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Giustizia ingiusta: alcuni casi
di citazioni manzoniane nel Pasticciaccio
Paola Ponticelli
è un dato ormai acquisito dalla critica gaddiana la funzione profondamente etica attribuita da Gadda alla propria scrittura, in più occasioni ribadita dallo stesso autore. Si prenda la perentoria affermazione sull’inscindibilità di poetica, etica e metafisica che apre l’incipit di Meditazione breve circa il dire e il fare:
Quando scriverò la Poetica, dovrà, ognuno che si proponga intenderla, rifarsi dal leggere l’Etica: e anzi la Poetica sarà poco più che un capitolo dell’Etica: e questa deriverà dalla Metafisica. (SGF I 444)
Tale dichiarazione di intenti offre una chiave di lettura privilegiata per la cosiddetta gaddizzazione di Manzoni: la personale esegesi dell’opera narrativa manzoniana che Gadda propone in alcuni saggi aiuta a interpretare, infatti, temi centrali della sua stessa arte. Come intuito già da Contini e successivamente dimostrato dai numerosi studi sulle presenze manzoniane nella scrittura gaddiana (tra cui un particolare rilievo meritano le analisi di Pecoraro 1996 e 1998a), Gadda riconosce come dote suprema di Manzoni la capacità di ritrarre veracemente la profonda tragicità del reale, attribuendogli «il genio» non solo «del narratore», ma soprattutto «dell’esegeta e dell’analista»:
Egli disegnò con un disegno segreto e non appariscente gli avvenimenti inavvertiti: tragiche e livide luci d’una società che il vento del caso trascina in un corso di miserie senza nome, se caso può chiamarsi lo spostamento risultante della indigenza, della bassezza, della ignavia politica (pubblica), della cieca ignoranza, della paura d’una razza e dell’avidità e dell’orgoglio d’un’altra. […] La mescolanza degli apporti storici e teoretici più disparati, di cui si plasmò e si plasma tuttavia il nostro bizzarro e imprevedibile vivere, egli ne avvertì le deviazioni contaminantisi in un’espressione grottesca. (Apologia, SVP 590-91)
Un’opinione che, emersa già nel 1924, data della prima stesura dell’Apologia manzoniana, rimane costante nel tempo, se viene ribadita nel molto più tardo articolo Manzoni diviso in tre dal bisturi di Moravia, cronologicamente all’estremo opposto della produzione gaddiana (Gadda 1960):
Amiamo nel Manzoni l’artista, ossia il romanziere e lo storico: il consapevole giudice di quegli aspetti della continua irragione umana che nel complesso racconto e nell’ironia sempre vigile dei Promessi Sposi hanno un così ampio, ininterrotto, inevitabile cioè fatale documento. […] Ciò che incanta, in quel libro, e incanta massimamente un lombardo, si può dire per elenco. Annotata, cioè riconosciuta, la verità dei rapporti di fatto […]: tra poveri e poveri, che tirano spesso, oltretutto, a… beccarsi tra loro, come gli immortali capponi; tra umili e potenti; tra sposo «in lieta furia» e curato in fifa: ragionevolissima fifa. Amore illuminato al documento e alla storia: ironizzazione signorile del documento balordo, bravi, gride per il pane, e della storia sbagliata cioè del male «inutile» […]: da leggersi perciò alla rovescia, l’uno e l’altra. (SGF I 1178-180)
Più che la fede e la tematica religiosa, riconosciute comunque come componenti fondamentali del romanzo, è l’acuta osservazione dei fatti terreni ed umani, l’esatta rappresentazione di un’epoca, di un’intera società, ciò che maggiormente Gadda apprezza ad ammira. (1) All’analisi impietosa di Manzoni sugli «aspetti della continua irragione umana» non sfuggono il potere e i meccanismi che lo governano; tra questi un posto di rilievo spetta al sistema della giustizia. (2) Il tema è di capitale importanza all’interno dei Promessi Sposi: le inadempienze e le prepotenze del sistema legale seicentesco sono denunciate fin dal primo capitolo, nel lungo excursus sul caos e l’inutilità delle gride; d’altro canto, la vocazione forzata di don Abbondio è messa in relazione all’esercizio, impunito e tacitamente accettato, della giustizia privata nell’assoluto silenzio di quella pubblica.
Nell’opera gaddiana il tema della giustizia ha un’alta ricorsività: presente fin dai primi esperimenti narrativi, la Passeggiata autunnale e Dejanira Classis, giunge fino alle opere della maturità, permeando i due capolavori romanzeschi, entrambi personali rivisitazioni del genere giallo, la Cognizione e il Pasticciaccio. In quest’ultimo, in particolare, la trama investigativa del romanzo – una duplice inchiesta su due crimini avvenuti in un medesimo condominio – con il rilievo accordato alle indagini e al metodo inquisitorio degli organi giudiziari romani (polizia e carabinieri) impone una riflessione sul tema della giustizia; riflessione, poi, tanto più urgente per l’ambientazione storica del racconto, in pieno fascismo.
L’amministrazione della giustizia, demandata agli organi giuridici fascisti, si carica nel Pasticciaccio di una forte ambivalenza: pesanti connotazioni negative circoscrivono l’operato della polizia e della questura di Roma, mettendone in dubbio la validità. Basti pensare al referente scatologico implicito nel nome dell’ufficio, esplicitato nell’episodio del «pollo-campione» rubato da Ines, che, «tradotto in questura pure lui, […] una vorta a Santo Stefano del Cacco se vede che j’aveva preso paura, forse, e aveva fatto la cacca, benché morto» (RR II 145).
La rivelazione degli abusi e degli illeciti commessi dagli organi inquirenti avviene, in molti casi, in presenza di tessere manzoniane: l’emergere del tema della cattiva giustizia, intrecciato a quello di uno stato affatto irrazionale, si accompagna nel Pasticciaccio a frequenti riprese lessicali, tematiche e/o sintattiche dai Promessi Sposi. Eccone alcuni esempi.
Due bravi con due ciuffi
La descrizione del malgoverno seicentesco che emerge nelle prime pagine dei Promessi Sposi, offrendo al lettore le coordinate storico-sociali dell’intero romanzo, deve essersi impressa con forza nella memoria di Gadda, grande ammiratore di Manzoni. Come è stato ampiamente dimostrato dalla critica, molteplici infatti sono le riprese e le rielaborazioni di motivi ed espressioni appartenenti al primo capitolo del romanzo che lo scrittore ha disseminato nelle proprie opere, come, nella Cognizione, la rievocazione della passeggiata di don Abbondio e dello stesso paesaggio lombardo dei Promessi Sposi (Pecoraro 1996: 116-23).
Anche nel Pasticciaccio abbiamo una inequivocabile eco manzoniana dal capitolo introduttivo del romanzo storico:
Non c’era neppur bisogno di mobilitare due bravi, con due ciuffi sul naso e due cinturoni di cuoio lucido adorni di pistole e coltellaccio, perché il subalterno culseduto s’avvedesse, dall’altro capo del filo seduta stante, di quel che gli conveniva rispondere, o come gli bisognava procedere: «disposto… disposto sempre all’ubbidienza»; (RR II 82)
Avevano entrambi intorno al capo una reticella verde, che cadeva sull’omero sinistro, terminata in una gran nappa, e dalla quale usciva sulla fronte un enorme ciuffo: […] una cintura lucida di cuoio, e a quella attaccate due pistole: […] un manico di coltellaccio che spuntava fuori d’un taschino degli ampi e rigonfi calzoni […] a priva vista si davano a conoscere per individui della specie de’ bravi. (PS I 10) (3)
La versione gaddiana dei bravi recupera dalla lezione manzoniana tanto l’aspetto fisico dei malviventi rigorosamente modellato sull’originale, come provano puntuali tangenze lessicali («due cinturoni di cuoio lucido» vs «una cintura lucida di cuoio», il «coltellaccio» in entrambi i casi, infine il caratteristico «ciuffo»), quanto la citazione letterale della risposta ossequiosa del curato.
L’autorità e le parole di Manzoni chiudono la terza digressione storica sul fascismo del Pasticciaccio, la prima che affronta il problema della potenza incontrollabile della magistratura fascista. Le due precedenti, rispettivamente nel capitolo II e nell’incipit del III, trattano altri aspetti del malcostume dittatoriale: la prima è dedicata alla rappresentazione dei «primi boati, i primi sussulti, dopo un anno de novizzio, del «Testa di Morto» (RR II 55-56) e offre un quadro generale dell’epoca; la seconda, invece, descrive la «moralizzazione dell’Urbe e de tutt’Italia insieme» (RR II 72-73), soffermandosi sulla fine della libertà d’espressione e, in particolare, sulla censura imposta ai giornali per il caso Balducci.
La terza digressione, invece, è squisitamente politica: le citazioni dal «trattatello di ottocento pagine circa l’esprit de lois» di «Carlo Luigi de Secondat de Montesquieu» mostrano quanto profondamente la dittatura fascista, annullando la distinzione dei poteri e conglomerandoli «in un’unica e trina impenetrabile e irremovibile camorra», abbia sovvertito ogni corretta prassi di governo. Il vezzeggiativo trattatello enfatizza ironicamente l’indifferenza dimostrata dal governo fascista verso i princìpi alla base delle moderne democrazie. Gli stralci in lingua originale del «libro undecimo capitolo sesto» affermano che quando potere esecutivo, giudiziario e legislativo diventano un tutt’uno, come durante il regime fascista, viene abolita ogni traccia dello stato di diritto: in particolare, la magistratura non opera più nell’interesse dei singoli cittadini, ma esclusivamente per interessi personali, di parte. Alla massima generale segue immediatamente l’esempio concreto: dopo il secondo fattaccio di via Merulana, le indagini relative al primo sono costrette ad «assumere un ritmo più serrato» e a produrre un colpevole, perché non sia compromessa l’efficienza investigativa dello stato. È così che l’innocente Angeloni viene «spedito a soffiarsi il naso a la Lungara».
La citazione manzoniana, posta in calce all’analisi dei mezzi illeciti adottati dalla «tripotente camorra», istituisce un parallelo tra lo stato fascista e quello spagnolo del Seicento. La negazione iperbolica del mancato ricorso ai bravi («Non c’era neppur bisogno di mobilitare due bravi») proclama l’assoluta illegalità del fascismo, che li incorpora nella stessa compagine statale, dove si «bastoncella a sensi di legge, non a sensi di teppa» e dove la funzione intimidatoria dei famosi malviventi è assunta in toto dalle «raccomandazioni burocratiche», di «carattere duramente ingiuntivo o addirittura imperatorio», che vengono divulgate grazie a un’efficiente «cascatella di telefonate gerarchesche». La tanto proclamata «resurrezione dell’Italia» è piuttosto un salto nei secoli bui, un ritorno alla barbarie, a un regime dissociale, fatto di connivenze e omertà, come la menzione dei bravi ammonisce.
Il primo caso di ingiustizia dei Promessi Sposi viene recuperato significativamente in coincidenza della prima tematizzazione della giustizia ingiusta nel Pasticciaccio. Il riecheggiamento, così manifesto, prova, lasciando pochi margini al dubbio, che la critica di Gadda alla giustizia fascista recupera volontariamente la lezione di Manzoni, ed è un invito ad analizzare ulteriori presenze del testo manzoniano in contesti di condanna del sistema investigativo. Che è quanto ci siamo proposti nel seguito della nostra indagine.
Latinorum
Le tessere dei Promessi Sposi sono mutuate di preferenza da contesti tematicamente affini, laddove, cioè, anche nel romanzo manzoniano emerge in primo piano il cattivo funzionamento della giustizia spagnola, rappresentata, per così dire, in presa diretta nello svolgimento delle sue funzioni. Avviene così nel cap. IX, nel dialogo tra Camilla Mattonari e il Pestalozzi, caso eclatante di «vischiosità» manzoniana (Pecoraro 1996: 141-43), che riunisce sulla pagina due celebri casi di ingiustizia a danno di umili.
Per vincere l’ostinazione della Mattonari il Pestalozzi ricorre alla sua autorità di pubblico ufficiale e di rappresentante della legge, alludendo a misteriose disposizioni che gli sono imposte dall’alto, come fa don Abbondio con Renzo, quando giustifica l’impossibilità di celebrare il matrimonio con il mancato adempimento di alcune formalità necessarie: (4)
«[...] Non so se conoscete le disposizioni...»
«L’esposizzioni? e chi le conosce?»
«Le di-sposizioni,» gridò lui, «le disposizioni di legge: quello che è stabilito dalla legge...»
«Mbè, sor brigadiè, se spieghi mejo.»
«C’è una legge, no? un codice: un regolamento di procedura, dove è stampato come dobbiamo regolarci, come dobbiamo procedere […]»; (RR II 225)«Sapete voi quanti siano gl’impedimenti dirimenti?»
«Che vuol ch’io sappia d’impedimenti?»
«Error, conditio, votum, cognatio, crimen,
Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas
Si sis affinis,...» cominciava don Abbondio, contando sulla punta delle dita. (PS 27).
Analoghi sono i rapporti di forza tra gli interlocutori: un personaggio forte, rappresentante di un’autorità, civile o religiosa, contro un personaggio debole, a quest’autorità sottomesso. Simmetrici sono i dialoghi: come il Pestalozzi parla di «disposizioni» superiori, don Abbondio cita un termine del diritto canonico; parallelamente, entrambi i personaggi deboli reagiscono confessando la propria ignoranza e chiedendo chiarimenti; ad entrambe le richieste, i personaggi autoritari rispondono con un’enumerazione di tipo burocratico-legale.
Don Abbondio enumera in latino le formalità legali previste dal diritto canonico nel caso di un matrimonio: termini legali, tecnici; il Pestalozzi cita tre generiche «disposizioni» giudiziarie, a nessuno delle quali corrisponde uno specifico provvedimento. Conta che in entrambe le enumerazioni, nonostante le differenze di lingua e di estensione, vengano accostati termini afferenti alla sfera legale-giuridica. Le similarità tra le due scene suggeriscono che la microenumerazione gaddiana sia una derivazione in formato ridotto della più ampia enumerazione manzoniana: non solo le omologie di situazione – i rapporti di forza tra gli interlocutori – ma anche la ripresa puntuale della struttura testuale – la scansione delle battute dialogiche, con la ripetizione da parte del personaggio debole del termine giuridico non compreso insieme al verbo afferente al campo semantico della conoscenza.
A ciò si aggiungano, inoltre, alcune vere e proprie ripetizioni lessicali: sia nel Pasticciaccio che nei Promessi Sposi i rappresentanti dell’autorità accennano ai superiori cui sono sottoposti:
Chi cerca trova: e chi trova deve giustificare ai superiori; (RR II 225)
Noi poveri curati siamo tra l’ancudine e il martello: voi impaziente; vi compatisco, povero giovane; e i superiori... basta, non si può dir tutto. E noi siam quelli che ne andiam di mezzo. (PS II 29)
Parimenti, dopo le enumerazioni burocratico-legali, gli stessi insistono sulle leggi e sugli obblighi cui sono vincolati: le «ricerche» che don Abbondio è obbligato a fare, vengono adattate alla diversa situazione narrativa del Pasticciaccio e modificate in un obbligo di perquisizione:
In somma, figliuol caro, io non ci ho colpa; la legge non l’ho fatta io. E, prima di conchiudere un matrimonio, noi siam proprio obbligati a far molte e molte ricerche, per assicurarci che non ci siano impedimenti; (PS II 29)
«Noi... dobbiamo ubbidire al regolamento: dobbiamo procedere a sensi di legge. Fate attenzione, sicché. Non obbligatemi a perquisir la casa,» era viceversa un casello, «ossia la stanza dove tenete la roba... la roba vostra». (RR II 225)
In entrambi i casi i personaggi adottano la prima persona plurale, avvalendosi dell’autorità dell’istituzione che rappresentano. Infine, il brano gaddiano riporta un ultima citazione dai Promessi Sposi proveniente da un altro episodio di giustizia al contrario, l’incontro tra Renzo e l’Azzeccagarbugli:
«Sarebbe un’aggravante per voi: articolo 788»: (788 un fico secco, lo inventò là per là): «è un articolo che canta chiaro»; (RR II 225)
D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio; serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. (PS III 47)
La contaminazione gaddiana collega significativamente due episodi che rappresentano allo stesso modo un uso distorto della giustizia: sia don Abbondio, che ricorre alle proprie competenze in diritto canonico per confondere Renzo e ribattere alle sue insistenti domande, sia l’Azzeccagarbugli, che adopera la legge per favorire i potenti e scaccia Renzo in malo modo quando si rende conto che non è un bravo ma una vittima, volgono infatti la giustizia contro coloro che dovrebbero esserne tutelati e la trasformano in uno strumento di sopraffazione. La memoria gaddiana crea un corto circuito tra i due episodi manzoniani, cogliendone la fondamentale affinità tematica, e li unifica nel testo, accostando citazioni tratte da entrambi. (5) La concentrazione, in un solo episodio del Pasticciaccio, di tessere manzoniane appartenenti a episodi diversi dei Promessi Sposi, ma unite dal tema della giustizia ingiusta, addensa forti connotazioni negative sull’operato della polizia fascista, che si delinea come la moderna reincarnazione del sistema di giustizia seicentesco: un apparato giuridico clientelare ed arbitrario.
«Addio monti sorgenti dall’acque…»
Interrogato a Santo Stefano del Cacco per chiarire i suoi rapporti con «i portatori di salumi a domicilio», il commendator Angeloni è angosciato dal timore di perdere il proprio posto al ministero dell’Economia Nazionale. «Seduto sur una scranna della questura» (RR II 44), ripensa al suo ufficio, rievocandone ad uno ad uno gli aspetti più familiari, in un passo di carattere enumerativo in indiretto libero, che, come rivela la spia lessicale rappresentata dal duplice addio, ha la sua fonte ne l’«Addio, monti sorgenti dall’acque» di Lucia:
Che? le carte magiche della dolce inanità burocratica, addio? I tepori dell’amministrazione centrale? I «cospicui» incrementi del diagramma della pesca... delle sardelle? Le franchigie di salagione? Il temporalesco e pur diletto borbottìo della Finanza, il santo riverbero della Corte dei Conti? Addio? (RR II 44)
Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime ineguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio! (PS VIII 143)
La ripresa manzoniana non si limita alla citazione letterale della parola chiave addio ma riecheggia anche l’ossatura anadiplotica del passo dei Promessi Sposi: l’iterazione di addio, dopo il primo e l’ultimo membro dell’enumerazione, riproduce nel Pasticciaccio la struttura ad anello del periodo iniziale del celebre commiato. Sulle affinità, tuttavia, prevalgono alcune differenze: a livello formale, l’enumerazione gaddiana è composta di sei membri, contro i quattro manzoniani, che inoltre godono di un più ampio sviluppo sintattico; a livello contenutistico, soprattutto, differenze di inflessione e di tono distanziano i due passi: una successione di interrogativi ironici, contro una sequenza di esclamativi serissimi. La natura ipotetica dell’addio gaddiano riproduce certamente l’incertezza del commendatore; d’altro canto, rovescia la serietà dell’originale, che ritrae il reale rimpianto di Lucia. Esso è inoltre caratterizzato da una divaricazione ironica tra gli aggettivi affettuosi, che ricordano la dimensione tenera dei diminutivi/vezzeggiativi manzoniani (paesello, casetta, campicello), e gli elementi ai quali essi vengono applicati, una prosaica burocrazia statale. Ciò dimostra che il profondo radicamento dei Promessi Sposi nella memoria letteraria di Gadda non comporta una sudditanza passiva nei confronti dell’originale: al contrario può essere fonte di una vivace rielaborazione espressiva del testo di partenza. (6)
Ciononostante la memoria manzoniana supera i confini dell’addio e addensa nell’interrogatorio del commendatore altre tessere, provenienti dalla medesima scena finale del capitolo VIII:
Solo [l’Angeloni], seduto sur una scranna della questura, con addosso tutte le sofisticherie della squadra mobile (così pensava), gli si velarono gli occhi; (RR II 44)
[...] e, seduta [Lucia], com’era, nel fondo della barca, posò il braccio sulla sponda, posò sul braccio la fronte, come per dormire, e pianse segretamente; (PS VIII 143)
Di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri di Lucia […] (PS VIII;144)
L’atteggiamento del commendatore che, seduto, si abbandona al pianto, ricorda Lucia che piange sommessamente seduta nel fondo della barca: la discrezione del pianto, segreto, della donna viene tradotto nel velo di lacrime che copre gli occhi dell’Angeloni. Analogamente il «così pensava», rilevato dalla posizione parentetica, evoca la precisazione di Manzoni «Di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri di Lucia» e, come quest’ultima, è posto in calce all’addio. Il pianto dell’Angeloni agglutina due tasselli manzoniani, che, rispettivamente, introducono e concludono il doloroso commiato di Lucia dalla sua terra. Il periodo, inoltre, segna uno stacco nel discorso, restituendo la voce al narratore dopo il tragicomico addio dell’Angeloni interamente svolto in indiretto libero: il commendatore, ancora presente sulla scena nelle «sofisticherie della squadra mobile», cede il posto al narratore, che interviene in parentesi con la sua puntualizzazione («così pensava»). Il pianto prepara il passaggio al momento successivo, dove il narratore si riappropria del discorso e presta la voce a Ingravallo, suo alterego, per esprimere la sua opinione su quanto sta accadendo:
La sua povera faccia, di pover’uomo che desidera che non lo guardino, con quel nasazzo al mezzo che non dava licenza un minuto alle inespresse opinioni d’ogni interlocutore, la sua faccia parve, a Ingravallo, una muta disperata protesta contro la disumanità, la crudeltà d’ogni inquisizione organizzata. (RR II 44)
Il cambio di voce produce anche un innalzamento del registro stilistico, dove fa macchia il dispregiativo «nasazzo», da ascrivere al punto di vista dell’investigatore. Il mutamento di registro, di voce, e di focalizzazione segnano anche un mutamento di opinione da parte del narratore: l’Angeloni prima è oggetto di scherno e derisione, mediante la parodia dell’ addio manzoniano, poi di viva compassione.
L’ironia rivela che il narratore non s’immedesima nel proprio personaggio, come fa invece Manzoni, ma ne prende beffardamente le distanze. L’identificazione emotiva, assimilabile a quella manzoniana, avviene successivamente, con il cambio della prospettiva narrativa. Il duplice atteggiamento del narratore, di distacco ironico e immedesimazione partecipe, si spiega con l’ambivalenza dell’Angeloni, simile, per altro, in questo, ad altri personaggi del Pasticciaccio, come lo stesso Ingravallo, filosofo e portavoce del narratore, ma contemporaneamente inquisitore. (7)
Evidenziando due distinti livelli di consapevolezza, l’ironia mostra i limiti conoscitivi del personaggio e fa risaltare la verità detenuta dal narratore. Il commendatore viene deriso perché rimpiange inconsapevolmente ciò che è causa della sua stessa rovina: è indagato da quello stesso stato per cui lavora e che rimpiange prima ancora di perdere. L’irrisione è tanto più amara perché l’«amministrazione centrale» ricordata con rammarico è quella fascista («un lontano Olimpo, soprastato da un Quirino commendatore, anzi Grand’Ufficiale, ma ahimé poco atto a soccorrerlo», RR II 44): l’Angeloni viene deriso in quanto funzionario «der Ministero dell’Economia Nazzionale» (RR II 40), sconta cioè la sua fattiva collaborazione al fascismo con la satira, beffarda e canzonatoria, di Gadda, il quale lo rende protagonista di un’inchiesta condotta ai limiti del ridicolo, basata sul sospetto che l’Angeloni sia il «motore primo di quell’andirivieni, di portatori di salumi a domicilio» (RR II 49), e gli attribuisce tratti caricaturali, ricorrenti in ogni entrata in scena, il naso eternamente «goccioloso»:
al mezzo un nasone alla timoniera da prevosto pesce che doveva fare le gran trombe del Giudizio, a soffiallo; (RR II 40)
Andò a finire che si soffiò il naso; (RR II 44)
parlava con il tono un po’ nasale d’una trombetta di cartone; (RR II 47)
E con quella trombetta ’e cartone fessa d’ ’o commendatore dell’Economia, che se faceva portà tartufi a domicilie; (RR II 70-71)
A quell’ora doveva essere di certo a letto, e col naso più goccioloso che mai, berretto a calza tirato giù fin sul collo e sugli occhi: rimpolpato dentro il letto de la nonna sotto pingue strapunto e su polputa ma deserta coltrice, la più adatta, e la più ambita da un polpettone di quel calibro; (RR II 140)
e l’atteggiamento da lumaca:
a panza un po’ a pera e le spalle incartocchiate e un tantinello pioventi; (RR II 40)
L’Angeloni si ritirò di nuovo nel suo guscio, come la lumaca, lasciando fuori solo il naso; (RR II 47)
subbito ritirò la testa in de le spalle come intimidita lumaca. (RR II 136)
Tuttavia, nonostante il suo incarico nella burocrazia fascista, l’Angeloni non è dipinto come un personaggio negativo: contro di lui non sono usati i toni violenti e vendicativi della satira antimussolinana, e prevalgono, piuttosto, la canzonatura e l’irrisione bonarie. In varie occasioni, inoltre, il narratore gli esprime apertamente la propria solidarietà, oppure dichiara apertamente l’inconsistenza delle accuse.
La prima presa di posizione a favore del commendatore, la più decisa anche, è la denuncia della «disumanità, della crudeltà d’ogni inquisizione organizzata», affidata ad Ingravallo, in cui l’adesione emotiva della voce narrante all’umiliazione dell’interrogatorio è totale, intensificata dalla doppia presenza dello stilema aggettivo povero + sostantivo, che, dal Giornale di guerra fino ad Eros e Priapo, denuncia appunto la partecipazione dello scrittore. (8)
Non appena cominciano le indagini, l’«indiretta» responsabilità dell’Angeloni nel furto Menegazzi è subito bollata come «involontaria (e per di più poco dimostrabile)» (RR II 49). Fumi e Ingravallo sono ben coscienti dell’inconsistenza dei loro sospetti, nati dai pettegolezzi e dalle dicerie dei condomini («misurarono tutta la gravità, ossia la poca giustificabilità, della loro… diffidenza, insorta da indizi così sfuggevoli», RR II 49); sanno di avere a che fare una persona onesta, un «ottimo sesto grado della Economia Nazionale. Un sesto grado di indubbia moralità, di fama illibata!» (RR II 49). L’Angeloni, infatti «pover’omo, c’entrava come li cavoli a merenna» (RR II 128): il suo arresto avviene semplicemente perché, dopo il delitto Balducci, «la ingiustificata lentezza delle indagini» deve «assumere un ritmo più serrato», produrre un colpevole (RR II 82), al fine, come s’è visto, di salvaguardare la reputazione delle forze di polizia e, in definitiva, dello stesso stato.
Da ultimo, il narratore rivela anche il vero motivo del fermo e dell’accanimento inquisitorio. Nel «supplemento d’inchiesta relativo al misterioso garzoncello», che ha luogo nell’andito del 219 e che vede la partecipazione corale di tutti gli inquilini, la portiera Pettacchioni rimprovera come una colpa al commendatore la sua solitudine:
«Voi sete solo…»
«Solo?» ribattè il sor Filippo, come se il viver solo fosse una colpa. (RR II 42)
L’aggettivo solo, connotato come un chiaro indizio di colpevolezza, compare altre due volte riferito al personaggio, durante l’interrogatorio a Santo Stefano del Cacco: apre singolarmente il periodo del pianto e poche righe dopo viene ripetuto dallo stesso commendatore, come se egli stesso comprendesse la gravità del suo stato civile.
Lui era… solo. (RR II 44)
Del resto, nel saggio Il Pasticciaccio, Gadda rende pubblico che il fermo del «sor Filippo» deve essere messo in relazione al suo celibato, inammissibile «nel clima eroico dell’epoca sitibonda di prole», quando «il celibe era schedato a spregio […] e pagava una speciale tassa, quasi una multa infamante» (SGF I 507). (9)
L’Angeloni, dunque, viene ingiustamente perseguitato dalla giustizia: il fermo è metaforicamente il tributo, la speciale tassa, pagata dal commendatore alla dittatura fascista, la quale, forte del proprio potere assoluto, può accanirsi contro un debole e adoperare tutti gli strumenti in suo possesso per affermare la propria autorità.
In questa prospettiva va interpretata l’eco manzoniana del pianto di Lucia. L’uso ironico dell’addio ha la funzione di individuare uno scarto tra il commendatore e l’eroina manzoniana, perché l’Angeloni ha il torto di essere un impiegato fascista. Il cambio di tono nel periodo dedicato allo scoramento dell’uomo, in cui ricorrono, come si è visto, due tessere manzoniane, accomuna invece i due personaggi, in qualità di innocenti perseguitati da uno stato e da una società ingiusti in cui regna l’arbitrio.
Consonanze e dissonanze manzoniane
Fin dal tempo dell’Apologia Gadda riconosce e difende il forte valore allusivo dei Promessi Sposi: l’ambientazione storica del romanzo assolve un’alta funzione etica, perché rappresenta il personale contributo di Manzoni alle lotte e allo spirito risorgimentali: i Promessi Sposi, come pure l’Adelchi, sono «un parlare di corda in casa dell’impiccato» (SFG I 679). L’opinione viene ribadita con forza nell’articolo manzoniano del 1960 in risposta alle accuse di conservatorismo borghese di Moravia:
la componente indipendentista è stata avvertita già prima del ’40, checché ne abbia dipoi opinato il Carducci: romanzo che dice di nuora (Spagna) perché di suocera si possa intendere (Austria). (Manzoni diviso, SFG I 1176)
Per Gadda, l’allusività è uno dei pregi maggiori della scrittura manzoniana, perché produce un potenziamento di senso, una più profonda conoscenza della realtà («il continuo riferimento del male antico al nuovo aumenta la risuonanza tragica di ogni pensiero») (SFG I 679). Parimenti, un romanzo storico può rivelarsi più efficace per l’intelligenza della società di un trattato utopistico: la storia, insieme ai giudizi che ne sono stati dati, offrono una valida chiave di lettura per interpretare il presente («Noi amiamo anche il passato, e leggiamo talora nel passato più veramente che nel futuro. Una storia ci può appassionare e incitare più che un’utopia [...]», Manzoni diviso, SGF I 1178). Con la sua potente raffigurazione del malgoverno spagnolo, «Don Alessandro» ha rappresentato «spietatamente le magagne di casa» e interpretato «acutamente, ai fini d’un ammonimento sublime, i fatti che sogliono ricevere espressione nella retorica del giorno» (Apologia, SGF I 687).
Come già nella Cognizione (Pecoraro 1996), la tecnica narrativa allusiva del «dire di nuora perché di suocera si possa intendere» può considerarsi attiva anche nel Pasticciaccio: qui, il referente manzoniano potenzia, per così dire, il tema della giustizia ingiusta, una giustizia capovolta, a rovescio, che si accanisce contro quanti invece dovrebbe tutelare. I richiami ai Promessi Sposi nel romanzo poliziesco producono un potenziamento di senso mediante il «riferimento del male antico al nuovo»: equiparando il sistema di giustizia fascista al sistema di giustizia ingiusta, di stampo malavitoso, del Seicento. Le citazioni manzoniane del Pasticciaccio, prelevate da contesti narrativi dedicati al funzionamento degli organi giudiziari sotto il Fascismo, amplificano, dunque, le connotazioni negative sull’operato della giustizia fascista già presenti nel testo gaddiano. Come i venticinque lettori manzoniani leggevano in filigrana nelle vicende dell’Italia del Seicento quelle dell’Italia risorgimentale, parimenti il lettore di Gadda, leggendo gli eventi della Roma fascista del 1927, viene sollecitato a paragonarli a quelli del tempo storico descritto nei Promessi Sposi, emblema di diseticità e di irragione umana in virtù dell’efficace rappresentazione fornitane da Manzoni.
Accanto ai richiami tematici e letterali, Gadda dunque recupera nel Pasticciaccio anche la dimensione storica e documentaria del romanzo manzoniano: all’indomani della caduta del fascismo, sceglie di ambientare il giallo nell’epoca che si è appena conclusa e che pertanto è ascrivibile al passato, per quanto prossimo. Nella prima parte di Incantagione e paura l’autore rivendica alla propria opera appunto il valore di testimonianza di un momento storico che, benché vicino, il «repentino stravolgersi della storia e del costume e dell’anima individuale o collettiva nel nostro paese e nel mondo» (SGF I 1213) rendono più lontano.
Anche la corrosiva istanza giudicante del Pasticciaccio, come, più in generale, della scrittura gaddiana, può essere considerata un’eredità manzoniana, anche se, come si dirà tra breve, riletta in una chiave affatto personale. La militanza morale, cattolica e illuministica, di Manzoni si traduce nei Promessi Sposi in una voce narrante costantemente partecipe e sensibile, che interviene continuamente nel racconto a commentare e a giudicare, chiudendo il narrato in una rete compatta, cui non sfugge nessun aspetto del mondo rappresentato. Il cattolicesimo, abbracciato dallo scrittore senza incrinature di dubbio, certamente poggia su una visione pessimistica della realtà (il mondo terreno ed umano, contaminato dalla caduta, come luogo dell’ingiustizia e della violenza, riscattato solo in una prospettiva escatologica). D’altra parte, le origini intellettuali e socio-culturali, il progressismo laico, borghese e liberale, attenuano il pessimismo metafisico di Manzoni e lasciano spazio alla fiducia in un relativo progresso, che non esclude, ma anzi sollecita, l’impegno attivo dell’uomo nella realtà sociale. Per questo motivo, il narratore dei Promessi Sposi non giudica esclusivamente dal «punto di vista di Dio», ma «anche dal punto di vista di un intellettuale liberale e cattolico della Lombardia ai primi del Risorgimento, non in linea con le tendenze reazionarie della Chiesa contemporanea, un intellettuale progressista che ha fiducia nel processo politico in atto» (Baldi 2003: 31). In quest’ottica, allora, l’istanza giudicante del romanzo, onnipresente, rivela una finalità etica concreta: suggerire un’alternativa storica e politica, dare un contributo, nei modi e con i mezzi a disposizione di Manzoni (la letteratura, il romanzo storico), ai moti risorgimentali italiani.
Benché da esso tragga origine, l’impegno di Gadda non può che essere profondamente diverso da quello manzoniano, per differenze storiche, sociali, culturali, ideologiche, estetiche e politiche. La critica gaddiana al fascismo, a suo modo, è mossa da un intento militante, di denuncia intellettuale. Per ammissione dello stesso autore il Pasticciaccio demolisce e ridicolizza i miti fascisti:
il ritrattino del commendatore prosciuttòfilo ridonda anche a uno scherno, da parte mia, di quell’entusiasmo alquanto verbale e fittizio, di quel buonumore fresconcello, di quel dinamismo scenico e meramente teatrale, di che lo zelo clamoroso dei commossi, o degli pseudo commossi, in ogni stagione della patria, s’è fatto vanga e zappa da tirar l’acqua al molinuccio. (Il pasticciaccio, SGF I 508)
Il movente, dichiarato, è un’«incontenibile ed esplosiva urgenza» espressiva. «Ristabilire la mia verità, il mio modo di vedere»: a differenza del narratore manzoniano, Gadda non si presenta come il depositario di certezze assolute, definitive, alternative all’esistente, ma propone il suo modo di vedere le cose, una verità parziale, soggettiva. Come ammonisce la «negazione delle parvenze non valide» di Gonzalo nel tratto VIII della Cognizione, i giudizi gaddiani hanno una funzione prevalentemente negativa, destruens: sono piuttosto una denuncia, demoliscono i miti esistenti, smascherano le false apparenze, gli inganni e le ipocrisie di cui la società si nutre. Del resto, Gadda dichiara apertamente che la funzione etica e conoscitiva rivendicata alla sua scrittura trae origine da ragioni personalissime («lo strumento della rivendicazione contro gli oltraggi del destino e de’ suoi umani proietti: lo strumento in assoluto del riscatto e della vendetta», Intervista al microfono, SGF I 503). Al di là di qualsiasi relativismo epistemologico, lo scrittore conosce bene la parzialità del suo giudizio, perché ha capito che il suo perenne scontro con «l’insufficienza dell’ambiente sociale italiano», la sua visione «barocca» della realtà come mondo di «non-forme», ha radici autobiografiche lontane. Per Gadda, è stato il lontano trauma infantile subìto all’interno della famiglia – un’educazione repressiva fatta di privazioni, affettive e materiali, lucidamente rivelata nella Cognizione – e destinato tragicamente a ripetersi nei primi successivi contatti con la realtà sociale esterna all’ambiente domestico – la guerra, la prigionia e l’amaro ritorno alla vita civile – a segnarlo con un senso di inadeguatezza alla vita e a provocargli quella perenne condizione di alterità verso il mondo circostante rappresentato ed espresso nelle sue opere.
In definitiva, Gadda finisce col rovesciare la lezione più importante del suo maestro: non condivide il messaggio di speranza dei Promessi Sposi. Lucia, costretta ad abbandonare il proprio paese, placa il suo strazio nella certezza di una gioia «più certa e più grande». Così avviene: il romanzo conosce un epilogo felice. Il «sugo di tutta la storia» è un invito alla «fiducia in Dio»: le ingiustizie, i mali che avvengono nel corso di ogni esistenza umana, concludono concordi Renzo e Lucia, sono storicamente inspiegabili, non possono essere capiti dentro la storia, e l’unica difesa contro la violenza e il dolore è la fede, la promessa di un premio trascendente per le sofferenze patite.
Il Pasticciaccio, invece, è improntato a un pessimismo assoluto, radicale, che viene espresso in più di una formulazione esplicita alla fine del romanzo. Il male di vivere si palesa al Pestalozzi e al Farafiliorum subito dopo il felice ritrovamento dei gioielli come una forza immanente alla vita, annullando così la positività dell’evento: «muta forza o presenza in un pandemonismo della campagna e della terra, sotto cieli o nuvoli che non potevano far altro se non rimirare, o fuggire» (RR II 235). Analogamente, la cognizione del dolore, del male oscuro, viene proclamato al principio dell’ultima giornata delle indagini dal suono delle campane di Santa Maria Maggiore: «il male del ridestarsi a conoscere: a riconoscere e a rivivere la verità d’ogni giorno» (RR II 265). La brusca chiusura del romanzo, infine, lasciando l’indagine in sospeso e bloccandone la soluzione, elimina il finale consolatorio da happy end e insinua il dubbio che nella storia non esista nessuna giustizia.
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Note
1. Come nota Nava (Nava 1965: 344-45), «l’Apologia manzoniana si dimostra veramente originale per i suoi tempi», perché vi viene apprezzato il contenuto storico dei Promessi Sposi. Dopo De Sanctis, e sotto l’influenza del pensiero idealistico crociano, la critica non si era più preoccupata di analizzare i motivi dell’ambientazione seicentesca. Fu solo nel 1934, con la Prefazione ai Promessi Sposi di Luigi Russo, che la critica accademica riscoprì il colore storico del romanzo, cogliendone il valore esemplare.
2. Alcuni passi nei due saggi manzoniani si soffermano sull’analisi della giustizia nei Promessi Sposi, testimoniando l’attenzione di Gadda per l’argomento: le reazioni insensate ai primi segni della peste e della carestia:
Un governatore, anzi dieci governatori, fanno stampare dei divieti che dovrebbero essere legge e non sono. Il sarcasmo e il dolore risuonano nelle forme di una stupenda semplicità. I primi motivi s’intrecciano e si fondono: sotto il velo delle apparenze ufficiali già si delinea la tragedia spaventosa di una società senza norma e senza volere, che il caso allora travolge; (SGF I 684)
Gli editti di Sua Eccellenza e il furore della plebaglia sono i gemiti e gli alterni sussulti di un corpo che si contorce già nella polvere. Sua Eccellenza comanda che il pane sia dato a buon prezzo: forse non ignora che cosa significhi questo comando, ma pensa: «Per oggi vivremo». (SGF I 686)
3. Per tutte le citazioni si fa riferimento all’edizione mondadoriana a cura di Ghisalberti: Manzoni, A., I promessi Sposi. testo critico della edizione definitiva del 1840. In Tutte le opere. A cura di A. Chiari e F. Ghisalberti (Milano: Mondatori, 1954), vol. II, t. I. D’ora in avanti per il romanzo verrà adoperata la sigla PS.
4. Che la memoria dell’episodio del latinorum di don Abbondio fosse in Gadda molto viva è testimoniato da Fatto personale... o quasi, dove le battute dialogiche tra Renzo e il curato, appena citate, vengono riportate proprio come esempio magistrale di giustizia ingiusta:
Motivato appiglio a maccheronea (urgenze vitali d’un popolano, soprastrutture del macchinone sociale) in Promessi Sposi, capitolo secondo. [Seguono le battute sugli impedimenti e l’enumerazione in latino di don Abbondio] «Impedimenti dirimenti», gorgogliava don Abbondio. Questo termine del giure canonico si barocchizza, si maccheronizza dentro la rabbia contadina del deluso: che decede da lieta furia, di colpo, al più mortificato controvapore. Talché la battuta a rimbecco «che vuol ch’io sappia, eccetera» la rintrona nella nostra arrière pensée di lettori per eco biologico-sessuologica, eco ben distinta. No, da parte di lui, del filatore ventenne, non ci sarebbero stati impedimenti, è chiaro. Resegone o no, per un filatore ventenne tutte le liete furie finiscono in gloria garantita. Il diritto naturale, anzi la vitalità naturale del giovine insorge contro le formulazioni del «diritto» impedimentario: l’impeto vivo contro il morto imbroglio: del quale è simbolo grottesco, in quel momento, un ignorato latino. (SGF I 500)
5. La memoria gaddiana, dopo aver isolato nell’episodio di Azzeccagarbugli la frase «la grida canta chiaro», la sottopone a un processo di astrazione e crea il modulo provvedimento di legge + verbo cantare, riutilizzato nell’interrogatorio del garzone condotto in questura: «Canterellò, quasi: “articolo 229 del codice di procedura”» (RR II 46). L’intertesto manzoniano in questo caso può essere individuato solo a partire dall’episodio di Pestalozzi e Camilla, dove la citazione dell’articolo, seguito dal proprio numero distintivo, si accompagna alla ripresa dell’intera frase dell’Azzeccagarbugli.
6. In altre occasioni ricorre in Gadda la parodia del modulo manzoniano dell’Addio, che testimonia quanto l’assimilazione del modello, profondamente radicato nella memoria gaddiana, comporti emancipazione e libertà inventiva. Sempre nel Pasticciaccio occorre ricordare l’addio di Ascanio Lanciani, che saluta, portato via dal Biondone, il mercato:
Rotoli di trippe lesse l’un sull’altro come tappeti arrotolati, gentili anatomie di capretti spellati, rosso bianche, il codonzolo appuntito, ma terminato nel ciuffetto, a significarne in modo veridico la nobiltà: «pe quattro lire v’oo do tutto,» diceva l’abbacchiaro presentandolo a mezz’aria, tutto cioè mezzo: e i bianchi cespi de la lattuga romana, o insalatine ricciolute tutte riccioli verdi, polli vivi coi loro occhi che smicciano da un lato solo e vedono, ognuno, un quarto del mondo, galline vive chiotte chiotte stipate nelle lor gabbie, o nere o belghe o padovane avorio-paglia, peperoni secchi gialloverdi, rossoverdi, che al mirarli solo ti pizzicavano la lingua, ti mettevano in salive la bocca: e poi noci, noci di Sorrento, nocciuole di Vignanello, e castagne a mucchi. Addio, addio. (RR II 257-58)
L’addio, in questo caso, rivelato solo in explicit, può essere spiegato con l’esigenza di collegarlo all’episodio dell’Angeloni per creare una simmetria strutturale, a livello narrativo, essendo gli addii collocati rispettivamente nel primo e nell’ultimo capitolo del romanzo: un espediente minore che contribuisce a dimostrare la perfetta compiutezza dell’opera. Il modulo viene adoperato per un allontanamento dovuto all’intervento della polizia anche in tutt’altri contesti, come nella prosa di viaggio Sul Neptunia, prima occorrenza di tale utilizzo:
Alcuni giovani classe 14 vengono, ahi!, trattenuti dalla Polizia: addio Tripoli, e dolci sogni e sguardi sull’altalena del mare, al fianco della non coscritta, passeggiando lungo il ponte della passeggiata! (Meraviglie, SGF I 82)
Esilarante, infine, l’addio che ricorre in una lettera di Gadda ad Alberto Carrocci il 22 febbraio 1928 per annunciargli la partenza da Roma e il ritorno a Milano:
Addio monti di spaghetti sorgenti dall’acque salsose della pommarola che giungeva quasi ’n coppa e con cui m’imbrodolavo (nei momenti d’oblio) il bavero della giacca e la mia poco rivoluzionaria cravatta! Addio care memorie di spigole, di vongole, di spiedini di maiale, di panforte, e di altri vermiciattoli mangiati nelle più nefande e saporose bettole della suburra, facendo finta di discutere lettere e politicaglia tanto per salvare un po’ le apparenze, ma in realtà con l’occhio al piatto che arriva, fumante, trionfante, eccitante, concupiscente e iridescente di smeraldino prezzemolo. Addio! O, per lo meno, arrivederci. (Gadda 1979a: 65)
Quest’addio privato potrebbe aver ispirato per il suo tema alimentare il più tardo addio di Ascanio. Sul piano formale contamina le due parti del addio di Lucia: l’incipit riprende chiaramente la prima, mentre la struttura anaforica recupera la seconda parte, con la sua ripetizione della parola chiave all’inizio di ogni periodo.
7. Per la saggezza dell’investigatore è scontato il rimando all’incipit sulle teoretiche idee del Pasticciaccio, ereditate direttamente dalla Meditazione milanese. A fronte di una indiscussa positività del personaggio, non mancano tuttavia alcune connotazioni negative, da attribuire alla sua funzione istituzionale, di attore di primo piano nel sistema di giustizia, anzi inquisizione, fascista. Verso la fine dell’interrogatorio dell’Angeloni, tanto per non allontanarci dall’episodio, l’accanimento di Ingravallo contro l’innocente commendatore viene reso attraverso un paragone significativo: «come uno scuro laniero ad ali mezzo aperte, non anco artigliata la preda» (RR II 47). Superando i confini del capitolo I, un sintomo della doppia natura dell’ispettore è la sua incredulità davanti alle rivelazioni di Giuliano Valdarena: il pubblico ufficiale dello Stato fascista, desideroso di acciuffare l’assassino e di concludere il caso, è portato a ritenere il cugino di Liliana colpevole, mentre il filosofo, esperto conoscitore della psiche delle donne, del «quanto di erotìa» che ne determina le azioni, lo scagiona:
Ingravallo nun voleva crédece: non doveva. Ma capiva, poco a poco, d’essere strascinato a credere quello che avrebbe creduto impossibile; (RR II 116)
Tutta la storia, teoricamente, gli puzzava di favola. Ma la voce del giovane, quegli accenti, quel gesto, erano la voce della verità. (RR II 119)
8. Nel caso in esame si presuppone un uso esteso del modulo base che, nella sua forma canonica, ricorre in funzione appositiva, prevalentemente con valore esclamativo (sullo stilema cfr. Interpunzioni affettive, Pecoraro 1996: 167-72): si attribuisce, cioè, il medesimo significato (partecipazione emotiva del narratore nei confronti del personaggio) alla semplice occorrenza dell’aggettivo povero + sostantivo, anche in assenza di apposizioni. L’estensione viene per così dire autorizzata da una duplice occorrenza per il commendatore Angeloni del modulo originale con funzione appositiva:
[…] e il fermo del commendatore Angeloni… manco quello nun approdava a nulla, dato ch’er commendatore, pover’omo, centrava come li cavoli a merenna; (RR II 128)
Il commendator Angeloni, estratto da Regina Coeli per un’ora, tanto s’ da fajè pijà una boccata d’aria puro a lui, pover’omo. (RR II 136)
9. Contrario alla politica demografica del regime, che invita a «preparar Balilli alla patria», il celibato è uno di quei motivi minori, laterali, dell’antifascismo dichiarato del romanzo. Gli veniva riservata un’ampia trattazione in nota, nella versione di Letteratura: la cancellazione della nota, che rendeva esplicito un motivo appena accennato nel testo, è forse da mettere in relazione con la prassi correttoria che induce Gadda a cancellare il capitolo IV, come troppo manifesto, e a troncare bruscamente il racconto, senza dilungarsi «nei come e nei perché» (Incantagione e paura, SGF I 1215), nell’intenzione di ingarbugliare la storia e frastornare i lettori.
Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-05-1
© 2003-2025 Paola Ponticelli & EJGS. First published in EJGS. Issue no. 3, EJGS 3/2003.
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