove vuol lei, che è dove lui potrà far pipì nei modi più dicevoli, e con rilasciamento esauriente» (RR II 133-34) (si noti come la seconda comparazione casalinga sia sigillata da un altro tecnicismo, ma medico, rilasciamento); «Roma doma. Roma cova. In sul pagliaio de’ decreti sua. Un giorno viene, alfine, che l’ovo della sospirata promulga le erompe alfine dal viscere, dal collettore di scarico del labirinto decretale» (RR II 191). Si dà infine il caso che il figurante scientifico della comparazione sia sfruttato comicamente, come nei due seguenti esempi dove risalta il contrasto tra la freddezza scientifica del tecnicismo e la carica rispettivamente – di erotismo o di squallidità del figurato: «Il seno palpitava, desiderabilissimo, come tra i due poli una lamina magnetica: ma non era il magnetismo di Maxwell, ed era invece una lamina di pelle color latte, trepida e cara» (RR II 240); «Le gambe nocchiute, la porzione in vista, emettevano anzi sagittavano perpendicolari alla superficie della pelle i lor peli, neri anche quelli, saturati d’elettrico: come linee di forza d’un campo newtoniano o coulombiano» (RR II 259). Si veda come, in questo secondo passo, il tono ironico affianchi ai tecnicismi un latinismo poetico come sagittare e un termine tecnico in pensione, elettrico, usato come sostantivo nel significato di elettricità, come accadeva comunemente nel XIX secolo.

Si è detto sopra delle serie di tecnicismi non metaforici che però rimangono lontani dalla denotatività. Bisogna aggiungere che esistono nei testi gaddiani anche diverse occorrenze di termini tecnici il cui uso sembrerebbe rispondere a esigenze di precisione referenziale: ma l’effetto che creano, più che di precisione sa di ansia di precisazione, quasi ci si trovasse di fronte a un pittore iperrealista che dedica tanta attenzione al dettaglio da rendere difficile l’identificazione dell’oggetto raffigurato. Si tratta insomma di quella sindrome classificatoria di cui si è già discusso: l’autore, nel tentativo di conoscere l’universa realtà, fugge continuamente dalla linea diegetica percorrendo i vari sentieri che singoli elementi della narrazione gli presentano davanti. E sono queste armoniche a suscitare non di rado proprio l’immissione di dati scientifici nel racconto, ingresso che costituisce soltanto una momentanea risposta a quel desiderio di totalità conoscitiva, di «omnia circumspicere» che ovviamente non si può sottrarre al consueto destino di inevitabile frustrazione. Quasi obbligato per la sua notorietà è il primo esempio, tolto dalla descrizione dell’appartamento del nobiluomo Cipriano de’ Marpioni nell’Adalgisa: «Com’era l’uso in Milano fra il 1890 e il 1910, l’apotèma di quelle mattonelle misurava centimetri 5,196: mentreché il raggio del circolo circoscritto raggiungeva i 60 millimetri: le due misure sono interdipendenti, per il che non occorre aver noi alcuna notizia di trigonometria, ma ci pensa il cervello stesso dell’esagono» (RR I 355). Va da sé che tali informazioni presentano una tangenza nulla con la linea tematica del racconto, fornendo anzi in questo caso una testimonianza volutamente parossistica dell’ansioso enciclopedismo gaddiano. In molti casi il tecnicismo specifica una prima espressione generica, o anche un altro tecnicismo, lasciando fianco a fianco i doppioni: «una leggera sfasatura, o ritardo, o istèresi» (Accoppiamenti giudiziosi, RR II 899); «trombe di Falloppio, (dotti ovàrici)» (Adalgisa, RR I 363); «magistero di bismuto [denominazione tradizionale ora in disuso] (sottonitrato di bismuto)» (Gadda 1987a: 95). Se queste ultime occorrenze trovano ricetto in zone di relativa tranquillità linguistica, in altre occasioni la precisa notazione scientifica è coinvolta in un tale turbinio espressivo da pregiudicarne qualsiasi capacità di individuazione, come avviene in un passo del Pasticciaccio:

Con raccomandarsi di preghiera in brucio a Sant’Antonio da Padova miracolatore amorosissimo a tutti noi, anche però in una ai buoni uffici (nel trascorso di lei tempo automatici) del plesso emorroidale medio, plexus haemorroidalis medii. Pervenne infatti alla deliberata strizione dei più quotati anelli rettali, se pure estenuati da vecchiezza: non del tutto inoperanti, per quanto via via sempre più fatiscenti negli anni, le cosiddette valvole di Houston, principe la supervalvola di Kolrausch, né le semilunari di Morgagni. Il disperato tentativo di blocco dell’ampolla, sulle cui postreme ritenute ohi ohi ohi di già il trauma grigioverde-nero-argento impelleva concomitato da fischio ohi ohi ohi acutissimo della vaporiera in arrivo, non riuscì per altro se non allo sblocco d’un qualche gocciolone piuttosto fòbico, gnaffe, sulla banchina di Casal Bruciato: free along bank, sì, fab Casal Bruciato, per quanto alcuni dicono e però scrivano, cif, cost insurance free e alcuni addirittura ciàf. (RR II 219)

Ai termini anatomici, cui si riconoscerà una funzione comico-eufemistica, si affiancano liberamente linguaggio burocratico (con + verbo all’infinito, «pervenne alla deliberata strizione»), arcaismi («gnaffe»), iperbati e altre costruzioni letterarie (l’agente senza articolo: «da vecchiezza»), interiezioni e forestierismi, fino al finale onomatopeico ai limiti del borborigmo, scatenato divertissement sostenuto dal solo evasivo umorismo.

Non sempre la commistione del lessico tecnico-scientifico con gli altri ingredienti del cocktail espressivo avviene senza che esso si trovi mutato. Alle forme correnti Gadda spesso sostituisce delle varianti meno usate o anche non attestate in autori precedenti: così cistifele anziché cistifellea (nel Pasticciaccio e prima nella Madonna dei Filosofi), forse giustificabile come neoformazione basata sulla erronea etimologia fornita dal Tommaseo-Bellini, cisti- e lat. fel in luogo di felleus. Altri esempi ricorrenti sono epigastro (raro, sebbene attestato) al posto di epigastrio e il già citato elettrico per elettricità.

Nel Pasticciaccio si trovano anche tecnicismi completamente immersi nel dialetto o addirittura dialettalizzati, in genere con effetti di tipo comico. Ecco i due casi: «Congiunse le pie manone in una breve altalena sotto ar naso, davanti ar barbozzo: un va e vieni in der piano dell’azimut, di tipo italico decente» (RR II 134); «un infisèmo pormonare con sopporazione setticìmicia» (RR II 20). Anche qui il fine comico eclissa certo quello referenziale.

Qualche osservazione a parte merita infine un campo del lessico tecnicoscientifico tra i più frequentati da Gadda, quello della matematica e geometria, certo familiare all’educazione ingegneristica dello scrittore. Il ricorso al termine geometrico o matematico sembrerebbe dover dirigere la lingua verso un compito di precisione denotativa: ma anche in questo caso la precisione è solo apparente. Usato spesso in combinazione con termini astronomici (ricorrente l’immagine dell’ellisse), il tecnicismo geometrico-matematico si trova in genere o a rappresentare, velandone la comprensione, un oggetto che sarebbe facilmente esprimibile con mezzi linguistici più semplici, oppure a fornire dati precisi, ma centrifughi rispetto al tema della narrazione. Per quest’ultimo caso si pensi al passo dell’Adalgisa citato poco sopra, con tanto di misura dell’apotema del mattone, mentre per un uso metaforico che vela fatti di banale semplicità, si legga questo passo: «Ronzava [un moscone] rumoroso, in una vibrazione metallica di che raggiungeva gli acuti con certe virate o controvirate a otto: ebbro, quasi, d’esservi astretto dalla fatalità rinnovata d’un campo gravidico sui generis: d’un campo escogitato per la nuova storia, dal Pippo dei mosconi giovani: dove all’ellisse della orbitazione newtoniana si fosse sostituita la lemniscata» (RR II 239). Notata la curiosità del «campo gravidico» (propriamente gravidico sta per relativo a gravidanza), anziché gravitazionale, si può osservare come Gadda, ironicamente – secondo il tono di tutto il passo –, usi questa complessa immagine solo per significare che il moscone non seguiva l’usuale traiettoria ellittica, bensì procedeva seguendo un otto (la lemniscata è una curva a forma di otto). Nuovamente l’ellisse si può trovare nella Cognizione, dove in un primo caso serve a visualizzare il percorso di un fulmine: «sdipanando e addipanando un gomitolo e controgomitolo di orbite ellittiche in senso alternativo un paio di milioni di volte al secondo» (Gadda 1987a: 52). Pur nella minuzia descrittiva, l’immagine sembra risolversi come di consueto in un emblema del caos.

Lo stesso termine geometrico torna poi nel momento più alto della Cognizione, all’inizio del quinto tratto: «Ma che cosa era il sole? Quale giorno portava? sopra i latrati del buio. Ella [la Madre] ne conosceva le dimensioni e l’intrinseco, la distanza dalla terra, dai rimanenti pianeti tutti: e il loro andare e rivolvere; molte cose aveva imparato e insegnato: e i matemi e le quadrature di Keplero che perseguono nella vacuità degli spazî senza senso l’ellisse del nostro disperato dolore» (Gadda 1987a: 258-59). I «matemi» (ardui calcoli) e le «quadrature di Keplero» (con vocabolo oggi disusato Gadda intende integrazioni, cioè le soluzioni delle equazioni differenziali esprimenti le tre leggi di Keplero) «perseguono» (tentano di comprendere, di definire) l’orbita ellittica della terra, teatro del «disperato dolore» degli uomini. Gadda, immergendo i tecnicismi in un teso lirismo (che permea tutto il tratto), riesce qui a dialogare con il Leopardi del Canto notturno (di cui compaiono tracce anche puntuali, cfr. Donnarumma 1994: 47-48). Ma nell’ambito del quinto tratto, pregno di citazioni della tradizione poetica lirica, la presenza di questi tecnicismi è un caso isolato, giacché qui la lingua di Gadda rinuncia a gran parte del suo repertorio plurilinguistico, eccettuato appunto il linguaggio della poesia lirica (e quello dei Promessi sposi), per confrontarsi direttamente con il nucleo doloroso dell’esistenza. Rimane comunque questa splendida immagine che testimonia come il lessico scientifico possa convivere con una prosa lirica, in questo caso fornendo materiale a un passo decisivo, impegnato a sondare il tema centrale (ed eponimo) del romanzo, la graduata approssimazione, per accerchiamenti successivi, al dolore, vero centro dell’esistenza. È quanto prova un altro brano, in cui la misura dell’accelerazione di gravità diventa allusione alla morte in guerra (per caduta dell’aeroplano) del fratello di Gonzalo, tema dolorossimo per le note implicazioni biografiche: «ma la gravitazione aveva funzionato, il 9,81: con due fili rossi sui labbri delle narici, e gli occhi aperti, aperti, dentro cui si spegneva il tramonto.... Coi labbri pareva voler ribere il suo stesso sangue.... perché non sta bene.... dal naso.... il sangue.... due fili rossi.... dal naso» (Gadda 1987a: 414-15).

è impossibile non notare che in questi momenti sommi del suo capolavoro, Gadda si astiene da quella furia espressionistica che permea la maggioranza dei suoi scritti. Può dunque risultare legittima la questione recentemente posta da Pier Vincenzo Mengaldo: «Nessun scrittore del Novecento possiede la ricchezza linguistica di Gadda e la sua capacità di maneggiare le componenti della lingua, lasciandoci divertiti nel senso più alto, anche commossi, sempre ammirati. Ma non ci si sottrae all’impressione che troppo spesso quegli elementi girino a vuoto a-funzionalmente; e ci si può seriamente domandare se sia compatibile con la narrativa una continua tensione che non conosce mai distensione». (19) Anche riconoscendo al plurilinguismo gaddiano una solida motivazione gnoseologica, come risultante dello scontro tra tensione tradizional-positivista ad abbracciare con l’atto conoscitivo l’interezza del reale e incoercibile – e quindi irrappresentabile – molteplicità del mondo, non si può che consentire con Mengaldo circa il fatto che in molte delle opere gaddiane lo spiegamento di forze linguistico appaia come inerzialmente propagato da una moltiplicazione di se stesso. La girandola delle visuali, e tra esse quella della scienza – in teoria fortemente individuante –, che Gadda giustappone all’oggetto narrato, finiscono spesso per soverchiare quello stesso oggetto, spostando l’attenzione del lettore su quanto dovrebbe costituire prevalentemente (e intendo per lo stesso autore, per il portato della sua formazione positivistica) un medium conoscitivo, la lingua. E anzi, viene da pensare che in larga parte la metaforica attinta dalla scienza, nonché le escursioni scientifiche pseudoreferenziali – come tante altre componenti del vortice narrativo – rappresentino una sorta di estesa formazione reattiva (20) che allontana – ma insieme presume – la sostanza tragica della scrittura di Gadda, un déguisement del pianto, o meglio del singhiozzo – per usare l’immagine continiana –, che però a tratti non si perita di scoprirsi nella sua patenza di cupa disperazione. Verrebbe quindi voglia di ipotizzare che la miscela linguistica tendente all’eccesso funzioni narrativamente soprattutto quando l’outrance verbale serve a preparare per contrasto delle zone di lirico accesso al dolore, in cui eventuali schegge dei diversi linguaggi, conglomerati nello sforzo lirico-tragico, servano ad approssimare quel fondo nero dell’esistenza che è poi il reale obiettivo della narrazione gaddiana. È quello che succede negli ultimi due passi citati della Cognizione, in cui proprio nei tecnicismi è convogliata tutta la verticalità di cui si mostra capace la tensione poetica di Gadda. Il lessico tecnico-scientifico e tutte le altre risorse plurilinguistiche, che nel resto dell’opera gaddiana tendono a isolarsi in singoli pezzi di bravura, nel capolavoro contribuiscono a una discesa nell’oscuro splendida e terribile, sospesa tra cerchio lirico e linea narrativa.

Non so, però, se sia poi davvero la compatibilità con la narrazione a essere messa a rischio dalla natura violentemente e incessantemente tensiva dell’espressionismo gaddiano. Il problema sta forse più nel fondo intimamente tragico della scrittura di Gadda. È proprio quando Gadda gioca troppo, quando satireggia, che i variegati «elementi» linguistici «girano a vuoto» a «a-funzionalmente»: il che succede in particolare nelle prime opere e poi in quelle intenzionalmente satiriche come l’infelice Eros e Priapo, dove è difficile non mettere in rapporto la violenza dello stile con l’ideologia conservatrice dell’autore.

Va comunque osservato, per finire, come l’ipotesi che vede in un certo uso di figuranti o di oggetti di rappresentazione tratti dalla scienza e dalla tecnica (quelli geometrici soprattutto) una possibile formazione reattiva non possa riguardare l’interezza della lingua di Gadda. La quale, anzi, per lo più cede alla pulsione distruttiva e filocaotica – e prova ne sia la sua evidente frantumazione. Ma forse – si diceva – proprio in quei luoghi dove permangono isole geometrizzanti incrinate crudelmente dal dolore della realtà molteplice e disastrosa, accade che gli squarci dell’ordine artificiale si umanizzino, dando libero ma non effusivo sfogo alla corrente patemica in cui si fonda la tragicità di Gadda: le figure della scienza, frantumandosi, non rivelano altro che il «nostro disperato dolore».

Università di Milano-Bicocca

Note

1. Per notizie biografiche legate agli studi scientifici e alla successiva carriera ingegneristica, si vedano Silvestri 1993c: 17-32 & 1994b: 41-58; in Silvestri 1994a si vedano le descrizioni dei documenti della mostra Gadda studente politecnico e ingegnere, sempre curata dallo stesso studioso; cfr. inoltre Silvestri 2001: 167-80. Si ricorda comunque che Gadda, dopo essersi laureato nel 1920 (con una tesi riguardante la materia Costruzione dei Motori termici e idraulici), lavorò poi presso varie istituzioni sino al definitivo abbandono dell’attività ingegneristica nel 1940. Il primo mestiere lasciò un’impronta anche successiva a quell’anno in un buon numero di scritti tecnico-scientifici di carattere divulgativo, contraddistinti da una disciplina stilistica pragmaticamente intesa a non creare difficoltà al lettore di competenze generiche, anche se non privi talvolta di qualche riferimento letterario e di rare impennate espressive. Comparsi su diverse riviste più o meno specializzate, tali scritti sono stati in larga parte raccolti in Azoto, poi – con l’aggiunta di un articolo – in SVP (nel quale si veda anche la Nota al testo di Silvestri), da integrare con altri articoli di giornale pubblicati in Andreini 1988: 173-93.

2. Innumerevoli sono gli studi dedicati alla lingua di un autore che, in virtù del suo invitante impasto stilistico, ha sollevato costantemente gli appetiti interpretativi (quando non semplicemente regestuali) dei linguisti. Il più illustre tra i lettori della prim’ora di Gadda è certo Contini, ideatore della fortunata tesi critica funzione Gadda, che vede nell’autore milanese il vertice italiano di una linea comprendente Folengo, Rabelais, il Joyce di Finnegans Wake tra i suoi maggiori esponenti, e – nei suoi esiti più provinciali – gli scapigliati Dossi e Faldella. Si vedano almeno Contini 1989: 3-10 & 15-35; Id., Espressionismo letterario, in Ultimi esercizi ed elzeviri (Torino: Einaudi, 1989), 41-105 (95-104). Notevoli pure Segre 1979: 169-83 & 1991: 27-44. Fondamentale anche dal punto di vista linguistico è il per nulla invecchiato Roscioni 1995a (la prima edizione è del ’69). Indispensabile è il commento di Manzotti (Gadda 1987a); sempre dello stesso studioso, si veda ora l’ottimo e ampio saggio sul capolavoro gaddiano (Manzotti 1996: 201-337). Cfr. inoltre: Devoto 1950: 57-90; Gelli 1969: 52-77; Lucchini 1988a & 2001: 115-22; Grassi 1989: 245-64; Bertone 1993; Lurati 1995: 283-305. Molto utili anche le sintesi presenti in Coletti 1993: 337-39 e Mengaldo 1994: 148-54. Tutti gli studi citati si occupano più o meno tangenzialmente della presenza di linguaggi speciali in Gadda. Su tale argomento (ma più generico di quanto non suggerirebbe il titolo), si veda infine Segre 1994: 83-96.

3. A questo proposito soccorre ancora l’autorevole definizione di Contini, per il quale «pur sorgendo dal buio, dove non immora, ma se ne svincola, quello di Gadda è un mondo robustamente esterno, nel quale l’autore crede. Il suo, considerato da quest’angolo, è un espressionismo naturalistico» (Contini 1989: 26, mio corsivo).

4. Si ricorda che a questa altezza cronologica Gadda non aveva prodotto che i tentativi di narrazione entrambi abortiti (sebbene a un diverso stadio di elaborazione) di Racconto italiano (1924-25) e La meccanica (1928), e i pezzi, anch’essi ospitati dalle pagine di Solaria (con l’eccezione di Manovre di artiglieria da campagna, uscito in Fiera letteraria), che andranno nel 1931 a formare il primo libro di Gadda, La Madonna dei Filosofi.

5. Questa operazione è già stata compiuta da Roscioni 1974. II saggio solariano viene definito da Roscioni una sorta di «appendice di poetica» (Roscioni 1974: xxiv) alla Meditazione milanese.

6. Il titolo previsto per la tesi di laurea era La teoria della conoscenza nei «Nuovi saggi» di G.W. Leibniz. Sul rapporto con il relatore Pietro Martinetti, e più in generale sul rapporto tra speculazione filosofica e scrittura narrativa, cfr. Lucchini 1988a: 13-54, che integra e ridiscute le tesi di Roscioni.

7. Contatti – naturalmente poligenetici – tra le posizioni teoriche di Bachtin e quelle di Gadda sono stati messi in rilievo da Segre 1991: 30-34.

8. Si noti la coppia di verbi gaddiani, percepire e ritrarre, che rimandano alla doppia operazione sopra analizzata che Gadda ritiene peculiare allo scrittore: conoscere il reale e rappresentarlo.

9. Si pensi all’emblematico esempio del ricorrente uso metaforico del calcolo combinatorio.

10. In questo secondo periodo si devono quindi includere i racconti stesi tra il ’38 e il ’43 che confluiranno (1944) ne L’Adalgisa, e i due libri di racconti, Novelle dal ducato in fiamme (1953), confluito poi in Accoppiamenti giudiziosi (1963), cui Gadda attende dopo la pubblicazione del Pasticciaccio in rivista (1946-1947).

11. A proposito di Galileo Ferraris, Gadda scrisse nel ’51 (pubblicato sul Radiocorriere) un appassionato articolo laudatorio (ispirato per altro a un amore per l’ingegneria ben maggiore di quanto dichiarato altrove), dove è interessante leggere come il grande ingegnere sia visto come modello di euretés, la cui abilità sta nell’applicare categorie di una scienza a un altro settore, cosa che in fondo fa anche Gadda con le sue lunghe catene metaforiche, in direzione di un ideale di conoscenza enciclopedica (l’«omnia circumspicere»), seppure costantemente disatteso. L’idea è notevole anche perché anteriore alle indagini ora già classiche sulla funzione della metafora nella scienza (si pensi soltanto agli studi di Boyd e Kuhn). Ma ecco il notevole brano:

La mente di Galileo Ferraris operava secondo categorie analogiche, trasferendo concetti e gruppi di concetti da uno ad altro campo scientifico ed applicativo: egli è matematico e fisico «entusiasta»: ma è «scopritore da riflessione», da intuizione riflessa. Rappresenta, cioè, il tipo intellettivo dell’indagatore, non l’uomo fortunato che incocca quasi a caso il bersaglio. Lo studio teorico (matematico) dei moti vibratori simultanei e della loro composizione, lo studio della composizione di due raggi luminosi rettilinei polarizzati a dare un raggio polarizzato circolarmente, indi una meditazione «analogica», suggerì al Ferraris l’idea di comporre due vettori elettrici alternativi a dare un vettore rotante. Il Ferraris, dal 1885 in poi compie nel Museo Industriale esperienze dirette a verificare il suo principio e soltanto «dietro premurose insistenze di amici» lo rende pubblico, insieme ai risultati sperimentali ottenuti, nella Memoria (Reale Accademia delle Scienze) del 18 marzo 1888: Rotazioni elettrodinamiche prodotte per mezzo di correnti alternate.

è il principio da cui nasce il moderno motore asincrono, cioè il tipo di motore a cui si riconduce la maggioranza dei motori elettrici in servizio sulla fascia della terra.

Il campo magnetico rotante, che ne costituisce la idea matrice, si chiama oggi campo Ferraris» (Galileo Ferraris e gli scienziati piemontesi, SGF I 983-84).

12. Si veda ad esempio questo brano, in cui i tecnicismi, riferiti al treno – vulgatissimo simbolo del progresso – contrastano (con un gioco sin troppo facile) con gli occhi della lupa, emblema della natura, descritti infatti metaforicamente:

Pulsando infaticate le bielle, (visibili in curva), il locomotore imbocca il viadotto, sorvola la solitaria centrale. Nell’ombra della valle profonda tutti la ignorano, gli acuti diplomatici, le dame. Nell’ombra di queste macchie vivono soltanto due occhi, torvi topazî: è la lupa, venuta dalla notte, per allattare cuccioli umani; ma i caparbi alternatori portano perennemente la loro soma invisibile, le Francis strascicano i rotors nel perenne freno del campo. (Treno celere nell’Italia centrale, RR I 40)

13. Altri termini della botanica si trovano in Castello, RR I 197 (sparto, acacia australiana, lanceolato).

14. Bertone 1993: 88. Più in generale, sulla funzione delle note nel Castello di Udine, come tentativo di allargare il testo alla poliedricità del reale, si vedano le pp. 83-103.

15. Più scarsa e meno rilevante è invece la presenza di tecnicismi nei racconti che confluiscono in Accoppiamenti giudiziosi.

16. Un’interpretazione di tale caratteristica è tentata in Bertone 1993: 125-43, nel capitolo Ai margini del testo. Sempre per le note dell’Adalgisa si veda anche Lucchini 1988a: 90.

17. Si noti per inciso come il brano ripeta lo stesso concerto del passo del Racconto italiano citato sopra. Un’altra nota completa di definizione e formula è quella dedicata al termine entropia (Adalgisa, RR I 475-76).

18. sizígie è impropriamente preceduto nel testo gaddiano dall’articolo singolare: è infatti il plurale di sizigia e nel significato astronomico si usa soltanto in tale forma.

19. Mengaldo 1994: 154. Il giudizio di Mengaldo si è ripresentato incrudito (Mengaldo 1999: 116-19).

20. La «formazione reattiva» consiste, secondo Freud, in un’abitudine (che può costituire un sintomo) contraria a un desiderio rimosso, in relazione al quale essa si è costituita: è da notare come la pulsione respinta possa bruscamente riemergere in certi momenti, smascherando il comportamento contrario esibito dal soggetto.

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